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I Vedutisti veneziani del Settecento

 

 

La grande stagione del vedutismo veneziano

 

 

 

 

 

 

 

 

Indice

 

Nascita del Vedutismo

I grandi committenti

Vedute e capricci veneziani

Il paesaggio

Il paesaggio lagunare

Il capriccio

Il capriccio rovinistico e paesaggistico

Il capriccio architettonico

Il capriccio fantastico e visionario

Le macchiette nei dipinti

Le scuole, i seguaci

Bibliografia

 

Gli artisti:

 

Albotto Francesco - note biografiche

Albotto Francesco - lo stile pittorico

Albotto Francesco - le opere

Battaglioli Francesco - note biografiche

Battaglioli Francesco - lo stile pittorico

Battaglioli Francesco - le opere

Bella Gabriel - note biografiche

Bella Gabriel - lo stile pittorico

Bella Gabriel - le opere

Bellotti Pietro - note biografiche

Bellotti Pietro - lo stile pittorico

Bellotti Pietro - le opere

Bellotto Bernardo - note biografiche

Bellotto Bernardo - lo stile pittorico

Bellotto Bernardo - le opere

Bison Giuseppe Bernardino - note biografiche

Bison Giuseppe Bernardino - lo stile pittorico

Bison Giuseppe Bernardino - le opere

Canal Bernardo - note biografiche

Canal Bernardo - lo stile pittorico

Canal Bernardo - le opere

Canaletto Antonio Canal - note biografiche

Canaletto Antonio Canal - lo stile pittorico

Canaletto Antonio Canal - le opere

Carlevarjis Luca - note biografiche

Carlevarjis Luca - lo stile pittorico

Carlevarjis Luca - le opere

Cimaroli Giovan Battista - note biografiche

Cimaroli Giovan Battista - lo stile pittorico

Cimaroli Giovan Battista - le opere

Costa Gianfrancesco - note biografiche

Costa Gianfrancesco - lo stile pittorico

Costa Gianfrancesco - le opere

Domenichini Appollonio - note biografiche

Domenichini Appollonio - lo stile pittorico

Domenichini Appollonio - le opere

Eismann Johann Anton - note biografiche

Eismann Johann Anton - lo stile pittorico

Eismann Johann Anton - le opere

 

 

 

Gli artisti:

 

Fabris Jacopo - note biografiche

Fabris Jacopo - lo stile pittorico

Fabris Jacopo - le opere

Guardi Francesco - note biografiche

Guardi Francesco - lo stile pittorico

Guardi Francesco - le opere

Guardi Giacomo - note biografiche

Guardi Giacomo - lo stile pittorico

Guardi Giacomo - le opere

Guardi Gianantonio - note biografiche

Guardi Gianantonio - lo stile pittorico

Guardi Gianantonio - le opere

Guardi Nicolò - note biografiche

Guardi Nicolò - lo stile pittorico

Guardi Nicolò - le opere

Heinz Joseph il Giovane - note biografiche

Heinz Joseph il Giovane - lo stile pittorico

Heinz Joseph il Giovane - le opere

Marieschi Michele - note biografiche

Marieschi Michele - lo stile pittorico

Marieschi Michele - le opere

Richter Johann - note biografiche

Richter Johann - lo stile pittorico

Richter Johann - le opere

Stom Antonio - note biografiche

Stom Antonio - lo stile pittorico

Stom Antonio - le opere

Tironi Francesco - note biografiche

Tironi Francesco - lo stile pittorico

Tironi Francesco - le opere

Van Wittel Gaspar  - note biografiche

Van Wittel Gaspar - lo stile pittorico

Van Wittel Gaspar - le opere

Visentini Antonio - note biografiche

Visentini Antonio - lo stile pittorico

Visentini Antonio - le opere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nascita del Vedutismo

 

       Nel Settecento, Venezia vive in campo artistico e culturale una seconda "età dell'oro". La città si rinnova, assumendo quel volto che per gran parte mantiene tuttora. In questo secolo si afferma un genere pittorico fino ad allora sporadicamente praticato dagli artisti locali: il vedutismo. I pittori riprendono gli aspetti più o meno noti della città lagunare per soddisfare le esigenze di famiglie patrizie, di nobili, soprattutto inglesi e tedeschi, ma anche francesi,  che visitavano la città nel corso del loro "voyage d'Italie" (Venezia, Firenze, Roma, Napoli), e di coloro che pur non essendo mai stati a Venezia, intendevano decorare le loro residenze con vedute festive o feriali della Serenissima.

 

I grandi protagonisti di questa straordinaria stagione pittorica veneziana sono: Canaletto (Venezia 1697 – 1768), Luca Carlevarijs (Udine 1663 - Venezia 1730),  Bernardo Bellotto (Venezia 1722 – Varsavia 1780), Francesco Guardi (Venezia 1712 1793), Michele Marieschi (Venezia 1710 - 1744).


All'attività degli esponenti più celebri si affianca quella di pittori minori, capaci comunque di produrre opere di grande fascino e qualità:
Gaspar Van Wittel (Gaspare Vanvitelli)  (Amersfoort, 1653 – Roma, 1736), Johann (Giovanni) Richter (Stoccolma 1665 – Venezia 1745),
Bernardo Canal (1664 - 1744), Antonio Stom (Venezia 1688 –  1734), Antonio Visentini (Venezia 1688 –  1782), Francesco Battaglioli (Modena?, 1718 ca. - Venezia, 1797 ca.), Giovan Battista (Giambattista) Cimaroli (Salò, 1687 - Venezia, 1771), Appollonio Domenichini (Venezia, 1715 - c. 1770), Francesco Albotto (Venezia?  1721 – Venezia 1757), Gabriel Bella (1730-1799), Francesco Tironi (Venezia 1745 – 1797), Giacomo Guardi  (Venezia 1764 - 1835), Vincenzo Chilone (Venezia 1758 - 1839/40) Gianfrancesco Costa (Venezia, 1711 - 1772) e Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 – Milano 1844.


 

 

 

Vedute e Capricci veneziani

Nell'articolato panorama del vedutismo settecentesco veneziano, uno dei fenomeni artistici più significativi del Settecento europeo, la pittura di vedute, nella sua essenza, si lega alla percezione di un aspetto singolare, sorprendente e in definitiva capriccioso: il piacere destato dalla contemplazione di edifici, nobili o rustici che può essere comparato all'emozione del viaggiatore e dell'artista di fronte al pittoresco della natura. Anche il capriccio rovinistico, raffigurando le tracce di una perduta bellezza classica che nobilita il paesaggio con la sua singolarità estetica, desta nell'amatore il piacere di un'emozione raffinata e sottile. Vedute e capricci si inseriscono quindi ugualmente nella memoria di una sorpresa eccitante, malinconica o suggestiva ma comunque singolare. I generi si confondono: «In Guardi, e perfino nel minuzioso Canaletto, non è sempre facile distinguere la veduta, il capriccio, il paesaggio immaginario. Gli amatori per i quali lavorano domandano ora descrizioni esatte, ora delle immagini incantatrici, anche a costo di tradire la verità» (Starobinski). Fin dall'inizio del Settecento vedute e capricci si muovono su piani paralleli che si intersecano e si sovrappongono, vanificando nei fatti l'assunto di Bonicatti (1967, p. 23) secondo cui «il capriccio nella sua accezione settecentesca di genere artistico autonomo viene a costituire un'antitesi del vedutismo (intendendo quest'ultimo nel tipo canonico di veduta esatta) ». Se così davvero fosse, rimarrebbe incomprensibile il continuo e assolutamente disinvolto passaggio di tutti i grandi vedutisti dalla veduta esatta al capriccio dimostrando la contiguità e la complementarità – non l'opposizione – dei generi.

 

Dario Succi

 

 

 

Il Capriccio

Posto in relazione con il mondo dell'invenzione, del fantastico, dell'irrazionale, il Capriccio  venne riferito all'improvvisazione, ai repentini passaggi di tema, ai ruoli bizzarri e grotteschi degli istrioni, alle finzioni ed ai modi burleschi delle maschere della Commedia dell'Arte, specificatamente nel campo musicale. Nel Discorso sopra le immagini sacre e profane di Gabriele Paleotti (1582), l'aggettivo «capriccioso» era ancora ritenuto, nel campo artistico, sinonimo di «mostruoso» e di «licenzioso». Nel Seicento, grazie alle interpretazioni grafiche lucide e sfreccianti di Jacques Callot, ebbero vastissima diffusione le serie di stampe con Capricci di varie figure dove, sullo sfondo delle città e delle campagne toscane, si agita in primo piano tutta una composita umanità di mendicanti, girovaghi, spadaccini, soldati, nobildonne. Puntando sulla preminenza delle figure rispetto all'ambientazione scenica, Callot esalta il momento ludico, estemporaneo, della finzione teatrale, facendo emergere una rappresentazione burlesca e satirica della commedia popolare, esaltata quale spettacolo della vita quotidiana. L'esasperazione dei contrasti, dei gesti, delle movenze, delle caratteristiche somatiche dei personaggi desunti dai modelli della Commedia dell'Arte, viene scandita da movimenti acrobatici, pose licenziose, sberleffi irriverenti. Al tempo stesso la manipolazione dell'immagine, giocata su uno sbalorditivo contrasto tra l'imponente rilievo dei primi piani e la irraggiungibile lontananza degli orizzonti, sorprende lo spettatore con la sconcertante novità del colpo d'occhio. Passando dall'accezione di comportamento di rottura delle buone norme razionali, civili, sociali, educative, il termine capriccio si qualifica poco a poco nel settore delle belle arti per designare un prodotto musicale, letterario, pittorico che riesce ad imporsi grazie alla forza geniale dell'invenzione trasgressiva in opposizione all'ossequio accademico alle regole codificate.
La tematica capricciosa fu subito ripresa, nel campo dell'incisione, tra il 1640 ed il 1650 da Stefano Della Bella, che nelle sue serie di Capricci e di Diversi capricci delineò variazioni paesistiche animate da putti, pastori al guado, suonatori di ghironda, mendicanti, fanciulle in cammino, toccando il diapason nella splendida Raccolta di varii capriccii et nove jnventionj di cartelle ed ornamenti. In questa suite l'artista intagliò, con spumeggiante fantasia, un vastissimo repertorio di immagini decorative: tigri e leoni, tritoni e sirene, putti e aquile, teschi e racemi, tralci e nastri, inseriti entro una esuberante profusione di sagome e volute.

Con Della Bella il capriccio tende a connotare il desiderio di evasione, di libertà, di fuga, di realizzazione delle più intime aspirazioni dello slancio creativo che l'artista esprime con una tessitura segnica effervescente, capace di profilare i motivi con una leggerezza capillare e di trasfondere nei piccoli rami tutto il brio, la freschezza, l'originalità delle invenzioni. Il capriccio diventa sinonimo di intuizione geniale con cui l'artista evoca immagini stravaganti e vivaci.
Mentre nell'ambito musicale, nel Settecento, il termine assunse un'accezione di ricerca sperimentale, di esercizio virtuosistico non disgiunto peraltro da intenti didattici, nella pittura il concetto si affinò.  Sorto come invenzione bizzarra, anche il capriccio assunse le sue norme: divenne una irregolarità regolata.
E' a questa definizione che si richiama, con tutta la sua prepotente carica innovatrice, il capriccio veneziano del Settecento nelle sue polimorfiche valenze: paesaggistica, rovinistica, architettonica, grottesca, visionaria.

 

Dario Succi

 

 

 

Il Capriccio rovinistico e paesaggistico
Capriccio o veduta? Il genere viene astrattamente fatto dipendere dalla possibilità di ricognizione della collocazione topografica del complesso architettonico.

Nella cultura figurativa veneta settecentesca la tradizione del capriccio si lega al rovinismo poiché «i due maggiori protagonisti ed iniziatori di tale fenomeno nella prima metà del secolo – Marco Ricci e Giovan Battista Piranesi – avevano in comune una formazione di cultura teatrale» e quindi scenografica (Bonicatti 1967, p. 25).
«Mentre la arbitrarietà dell'invenzione rovinistica si giustificava nella scenografia con il carattere estemporaneo e lo scoperto illusionismo dello spazio scenico, al di fuori di tale spazio la rovina assume un valore diverso di linguaggio immaginativo, che comporta altri significati [...]. L'interpretazione della rovina come capriccio proviene allora, nel primo Settecento, dalla nuova arbitrarietà che assume tale forma uscendo dal contesto della finzione scenica e facendosi genere artistico autonomo con propri problemi di linguaggio».
Ma come si concilia con siffatta prospettiva il ruolo di Luca Carlevarijs che, immune da collegamenti con la scenografia teatrale, si fa promotore della veduta ideata già agli albori del secolo e la connota con una precisa cadenza veneta? Verso il 1710 Luca affianca alla produzione di vedute una serie di capricci con porti di mare in cui prevalgono spunti romani, inventando partiture architettonicamente sempre più complesse e utilizzando inserti rovinistici identificabili con monumenti reali. L'assemblaggio di citazioni, interpolate per lo più da prototipi barocchi berniniani, di monumenti equestri e di fontane ed il ricorso ad una serie di immagini, non letterali ma sufficientemente riconoscibili, codificate nei dipinti e nelle incisioni di precedenti generazioni di artisti, vengono rielaborati da Carlevarijs con «pittoresca licenza», cioè a capriccio.
Una carica fortemente innovatrice nei confronti della tradizione scenografica emiliana e rovinistica barocca innerva le vedute ideate del pittore udinese che per primo a Venezia riscatta le rovine e i monumenti dell'antichità classica dal ruolo esangue di quinte architettoniche innestando la tematica rovinistica, già largamente diffusa nell'Italia settentrionale non meno che a Roma e a Napoli, sul tronco della tradizione lagunare. Fin dall'inizio del Settecento quindi vedute e capricci si muovono su piani paralleli che si intersecano e si sovrappongono, vanificando nei fatti l'assunto di Bonicatti (1967, p. 23) secondo cui «il capriccio nella sua accezione settecentesca di genere artistico autonomo viene a costituire un'antitesi del vedutismo (intendendo quest'ultimo nel tipo canonico di veduta esatta)». Se così davvero fosse, rimarrebbe incomprensibile il continuo e assolutamente disinvolto passaggio di tutti i grandi vedutisti dalla veduta esatta al capriccio dimostrando la contiguità e la complementarità – non l'opposizione – dei generi.
La pittura di vedute, nella sua essenza, si lega alla percezione di un aspetto singolare, sorprendente e in definitiva capriccioso: le fabbriche che decorano un panorama emblematico. Il piacere destato dalla contemplazione di edifici, nobili o rustici, può essere comparato all'emozione del viaggiatore e dell'artista di fronte al pittoresco della natura.
Anche il capriccio rovinistico, raffigurando le tracce di una perduta bellezza classica che nobilita il paesaggio con la sua singolarità estetica, desta nell'amatore il piacere di un'emozione raffinata e sottile. Vedute e capricci si inseriscono quindi ugualmente nella memoria di una sorpresa eccitante, malinconica o suggestiva ma comunque singolare. I generi si confondono: «In Guardi, e perfino nel minuzioso Canaletto, non è sempre facile distinguere la veduta, il capriccio, il paesaggio immaginario. Gli amatori per i quali lavorano domandano ora descrizioni esatte, ora delle immagini incantatrici, anche a costo di tradire la verità» (Starobinski). Ritornando a Carlevarijs, anche se egli prende le mosse per un verso da Eismann e De Heusch e per l'altro da Van Wittel, lo sdoppiamento tra il pittore delle vedute ideate e il pittore delle vedute prese dai luoghi, tra l'estroso manipolatore di monumenti noti e l'accurato illustratore della Venezia dei ricevimenti e delle regate, in realtà non indica una contraddizione o una mancata scelta a favore del barocco meraviglioso o della razionalità settecentesca. «La Roma che appare nei suoi capricci è solo una visione nata da un viaggio attraverso l'immaginario collettivo, dove traslare i simboli codificati di tutta la sua storia millenaria, dall'Antico al Bernini. Non a caso, diversamente che nelle vedute, la ricorrente immagine del pittore contraddistingue questi capricci: appartato in un angolo e visto di spalle, sta a indicarci che quelle sono invenzioni dell'arte» (Reale): il capriccio, appunto, come l'arte dell'arte.
La consueta tematica della fontana, dell'arco trionfale, delle imponenti rovine, ricorre nell'accostamento di strutture architettoniche romane e medioevali.
Sulla via percorsa da Carlevarijs si inserisce, con esiti profondamente innovatori, Marco Ricci e con lui entra in scena Joseph Smith – il grande illuminato mecenate, conoscitore, collezionista – a partire dagli anni venti quando, in significativa coincidenza con l'inizio della reciproca frequentazione, si verifica un mutamento di registro nelle opere di Marco, che accentua l'interesse per i capricci rovinistici dopo aver maturato una concezione paesistica splendidamente nuova.
Sotto un cielo palpitante e mutevole si stendono paesaggi immobili con i profili dei monti modificati da antichi paesi, mentre fiumi argentei solcano pianure indorate dal sole meridiano. Protetti dalle rigogliose fronde di alberi secolari dai tronchi contorti, pellegrini e cavalieri arricchiscono con fresche macchie di colore le visioni nostalgiche di una terra la cui bellezza è fuori del tempo. L'alternarsi delle stagioni si condensa in luoghi senza nome, astratti ma familiari, immediatamente riconoscibili per la pluralità del linguaggio architettonico che rimanda alla stratificazione del territorio italiano.
Come annota Annalia Delneri, la componente psicologica dei paesaggi ricceschi è determinante: «La natura è un rifugio, un luogo per placare gli affanni della disordinata vita cittadina — la città è quasi sempre vista come oggetto lontano, impalpabile presenza affidata alla labile memoria di chi vuole dimenticare — fondata sulla mercificazione dei valori e assillata dai mille obblighi e scadenze del commercio». Non a caso Anton Maria Zanetti sottolineava che Marco «quasi tutti gli anni soleva colà portarsi [nel bellunese] a rinnovare le immagini, diceva egli, che stando in città si andavano perdendo».
«I brani presi dai luoghi diventano pittoreschi, cioè pittura, invenzione, capriccio: l'arte assolve il compito di trasformare la natura. Ma questa costruzione tutta mentale non ha mai il gusto sgradevole della menzogna: nella calma atemporale dei paesaggi eroici dominati dalla qualità del silenzio non si inseriscono personaggi mitologici; gli eroi sono viandanti, lavandaie, boscaioli, cavalieri senza meta, la semplice umanità di tutti i giorni. In una superba sintesi Marco Ricci concilia il colorismo veneto e il messaggio ideale di una natura protagonista, già scoperta da Tiziano, con l'acutezza e il piacere per il racconto immediato, per la descrizione aneddotica scoperta dai fiamminghi e trascritta senza nulla concedere alle rustiche bambocciate». In tale ottica il peso che nell'arte di Marco ebbe la lezione di Magnasco, evocante una natura barbara e tempestosa, si rivela meno consistente di quanto solitamente si reputa, anche se sono innegabili le affinità iconografiche riferibili soprattutto alla non ancora sufficientemente chiarita esperienza giovanile A Ricci spetta pure il merito di aver promosso nell'area lagunare il rinnovamento della tradizionale decorazione scenografica prospetticamente impostata secondo le indicazioni del gusto bibienesco carico di macchine inverosimili, di fughe di colonne, di esuberanti barocchismi, di grovigli architettonici. La nuova scenografia pittorica, in opposizione a quella prospettica, si innesta sul cambiamento del rapporto tra opera rappresentata e allestimento scenico: «Non più scenografia spettacolare, o decorazione scenica, ma ambiente. Luogo in cui si recita, si balla, si canta. E un lento, quasi inavvertito rinunciare al fantastico, al sorprendente, per giungere ad un valore più contenuto della scena. Una conquista che passa inosservata, come un dono che viene dato e preso senza la coscienza che sia stato fatto» (Povoledo). Le ridondanze bibienesche cedono gradualmente il passo alla ventata innovatrice della ricerca di una scena-ambiente alla quale la pittura paesistica offre un contributo sostanzioso, suggerendo la proposizione di scene prevalentemente risolte in un fondale decorato con temi di paesaggi e di rovine classiche. Come appunto doveva verificarsi negli scenari eseguiti da Marco Ricci, di cui rimangono preziose indicazioni nel consistente gruppo di Stage designs della Royal Library di Windsor Castle, dove l'artista propone un repertorio di motivi che troveranno coerente sviluppo nella produzione pittorica della maturità.
Se l'esperienza teatrale è quindi una componente essenziale dell'arte del bellunese, la sintesi tra invenzione paesistica e creazione di fondali scenografici si compie nei capricci rovinistici in cui culmina l'esperienza dell'artista, nei dipinti non meno che in alcune stupende acqueforti che ci restituiscono l'immagine di un artista quasi assillato dal sogno monumentale. Mentre i ruderi lievitano nel silenzio di un universo fantastico evocante la grandezza di un antico prodigiosamente costruito, i rapporti chiaroscurali si stemperano nelle raffinatezze di una tavolozza calda in cui spesso fioriscono delicati tocchi rosati, lilla, violetti. Negli ultimi anni Marco moltiplica l'impegno per rendere tangibile la qualità fisica della luce, tentando di applicare alla pittura i principi della teoria newtoniana sulla luce e sul colore, riuscendo alla fine a creare uno spazio che, fondato «sulla fisicità dei corpi diversamente colorati per la ineguale incidenza della luce, è pura rappresentazione mentale. Ed è proprio avendo in mente l'invenzione di questo spazio pittorico che Antonio Canal svilupperà la sua ricerca luministica» (Delneri).
L'esempio di Marco Ricci si pone come il caposaldo normativo cui guardano tutti i migliori paesisti e vedutisti del Settecento veneziano, da Canaletto a Visentini, da Marieschi a Zuccarelli, da Francesco Guardi a Zais.
I pregnanti fermenti insiti nei modelli scenografici ricceschi, con i loro solenni contrappunti chiaroscurali, suggestionarono il giovanissimo Marieschi allorché, verso la fine del terzo decennio, entrò in contatto con il mondo del teatro e delle macchine effimere. Come per Canaletto, anche per Marieschi l'esperienza teatrale costituì l'humus sui cui si innestò il passaggio alla pittura di cavalletto nella forma del capriccio paesaggistico e rovinistico.
Mentre nelle tele di Marco le superbe rovine, levigate dai secoli, e le figure, cristallizzate in gesti composti, sono esaltate in una dimensione densa di risvolti intellettuali, nei capricci dell'esordiente Michiel le rovine e le emergenti architetture sono innestate in un contesto carico di richiami al pittoresco mondo della laguna veneziana.
Ritagli desunti dal vero si coordinano con torri medioevali, servite da scalinate che portano verso grottesche dimore, o con umili casupole delicatamente toccate nell'evanescente panorama di una fiaba incantatrice.
Anche nella fase estrema dell'artista, morto giovanissimo nel 1743, rispunta, genialmente filtrata come in un ricordo nostalgico, quella predilezione per gli spunti ricceschi che traspare fin dagli esordi e che egli seppe sfruttare in favore di una resa pittorica assolutamente personale la cui modernità normativa non è stata ancora riconosciuta. Quando il mosaico delle sue opere verrà ricomposto, spezzando finalmente la trama delle facili attribuzioni che la inquinano, gli estrosi capricci e le spettacolari vedute restituiranno al maestro veneziano quella posizione di rilievo che gli compete nella storia della grande pittura veneziana del Settecento.
Alla lezione di Marco si richiama anche Zuccarelli, che ne scoprì il fascino attraverso la ricca collezione di Anton Maria Zanetti di Girolamo. Ma fu partecipando alla realizzazione della Veduta della facciata di San Francesco della Vigna e della Veduta dell'interno della chiesa del Redentore, i due emblematici «manifesti» a più mani (Visentini-Tiepolo-Zuccarelli) commissionati da Algarotti nel 1744 per la propria galleria, che l'artista entrò a far parte, grazie alla presentazione del letterato, della cerchia degli artisti protetti da Smith, l'onnipresente collezionista allora appena nominato console inglese presso la Serenissima. «Nel fervore del dibattito architettonico che voleva configurare i luoghi del futuro, Zuccarelli veniva chiamato a rappresentare lo scenario della natura ideale che doveva accogliere le fabbriche modello: un mondo perfetto che mediava sogno e realtà nella favola abitata da una umanità felice simboleggiata da ridenti pastorelle e da cavalieri con magnifici cappelli piumati» (Delneri). Il caso di Zuccarelli, amato dai più – contemporanei e moderni –, dimostra la soggettività del giudizio che deve esprimersi sull'eccellenza relativa. Francesco Zuccarelli non può essere facilmente liquidato quale stucchevole travisatore della realtà ed effimero decoratore dei salotti di vacui committenti. Haskell ci ricorda che l'artista «riuscì a guadagnarsi [gli elogi] da parte persino di coloro che più decisamente respingevano le concezioni dell'Arcadia; scrisse ad esempio su di lui parole entusiastiche il Baretti, principale fustigatore dell'effeminata cultura veneziana e amico intimo del dottor Johnson. Ma più di ogni altro, parla di lui Giambattista Biffi, amico del Beccaria e del Verri, con un trasporto che non espresse per nessun altro pittore: «Se lei vedesse questo Rè dei pittori paesista, che morbidezza, che fresco, che batter di fronda; le carte sue unicamente non bastano a farne conoscere il preggio, quantunque belle. Quelle acque limpide veri Cristalli anche sulla tela, le più vive, e significanti macchiette spiritosissime imparadiscono».

 

 

Dario Succi

 

 

 

 

Il Capriccio architettonico

Nel variegato panorama della pittura del Settecento veneziano, il capriccio assume tutte le sfumature, all'interno dei singoli generi, delle classi costituite a posteriori nel tentativo di classificare, etichettare il flusso impetuoso delle immagini di una realtà caleidoscopica che, avvalendosi di elementi sempre uguali a se stessi, si rinnova senza posa costringendoci sulle sabbie mobili dell'interpretazione datata in ogni sua inflessione. (Annalia Delneri )

 

     Agli inizi degli anni quaranta – gli anni ruggenti per l'arte veneziana del Grand Siècle – si accentua in Canaletto l'interesse per il capriccio in un'accezione non più scenografica ma razionalmente architettata, mentre si moltiplicano gli scarti tra immagine e oggettività topografica. La fedeltà della percezione ottica alla realtà che sembrava guidare il pittore nelle interminabili serie di vedute del decennio appena concluso, cede di fronte al vivace interesse per la manipolazione del dato, che l'artista continuamente scompone e ricompone quasi divertendosi a rendere instabile ciò che sembrava fisso ed immutabile. Ed è proprio con la sperimentazione acquafortistica che Antonio Canal sembra acquisire maggiore consapevolezza del fascino della poetica della metamorfosi. La stessa tecnica esecutiva, più rapida ed immediata rispetto alla stesura pittorica, si prestava quasi naturalmente a portare avanti una esperienza focalizzata non più sulla consueta veduta gratificante, ma sull'ambiguità del capriccio capace di suscitare interesse e sorpresa e stimolante inquietudine nei conoscitori e nei committenti più avvertiti.
Il panorama veneziano fissato in uno spazio certo e consolidato, la sicurezza di una topografia irrigidita nella verità solare, avevano lusingato l'artista al momento della svolta luminosa sul finire del terzo decennio. Allora Giovanni Antonio sembrò tradire quasi repentinamente l'educazione scenografica sottraendosi al fascino delle sue strepitose opere giovanili – capricci e vedute – eseguite con impetuosa partecipazione, allargate con grandiose forzature illusive, rese vibranti da un'impostazione chiaroscurale drammatica, impregnata di tonalità cupe e brunacee, da cui emergono vivacissimi spunti macchiettistici a pennellate filamentose.
Nel suo rivoluzionario lavoro su Canaletto, André Corboz ha evidenziato come «il modo d'impegnarsi degli oggetti nel capriccio non differisca in nulla da quello della veduta, ché ai due tipi di immagine s'applica lo stesso codice di configurazione e, quindi, per decidere della natura dell'opera occorre far intervenire il codice topografico. E la rilevazione topografica volontariamente imprecisa della veduta ne facilita la contiguità con il capriccio. Infine, perché il capriccio sortisca i suoi effetti è necessaria la doppia lettura, topografica e topotetica, la seconda conservando la prima come in sovraimpressione. Cogliendo nel segno lo studioso afferma: il dipinto sanciva il sito rappresentato, non viceversa: «Ne risulta che i capricci meno evidenti dovevano passare per vedute. E ne consegue anche che nel momento in cui il proprietario d'una serie di vedute incantatrici non commissionate sul posto, ma ottenute da qualche intermediario, sbarcava in situ con la memoria fresca – possedendo il codice topotetico prima del topografico – rischiava di constatare, a spese di Venezia, una differenza tra immagine e realtà. Ma come reagiva di fronte ad un capriccio evidente come quello di San Giorgio a Rialto? Il decodificatore percepisce simultaneamente un'immagine arbitraria, che abbina elementi indubitabili e luoghi incompatibili, e un'immagine verosimile, che organizza le condizioni della loro coesistenza: formalmente niente le separa; e anche qui la sorpresa viene dalla convinzione che ci sia una sola interpretazione possibile della forma visiva davanti a noi: la sua concordanza letterale col reale. Siccome il capriccio trasgredisce le regole di esclusione, la prova si conclude con la constatazione di un disaccordo tra immagine e topografia: il decodificatore ne induce di aver sbagliato codice [...]. A partire da ciò sono possibili due atteggiamenti: il decodificatore insiste ad applicare la sua griglia di lettura e conclude per l'assurdità dell'opera; oppure accetta il suo errore e cerca di spiegarlo. Nel secondo caso il suo percorso potrà seguire due nuove vie: se il suo pregiudizio dell'oggettività si rivela tenace, tenterà di risolvere le inverosimiglianze pensando ad una scenografia, interpretazione razionale rassicurante che, in effetti, rifiuta il capriccio riconducendolo ad un conosciuto diverso dalla topografia. E la strada scelta da quasi tutta la critica. Se invece il decodificatore ha una nozione meno positivista della realtà, acquisita ad esempio a contatto della psicologia del profondo o dei surrealisti, sarà capace di cogliere il capriccio come tale e di comprendere che la reminiscenza dell'oggetto nominato si bagna in una nuova atmosfera, quella del sogno ad occhi aperti in cui la città cessa di essere un dato per aprirsi al campo del possibile». La Venezia che fabbricar potrebbesi.
La bomba lanciata da Corboz ha gettato scompiglio nelle file dei sostenitori della pretesa oggettività canalettiana: il recupero critico e poetico dell'arte del capriccio — un genere trascurato o trattato con sufficienza — è una delle onde lunghe provocate dall'esaltazione del fascino dell'ambiguo e dell'equivoco.
Da Canaletto a Visentini. Il trait d'union fra i due artisti è ancora Joseph Smith, il patron di Antonio Canal che strinse un rapporto privilegiato, protrattosi per quasi mezzo secolo, anche con Antonio Visentini di cui intuì le doti di disegnatore e incisore finissimo. L'approccio di Visentini al capriccio, anche se condizionato dalla lezione riccesca, è radicalmente diverso da quello di Marco. Per lui la rovina non è sinonimo della magnificenza dei romani perché la suggestione dell'antico gli deriva direttamente dalla civiltà delle ville venete e dal classicismo palladiano, mentre gli spazi chiusi delle sue strutture architettoniche sono la negazione del respiro della campagna laziale come terreno della storia. Con il crescere della partecipazione all'attività del circolo smithiano, il linguaggio di Visentini si definisce in un attivo coinvolgimento nello stimolante dibattito sull'applicazione alla pittura delle rivoluzionarie teorie newtoniane sulla luce e sui colori che doveva trovare in Canaletto il felice artefice di una soluzione poetica della coniugazione tra teoria e pratica. Il ruolo di Smith, quale fervido sostenitore e divulgatore del pensiero newtoniano, e il lavoro di équipe che si svolgeva sotto la sua mediazione culturale, furono determinanti per gli orientamenti di Canaletto e di Visentini. Corboz ha messo a fuoco il nesso tra idee newtoniane e pittura canalettiana intorno al 1730 in maniera estremamente suggestiva: «La totale trasparenza dell'aria rende il vuoto newtoniano, in cui gli edifici sono immersi come altrettanti blocchi netti, privi di interferenze reciproche e, nello stesso tempo, indenni da contaminazioni con l'aria ambiente. Questi volumi non sembrano sul punto di mutarsi in fumo, come in Guardi: raccolti, coerenti, obbediscono ad un ideale cristallino tradotto alla perfezione dalle tavole di Visentini, i cui mezzi strettamente grafici accentuano ancor più l'opposizione vuoto-materia con la soppressione del colore. Quanto lontano arriva lo sguardo, il dettaglio si offre nella sua legittimità: uniformità della rappresentazione, quale che sia la distanza dell'osservatore». La totale adesione di Visentini alla poetica di Canaletto non si rispecchia solo nella limpidezza cristallina della splendida traduzione acquafortistica – incompresa dalla quasi totalità dei critici che la tacciano di lavoro «surgelato» – ma incide nel segno pittorico: «Nel quarto decennio l'artista crea infatti una serie di capricci architettonici che rappresentano lo sviluppo consequenziale delle aspirazioni e degli intenti già enucleati nelle prime sperimentazioni. Tali composizioni si strutturano sempre più lucidamente, e il repertorio delle forme prescelte, che sempre costruiscono e rimandano ad emblematici luoghi chiusi, vivi, contraddittori, acquista nuova e icastica forza per l'assimilazione e la personalissima interpretazione della resa segnica, spaziale e volumetrica di Canaletto. Il noto ciclo dei quadroni da portego del Palazzo Contarini Fasan, eseguito entro i primi anni quaranta, esemplifica e conferma la nuova sensibilità di Visentini» (Delneri).
La civiltà delle ville venete e il classicismo di Palladio si strutturano in un universo familiare, dove il confronto della vita civilizzata viene gustato in mezzo alla campagna progettata e costruita: in questa ottica il ciclo Contarini si pone come unicum tra i capricci architettonici, paesistici e rovinistici del Settecento veneziano. Con l'arrivo a Venezia, nel 1743, di Franceso Algarotti, l'intreccio dei rapporti con Smith, Canaletto, Visentini, Zuccarelli e anche Tiepolo senior registra un incalzante susseguirsi di coinvolgimenti operativi. Animata dai comuni interessi e dalle discussioni sulle teorie architettoniche neopalladiane, la relazione Smith-Algarotti si intensifica in una esaltante gara: il collezionista inglese è ammaliato dalle teorie artistiche del brillante letterato e dalla proposta di «un nuovo genere [...] di pittura, il qual consiste a pigliare un sito dal vero, e ornarlo dipoi con belli edifizij [...]. In tal modo si viene a riunire la natura e l'arte, e si può fare un raro innesto di quanto ha l'una di più studiato su quello che l'altra presenta di più semplice».
Affascinato da quel suggerimento, Smith affida a Canaletto per la prima volta l'incarico di eseguire tredici sovrapporte illustrate con monumenti veneziani emergenti. Queste tele singolari «non dipanano chimeriche e capricciose fantasie, ma designano, punto per punto adombrandone la stupefacente compagine, Venezia quale fabbricar potrebbesi: tuttavia la tensione progettuale, che le anima e le impronta (e che, senza dubbio, s'innesta nella grande speranza innovatrice – s'è adombrato – dell'ideologia massonica) splende nella pura carica utopistica delle proposte» (Puppi).
Quasi contemporaneamente Francesco Algarotti commissiona un eccezionale pendant a Visentini, Tiepolo e Zuccarelli. Le tele a più mani, in cui il ruolo principale è svolto da Visentini, raffigurano – come si è già detto – la facciata di San Francesco della Vigna e l'interno del Redentore. Questa coppia di capricci di simulazione, carica di risvolti intellettuali e di reminiscenze culturali, rappresenta, anche per i personaggi che vi sono raffigurati (Visentini, Smith, Algarotti e forse Tiepolo) la sintesi più significativa della cultura e dell'arte veneziana nel Settecento illuminato.
Mentre Canaletto realizza per Algarotti la Veduta di Rialto con il ponte secondo il progetto di Palladio, in cui per la prima volta le sue teorie si realizzano compiutamente («il primo quadro che feci lavorare in tal gusto»), Smith programma nel 1745 la continuazione del ciclo di sovrapporte con un secondo gruppo di capricci dedicati agli edifici della moderna Inghilterra, rispecchianti la semplicità e la magnificenza dell'architettura degli antichi riportata in vita da Palladio. L'esecuzione è affidata a Visentini-Zuccarelli che inseriscono entro romantici paesaggi le architetture di Inigo Jones, di Lord Burlington, di Colen Campbell, di Roger Morris, quasi letteralmente inverando gli ideali algarottiani di «raro innesto» di natura ed arte per un nuovo armonico equilibrio (1746).
Agli occhi di Smith e di Algarotti' le perfette architetture palladiane sono i codici di uno stile figurativo e di uno spazio urbano avveniristico aderente ai piani di razionalizzazione della società elaborati dalle avanguardie dell'aristocrazia liberale. Le soluzioni architettoniche che Burlington propone con il suo austero neopalladianesimo diventano il simbolo della nuova ideologia, fondata sui principi naturali della semplicità e della regolarità, in contrapposizione con il barocco, considerato come stile del dispotismo irrazionale.
L'originalità che il capriccio – grazie anche alle commissioni mirate – assume a Venezia rispetto alle proposte che si andavano sviluppando altrove non ha bisogno di sottolineature. Si veda, per esempio, come in Panini prevalga l'effetto curioso, documentario, «museale»: il monumento, anche se sospinto verso il primo piano, non è il soggetto principale ma solo uno degli ingredienti di un abilissimo artificio. Aperto ad uomini di cultura di estrazioni sociali diverse, Smith annovera amici intellettuali del livello dei due Zanetti, di Giovanni Poleni, Antonio Conti, Apostolo Zeno, Scipione Maffei, Voltaire, Tommaso Temanza, Ludovico Antonio Muratori, Anton Francesco Gori, Carlo Lodoli e Andrea Memmo, il quale frequenta l'eccezionale sezione architettonica della famosa biblioteca del console «coll'assistenza del Signor Antonio Visentini».
Verso la fine degli anni quaranta si verifica un mutamento di registro nelle serie di capricci che Visentini e Zuccarelli creano ancora su sollecitazione di Smith. I quattro magnifici dipinti già nella collezione Rocchetti di Roma e la coppia già nella collezione Modiano di Bologna portano al diapason la felicità del concorso tra i due artisti. Se in essi il paesaggio zuccarelliano prevale, sono però proprio le fabbriche di Visentini a connotarli: non si coglie in pieno la loro originalità e qualità se non si presta attenzione al significato che assumono nel programma del console inglese. L'aspetto ideologico progettuale costituisce infatti la vera intelaiatura delle rappresentazioni, la cui chiave di lettura va cercata nella sperimentazione degli effetti ottenibili traslando edifici «perfetti» in paesaggi ideali, per dar forma ad un rinnovato connubio tra arte e natura. La serie di sei dipinti – impensabile senza la mediazione culturale di Smith – si pone in logica sequenza con le precedenti collezioni di architetture ideali: a partire dagli esperimenti canalettiani del 1743-44 con monumenti veneziani, attraverso l'escursione del 1746 nell'Inghilterra moderna, si approda alla sintesi che impone il ritorno a Venezia e nel Veneto con le immagini fantasticamente reali di decantate architetture cittadine che qualificano una natura evocante i giardini paesistici inglesi. Identificate quasi certamente con una serie di tele che si trovavano appese nella camera da letto di Smith – come risulta dall'inventario del 1770 che si pubblica in appendice integralmente per la prima volta – quelle immagini rappresentavano per l'illuminato collezionista, sia pure sotto veste di finzione pittorica, gli ideali di tutta una vita.
Il manifesto di questa utopia tenacemente perseguita può essere confrontato solo con le realizzazioni inglesi del ristretto gruppo di Burlington, che in nome dell'ideale libertario aveva conciliato il classicismo architettonico con il gusto per il giardino moderatamente selvatico. L'apparente contraddizione si sanava in quanto «l'architettura classica e il giardino paesistico risultano essere due aspetti tra loro collegati di un rinascimento artistico che era il prodotto e insieme l'espressione del benessere di una società libera» (Wittkower). A partire dalla metà degli anni cinquanta gli interessi di Smith si rivolgono prevalentemente alla promozione e diffusione, anche con l'assunzione di onerose iniziative editoriali, delle teorie architettoniche neopalladiane. E ormai ultranovantenne quando fa pubblicare la ristampa dei Quattro Libri di Palladio (1768) ed è morto da un paio di giorni quando nel suo palazzo vengono consegnate Cinquecento novantaquattro copie delle osservaz.i sopra gli errori degl'architetti (ossia il nostro trattato scritto da Visentini, polemico fino all'acribia) le cui carte sono ancora fresche dell'inchiostro dei torchi della stamperia diretta dall'amico Giambattista Pasquali.
Il significato di questa ultima consegna non è trascurabile perché conferma, una volta di più, il clima di tensione ideale di un'avventura esistenziale in cui tutto il tempo libero fu dedicato – come lui stesso scrisse – «al piacere di ammirare le belle arti e di possedere notevoli collezioni di cose che ad esse si riferiscono». Ancora dotato di una impressionante lucidità, Smith si congeda consegnando ai posteri l'estremo pegno della sua lunghissima affettuosa solidarietà con Visentini, l'artista al quale, assieme al grandissimo Canaletto, il nome del console resterà legato per sempre.
Anche altri artisti veneziani, tutt'altro che di secondo piano, furono coinvolti nelle operazioni culturali e mercantili di Smith, come si ipotizza, proponendo per la prima volta specifici esempi, in occasione di questa rassegna in relazione a Bernardo Bellotto ed a Giuseppe Zais.
Giustamente Puppi osserva che il gruppo dei quattro Capricci romani di Bellotto, oggi alla Galleria Nazionale di Parma, non presuppone un'unica committenza, come conferma – a mio parere – l'elemento esterno della diversità dei formati che consiglia la suddivisione in due coppie distinte.
L'analisi delle macchiette ribadisce l'ipotesi. Nel Capriccio con porta romana, esposto in mostra, e nel relativo pendant orizzontale la collaborazione di Zuccarelli nella stesura delle spumeggianti ma dolcificate figure, desunte dal consueto repertorio di lavandaie, di mendicanti, di pescatori, cavalieri col cappello piumato, sembra incontestabile.
Diversa è la situazione del pendant verticale completamente addebitabile a Bellotto (in ciò concordo con Kozakiewicz e Puppi) che qui ha tentato di imitare alcuni emblematici prototipi zuccarelliani (il cavaliere, il mendicante, le donne alla fontana, il cane scattante). Peraltro l'atteggiarsi meno spigliato, un po' bloccato, e certe durezze espressive quasi realistiche denunciano l'autografia bellottiana delle macchiette che sono mescolate con altre di univoca cifra canalettiana (non visibili invece nel pendant orizzontale), come la coppia elegante sulla scalinata del Campidoglio o i due «granturisti» nei pressi del Colosseo.
La distinzione non è senza conseguenze, perché induce a riportare la coppia di collaborazione — ancorabile al 1743 — nell ' ambito delle sollecitazioni provenienti dal circolo smithiano nel momento di più assidua frequentazione da parte di Algarotti. Anzi proprio a quest'ultimo, con maggiore probabilità, potrebbero farsi risalire — in adesione alle sue teorie già sopra accennate — se non proprio la committenza, magari nei limiti di una intermediazione, l'idea direttiva e l'imposizione della collaborazione con Zuccarelli che risulta — significativamente — un caso unico nella produzione bellottiana. In seguito la posizione di Bellotto assumerà una valenza antitetica rispetto al sogno progettuale di Canaletto governato dalla lezione palladiana. Come scrive Puppi analizzando un 'opera chiave, la Veduta con le rovine della Kreuzkirche di Dresda (1765 circa), Bellotto «oppone, al cospetto della catastrofe esistenziale sofferta, senz'appoggio e suggerimento di un sacerdote di sofisticati orizzonti programmatici, all'utopia progettuale del Canaletto, additata dall'Algarotti e dallo Smith, la dissacrante e irridente negazione del progetto [...]. La città irrimediabilmente rovinata, lungo sogno infranto, è sostituibile solo da acrobatici e funambolici incastri architettonici capaci di reggere solo nella finzione irridente di un quadro». I rapporti tra Smith e Giuseppe Zais vengono affrontati alla luce di un bellissimo inedito pendant, presente in mostra, che l'artista eseguì quasi certamente su commissione del famoso patron: la Veduta di Baalbeck e la Veduta di Atene. La coppia costituisce forse l'estrema espressione pittorica delle idee del salotto smithiano: quasi punto di arrivo di una lunga sperimentazione programmatica ideale, le due vedute esaltano la purezza dell'architettura greca. Ma la conseguita consapevolezza — attraverso la riscoperta delle rovine di Palmira e di Baalbeck — che la luminosa austerità dei monumenti di Atene può accompagnarsi alla ricchezza decorativa profusa nei marmi testé posti in luce, sembra aprire la via per nuovi esaltanti sviluppi progettuali: se avesse potuto vedere le testimonianze di Palmira e di Baalbeck, anche Palladio ne sarebbe rimasto conquistato. Per esprimere pittoricamente questa presunzione, che sembra addirittura scavalcare l'idolo di tutta la sua vita, Smith si servì del pennello di Zais, come in precedenza si era affidato alle magistrali interpretazioni di Canaletto e a quelle emblematicamente perfette di Visentini e Zuccarelli.

 

(Dario Succi)

 

 

 

 

GLI ARTISTI

 

 

 

 

Francesco Albotto (Venezia?  1721 – Venezia 1757)

 

 

 

Francesco Albotto, Veduta del ponte di Rialto. Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte

 

 

 

ALBOTTO, Francesco - note biografiche

Francesco Albotto nacque a Venezia, o come postulato da recenti ricerche nelle parrocchie veneziane, a San Marcuola - il 5 maggio 1721 - (Montecuccoli degli Erri 1999).

Francesco inizia il suo alunnato con Michele Marieschi poco prima del 1937, ereditandone la clientela e l'atelier alla morte del maestro, avvenuta il 13 gennaio 1743. Francesco Albotto continua a dipingere imitando i modelli e lo stile compositivo del Marieschi, e copiando attraverso le stampe, il Canaletto. Dipinse anche capricci, paesaggi d'invenzione con architetture, scorci di vita paesana, riprendendo il Marieschi, ma impoverendone le qualità descrittive e atmosferiche. Il 29 ottobre 1744, a un anno dalla morte del suo maestro, ne sposò la vedova Angela Fontana. Non fu però questo un matrimonio fortunato. Il 29 novembre 1751 nacque Pietro Andrea Maria,  che morì una decina di giorni dopo, mentre il 31 dicembre dello stesso anno si spense anche la madre. Poco dopo l’artista si risposò con Giovanna Protesana, nominandola erede di tutti i suoi beni (Manzelli 1984). Iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani dal 1750 al 1756 (Favaro 1975), Albotto “da febre et congestioni di fegato”, morì a Venezia, non ancora quarantenne, il 13 gennaio 1757 (Manzelli 1984).

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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ALBOTTO, Francesco - lo stile pittorico

“Spetta a Rodolfo Pallucchini [1960] il grande merito di avere per primo sollevato l’inquietante problema di Francesco Albotto, un oscuro discepolo di Marieschi, riportando il passo dell’Abecedario di Pierre Jean Mariette (ante 1774, ed. 1851-1860) che costituisce l’unica antica testimonianza in proposito. [...] «Il a eu un disciple qui, comme son maître, peint des veuës de Venise et des paysages ornés d’architectures qui ne sont pas mal touchés. Il se fit nommer il secondo Marieschi, et il en a épouse la veuve. Ce disciple est mort lui-même en 1758 le 13 janvier [in verità 1757, Mariette ritiene la data more veneto anziché Anno Domini]. Son véritable nom étoit François Albotto. Il n’étoit âgé que de trente-cinque ans». La figura di questo discepolo rimase avvolta nella nebbia più completa fino a che a New York, nella vendita del 17-18 maggio 1972, passò all’asta da Sotheby Parke-Bernet (n. 137) una veduta con il Palazzo Ducale visto da mare recante sul verso della tela l’iscrizione Francesco Albotto F. in Cale di ca Loredan S. Luca [...].  Segnalando quell’importante ritrovamento, Pallucchini (1972) osservava che «il dipinto, indubbiamente di buon livello, finalmente documenta il modo di dipingere di Francesco Albotto, evidentemente stretto seguace di Michele Marieschi [...]. È evidente che tale veduta può diventare l’opera-pilota per la ricostruzione dell’attività dell’Albotto, naturalmente ai danni (o a vantaggio) di quella del Marieschi»” (Succi 1989).
Successivamente, il confronto tra la pittura del maestro e quella dell’allievo, spinse lo stesso Pallucchini (1995) ad annotare: “Quel che subito salta all’occhio è il modo diverso di concepire la macchietta. A quelle corpose, di impasto pittorico frazionato (alla Guardi, per dirla con Morassi) del Marieschi, l’Albotto contrappone macchiette calme, spente, del tutto prive dell’im­pronta pittoresca del maestro. [...] Questo Albotto è un modesto pittore che ha continuato la produzione vedutistica del Marieschi con modi sempre più poveri, non mancando di tenere sott’occhio, magari nel­la traduzione incisoria del Visentini, gli im­pianti vedutistici del Canaletto. Evidentemente la richiesta di mercato delle vedute era molto forte: d’altra parte, dopo la morte del Marieschi, si rendeva necessario che un seguace ne continuasse la tradizione, tenu­to conto che nel 1746 il Canaletto, la cui produzione era impegnata soprattutto per il console Smith, partiva per Londra. Si comprende allora la fortuna che in tale campo poté avere un pittore così mediocre come l’Albotto. Per dirla all’antica, alla poesia del Marieschi succedeva la misera prosa del suo scolaro” (Pallucchini 1995).
“Al contrario di Marieschi, che era dotato di una fantasia prorompente e – nella fase estrema – di una pennellata rapida e disinvolta, il seguace non riuscì quasi mai a fare a meno di appropiarsi di modelli creati da altri, adattandosi anche ad utilizzare le stampe dell’album Urbis Venetiarum Prospectus celebriores [...], incise da Visentini dai prototipi canalettiani posseduti da Joseph Smith e pubblicate dall’editore Pasquali nel 1742 nella forma definitiva. [...] Dal punto di vista della tecnica, Albotto – con il passare degli anni – tese ad allontanarsi dal fare «impulsivo» di Michele per accostarsi alla maniera netta e traslucida di Canaletto: sospeso tra i due maestri, Francesco Albotto non riuscì a superare i limiti di una sconcertante abilità imitativa e solo raramente sviluppò temi di sua invenzione (ciò avvenne quasi esclusivamente nell’ambito dei capricci). Il distacco si estese alla tavolozza cromatica che, calda e brillante nelle pitture di Marieschi, divenne alquanto fredda ed acidula nelle tele del seguace, portato a preferire le tonalità azzurrine e verdognole” (Succi 1989).

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

Con il passare degli anni Albotto tese ad allontanarsi dalla maniera brillante e impulsiva del suo maestro Michele Marieschi (1710-1743), per accostarsi a quella netta e controllata del Canaletto, adottando una tavolozza cromatica piuttosto fredda e acidula basata su tonalità tendenzialmente azzurrine e verdognole. Per una serie di circostanze favorevoli, questo artista si trovò a operare a Venezia per circa un decennio, dal 1746 al 1756, praticamente senza importanti rivali nel genere del vedutismo. Infatti, morto Marieschi nel 1743, il Canaletto si trasferì a Londra nel 1746 dove rimase fino al 1756 mentre solo dopo la metà del sesto decennio Francesco Guardi diede inizio alla sua attività vedutistica.

 

Dario Succi

 

 

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Francesco Battaglioli (Modena?, 1718 ca. - Venezia, 1797 ca.)

 

 

 

Francesco Battaglioli, Piazza S. Marco durante il combattimento dei tori.

 

 

 

BATTAGLIOLI, Francesco - note biografiche

Le prime notizie su Francesco Battaglioli rimangono incerte, dato sicuro, l'iscrizione negli elenchi della fraglia dei pittori veneziani dal 1747 al 1751, che ci consente di anticiparne la nascita, tradizionalmente fissata verso il 1750, in via presuntiva intorno al 1717-18, probabilmente a Modena. Battaglioli, succedette nel 1778 ad Antonio Visentini quale professore di prospettiva architettonica all'Accademia di Venezia e si dimise da tale incarico nel 1789 quando era ultrasettantenne (Ivanoff 1959, p. 162), sembra inoltre che nel 1796 l'artista fosse ancora vivo. Al 1747 risalgono anche le prime notizie relative alla sua attività di scenografo teatrale: in quell'anno infatti egli allestì le scene per Arminio di Galluppi nel teatro di S. Cassiano, mentre l'anno successivo lavorò nell'Adriano in Siria di Ciampi e nella Clemenza di Tito di Pampani. Tra gli studiosi che si sono occupati di lui, vanno ricordati Fogolari (1913), Voss (1926), Ivanoff (1954 e 1959), Pallucchini (1960 e 1985), Martini (1982). Urrea Fernàndez (1977) ha documentato la presenza di Battaglioli in Spagna dal 1754 al 1760. Nel settembre 1756, egli dipinse, in occasione del compleanno di Ferdinando VI, le decorazioni per la Nitteti di Metastasio, nello stesso anno, o in quello successivo, eseguì il pendant raffigurante la Festa in un palazzo barocco e la Festa sotto un arco trionfale custoditi presso l'Accademia di San Fernando a Madrid e resi noti da Pérez Sanchez (1964, p. 42). Urrea Fernàndez (1977, pp. 90-91) ha ricollegato le tele a due scene dell'opera Nitteti, permettendo così di datarle con precisione. Al 1756 risalgono pure le due tele, firmate e datate, citate da Fiocco (1929, p. 63) dipinte per il famoso cantante Carlo Broschi detto Farinelli. Spetta a Pallucchini (1985, p. 175) il merito di aver precisato che la serie di dodici vedute di Brescia, incise da Francesco Zucchi (1692-1764) su modelli di Battaglioli, venne pubblicata nel 1751, come risulta dal relativo frontespizio contenente la dedica al cardinale Angelo Maria Querini, vescovo di Brescia. E' così possibile collocare ante 1751 alcuni dipinti documentati da quelle stampe, come la Veduta della piazza della Loggia (collezione privata, Madrid), pubblicata da Urrea Fernàndez (1977, tav. VIII) e la Veduta della Piazza del duomo (collezione privata, Spoleto) resa nota da Pallucchini (1985, p. 177), che vi scorgeva una conferma dell'adesione alla scuola di Canaletto. Anche se in queste vedute è già evidente la propensione all'allargamento del campo visivo, una certa rigidità dell'impianto prospettico, a diagonali convergenti verso un unico fuoco, attesta la precocità delle opere, i cui inserti macchiettistici appaiono bloccati nei consueti atteggiamenti di maniera.
Dopo questo accenno alla fase giovanile, rimane da considerare la piena maturità dell'artista, che copre l'intero settimo decennio e probabilmente anche l'ottavo, prima dell'involuzione finale.
Al ritorno dalla Spagna (1760) l'artista si avviò verso l'apice delle sue possibilità espressive e tecniche. Tutto porta a ritenere che Battaglioli, in questo periodo, si sia dedicato a dipingere soprattutto capricci architettonici, sfoggiando una consumata abilità nel manovrare logge, porticati, archi trionfali, giardini, rovine, elementi paesaggistici, senza riuscire quasi mai a liberarsi da una maniera ridondante e freddamente decorativa.
Lo stile del pittore negli anni sessanta è documentato da un inedito Capriccio con architetture classiche (collezione privata, Londra) particolarmente importante perché, oltre ad essere firmato Battaglioli là finitto, reca la data 1764. Il ritrovamento è prezioso in quanto consente di riunire attorno a questa tela (103 X 125 cm.), che dimostra la maturazione della tecnica dell'assemblaggio architettonico-paesaggistico in soluzioni di facile effetto illusionistico, tutta una serie di opere talmente controverse – per datazione e paternità – da essere state perfino ritenute come appartenenti alla fase giovanile di Antonio Canal.
Pallucchini (1973, p. 174), rendendo nota una Veduta ideata di collezione privata trevigiana, la attribuì agli esordi di Canaletto osservando che «la struttura cromatica del dipinto, su di un impianto prospettico articolato con tanto ardimento, tocca momenti particolarmente raffinati, soprattutto nei valori in ombra di quelle case alla veneta, una delle quali con altalena, mentre in primo piano la doppia colonna e il rudere classico hanno la stessa sottile discriminazione materica del Capriccio [di Canaletto], pendant di quell'altro datato 1723» (il riferimento è a un grande capriccio architettonico canalettiano, di collezione privata svizzera. Non c'è alcun dubbio che la predetta Veduta ideata debba essere restituita a Battaglioli e collocata verso la metà degli anni sessanta, come inoppugnabilmente dimostra il confronto con la tela datata 1764, dove si snodano architetture similari dai contorni nettissimi e dalle superfici variegate, con tutto quel ridondante apparato di scalinate, di colonnati, di ponti, di cupole con la lanterna sovrastata da un parafulmine a bandierina. Le macchiette, sicuramente autografe, sono affini a quelle inserite nelle vedute e nei capricci spagnoli del 1756.
Un altro controverso capriccio architettonico (Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia), attribuito comunemente ad Antonio Visentini, è ancora un'opera tipica di Battaglioli (come rivela soprattutto la sfilata di edifici sulla destra, costruita secondo i consueti moduli), mentre le aggraziate figurine (non autografe) spettano ad un artista diverso da Diziani e Zugno, molto probabilmente Francesco Fontebasso. Intitolato convenzionalmente Veduta di una città, il quadro in realtà richiama allegoricamente le arti della pittura, scultura, architettura, come evidenzia l'attività dei gruppi di macchiette collocate nella parte sinistra della tela. Le caratteristiche compositive, tendenti ad un alleggerimento dell'apparato scenografico qui sovrastato da un ampio cielo, e la singolarità della collaborazione con il tiepolesco Fontebasso (morto nel 1769) inducono a collocare questa veduta allegorica in epoca posteriore al pendant di palazzo Labia e anteriore alla serie di interventi di Francesco Zugno. La fase estrema dell'attività di Battaglioli è scarsamente documentata. Una incisione di Teodoro Viero raffigurante la laguna ghiacciata durante l'inverno 1788-1789, derivata da un dipinto di Battaglioli, dimostra che in quell'epoca l'artista non disdegnava di eseguire vedute di commemorative in tono minore. È peraltro ben probabile che, nell'ultimo periodo, l'attività si svolgesse ad un diapason inferiore, in linea con il generale decadimento della civiltà artistica veneziana allo scadere del secolo.

 

Dario Succi

 

 

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BATTAGLIOLI, Francesco - lo stile pittorico

 

Il giovanile impegno scenografico influenzò la pittura di Battaglioli, che amava mettere insieme grandiose architetture classicheggianti in un contorno di vaghi paesaggi boscosi collinari o montani - che connotano la maggior parte delle opere del pittore e che evidenziano, il confuso eclettismo formativo (la scenografia emiliana, Visentini, Marieschi), la tecnica lenticolare ed il gusto per l'amplificazione spettacolare del taglio prospettico, non insensibile alla lezione canalettiana, nella resa atmosferica.

Nella sua opera, le numerosissime macchiette, povere e impacciate, costituiscono l'aspetto più debole, e dovevano suscitare le riserve dei conoscitori e dei committenti, giustificando la collaborazione di più dotati artisti cui Battaglioli ricorrerà con frequenza per ovviare all'inconveniente. È probabile che ciò sia avvenuto, con maggior ricorrenza, subito dopo il rientro dalla Spagna, come potrebbero dimostrare i due grandi capricci architettonici di palazzo Labia, dove campeggiano le grandiose strutture classicheggianti ai cui piedi si svolge un vivacissimo gioco macchiettistico. Gli studiosi che si sono occupati di questo pendant variamente attribuito sono stati concordi nell'indicare in Gaspare Diziani l'autore delle figure, come risulta anche dimostrato dal confronto con alcuni bellissimi disegni di Diziani per costumi di bissona, collocati da Dorigato (1981, nn. 421-422) «nell'ultimo periodo dell'artista». Oltretutto la collaborazione tra Battaglioli e Gaspare Diziani è provata dai due grandi capricci di palazzo Labia (Succi 1988, p. 265). Lo sembra confermare la stesura magra della materia pittorica, tipica di quell'artista e ben diversa dai grumi materici cari a Marieschi. Un altro grande Capriccio architettonico di Battaglioli, che pur nella assoluta diversità del soggetto, rivela una notevole affinità per quell'eccesso di abilità nel manovrare logge, porticati, archi trionfali: il trascolorare maculato della facciata del grandioso palazzo dimostra che l'autore seppe tener presente anche l'insegnamento di Michiele Marieschi.

Nel pendant raffigurante la Festa in un palazzo barocco e la Festa sotto un arco trionfale custoditi presso l'Accademia di San Fernando a Madrid e resi noti da Pérez Sanchez (1964, p. 42), la coppia testimonia il virtuosismo scenografico di Battaglioli e l'esuberanza delle sue fantasie decorative, ma anche la goffaggine delle legnose macchiette, opere che risultano di fondamentale importanza per la ricostruzione dell'itinerario artistico di Battaglioli e delle caratteristiche dello stile durante il periodo spagnolo. 

Pare quindi confermata l'annotazione, sul nostro pittore, di Moschini (1806, III, p. 78): «Celebre operatore di Vedute è stato anche Francesco Battajoli, esattissimo ne' suoi dipinti, che copiava i siti, quali gli vedeva, e che solo peccò nell'esser languido nel tuono delle tinte».
Dopo la morte di Gaspare Diziani (1767), Battaglioli dovette rivolgersi ad un altro collaboratore, e lo trovò in Francesco Zugno, il raffinato seguace di Giambattista Tiepolo. Fu Voss per primo (1926, pp. 37-40) a ipotizzare la collaborazione tra i due artisti in alcuni dipinti di cui i più noti sono i due provenienti dalla collezione Achillito Chiesa di Milano, che furono esposti a Firenze nel 1922 (cat. nn. 165-166) con l'attribuzione a Canaletto. Gli eleganti inserti macchiettistici di Zugno allietano questi due capricci tra i migliori di Battaglioli per il felice equilibrio tra le fantasiose architetture e le evanescenti citazioni paesaggistiche sullo sfondo.

La collaborazione fra Battaglioli e Zugno risulta documentata dal Catalogo dei quadri raccolti dal sig Signor Maffeo Pinelli (1785, p. 7), dove si cita un capriccio di Battaglioli: «Architettura bellissima colle figure di Francesco Zugno e con un giardino indietro».

Alla stessa fase di felice collaborazione, presumibilmente databile tra la fine degli anni sessanta e la metà del decennio successivo, appartengono altri notevoli capricci, tra cui quello includente, in lontananza, il ponte di Rialto secondo il progetto palladiano, facente parte di una serie già nel palazzo Giovanelli, a Venezia (cfr. Martini 1982).

In una veduta con architetture e cavalieri pubblicata da Martini  (1964), già in collezione privata veneziana, le macchiette, secondo l'indicazione dello studioso, spettano a Francesco Simonini. Poiché il famoso battaglista morì a Venezia nel 1753, la tela è databile agli inizi degli anni cinquanta, come conferma l'affinità stilistica con le vedute di Brescia.

Si potrebbe forse collocare nella seconda metà degli anni ottanta un dipinto pubblicato da Martini (1964) come opera di collaborazione con Francesco Zugno, mentre la mediocrità esecutiva delle macchiette dimostra piuttosto che Battaglioli cercò di imitare i raffinati modelli di Zugno, morto nel 1787. In conclusione, la figura di Francesco Battaglioli presenta ormai contorni abbastanza netti, mentre la linea dell'evoluzione stilistica sembra ricostruibile con sufficiente approssimazione: il che consente di porlo su un gradino un po' più alto del consueto, seppur egli riuscì solo raramente a stemperare il confuso eclettismo delle fonti della sua arte (la scenografia emiliana, Canaletto, Visentini, Marieschi) per ricomporlo in una sintesi originale e armoniosa.

 

Dario Succi

 

 

 

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Pietro Bellotti (Venezia?, 1725 ca. - Francia?, 1800 ca.)

 

 

 

 

Pietro Bellotti, Il molo verso la Libreria e la Salute. Collezione privata

 

 

 

BELLOTTI, Pietro - note biografiche

Fratello di Bernardo e nipote di Antonio Canal, Pietro Bellotti (anche Bellotto) nacque a Venezia in data imprecisata, probabilmente intorno al 1725. Dopo un apprendistato nella città lagunare presso il fratello Bernardo, durato fino all'inizio degli anni quaranta, per ragioni sconosciute Pietro Bellotto si trasferì a Tolosa dove il 25 marzo 1749 si unì in matrimonio con Françoise Lacombe, dalla quale aveva avuto una figlia, Barbe, battezzata alla vigilia delle nozze (Mesuret 1952, p. 170). Dal matrimonio nacquero altri due figli di cui uno, dal nome sconosciuto, fu pittore di anatomia e ritrattista. Negli anni 1755, 1760, 1765, 1774 e 1790 i dipinti di Bellotti (il cognome venne francesizzato anche in Beloty) furono esposti al Salon dell'Académie Royale de Peinture, Sculpture et Architecture di Tolosa. Il più importante Salon fu quello del 1765 nel quale vennero presentati, sotto il n. 35 del catalogo, «Vingt petits Tableaux, par Belloti, peintre, qui sont de Vues en perspective». Di questo nutrito gruppo di vedute ben diciassette tele, tutte misuranti 37x48 cm, sono state individuate da Robert Mesuret nel castello di Merville, presso Tolosa, nella collezione del marchese di Beaumont.

Le vedute, finora pubblicate solo in piccola parte, raffigurano varie città europee, tra cui Venezia, Firenze, Roma, Milano Genova, Malta, Marsiglia, Versailles, L'Aia, e sembrano quasi tutte derivate da stampe (de Sandt, 2001, pp. 100-102). Altri dipinti della stessa serie mostrano l'interno di una chiesa, un lago, un porto di mare al tramonto con edifici d'invenzione capricciosa (Mesuret 1952, p. 172).

Tra le vedute di Venezia esposte al Salon del 1765, quella raffigurante Il molo con la Piazzetta e il palazzo Ducale si basa sul prototipo di Antonio Canal nella collezione del duca di Norfolk (Constable, Links 1989, n. 104), mentre quella con San Giorgio Maggiore verso la riva degli Schiavoni deriva, con minime variazioni nelle figure, dalla corrispondente acquaforte di Michele Marieschi facente parte della serie pubblicata nel 1741 (Succi 1987[b], n. 6).

Particolarmente interessante è la tela, pure inedita, derivata dalla stupenda acquaforte canalettiana Le porte del Dolo. La veduta è l'unica opera finora conosciuta recante la firma autografa dell'artista: «Bellotti dit Canalletti». Questa maniera di firmare è interessante non solo perché dimostra come Pietro Bellotti, al pari del fratello Bernardo, cercasse di sfruttare la fama dello zio, ma anche perché permette di sciogliere l'enigma relativo all'identificazione di un altro artista attivo a Nantes nel Settecento. Si tratta di quel «Pietro Bellotto di Canaleti» che nel 1755 fece domanda di poter esercitare a Nantes la professione di pittore e il cui nome ricorre anche in alcuni documenti del 1768 di quella città. Sebbene Rodolfo Pallucchini (1960, p. 228) e Giuseppe Fiocco (1964, pp. 178-179) fossero portati a ritenere che il pittore di Tolosa e quello di Nantes fossero la stessa persona, l'ipotesi restava tuttavia non dimostrata. Kozakiewicz (1972, p. 58) osservava che solo nuove fonti documentarie avrebbero potuto fornire la certezza che il Pietro Bellotti di Tolosa coincidesse con il «Pietro Bellotto di Canaleti» citato nei documenti di Nantes.

Il ritrovamento di questo dipinto firmato dirime ogni dubbio perché fornisce la prova oggettiva che anche il Bellotto di Tolosa pretendeva, come quello di Nantes, di essere chiamato con l'appellativo di "Canaletto".

Il quadro firmato si accompagna con un capriccio raffigurante i Dintorni di Padova con la torre di Ezzelino (fig. 3). Il dipinto è derivato da una stampa di Fabio Berardi appartenente alla serie di «sei villaggi campestri», quattro dei quali riproducono in controparte altrettanti disegni del Canaletto (Pignatti 1969, p. 24).

La stampa, edita da Wagner, reca in calce l'iscrizione (con allusione alla fanciulla che ha steso i panni sul finestrone a sinistra): «Mettendo i panni al sole / Scalda ella pur chi vuole».

La derivazione del dipinto da una incisione appartenente a una serie che, come ha giustamente suggerito Pignatti, deve essere stata pubblicata nella prima metà del settimo decennio, fornisce un prezioso elemento per la datazione intorno al 1770 della tela firmata e del relativo pendant. Rispetto alla precedente produzione pittorica, in questa coppia di tele lo stile dell'artista, pur rimanendo ancorato ai riferimenti iconografici provenienti da Venezia, sembra evolversi verso finezze cromatiche estenuate, attente al gusto francese.

Altri due dipinti, comparsi recentemente sul mercato, sono particolarmente interessanti perché sono databili con certezza ante 1760 essendo stati esposti una prima volta nel Salon tolosano del 1760 e una seconda volta in quello del 1775 come proprietà del marchese de Puget. In seguito entrarono a far parte della collezione Bernard Desarnaut di Tolosa, dove vennero individuati da Mesuret (1952, p. 170). Le tele raffigurano due vedute, una di Roma, Il Tevere con Castel Sant'Angelo, e una di Venezia, Il Canal Grande a Cannaregio, derivata dall'incisione di Visentini facente parte della prima edizione della raccolta Prospectus Magni Canalis Venetiarum pubblicata nel 1735.

Questi dipinti e gli altri finora conosciuti dimostrano che lo stile di Pietro Bellotti è diverso da quello molto personale e immediatamente caratterizzato fin dagli esordi del fratello Bernardo, risultando piuttosto influenzato dalla maniera del Canaletto, come del resto era logico.

Non si conosce l'anno e il luogo della morte di Bellotti. Un catalogo del Musée des Augustins del 1818, attribuendogli una veduta del ponte di Rialto, contiene l'indicazione generica che l'artista era morto da pochi anni in Francia. Di fatto l'ultima notizia sicura risale al 1776 quando, come ricordava Mesuret (ivi, p. 172), il pittore ricorse a un annuncio per pubblicizzare una veduta ottica: «Messer Bellotti, pittore Veneziano già conosciuto in questa città, ha composto un'ottica fra le più curiose, che si propone d'esporre al pubblico. S'è annunciato per mezzo d'affissi e biglietti che ha fatto distribuire in città». Si può quindi ritenere che il pittore sia morto intorno al 1800, quando doveva avere circa settantacinque anni.

 

 

Dario Succi

 

 

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BELLOTTI, Pietro - lo stile pittorico

Sebbene il nome di Pietro Bellotto, documentato anche come Bellotti, sia da tempo conosciuto agli studiosi, le sue opere non sono mai state oggetto di un'analisi che ponesse in risalto le peculiari caratteristiche stilistiche, mettendole a confronto con quelle dei dipinti degli altri componenti il clan dei Canal: Bernardo Canal, Antonio Canal, Bernardo Bellotto.

I dipinti di Bellotti sono quasi sempre derivati da stampe. Per quanto riguarda le vedute veneziane, il pittore utilizzò le raccolte di Michele Marieschi (1741), di Antonio Visentini (1742) e del Canaletto (1745-1746), mentre per i capricci si avvalse anche delle incisioni di Fabio Berardi derivate da dipinti del Canaletto. Un tipico esempio della maniera di Bellotti è costituito dalla interessante veduta inedita raffigurante Il molo verso la Libreria e la Salute derivata da una incisione di Visentini, a sua volta basata su un prototipo canalettiano (Succi 1986, p. 247). La resa accurata degli elementi architettonici, la luminosità diffusa, leggermente fredda, le delicate sfumature rosate e il velo di nebbia che attenua i contorni degli edifici sullo sfondo caratterizzano il dipinto di chiaro gusto canalettiano, mentre nelle figure non manca qualche riferimento ai modelli allungati e tendenzialmente squadrati del fratello Bernardo.

 

 

Dario Succi

 

 

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Bernardo Bellotto (Venezia 1722 – Varsavia 1780)

 

 

 

Bernardo Bellotto, Canal Grande dalla chiesa di Santa Croce. Londra, National Gallery

 

 

 

BELLOTTO, Bernardo - note biografiche

Bernardo Bellotto nasce a Venezia nella parrocchia di Santa Margherita, il 20 maggio 1722. Figlio di Lorenzo Antonio Bellotto e Fiorenza Canal, sorella del celebre Canaletto, si forma presso la rinomata bottega di quest’ultimo. Nel 1738 è già iscritto alla Fraglia dei Pittori veneziani, mentre nel novembre del 1741 convoglia a nozze con Elisabetta Pizzorno. Verosimilmente nella primavera dell’anno successivo, “per consiglio del Zio” si porta a Roma dove “fece uso del suo talento nel disegnare e dipingere le antiche fabbriche e le più belle vedute di quell’alma Città. Con tale esercizio rendendosi sempre più abile” (Guarienti 1753). Nel 1744 è documentato in Lombardia, al servizio del conte Antonio Simonetta e nel 1745 a Torino, dove esegue alcune vedute per Carlo Emanuele III. In queste opere l’artista, certamente con il consenso dell’illustre maestro, appone accanto alla propria firma il soprannome “Canaletto”. Secondo la tradizione, tuttavia, i rapporti tra lo zio ed il nipote, alquanto lunatico, furono difficili. “Purtroppo a tuttoggi nessun documento archivistico ci illumina sui rapporti umani o semplicemente lavorativi intercorsi tra lo zio maestro ed il nipote allievo – un caso solo apparentemente analogo all’accoppiata Sebastiano e Marco Ricci – rapporti che è giocoforza enucleare per via deduttiva in base alla produzione artistica di entrambi. Non appare comunque troppo arbitrario immaginare con quale trepidante compiacimento il Canaletto senior, che si sa come fosse anch’egli un carattere assai poco socievole tanto da essere definito dai contemporanei «fantasque» e «bourru», abbia seguito gli esordi del nipote-prodigio, il quale sin da adolescente doveva rivelarsi di gran lunga il suo miglior allievo. Forse non ci furono neppure specifici episodi di una rottura, più verosimilmente questa avvenne in maniera progressiva, quasi generazionalmente, come contrasto tra lo zio, in cui forse s’era insinuata una certa invidia, e il nipote consapevole delle proprie capacità fino alla presunzione e comunque insofferente di un qualche condizionamento. E che a Bernardo facesse difetto la modestia lo attestano numerose fonti [...]. Già partito nel 1746 per Londra – ma non certo con l’idea di restarvi per sempre – il Canal, ecco arrivare a Bernardo la grande occasione, un giro di boa nella sua vita: l’invito a Dresda” (Rizzi 1995). La chiamata di Augusto III, principe elettore di Sassonia e re di Polonia, ad assumere la carica di “Peintre du Roi”, avvenne “probabilmente grazie ai buoni uffici dell’abate veronese Pietro Guarienti, che era stato da poco nominato ispettore della Galleria reale e che aveva conosciuto il giovane pittore a Venezia, legandosi con lui di amicizia al punto da venir scelto nel 1745 come padrino al battesimo della terza figlia di Bernardo, Francesca Elisabetta. [...] L’incarico affidato a Bernardo a Dresda era quello di illustrare con le sue vedute la città che Augusto II il Forte e il figlio avevano rinnovato dal punto di vista architettonico e urbanistico in modo radicale, facendola assurgere al ruolo di splendida capitale europea” (Pedrocco 2002). Grazie ai favori di Augusto III e del suo fedele primo ministro, Bellotto, il cui stipendio era a dir poco generoso, “poté serenamente operare in quel decennio 1747-1756 che tutto fa credere egli dovette ricordare come il più felice della sua vita” (Rizzi 1995).           

Lo scoppio della Guerra dei Sette Anni (1756-1763) pose fine a questa situazione favorevole. La corte di Augusto III si disperse ed anche Bellotto lasciò Dresda per trasferirsi a Vienna e porsi per due anni (1759-1760) al servizio dell’Imperatrice Maria Teresa, non senza soddisfare le richieste di importanti committenti quali il Cancelliere Kaunitz ed il Principe di Lichtenstein. Si ignorano molte circostanze riguardanti questo soggiorno viennese, tuttavia che l’imperatrice lo stimasse è confermato, oltre che dalle commissioni di famose vedute, dalla sua lettera inviata, per mano stessa dell’artista, il 4 gennaio 1761, alla principessa ereditaria della Sassonia Maria Antonia, che si trovava allora a Monaco. “Non ho potuto veder partire Canaletti [sic] - scrive l’imperatrice - senza consegnargli queste righe, raccomandandogliele; egli anche in tal caso si è comportato molto bene e ci ha riforniti di qualcuna delle sue opere molto belle. L’invidio di poterlo vedere otto mesi prima di me” (Koza­kiewicz 1972). Nel 1761 quindi, attratto dalla liberalità dell’Elettore bavarese Massimiliano III, Bellotto soggiornò a Monaco; per poi far ritorno nel 1762 a Dresda (Valcanover 1966). Qui l’attesero amare sorprese. “Allorché, alla fine del 1763, morirono a breve distanza l’uno dall’altro sia Augusto III che il suo primo ministro plenipotenziario, il conte Heinrich Brühl, nel 1764 Bellottto non ottenne altro che un posto di dipendente presso l’Accademia di Belle Arti in qualità di insegnante di corsi preparatori di prospettiva nelle classi inferiori di paesaggistica e architettura. Alla fine del 1766 chiese un periodo di congedo per recarsi a San Pietroburgo, ma strada facendo si fermò, all’inizio del 1767, alla corte polacca di Stanislao Augusto Poniatowski, dove nel 1768 divenne pittore di corte e ritrasse Varsavia, dove ormai risiedeva” (Weber 2001). “Qui trascorse gli ultimi quattordici anni della sua vita, assicurando alla propria famiglia (aveva moglie e quattro figli, un maschio e tre femmine) una buona posizione economica e riacquistando, inoltre, quel peso professionale che aveva perso a Dresda. Considerando il carattere del pittore alquanto instabile e incoerente nonché le sue difficoltà a instaurare dei rapporti interpersonali, si può ipotizzare che la decisione di restare a Varsavia fu influenzata dalla forte posizione assunta dagli artisti italiani alla corte polacca. Il sovrano polacco organizzava ogni settimana dei pranzi ai quali invitava molti artisti, in maggioranza italiani, da cui il nome di «pranzi italiani»” (Rottermund 2001).

Bernardo Bellotto morì a Varsavia il 17 novembre 1780. Il giorno successivo fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini in via Miodova. 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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BELLOTTO, Bernardo - lo stile pittorico

Educato presso la rinomata bottega dello zio, Antonio Canal noto a tutti come il Canaletto, “prese ad imitarlo con tutto lo studio ed assiduità [...]; dipinse di quelle di Venezia così diligentemente e al naturale eseguite, che un grande intendimento ricercasi in chi vuole distinguerle da quelle del Zio” (Guarienti 1753). Da lui Bellotto imparò “a servirsi di una tecnica capace di evocare la profondità delle ombre e gli spiragli di luce sulle architetture, le screpolature e irregolarità di colore dei muri, l’esattezza del disegno delle architetture, la brillantezza e mutevolezza dell’acqua.
È la crescente capacità tecnica nel seguire i procedimenti di Canaletto – rendendoli gradualmente sempre più personali – che costituisce il criterio per il riconoscimento e la cronologia delle prime opere di Bellotto. Nel 1740 l’artista raggiunge una qualità talmente eccezionale di interpretazione della tecnica canalettiana, da far deviare, già con queste opere molto giovanili, l’attribuzione di alcuni dipinti a Canaletto, oppure creare incertezze, e questo non solo al tempo di Pietro Guarienti, ma ancora in anni molto recenti. Non si è finora individuato alcun altro pittore riuscito a rendere propria, con lo stesso grado di genialità, la tecnica del Canaletto; anche se è opportuno supporre la presenza nell’atelier di qualche altro collaboratore, nulla permette di riconoscerne la produzione pittorica” (Kowalczyk 2001).
Verso la metà del quinto decennio Bellotto, attivo in Lombardia, a Torino e forse a Verona, afferma la sua autentica inclinazione, affrancandosi definitivamente dal linguaggio pittorico dello zio. Sin dagli inizi infatti “egli aveva aderito alla visione che il Canaletto andava elaborando e pienamente realizzando [...]. Ma si deve aggiungere che il fondamento di quegli insegnamenti – e qui è il punto – consisteva soprattutto nella ferma fiducia che la realtà visiva corrispondesse a qualcosa di assoluto, di oggettivo, di «esistente in sé» e fosse quindi riconoscibile attraverso un’esperienza, non solo inequivocabilmente certa, ma anche unica, inconfondibile con le altre. [...] Qualcosa di più radicale quindi e, in un certo senso, qualcosa di più idoneo a condurre a risultati del tutto simili, che il semplice trasmettersi da maestro ad allievo dei modi soggettivi di una maniera pittorica. [...]Per questo egli poté, senza mai tradire tali premesse di ordine conoscitivo, trovare una via che lo condusse a conseguenze del tutto differenziate da quelle del Canaletto. [...] Le vedute di Dresda e di Pirna che il Bellotto eseguì durante il suo soggiorno in Sassonia dal 1747 al 1758 indicano forse il punto più alto toccato da quella ricerca di assoluta obiettività che era uno dei poli antitetici della figurativa del Settecento. La suggestione di vero che provocano nello spettatore ha qualcosa di magico, il loro potere evocativo sembra inesauribile” (Briganti 1955).
“La veduta della piazza del mercato di Pirna è tra le composizioni più felici di Bellotto, di cui esiste tutta una serie di repliche di suo pugno e di copie di altri pittori. [...] La fama del quadro è meritata. Bellotto deve aver contemplato il fitto tessuto di architetture medievali e moderne di questa cittadina della Sassonia con il piacere estetico che sprona anche gli esploratori di paesi esotici. Vi trovò infatti un luogo che gli offriva una dovizia di aspetti figurativi” (Weber 2001).        

Nelle opere del periodo viennese l’artista talvolta allude alla presenza fisica del committente all’interno della composizione. “La veduta del Palazzo Lobkowitz, con protagonista un edificio che da poco aveva cambiato proprietario, si distingue per un gruppo «animato» in primo piano a destra che si contrappone al vero protagonista del dipinto, cioè all’edificio patrizio situato sulla sinistra. In quel caso il «palco» è costruito dalla striscia in primo piano e l’attenzione è richiamata verso un gruppo di persone, le cui ombre si direzionano in senso opposto rispetto all’impostazione generale delle condizioni di luce. Questa tendenza a sottolineare l’importanza delle figure umane che, a partire da alcuni dipinti degli anni di Dresda, non sono più macchiette, come si è varie volte notato, raggiunge il suo apice durante il soggiorno viennese. Solo di questo periodo infatti sono documentati disegni di studi di figure, a testimoniare un definitivo cambiamento di impostazione, dovuto a precise richieste della committenza” (Frank 2001). 
Durante il “soggiorno viennese del 1759-1760 si ha l’impressione che il Bellotto abbia un po’ sforzato la vena descrittiva, cioè l’esteriorità della sua ispirazione, raggiungendo effetti d’una bravura eccezionale, ma forse meno ricchi di poesia di quelli ottenuti negli anni precedenti in Sassonia. La veduta si viene trasformando sempre più in documento, in narrazione di avvenimenti occasionali in determinati luoghi. L'interesse realistico che già puntualizzava il macchiettismo del Bellotto si inserisce in una nuova esigenza descrittiva, che assumerà nuovo equilibrio nell’ultimo periodo polacco” (Pallucchini 1995).
“A Varsavia l’artista si cimentò nella pittura a soggetto storico, che prima invece aveva sempre evitato. Le due versioni della Elezione e dell’Ingresso di Jerzy Ossoliński a Roma riscossero successo fra i contemporanei e possono essere definiti opere ben riuscite nel loro genere. Bellotto non partecipò ai due eventi, ma ne venne a conoscenza grazie a descrizioni e fonti iconografiche. Nei due dipinti ritrasse le scene nel loro significato politico. Per questo motivo utilizzò una struttura compositiva “arcaizzante”, che richiama le precedenti vedute delle elezioni dei re polacchi (Augusto II e Augusto III) e, nel caso dell’Ingresso di Ossoliński a Roma, alle incisioni e ai quadri di soggetto simile” (Rottermund 2001).
I tratti principali della pittura bellottiana “sono da un lato l’intima fusione di senso della realtà e malinconia poetica, e l’autentico interesse per gli insediamenti umani espressi nelle città e nei paesi coi loro edifici, per gli uomini che vi abitano e le loro occupazioni; dall’altro è la ricerca della bellezza nella concezione pittorica, al cui realizzarsi contribuiscono notevolmente l’ampiezza panoramica della veduta e l’armonia degli effetti cromatici e chiaroscurali. E infine è l’atmosfera cristallina, che racchiude tutte le forme chiaramente delineate e nella quale giuocano liberamente sia la tavolozza dalle tonalità prevalentemente fredde che i forti contrasti di luce ed ombra; da tutto questo deriva un’atmosfera tranquilla e lirica” (Kozakiewicz 1972).

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 – Milano 1844)

 

 

 

 

Giuseppe Bernardino Bison, Il Canal Grande con la Punta della Salute, tempera su carta. Collezione privata

 

 

 

BISON, Giuseppe Bernardino - note biografiche

Giuseppe Bernardino Bison nacque a Palmanova il 16 giugno 1762: i genitori (il padre era nativo di Castelfranco Veneto, la madre veneziana) si trasferirono successivamente a Brescia, dove, accortisi delle capacità del figlio, lo misero a studiare disegno presso il pittore Gerolamo Romani. La famiglia passò poi a Venezia, dove Anton Maria Zanetti il giovane, “lo venne per vero utile di lui, raccomandando a Costantino Sedini [Cedini] professor di figura. Questi gli schiuse tosto l’adito ai liberali e tanto vantaggiosi esercizi dell’Accademia. [...] Appena egli si fe’ conoscere per alcuni ornamenti nelle camere, che i piccoli pittori si valsero di lui, mandandolo qua e là ad aggiungere ai loro lavori qualche accessorio sia d’ucellami, sia d’arabeschi misti. Quindi non andò guari che incominciarono le ordinazioni di vario carattere, e gli inviti a diversi luoghi. [...] Ne’ primi suoi anni, e poi per moltissimi, decorò appartamenti; a buon ora e per gran tempo della lunga e infaticata sua vita, e fin quasi agli estremi aneliti, dipinse massimamente quadri, senza non tornare a quando a quando, e a seconda dei casi al primiero genere decorativo” (Rossi 1845).

A Venezia strinse amicizia con l’architetto Selva, tanto da seguirlo nel 1787 a Ferrara, dove, quest’ultimo, era stato chiamato per dei rimaneggiamenti a palazzo Bottoni. Nello stesso anno Bison è documentato anche a Padova al seguito dello scenografo Antonio Mauro, che partecipava al concorso per l’ornato del Teatro Nuovo. Nel 1790 lavorò nel castello del Catajo presso Padova e dopo il 1791 fu operativo nel trevigiano dove eseguì decorazioni di notevole ampiezza nella villa Tivaroni-Zanini a Lancenigo e nella villa Spineda a Breda di Piave.     

Al legame con Giannantonio Selva si devono anche i successivi spostamenti di Bison, “che troviamo impegnato con la schiera di ornatisti in Palazzo Manin a Venezia, poco prima del 1800, dove Selva si era occupato dell’intera ristrutturazione a partire dal 1794, ed è ipotizzabile che il maestro si recasse a Trieste quando l’architetto nel 1798 ricevette il prestigioso incarico di progettare il Teatro Nuovo. L’idea di entrare nell’impresa avrebbe aperto a Bison un nuovo fronte in cui prestare la propria opera come decoratore, ma il progetto presentato da Selva venne bocciato, per essere affidato nel marzo 1779 a Matteo Pertsch e anche il palmarino rimase fuori dalla partita.

In questo momento cruciale per Bison, si scopre la complessità dei rapporti professionali che dovettero legarlo subito al giovane architetto Pertsch, formatosi nell’aggiornato ambiente dell’Accademia milanese e parmense, e allo scultore Antonio Bosa presente a Trieste sin dal 1801. Insieme i tre dovettero collaborare in palazzo Carciotti e nel palazzo della Borsa, i principali episodi di edilizia neoclassica triestina, anche se in quest’ultimo caso al progetto di Pertsch venne preferito quello di Antonio Mollari. [...] Bison trovò a Trieste la personale dimensione d’artista, conseguendo una posizione che non tardò a tradursi anche in un successo di mercato. Dopo i circoscritti interventi in città di Canal, Borsato e dell’eclettico Basoli, con le sue invenzioni d’interni consistenti in finti, avvolgenti tendaggi, ed in scorci paesaggistici visti attraverso colonne doriche di severa classicità, Bison detenne il campo dell’ornato [...]. Ma anche nella pittura da cavalletto il maestro moltiplicò la produzione, dando vita a molti generi. Il mercato collezionistico triestino mostrava apprezzamento per i paesaggi, i capricci, dove Bison metteva a frutto le sue indubbie doti di scenografo, i soggetti mitologici, trovando una quantità di temi, facilmente abbordabili per il prezzo non elevato giustificato anche dal piccolo formato delle opere" (Magani 1993). 

Nel 1831, a sessantanove anni, Bison decise di trasferirsi a Milano, riprendendo inspiegabilmente il suo giovanile vagabondare, "lasciando il prestigio con cui aveva dominato l’ambiente artistico triestino e che certo non poteva venire oscurato da un modesto decoratore come Giuseppe Gatteri, che peraltro sulle orme del maggiore maestro aveva mosso i primi passi anche se a partire dalla metà degli anni venti cominciava a ricevere non poche commissioni pubbliche (Rotonda Pancera, Ridotto del Teatro Nuovo)” (Magani 1993). Nel capoluogo lombardo l'artista rinunciò a cimentarsi in grandi imprese decorative e curò particolarmente i dipinti di piccole dimensioni senza però riscuotere grande successo, se è vero che, nonostante l’indefessa attività, morì povero nel 1844.

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

Giuseppe Bernardino Bison - altri articoli e pubblicazioni :

Annalia Delneri - Gli inizi di Giuseppe Bernardino Bison

 

 

 

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BISON, Giuseppe Bernardino - lo stile pittorico

“La vicenda artistica di Bison sembra essersi attivata sotto la spinta di una tensione sostenuta da uno stile che nella sensibilità per la buona pittura ricerca un assunto tale da preservarla dalle eleganze e dalla misura formale del gusto neoclassico, affermatosi in quegli anni, e che nella pratica artistica del maestro corrisponde ad una sostanziale divergenza nei confronti delle tendenze più moderne. L’impossibilità di identificare l’arte di Bison con le «avanguardie» del tempo parte, a ben guardare, sin dalle origini della sua formazione a Venezia.
L’Accademia veneziana al Fonteghetto della Farina non forniva in quegli anni le migliori occasioni per aggiornarsi sulle più avanzate tendenze classicistiche. Significativamente proprio nell’autunno del 1779, quando Bison si accingeva ad entrarvi, Canova lasciava l’Accademia e Venezia per raggiungere Roma, dove avrebbe trovato le manifestazioni più complete della cultura europea di quei decenni” (Magani 1993).  
“Nel noto dipinto di Bison Gruppo di figure in un interno di palazzo Pola (Treviso, Museo Civico) risalta la doppia specialità dell’artista, che si applicò tanto alla produzione di genere (e la scenetta qui situata al centro della composizione ne è un esempio) quanto alla misura monumentale della decorazione ad affresco: l’interno qui raffigurato esibisce infatti pareti e soffitto interamente decorati da scene mitologiche e da rigogliosi motivi d’ornato a monocromo di gusto classicistico. [...] È nella terraferma che l’artista ha le maggiori opportunità d’esprimersi in questo campo. Anzitutto a Padova, in palazzo Maffetti (poi Manzoni), dove lavora in due ambienti forse intorno al 1790. In città era tutto un fiorire di nuove decorazioni, a opera di figuristi come Novelli e Canal, e di ornatisti come Paolo Guidolini e Lorenzo Sacchetti. Specie certe invenzioni di quest’ultimo rivelano singolari affinità con quelle di Bison, come le sopraporte di palazzo Da Rio, con aquile poste a custodire antichi medaglioni. Nel salone di palazzo Maffetti l’artista combina la tradizione di ascendenza tiepolesca, palese nel brano di figura del soffitto – La Virtù incorona la Nobiltà – con i dettami del «moderno» decorare, recependo quelle istanze del classicismo tardosettecentesco già diffuse nei palazzi di città e negli interni di villa. [...] Verso il 1791-92 lo troviamo impegnato nelle decorazioni di villa Raspi (poi Tivaroni) a Lacenigo, e nella villa di Jacopo Spineda a Breda di Piave, entrambe nel trevigiano. [...] È il mondo della scenografia che si riversa in questi interni, quale era stato creato da Andrea Urbani, da Chiarottini, da Antonio Mauro III (Bison lo ebbe maestro dell’Accademia e con lui lavora a Padova nel Teatro Nuovo), da Francesco Fontanesi (il decoratore della sala teatrale della Fenice): un mondo manifestamente illusorio, che vive di riverberi di luce colorata, di sorprese, per sedurre lo sguardo e tener desta l’attenzione, in cui serpeggia liberamente lo spirito del capriccio, alla fine di un secolo che del capriccio aveva fatto una bandiera. [...] Il ciclo di affreschi di Breda di Piave è certo il capolavoro di Bison, nel quale la fantasia inventiva e cromatica dell’artista si estrinseca felice, anche per la scelta di applicare alla pittura murale una tonalità minore, così da farne una pittura da stanza, equivalente alla musica da camera: proprio una delle esperienze più gratificanti è il passare di ambiente in ambiente lasciandosi sorprendere di continuo dal fuoco d’artificio delle trovate. Alla fine, dopo tanta eccitazione visiva, può restare nel ricordo, come dopo un sogno, «uno sbocciare fresco di petali, una liquida macchia d’ombra, il muoversi arioso d’un nastro»” (Pavanello 1997).    
“Nonostante la sua formazione e permanenza a Venezia, circa fino allo scadere del secolo, finora si ha notizia di pochissimi interventi di tale natura nella Serenissima, e precisamente due stanze in coppia con Costantino Cedini nel mezzanino di palazzo Giustinian Recanati alle Zattere (1793) e alcune decorazioni a palazzo Dolfin Manin (1800)” mentre nel Palazzo Bellavite spetta, tra l’altro, a Bison anche “la continua teoria di coppie di animali affrontati, divisi da bucrani inghirlandati, da candelieri e da palmette e tutta collegata, senza soluzione di continuità, da sottili girali ingentiliti da racemi con foglie e bacche, capaci di rendere unitario un originalissimo e vario bestiario. Partorito da una fervida fantasia compositiva, non disgiunta da una vera passione zoologica, esso ribadisce che è nelle realizzazioni a ‘grottesca’, o comunque nei divertiti dettagli apparentemente secondari – tanto apprezzati nella sua grafica – che il Bison afferma i caratteri migliori del suo linguaggio” (De Feo 1997).   
“Ma più che nella grande decorazione aulica ad affresco il Bison emerge, tra gli altri contemporanei, per la sua produzione di piccole tempere, quasi sempre di soggetto paesistico, eseguite con una bravura straordinaria e una fantasia inesauribile. Opere talvolta di carattere scenografico o ispirate ad altri pittori (Tiepolo, Canaletto, Zuccarelli, ecc.), ma più spesso d’invenzione propria. Pittura sovente descrittiva sì, ma realizzata sempre con una forma perfetta, con un tocco freschissimo e una tavolozza splendida, che non ha niente del «pittoresco», ma semmai dell’altamente «pittorico», sia che rappresenti una burrasca o un sereno paesaggio agreste. Una pittura spontanea e limpida, spesso aderente alla sostanza e ai fenomeni della natura, come osserviamo in certi paesaggi invernali o in altri raffiguranti l’estate sparsi d’abituri e di contadini ai lavori: paesaggi che ricordano quelli del lontano Marco Ricci, ai quali sovente sia per spirito che per qualità non sono inferiori” (Martini 1982).
“Il paesaggio idealizzato, in cui case, capanni, vegetazione, cielo e uomini convivono in una stagione senza tempo dove solamente una luce incontaminata li unisce, è il modo di Bison di proporre un’arcadia nella quale si profonde l’auspicio per il presente”. Altre volte invece “gigantesche architetture sprofondate nella natura circostante non appartengono ad una «veduta», ma costituiscono il pretesto per inventare una prospettiva illusionistica, seguendo gli insegnamenti della scenografia nel gioco dell’arco molto scorciato in primo piano che incrocia l’infilata di palazzi e antichi monumenti in cui si unificano stili diversi, così come avviene in una invenzione piranesiana” (Magani 1993).
L’arte di Bison attraversa il periodo neoclassico ma resta sostanzialmente legata a forme settecentesche dalle quali deriva quella tipica spontaneità e spigliatezza. Nel piccolo olio, Maschere, del Civico Museo Revoltella di Trieste, la scena d’intrattenimento “alimenta quello spirito nostalgico o il desiderio di confrontarsi con l’immaginario aristocratico del passato da parte della società borghese del primo Ottocento. La festa o, piuttosto, una «mascherata», è descritta nei più schietti modi veneziani settecenteschi ricordando, per la pungente e lucida osservazione, il contenuto della pittura di genere di Pietro Longhi, Francesco Guardi e Giandomenico Tiepolo, risolta dal maestro di Palmanova con sottili vibrazioni nel tratto...” (Magani 1997). 
“È noto quanto fertile sia stata anche l’ultima pittura del Maestro, ormai anziano, operante a Milano: quadretti di maniera, ripensamenti giovanili ma anche quadretti di nuova, fresca, vena realistica, seppur cedenti alla moda corrente, al gusto dell’aneddoto, al prevalere di certa tematica - scene in conventi, frati in preghiera, vita claustrale - comune pure al Migliara (Zava Boccazzi 1971)”.

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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Bernardo Canal (1664 - 1744)

 

 

 

 

CANAL, Bernardo - note biografiche

 

 

Bernardo Canal: scenografo e vedutista

 

 

 

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Giovanni Antonio Canal detto Canaletto (Venezia 1697 – 1768)

 

 

 

Canaletto, Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno dell'Ascensione. Londra, Windsor Castle

 

 

 

CANALETTO - note biografiche

“La vita di Antonio Canal detto il Canaletto non è ricca di avvenimenti biografici ed è priva di episodi significativi; in ogni caso, è certamente povera di notizie. Antonio sembra essere stato un uomo dedito unicamente al suo lavoro, immerso per così dire nella sua opera. A seguire i diversi autori che si sono occupati di lui, la data di nascita di Canaletto è incerta: viene spesso indicato il 28 ottobre del 1697. Mariette indica il 18 e afferma di aver avuto una memoria dallo stesso artista; noi preferiamo seguire la lettura fatta da I. Chiappini (1968) dei registri battesimali di San Lio e indicheremmo la data del 17 ottobre. Antonio proviene da una famiglia di artisti: il padre Bernardo ed il fratello Cristoforo erano infatti pittori di scenografie. Antonio inizia con loro la sua prima esperienza, fatta di collaborazione agli allestimenti scenici nei teatri veneziani” (Bettagno 1982). “Nei primi anni seguitò col padre quell’esercizio, utile per sciogliere la mano e svegliare la fantasia della gioventù e per obbligarla ad operar con prontezza; e fece bellissimi disegni per gli scenari” (Zanetti 1771).

Verso il 1719 Canaletto seguì il padre a Roma, dove i Canal realizzarono le scene del Tito Sempronio e del Turno Aricino di Alessandro Scarlatti, rappresentate al teatro Capranica durante il carnevale del 1720 (Croft-Murray in Constable 1962). Nell’Urbe il giovane Canaletto maturò l’intenzione di abbandonare l’attività teatrale per dedicarsi pienamente alla pittura. Non è forse un caso che proprio in quegli anni operava nella città capitolina, accanto a Panini, Codazzi, e i “bamboccianti” olandesi, quel Gaspar van Wittel che “inaugurò virtualmente la storia della veduta veneziana del Settecento, stabilendone l’impostazione visiva e individuando, per primo, punti di vista che il Canaletto rese famosi” (Briganti 1966).     

Rientrato in laguna Canaletto iniziò un’intensa attività artistica che lo condusse in breve tempo a realizzare, in gran numero, quelle “Venezie” per cui ancora oggi è famoso. Il successo strepitoso delle sue vedute gli procurò importanti commissioni, come la Veduta di Corfù, realizzata per il maresciallo Schulenburg o le famose tombe allegoriche dipinte su richiesta di Owan Mc Swiney.

È da porsi agli inizi del 1730 l'avvio del sodalizio con il banchiere, mercante e collezionista di altissimo lignaggio Joseph Smith. Un sodalizio destinato a lanciare Canaletto definitivamente nel panorama artistico internazionale. Con lo Smith “si viene a stabilire una specie di concatenazione artista-intermediario-cliente-collezionista, che praticamente finisce col determinare una posizione quasi di monopolio dell’intermediario, nella scelta della clientela (nel nostro caso era quasi tutta anglosassone) come nella esclusione dell’artista dai diretti rapporti con il cliente-collezionista. Si è parlato alternativamente di sfruttamento e di mecenatismo: considerazioni opposte su una circostanza che, veduta a distanza e con storica obiettività, ci appare di una evidenza indiscutibile. Un rapporto che, nel caso del Canaletto viene tranquillamente e felicemente accettato dall’artista, il quale forse, proprio in esso ha potuto trovare quell’equilibrio che gli ha permesso più di quindici anni di indefessa produzione ad un livello di creatività tra i più strabilianti. Le poche informazioni che abbiamo su Canaletto sono tutte abbastanza chiare nell’accennare al suo temperamento difficile, spinoso nel trattare, un pittore assillato di commissioni e sempre pronto a discutere sul prezzo” (Bettagno 1982). In una lettera di McSwiney a Lord March, datata 28 novembre 1727, si legge a un dipresso: “l’amico è stravagante, cambia i prezzi ogni giorno; se uno pensa di avere un quadro da lui, bisogna stare attenti a non mostrarsene troppo entusiasti perché si rischia di essere maltrattati sia sul prezzo che sul dipinto. Ha molto più lavoro di quello che possa fare in un tempo ragionevole”. Mentre il 17 luglio 1730 Joseph Smith, evidentemente non ancora “in società” con il pittore, scrive a Samuel Hill: “finalmente sono riuscito ad avere l’impegno dal Canaletto di finire i due pezzi entro un anno; ha un tale seguito e tutti sono pronti a pagare quello che chiede. Ma poiché considera se stesso al di sopra di tutti gli altri pensa di avermi fatto un grande favore: ma non è la prima volta che io sono contento di subire le impertinenze di un pittore a vantaggio mio e dei miei amici”. Ancora più severo il giudizio di McSwiney in una lettera del 27 settembre 1730 a John Conduit: “si tratta di un uomo avido e ingordo ed essendo famoso la gente è felice di pagare quello che chiede”. “Tenendo conto di queste testimonianze mi sembra quasi logico che un uomo dai difficili rapporti umani quale era il Canaletto trovasse nell’intesa con Joseph Smith la soluzione di molti suoi problemi di natura pratica e che finisse non tanto per considerarsi sfruttato, quanto per trovare una «copertura» che gli dava la piena libertà di lavorare senza preoccupazioni materiali. Per un uomo la cui vita appare priva di episodi caratteristici - si direbbe quasi un artista senza biografia – il lavoro deve aver contato più di ogni altra cosa” (Bettagno 1982).    

Joseph Smith, eletto console britannico a Venezia nel 1744, teneva esposte nel suo palazzo ai Santi Apostoli dodici vedute del Canal Grande eseguite dal pittore, vero e proprio campionario per gli ospiti e potenziali acquirenti che frequentavano la sua casa. A scopo prettamente promozionale, Antonio Visentini fu incarico di inciderle assieme ad altri due dipinti raffiguranti la Regata in Canal grande e il Ritorno del Bucintoro al molo il giorno dell’Ascensione. Le quattordici vedute furono edite con il titolo Prospectus Magni Canalis Venetiarum nel 1735. Il successo di questa iniziativa spinse Smith, sette anni più tardi, a pubblicare una seconda edizione con l’aggiunta di altre ventiquattro tavole, sempre incise da Visentini da dipinti del Canaletto.

Il console Smith però non fu solamente un abile mercante, egli svolse anche il ruolo di operatore culturale. Contribuì infatti alla divulgazione dell’architettura palladiana e delle teorie di Newton. “Questo fautore del palladianesimo internazionale, impegnato a fondo nella battaglia illuministica” mise al servizio dell’architettura “le sue risorse - a cominciare dall’immensa biblioteca –”, sollecitando nei suoi salotti continue discussioni.  “Se l’atteggiamento di Smith fosse stato diverso, se si fosse fatto pubblicista d’una tendenza particolare, non avrebbe potuto svolgere la funzione di contatto che gli fu propria, essenziale alla formazione dell’intellighenzia neoclassica in Veneto. [...] Il conte Carlo Lodoli (1690 – 1761), francescano per volontà d’indipendenza, era senza alcun dubbio il personaggio chiave del club Smith, perché il carattere delle sue posizioni obbligava gli altri a risolversi” (Corboz 1985). Questo filosofo militante, fautore di un’architettura razionale e funzionale basata sul corretto uso dei materiali e scevra da inutili ornamenti, fu il primo vero critico razionalista italiano nel campo delle arti visive e soprattutto dell’architettura. Altri illustri membri del “club Smith” furono il marchese Giovanni Poleni (1683 – 1761), “membro delle principali accademie d’Europa, guadagnato alle idee newtoniane al punto da creare a Padova nel 1738 la prima cattedra di «filosofia sperimentale» (cioè fisica)” (Corboz 1985); Francesco Algarotti (1712 – 1764), singolare figura di poligrafo, mercante antiquario e collezionista, “il camaleonte di quest’epoca, cangiante, pieno di charme e intelligenza, avido di piacere, ma ansioso di non compromettersi troppo” (Levey), autore di un’opera divulgativa quale il Newtonianismo per le dame (1737) e del più significativo Saggio sopra l’architettura (1756); Andrea Memmo (1729-1793), seguace delle idee lodoliane e futuro procuratore di San Marco, che nel 1786 pubblicò a Roma gli Elementi dell’architettura lodoliana ossia l’arte del fabbricare con solidità scientifica e con eleganza non capricciosa, i quali a  trent’anni di distanza ripropongono le teorie discusse nel salotto di Joseph Smith  («ero sempre da Smith», dice all’inizio dell’opera, «e Lodoli anche»); Antonio Visentini (1688-1782), pittore, incisore, architetto e teorico dell’architettura, il braccio destro del console, ovvero colui che ne assecondò i progetti e lavorò per alcuni membri del "club".

Lo sconvolgimento europeo, derivante dalla guerra di successione austriaca (1741-1748), ridusse però drasticamente il flusso dei turisti, ponendo fine a quel filone dorato impersonato soprattutto dalla ricca borghesia inglese, che alimentava i guadagni di Canaletto e del suo agente. Fu allora Smith,  con ogni probabilità, a suggerire all’artista di recarsi in Inghilterra. Nel maggio del 1746, all’età di quarantanove anni, con alcune lettere di presentazione e di raccomandazione del console, Canaletto giunse a Londra. “Malgrado tale altolocata protezione, il soggiorno londinese non deve essere stato per il pittore veneziano molto semplice, anche per i difficili rapporti con gli artisti locali. Questi infatti cercarono di screditarlo, diffondendo la voce che egli non fosse il vero Canaletto, quanto piuttosto suo nipote, quel Bernardo Bellotto che nel 1747 aveva a sua volta abbandonato Venezia. Canaletto reagì alla provocazione inserendo un annuncio sul «Daily Advertiser» del 1749 e del 1751, invitando gli amatori d’arte ad andarlo a veder dipingere nello studio a Silver Street (l’attuale Beak Street presso Regent Street, nel centro di Londra). Ma nonostante questa ostilità, Canaletto a Londra ebbe numerose commissioni e della sua permanenza in Inghilterra restano una cinquantina di grandi vedute, alcune delle quali di elevatissima qualità” (Pedrocco 1995).

L’artista rimase in Inghilterra fino al 1755, ritornando una prima volta a Venezia per otto mesi alla fine del 1750, allo scopo di investire il denaro guadagnato. Un secondo rientro è documentato da Pietro Gradenigo, che in data 28 luglio 1753 scrive: "Antonio Canaletto Veneziano celebre Pittore da Vedute ritorna in da Inghilterra in Patria”. Questo secondo soggiorno nella città natale deve esser stato più breve del precedente, viste le numerose vedute realizzate in Inghilterra già nell’anno successivo (Pedrocco 1995). Migliorata la situazione politica europea, i turisti ritornarono in buon numero a visitare Venezia e l’artista riprese a riprodurre i temi famigliari della laguna.

Nel 1763, a seguito del decesso di tre membri (Giuseppe Camerata, Antonio Guardi e Giorgio Giacoboni), l’Accademia di pittura e scultura di Venezia provvide all’elezione dei soci destinati a sostituirli. La domanda presentata da Canaletto venne però respinta. Gli furono preferiti Francesco Zuccarelli, Petro Gradizzi e Francesco Pavona. Fortunatamente a tale sgarbo si rimediò nel settembre dello stesso anno quando il grande vedutista venne chiamato a coprire il posto lasciato dalla morte di Giuseppe Nogari.

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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CANALETTO - lo stile pittorico

Come ricordato da Zanetii (1771), l’artista una volta lasciato “il teatro, annojato dalla indiscretezza de’ Poeti drammatici” e trovandosi a Roma, “tutto si diede a dipingere vedute dal naturale. Bei soggetti ei trovò quivi nel genere spezialmente dell’antichità”. Sulla scorta di questa ed altre fonti Antonio Morassi (1956 e 1966) rese note alcune vedute ideate ed altre con rovine romane, sicuramente collocabili a ridosso della sua giovanile esperienza romana. Due di queste (Venezia, già collezione Cini) presentano grandiose rovine “suggestivamente impaginate con gusto scenografico alla Bibiena, ma calate in una drammatica partitura luminosa, inchiostrata d’ombra densa e affocata, attentissima al dato naturale, chiaramente «preromantica» sulle tracce dei pensieri di Salvator Rosa e soprattutto di Marco Ricci (Valcanover 1982).

“D’altra parte a Venezia le vedute ideate di Marco Ricci costituivano sempre esempi fecondi di insegnamento anche per il giovane Canaletto. Agli inizi della sua attività pittorica, ancora a Roma, o in ogni caso appena tornato a Venezia (dove figura nella Fraglia del 1720), v'è tutta una serie di vedute di soggetto romano e di altre propriamente «ideate», caratterizzate da una tensione chiaroscurale molto accentuata, che si differenziava dalla limpida intonazione vanvitelliana: pur « scomunicando» la scenografia il pittore ne accoglieva certi principi fondamentali nel mettere in forma aspetti e situazioni pittoresche di Roma, imprimendo al monumento classico, degradato a rudere, una intonazione fantastica già prepiranesiana. Quella concitazione di effetti chiaroscurali non derivava soltanto dalle ombre pesanti del Codazzi, ma era il segno evidente che il giovane pittore risentiva di quella corrente di gusto, di carattere «tenebrista», che faceva capo al Piazzetta, al Bencovich, alla Lama e al primo Tiepolo. [...] Fin da queste prime tele la macchietta canalettiana si caratterizza in modo originale: sono figurette di ogni estrazione sociale, ma il più delle volte tipizzate alla picaresca, si direbbe improvvisate, come se recitassero in un teatro dell’arte con modi pittorici sciolti, corsivi, a colpi di luce, e con un ricordo del mondo dei Bamboccianti” (Pallucchini 1994).

Attorno al 1726 Owen McSwiney, subito dopo aver convinto l’artista a collaborare con Pittoni, Cimaroli e Piazzetta per la realizzazione di due tele con tombe allegoriche, dedicate ai personaggi celebri della storia inglese e commissionate dal duca di Richmond,  lo spinse a dipingere per lo stesso committente due Vedute di Venezia su rame. “In queste opere di piccolo formato, spedite in Inghilterra nel 1727, il Canaletto abbandona i modi drammatici, fortemente chiaroscurati della sua fase giovanile, per rivolgersi a una luminosità intensa che esalta la precisione nella resa dei particolari della veduta e delle architetture che la compongono. Quanto abbia influito su questo ulteriore passaggio il consiglio di McSwiney non è facile dire; ma l’impressione è che il desiderio del mediatore di avere opere più consone al gusto degli acquirenti inglesi e quindi più precise topograficamente e accurate nella resa pittorica abbia trovato perfetta rispondenza nel pittore, accelerando un processo ormai in atto. Del resto proprio in questi stessi anni cominciavano a essere conosciute a Venezia le teorie scientifiche newtoniane sulla luce e sulla scomposizione dei colori da un lato e sullo spazio assoluto dall’altro; e pare del tutto credibile l’ipotesi di quanti ritengono che il giovane pittore possa aver conosciuto e apprezzato tali novità rivoluzionarie che giungevano dall’Inghilterra” (Pedrocco 1995).

Ha inizio così la produzione di quelle celebri Venezie dove il segno nitido e fermo ritrae l’incomparabile bellezza della città. In questa nuova fase della sua attività “le vedute ideate e i capricci passano dal loro status marginale a quello di molla segreta di tutta quanta l’opera”. A volte infatti “gli elementi conservano la loro identità, ma i rapporti che li uniscono ricevono una nuova organizzazione. [...] A volte i cambiamenti sono minimi, e riguardano la «piccola percezione»; a volte si tratta invece di metamorfosi considerevoli” (Corboz 1985). Canaletto insomma si stacca dalla tradizione in modo quanto meno originale: “rinunciando alla rovina, questo manipolatore abbandona l’evocazione vaga del tempo per operare esclusivamente hic et nunc, in altri termini sulle architetture contemporanee, tuttora in uso, d’una città precisa, la sua” (Corboz 1985). Campione evidente di questa prassi è la Veduta del bacino di San Marco del Museum of Fine Arts di Boston, dove la chiesa e il convento di San Giorgio, al centro del bacino, non guardano più verso la Piazzetta e la Libreria marciana ma si ritrovano spostati di alcuni gradi verso sinistra, ovvero verso il nostro punto di osservazione, per meglio rispondere ad esigenze sceniche.   

Si ha allora “l’impressione precisa che Venezia sia stata davvero la musa geniale della pittura canalettiana” (Pallucchini 1941): “poeta non solo dell’astratta poesia della materia pittorica e del gesto grafico fine a sé stesso ma di respiro sufficientemente ampio da riassumere come ‘motivo’ lo stesso dato ‘fotografico’, anche dove per avventura mostrasse di esservisi ‘passivamente’ attenuto. Anzi: quando pure tale aspetto fotografico si volesse mentalmente separare e separatamente valutare, a prescindere – rovesciando il procedimento dianzi seguito – dalla qualità della ‘materia’ e dal carattere del segno, converrà anche riconoscervi la presenza di pressoché tutti i requisiti che oggi siamo soliti richiedere alla fotografia perché essa sia opera d’arte. [...]  E la scelta del soggetto dell’ora della temperie meteorologica, la predisposta ‘inquadratura’, la sapienza del ‘taglio’, l’impiego eventuale di teleobiettivi e di grandangolari, il non fortuito ricorso al ‘fotomontaggio’ sarebbero in ogni modo e per altra via bastevole arra di originalità: indizi o spie della libertà fantastica dell’artista. L’originalità (in tal caso) del fotografo di genio; che costruisce il proprio discorso servendosi come di parole di aspetti o frammenti della realtà visiva (e del regista che mette in scena il proprio spettacolo e assegna le parti a proprio talento, secondo il proprio giudizio): originalità di tanto maggiore in quanto pochi e malcerti passi erano stati da altri tentati su tale strada. Onde gli spetta altresì il titolo di iniziatore, poiché è solo con Canaletto che il paradigma della verità fotografica entra veramente nella storia della pittura, impegnando anche i più restii a fare i conti con essa. Originalità grafica e originalità fotografica” (Gioseffi 1959).

“Il modo in cui Canaletto, in certi periodi, lavora simultaneamente veduta e capriccio indica già che non sono ai suoi occhi generi distinti, ma due aspetti equivalenti d’un medesimo campo d'esperienza” (Corboz 1985). Il Capriccio con edifici palladiani della Galleria Nazionale di Parma, rappresenta il manifesto di questo “nuovo genere [...] di pittura, il quale consiste a pigliare un sito dal vero, e ornalo di poi con belli edifizi o tolti di qua e di là ovveramente ideale” (Algarotti 1792). In questo caso il ponte disegnato da Palladio sostituisce quello di Rialto mentre il palazzo Chiericati (Vicenza) del medesimo Palladio così come la Basilica di Vicenza, si affiancano ai lati.     

"È stato molto giustamente osservato (Constable 1962) che l'esistenza, invero abbondante, d'opere di gusto canalettiano, la cui scadente qualità elimina ogni ragionevole sospetto di autografia, è spiegabile, in larga misura, tenendo conto della 'imitabilità', della pittura di veduta, e di quella di Antonio in ispecie: tanto più, poi, che da un lato le incisioni, facilmente divulgabili e di fatto assai divulgate, consentivano la possibilità di confezionare, in quantità e con grande rapidità, prodotti di una certa evidenza canalettiana, prescindendo dall'esperienza diretta dei prototipi dipinti, assai più difficilmente disponibili, anche ben oltre il raggio di un milieu di scolari e di seguaci presenti e attivi nell'ipotetica bottega: e che, d'altro lato, la fortuna del maestro sul mercato artistico non poteva non sollecitare un'azione imitativa, estesa e indiscriminata" (Puppi 1968).

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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Luca Carlevarijs (Udine 1663 - Venezia 1730)

 

 

 

Luca Carlevarijs, Piazza San Marco con i ciarlatani, Potsdam, Staatliche Gemäldegalerie

 

 

 

CARLEVARIJS, Luca - note biografiche

Luca Carlevarijs nacque a Udine, nella parrocchia di Santa Chiara il 20 gennaio 1663. Alla morte del padre Giovanni Leonardo (1679), architetto e pittore, decise, sedicenne, di trasferirsi a Venezia con la sorella Cassandra, prendendo alloggio nei pressi di Ca’ Zenobio, in una casa di proprietà del monastero dei Carmini (Mauroner 1945).
“In freschezza di età passò a Roma, ove indefesso si diede da sé medesimo a copiare in carta in varie vedute e in ogni prospetto quanto v’avea d’antico non meno che le moderne fabbriche ritraendole e dentro e fuori; e già dagli eredi del Carlevaris aveva più volte nominato Giammaria Sasso acquistati moltissimi di quei disegni e schizzi, parte a penna e parte con inchiostro della China [...]. Diedesi quindi il Carlevaris il primo a ritrarre vedute; ed alcune ne fece di Roma, alcune della sua patria di cui una dal Sasso si possedeva. Ma come giuns’egli al cominciare del secolo in Venezia, ebbe agio di soddisfare al suo genio ritraendovi infinite Vedute, cui andavano a gara per ottenere i forestieri, fra’ quali gl’Inglesi; ed in Venezia poi ottenne il nome di Luca di cà Zenobio, poiché questa patrizia famiglia gli assegnò nobile appartamento nel proprio palazzo” (Moschini 1806).
“Quando va posto il viaggio romano? Abbiamo una data ante quem, cioè il matrimonio che il Carlevarijs contrae a Venezia nel 1699, ma null’altro: se si considera che tale matrimonio presuppone un meditato reinserimento nella vita lagunare, l’opinione del Buscaroli (1935), di porre tale viaggio tra il 1685-90, è plausibile e convincente. Ed è verosimile che in quell’occasione Luca si sia fermato anche a Firenze e a Bologna, come avvertono la pluralità delle sue fonti ispirative e l’affermazione del Guarienti [1753].
Dunque, allo spirare del secolo XVII, il Carlevarijs convolò a giuste nozze, impalmando la figlia dell’orefice Bastian Succhietti, di nome Giovanna. Gli fu testimone il conte Pietro Zenobio, appartenente all’omonimia famiglia che gli offrì larga protezione, procurandogli il soprannome di Luca da Ca’ Zenobio. Non è azzardato pensare che il viaggio in Italia centrale sia stato favorito dai suoi mecenati, coi quali dovette avere precoci consuetudini d’affetto, dato che la sua casa era a pochi passi dal palazzo Zenobio e che i nomi dei suoi sostenitori, e quelli di altre famiglie nobiliari, ricorrono anche successivamente, in occasione del battesimo dei figli. Pochi mesi dopo la nascita dell’ultimogenita, gli venne a mancare la moglie, appena ventisettenne.
Nel 1703 il Carlevarijs pubblicò la monumentale raccolta di acqueforti de Le fabriche, e vedute, che segnano l’inizio di una nuova stagione della sua attività artistica e di autorevoli commissioni: come quelle di Stefano Conti (1704), collezionista e uomo d’affari di Lucca, del conte di Manchester (1707), del re di Danimarca (1709), e tante altre” (Rizzi 1967).   
Iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani dal 1708 al 1713, quindi dal 1726 al 1728 (Favaro 1975), dominò con una vasta produzione di Vedute e Capricci il mercato veneziano fino al volgere del secondo decennio del 1700, ovvero “finché fu superato dal suo discepolo Antonio Canal [Canaletto]. Fama è anzi che del dolore egli ne morisse” (Moschini 1806).
Luca Carlevarijs fu colpito nel 1728 da una paralisi progressiva che lo condusse alla morte il 12 febbraio del 1730.
Una delle sue figlie, Marianna, divenne pittrice alla scuola di Rosalba Carriera.

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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CARLEVARIJS, Luca - lo stile pittorico

“Non ha avuto positivo Maestro, ma ha studiato or qua or là. In piccolo, in porti di mare, e in paesini con vaghe figure dipinti, si portò tanto bene, che merita se ne faccia degna memoria” (Guarienti 1776).
Bisogna innanzi tutto premettere che la critica recente ha ormai dimostrato come il clima culturale e pittorico della vivacissima Venezia del tempo poteva aver influenzato l’artista tanto quanto un giovanile viaggio a Roma.
“Nel campo della veduta ideata (con porti di mare, ruderi antichi, costruzioni medioevali ecc.), il soggiorno a Venezia di Johann Anton Eismann, tra il 1685 ed il 1700, costituisce l’antefatto per il gusto del Carlevarijs in questo genere. La conferma del rapporto tra il giovane pittore ed il maestro di Salisburgo, come ha pro­vato l’Antoniazzi Rossi [1977], viene dalla citazione, nell’inventario della collezione del maresciallo Mattias Johannes von der Schulenburg, di dipinti rappresentanti «delle vedute marine con dei velieri, un castello e delle piccole figure», citate come opere di «Isman, e le figure di Carlevari». Quale autore di macchiette, il Carlevarijs doveva aver riportato dal suo viaggio romano il ricordo dei «bamboccianti», come pure, in tutt’altro campo, deve aver fatto conto degli esempi vedutistici, inappuntabili prospetticamente ma pittoricamente vuoti, di Gaspar Van Wittel (Vanvitelli), che nel 1694, durante la sua tournée nell’Italia del nord aveva visitato Venezia (la sua Veduta del bacino di San Marco del Museo del Prado è datata 1697). Il Moschini (1806) non aveva mancato di citare nella formazione del friulano un altro elemento, quello del Cavalier Tempesta, a Venezia dal 1697 al 1700, che era il tramite di una concezione paesistica legata ai modi di Gaspare Dughet e di Salvator Rosa” (Pallucchini 1994).
“Prima di Marco Ricci, che gli è di tredici anni più giovane, Luca Carlevarijs [...] dà l’avvio ad un nuovo genere pittorico del paesaggio: un paesaggio fantasioso fatto di rovine romane frammiste ad architetture di città e castelli, con porti pieni di navi e affollati di gente” (Morassi 1950).
“Ma quella che ci interessa è la sua opera di creatore della veduta Veneziana, sia in pittura che in acquaforte. Creazione fatta con una personalità così forte e sicura che, attraverso il suo sommo allievo Canaletto ed i suoi continuatori fino ai primi dell’800, le composizioni sue si ripetono quasi immutate nel taglio e perfino nelle disposizioni delle figure” (Mauroner 1931).
"Il suo passaggio dal paesaggismo al vedutismo è segnato dalla realizzazione della raccolta di 104 incisioni intitolata Fabriche, e Vedute di Venetia, data alle stampe nel 1703, ma frutto di un lungo lavoro preparatorio che deve aver impegnato l'artista per qualche anno, e dall'esecuzione di una serie di tele raffiguranti solenni ingressi di ambasciatori stranieri, venuti a presentare le proprie credenziali al governo della Serenissima" (Pedrocco 1995). 
Nell'opera incisoria, "che costituisce il presupposto basilare per lo svolgimento del vedutismo veneziano, l’attenzione dell’artista è rivolta non solo agli edifici sacri e civili di maggior richiamo, postulando in questo senso una scelta critica, ma anche ad inscenature di più largo raggio visivo, inglobanti gruppi di costruzioni colte nel loro ambiente particolarmente pittoresco, dove i cieli, specchiandosi nelle acque, suggeriscono scenografie di valore dinamico ed arioso” (Pallucchini 1994).
“Innovatore nel genere paesaggistico e riconosciuto capostipite dei vedutisti veneziani del Settecento, Carlevarijs rappresentò la sua città d’elezione con fedeltà documentaria, non solo valendosi delle sue cognizioni matematiche nel campo della prospettiva e dell’architettura, o di mezzi meccanici come la camera ottica, ma soprattutto partecipando con più pronta cordialità allo spettacolo della realtà visibile [...]. Questa sua innata propensione realistica si manifesta in maniera esemplare nelle scelte e nel trattamento delle macchiette. Si tratta di presenze vive e reali, circolanti in piena libertà nell’ambiente architettonicamente definito e paesaggistico” (Reale 1982).   
“Alla metà del terzo decennio del secolo dovrebbe appartenere un gruppo di opere in cui è visibile l’intervento di collaboratori, soprattutto nelle macchiette, che assumono un andamento più sofisticato e rocaille. Di chi può essere questa mano? Su basi congetturali e a titolo di esperimento proporrei il nome della figlia del Carlevaijs, Marianna, che nasce nel 1703: le sue testimonianze pittoriche sono molto scarse, ma sufficienti ad indicare una spiccata simpatia per i modi «internazionali» e «mondani» della Carriera, interpretati in chiave realistica, sotto lo stimolo paterno. Ed è proprio questo spirito, di rinuncia alla dimensione umana e alla carica individuale delle figure per una stesura più anonima e decorativa, che caratterizza una silloge di vedute tarde di Luca, peraltro vitalizzate dalla sua intelligente regia” (Rizzi 1967). Comunque sia, il suo unico allievo non “ideale” fu lo svedese Johann Richter (Stoccolma 1665 -  Venezia 1745), la cui presenza a Venezia s’inserisce “tra la piena maturità di Carlevarijs e il nascente astro di Canaletto, prima della cui piena affermazione Richter seppe conquistarsi un posto nelle collezioni locali e anche in quelle degli stranieri di passaggio per Venezia” (Reale 1994). 
In conclusione con Carlevarijs “s’impone a Venezia un genere vedutistico che diverrà di facile consumo specialmente tra gli stranieri in visita turistica, secondo la moda del tempo. Come è noto, era consuetudine della nobiltà inglese fare un viaggio nel Continente; nel «gran tour» era di prammatica la visita in Italia” (Pallucchini 1967). 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

 

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Giovanni Battista Cimaroli (Salò 1687 – Venezia 1771)

 

 

 

 

CIMAROLI, Giovanni Battista - note biografiche

Gli scarsi studi su Giovanni Battista Cimaroli, tra i quali si segnalano il fondamentale saggio di Antonio Morassi (1972) e il capitolo riassuntivo di Rodolfo Pallucchini (1996, pp. 292-297), si sono recentemente arricchiti dei contributi di Ugo Ruggeri (1999) e di Federica Spadotto (1999) che hanno consentito di meglio lumeggiare la figura di questo petit-maître specialmente per quanto concerne il periodo iniziale della sua attività. Nato a Salò nel 1687 Cimaroli, secondo la testimonianza del contemporaneo Pietro Guarienti (Orlandi, Guarienti 1753, p. 272), «studiò in Brescia la pittura sotto Antonio Aureggio, e Antonio Calza pittori paesisti, e lavorò per commissioni venutegli dall'Inghilterra, e da altre città lontane, che gradivano i suoi dipinti. Vive a Venezia». Dopo un soggiorno a Bologna dal 1711 al 1713, l'artista si trasferì a Venezia nell'estate dello stesso anno per sposarsi con Caterina Pachman, una sconosciuta pittrice di genere, come risulta dagli inventari Schulenburg (Binion 1990, p. 213). Nel 1726 Cimaroli doveva essere un artista già affermato perché in quell'anno venne chiamato a collaborare - nella parte relativa agli alberi - alla nota serie di quadri con le Tombe allegoriche di illustri personaggi britannici commissionati da Owen McSwiny mentre ad altri maestri (Canaletto, Pittoni, Piazzetta, Balestra, Valeriani, Mirandolese) fu affidata la stesura delle figure e degli elementi architettonici (Mazza 1976). In queste curiose opere, osservava Morassi (1972, p. 167), «non è difficile individuare il carattere dell'arte del Cimaroli, osservando i tronchi alti, i rami allungati, il fogliame ben delineato con fare meticoloso, le foglioline distaccate; e la prospettiva aerea digradante in successioni sempre più trasparenti e leggere. Una volta afferratolo, questo "stile" salta agli occhi e chi... ha memoria non lo dimentica facilmente». Le uniche notizie rimasteci sulla lunga permanenza dell'artista nella città lagunare riguardano l'iscrizione nella Fraglia dei pittori veneziani dal 1726 al 1737 (Favaro 1975, p. 159), la nascita di due figli nel 1722 e nel 1725 (come risulta dai registri della Parrocchia di Santa Maria Zobenigo dove abitava) e la morte avvenuta il 12 aprile 1771 (Spadotto 1999, p. 137, note 17, 20). Un interessante accenno all'attività di Cimaroli è contenuto nella lettera del 14 luglio 1725 scritta da Venezia da Alessandro Marchesini al collezionista lucchese Stefano Conti (Succi, Delneri 1993, p. 338), nella quale si menziona un «virtuosissimo pittore paesista» le cui opere «sono in grandissima stima qui, e in Londra, che presentemente opera per questi Signori inglesi ed è pittore di molto prezzo, ma una maniera assai terminata». Questo paesista molto affermato va identificato nel Cimaroli, come risulta da una annotazione in calce alla stessa lettera in cui il nome è storpiato in Cingheroli". interessante notare come Marchesini, in risposta alla richiesta di commissionare a un artista veneziano un quadro che potesse fare da pendant a un paesaggio di Francesco Bassi detto il Cremonese già presente nella galleria di Stefano Conti, offrisse al collezionista lucchese la possibilità di scegliere tra Cimaroli e Marco Ricci anche se le sue preferenze andavano chiaramente a Ricci, qualificato come eccellente «pittore [...] maraviglioso per far vedute, bizzarri siti di fabbriche al gusto di Pussin con colorito spiritoso, e lucido che incanta». Per Marchesini la »maniera assai terminata» dei dipinti di Cimaroli era evidentemente intesa come un limite, mentre l'acquisto dei paesaggi ricceschi avrebbe reso la galleria Conti «di un gusto non più veduto». E in effetti l'incarico venne conferito a Marco Ricci, come risulta dalla successiva lettera del 21 luglio 1725 (ibidem) in cui l'agente afferma che era venuta meno l'opportunità di contattare anche Cimaroli: «Non parlo altro dell'altro virtuoso Cigneroli giacché il Sig. Ricci lo conosco più capace e di maggior stima». Alla fase iniziale dell'ancora oscuro itinerario artistico di Cimaroli appartengono le sorprendenti «varie scene di chiostro monacale» descritte da Fenaroli nel Dizionario degli artisti bresciani (1877, p. 102), due delle quali sono state ritrovate da Spadotto (1999, p. 138). I dipinti, databili intorno al 1710, già denotano, pur nella diversità del genere, la peculiare propensione dell'artista per l'accurata resa dei dettagli e per la fresca bonomia delle ingenue figurette. La notorietà di cui dovette godere Cimaroli è confermata dal fatto che i suoi dipinti figuravano nelle più importanti collezioni veneziane di artisti contemporanei. Joseph Smith possedeva almeno sei quadri del pittore salodiano, che furono venduti insieme alle sue raccolte nel 1762 a Giorgio III; di quel gruppo restano nella Royal Collection solo tre tele ovali di mediocre qualità, acquistate probabilmente negli anni venti, prima che il raffinato conoscitore avesse avuto modo di apprezzare la succosa e spumeggiante maniera di Zuccarelli (Levey [1964(b)] 1991). La galleria Schulenburg annoverava un tipico pendant con «Paesi con animali e acque», acquistato il 9 marzo 1731 per venti zecchini (Binion 1990, p. 137) che non doveva essere molto diverso dall'inedito Paesaggio fluviale con borgo antico e cavalieri, vagamente ispirato alla bella acquaforte di Marco Ricci raffigurante un Villaggio con traghetto sul fiume (Succi, Delneri 1993, p. 313). Nella stessa collezione si trovavano tre vedute di Venezia, e precisamente una «Prospettiva delle Zattere», acquistata 18 febbraio 1736 per 20 zecchini e una coppia di vedute con la Dogana e la chiesa della Carità, per la quale era stata sborsata la notevole somma di 50 zecchini il 12 luglio 1736 (Binion 1990, pp. 137, 147, 151). Cimaroli fu infatti anche un apprezzato vedutista, ma la sua maniera appare sostanzialmente tesa all'imitazione dei modelli canalettiani, come ricordava ben a proposito nel 1736 il conte Charles de Tessin in una lettera spedita da Venezia a Stoccolma: «Cimaroli peint dans le même gout [del Canaletto], mais n'est pas encore arrivé au bout de l'échelle, du reste gaté par les Anglais qui out imaginé que le plus petit de ses tableaux vaut 30 sequins» (in Sirèn 1902, p. 104). Tra le vedute di Cimaroli va ricordato il capolavoro raffigurante La caccia dei tori del 16 febbraio 1740 in piazza San Marco in onore del principe di Sassonia Federico Cristiano che, come ho già avuto modo di osservare (Succi, Reale 1994, p. 282), costituisce un importante punto di riferimento nella scarsamente documentata produzione cimaroliana e un'eccezionale testimonianza iconografica nella storia dell'arte veneziana del Settecento.

 

 

Dario Succi

 

 

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CIMAROLI, Giovanni Battista - lo stile pittorico

Ben presto il pittore si specializzò nella pittura di genere (paesaggio e veduta) maturando quello stile definito e meticoloso che si esprime nella descrizione accurata degli alberi, delle figure ben caratterizzate di contadini, nobili e borghesi, del bestiame dall'andatura placida e sonnolenta. La varietà dei paesaggi cimaroliani è sostanzialmente riconducibile a un repertorio tipico di temi arcadici, talvolta frammisti a rovine classiche o a ville, boschetti, villaggi rustici collocati ai bordi di amene fiumane.
Particolarmente piacevoli sono i dipinti ambientati in paesaggi che ricordano la riviera del Brenta, talvolta animati da processioni e sagre paesane inserite in curiose invenzioni a capriccio nelle quali l'acqua smeraldina del fiume si snoda tra sontuosi palazzi, chiese rinascimentali e umili casette che compongono un aggraziato bouquet che accomuna nobiltà, borghesia e popolo in una sorta di convivenza spensierata nel placido fluire del bel tempo antico.

Mentre nelle vedute Cimaroli si ispira alla maniera di Antonio Canal, nei paesaggi i riferimenti oscillano tra Marco Ricci e Francesco Zuccarelli, che dalla natia Toscana si era trasferito a Venezia nel 1732. Le suggestioni della natura arcadica zuccarelliana, è privata però del sostanzioso pittoricismo e connotata da un impasto materico sottile e liscio, elementi che caratterizzano larga parte della produzione del salodiano già resa nota dai vari studiosi - meno consueto è il richiamo alla grande arte riccesca. Talora il Cimaroli fonde in maniera magistrale le suggestioni riccesche e zuccarelliane. Molto rara - nei dipinti cimaroliani e già segnalata da Ruggeri con riferimento a un pendant conservato in una collezione privata inglese (1999, p. 274) è la collaborazione con  Francesco Fontebasso. Pittore gradevole, Francesco fu attento a soddisfare le esigenze di un collezionismo internazionale che richiedeva quadri piacevoli, luminosi e rifiniti con cura.
 

 

Dario Succi

 

 

 

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Gaspare Diziani  (Belluno 1689 - Venezia 1767)

 

 

 

 

 

DIZIANI, Gaspare - note biografiche

Nato a Belluno nel 1689 e morto a Venezia nel 1767, Gaspare Diziani si trasferì all'età di venti anni nella città lagunare dove, dopo una breve frequentazione della scuola di Gregorio Lazzarini, fu allievo di Sebastiano Ricci restando affascinato dal cromatismo luminoso e dalla raffinata sensibilità rococò del conterraneo. Nel 1717 l'artista, al seguito dello scenografo Alessandro Mauro, si trasferì a Dresda dove rimase per tre anni operando «con molta sua gloria» nei teatri di quella città al servizio di Federico Augusto, principe elettore di Sassonia (Temanza [1738] 1963, p. 13). Rientrato nel 1720 a Venezia - risulta infatti iscritto nei registri della Fraglia per quell'anno - Diziani fece qualche anno dopo un viaggio a Roma «per servire l'Illustre Cardinale Ottoboni in un magnifico apparato in san Lorenzo in Damaso, terminata la qual operazione volle di bel nuovo trasferirsi a Venezia, quantunque l'appoggio di così Celebre Porporato potesse essergli di gran giovamento in quele parti» (ibidem). Pittore estremamente versatile e attivissimo, dotato di una «esuberante facoltà creativa che in guisa di pieno torrente dilatò la sua spiritosa fantasia, con inventare, e colorire, coprendo tele grandissime per Chiese, e Palazzi» (Alessandro Longhi, 1762), l'artista passò disinvoltamente dalla decorazione teatrale all'affresco, dai dipinti da cavalletto con soggetti sacri o mitologici alle pale d'altare, non disdegnando di cimentarsi con la scena di genere ambientata entro ameni sfondi paesistici di gusto vagamente riccesco. Zugni Tauro (1971, figg. 142-150) ha attribuito all'artista vari dipinti in collezioni private raffiguranti feste e zuffe di contadini, bivacchi militari, conversazioni all'interno di una stalla, caratterizzati da un realismo rusticano da cui prenderà le mosse il figlio Antonio per un nuova e schietta interpretazione della natura e del paesaggio. Ma più che in queste tele, che Pallucchini (1996, p. 102) giustamente qualificava come «realizzate con modi pittorici sgraziati e violenti» e che andrebbero, a mio avviso, restituite alla mano del poco dotato e conosciuto figlio Giuseppe, Gaspare Diziani eccelse in alcune bellissime opere raffiguranti assalti e combattimenti di briganti ambientati entro suggestivi paesaggi prealpini.

Un altro aspetto poco approfondito della tematica dizianesca è quello del vedutismo, di cui l'unico esempio finora conosciuto era costituito dalla grande tela (167 x3 29 cm.) raffigurante La sagra notturna di Santa Marta conservata nel Museo di Ca' Rezzonico. La festa popolare, che si svolgeva d'estate sul canale della Giudecca, diventa pretesto per una composizione scenografica che si avvale di una miriade di corpose "figurette" e di una moltitudine di imbarcazioni in pittoresco disordine. Nel suggestivo notturno dello splendido panorama lagunare, sotto il cielo mosso da nuvole grigio-argentee, la composizione si snoda scenograficamente a sinistra con la sequenza di palazzi verso la punta estrema dell'isola della Giudecca, chiusa dall'antichissima chiesa dei Santi Biagio e Cataldo. Al centro, la deliziosa isola di San Giorgio in Alga con il campanile aguzzo spunta solitaria dalle acque mentre più in là, sorvegliato dalle case di Lizza Fusina immerse nel verde, il fiume Brenta sbocca nella laguna circondato dai dolci profili montani. L'attribuzione di questa veduta, proveniente dal fondo Correr (1830), a Gaspare Diziani risale agli antichi inventari (Lazari 1859) e non è mai stata posta in discussione, come pure la datazione intorno al 1750 proposta da Zugni Tauro (1971, p. 94) basata essenzialmente su elementi stilistici, cioè sulle finezze e trasparenze atmosferiche che sarebbero «tipiche del Diziani dell'ultimo periodo». Proprio per tale motivo ritengo preferibile una datazione più avanzata, tra il 1755 e il 1760. Quel che interessa rilevare è che questa veduta, costruita con una disinvoltura che presuppone precedenti esperienze specifiche, non costituisce come si è finora ritenuto - un unicum nella produzione del maestro bellunese. L'aggiunta del genere vedutistico alla cospicua e variata produzione pittorica di Diziani conferma le sue doti di virtuoso del pennello, di artista appassionato e attento - con eccezionali capacità assimilatrici - alle più diverse maniere espressive dei grandi e piccoli maestri del gusto figurativo barocco e rococò.

 

 

 

 

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DIZIANI, Gaspare - lo stile pittorico

 

 

 

 

 

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Gianfrancesco Costa (Venezia 1711 - 1772)

 

 

 

 

 

COSTA, Gianfrancesco - note biografiche

Gianfrancesco Costa, scenografo, architetto, incisore e pittore, nasce a Venezia nel 1711. Fu allievo di Girolamo Mengozzi Colonna, famoso decoratore di prospettive architettoniche, insieme al quale lavorò come scenografo per il teatro San Giovanni Grisostomo a partire dagli inizi degli anni Trenta. Il suo nome compare nei registri della fraglia veneziana dal 1734 al 1771 (Favaro 1975, p. 159). Nel 1742 si trasferì a Torino per collaborare con Giovanni Battista Crosato nelle scenografie per il Teatro Regio. Nel carnevale del 1743 i due artisti allestirono le scenografie del Caio Fabrizio (Zeno-Auletta) e del Tito Manlio (Metastasio-Jommelli). Dopo un rientro a Venezia, l’artista, su invito del nuovo direttivo del Teatro Regio, ritornò a Torino nel 1744 per dipingere le scene del Poro (Metastasio-Gluck) e de La conquista del vello d’oro con musica di Sordella (Viale Ferrero 1980, p. 521). A quegli anni risalgono la prima serie di dieci incisioni di soggetto archeologico – di cui una datata 1743 – intitolata Rovine d’archi templi terme anfiteatri sepolcri et altri edifizzi sul gusto antico “nella quale l’artista ci offre una elegiaca rievocazione dell’antichità senza indulgere al capriccio pittoresco” (Dillon 1984, p. 201). Nel 1746 apparve a Venezia, presso l’editore Pasinelli, una riedizione del trattato Delli cinque ordini di architettura di Andrea Palladio Vicentino illustrata da Costa, autore della decorazione del frontespizio e di cinque vignette ornamentali. Nel 1747 venne pubblicato, presso Pasquali, il volumetto Elementi di prospettiva esposti da Gian Francesco Costa architetto e pittore veneziano, adorno di ventidue graziose tavole illustranti le tecniche prospettiche. Il 6 gennaio 1747 l’artista chiese al Senato la concessione del privilegio privativo per quella che sarebbe divenuta la sua opera più celebre Le Delizie del fiume Brenta, comprendente 140 tavole con 136 vedute. Nella supplica si evidenziava che l’opera sarebbe stata “faticosissima e dispendiosissima, che avrebbe richiesto incredibile fatica di tempo per la esattezza delle misure per le quali si sarebbe resa necessaria la sua continua assistenza” (Gallo 1941, p. 168). Il Senato concesse il privilegio ordinario decennale il 21 marzo 1747. Verso il 1748-1749 appresso l’autore venne pubblicata la prima edizione del primo tomo con settanta tavole illustranti i palazzi e i casini lungo le rive del placido corso d’acqua che nel Settecento era considerato come un prolungamento del Canal Grande. L’itinerario inizia con la Veduta di Lizza Fusina dove il Fiume Brenta sbocca nella Laguna di Venezia, caratterizzata da una notevole ariosità atmosferica, concludendosi con la Veduta del Palazzo del N.H. Farsetti. Nel 1756 vene ultimato il secondo tomo con vedute da Dolo fino alla porta Portello di Padova. Nel 1751 incise il curioso foglio La vera configurazione della Femina Rinoceronte veduta in Venezia […]. Nello stesso anno Costa riprese una intensa attività scenografica per il teatro San Samuele, come risulta documentato dai libretti delle opere rappresentate tra il 1751 e il 1755 (Dillon 1984, p. 202). Come architetto progettò, su incarico della famiglia Grimani, proprietaria anche dei teatri San Samuele e San Giovanni Grisostomo, il nuovo teatro di San Benedetto che venne edificato tra il 1755 e il 1756 e per il quale curò le scenografie per varie opere eseguite tra il 1756 e il 1759. Nel 1760-1762 lavorò per il teatro Sant’Angelo; nel 1763-1764 di nuovo per quello di San Samuele. In data 4 settembre 1765 Pietro Gradenigo annotava che il re di Polonia aveva chiamato alla propria corte l’artista veneziano per la fama di “Ingegnere Teatrale, e valevole di molto merito in tale professione” (Livan 1942, p. 123). Rientrato in patria, ottenne nell’aprile del 1767, dopo una accanita disputa con Antonio Visentini, la cattedra di Architettura civile e militare all’Accademia di Venezia, mantenuta fino al 1771 quando fu costretto a dimettersi per ragioni di salute. L’artista morì a Venezia il 12 ottobre 1772: solo in data 30 novembre 1772 nei Notatori di Gradenigo venne registrato che “nella contrada S. Gio: Grisostomo la invidiosa morte assalì il Sig.r Francesco Costa, valoroso Pittore Teatrale e che seppe sostenere perfettamente l’Arte e la virtù della propria professione” (Livan 1942, p. 228). Oltre alle stampe sopra menzionate, l’attività acquafortistica di Costa comprende: tre minuscole scenografie architettoniche risalenti all’inizio degli anni quaranta (schede nn. 1-3); una serie di quattro grandi fogli, di cui uno datato 1748, tradizionalmente denominata Suite des plus célèbres anciens bâtiments des Grecs; una serie di dodici incisioni archeologiche Aliquot Aedificio ad Graecor. Romanorumque Morem extructorum Schemata […], pubblicata tra il 1767 e il 1771 quando svolse l’incarico di professore di architettura all’Accademia di Venezia. Spettano a Mason (1977, 1979, 1991) i più importanti contributi per la ricostruzione degli stati delle acqueforti “archeologiche”. Recentemente (Nessi 2005, nn. 25-32) sono state attribuite a Costa otto tavole di anamorfosi, facenti parte di una serie numerata fino a dodici, la cui autografia – per la singolarità dei soggetti e della tecnica esecutiva – resta in attesa di conferme.

 

 

Dario Succi

 

 

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COSTA, Gianfrancesco - lo stile pittorico

“Come pittore paesista o vedutista, scriveva Pallucchini (1960, p. 212), il Costa è ancora ignoto agli studi”. L’incertezza si è protratta fino a poco tempo fa, essendo fallito il tentativo di Hermann Voss (1971) di attribuirgli alcuni paesaggi ispirati alla riviera del Brenta, rivelatisi opere di Giovanni Battista Cimaroli. Le due piccole tele con cortili interni (Museo Civico, Padova), assegnate a Costa da Bassi Rathgeb (1964, pp. 87-90) sulla base di un disegno del Museo di Budapest recante in calce la scritta Costa F. (Fenyö 1965, p. 47, fig. 58), sono probabilmente bozzetti collegati alla produzione teatrale (Banzato 1988, p. 165). Le due tele, a giudizio dello scrivente, sono databili alla fase estrema per quel gusto guardesco che aveva indotto Gino Damerini (1912, p. 60) ad attribuirle a Francesco Guardi. Una interessante serie di quattro tele polilobate con vedute della riviera del Brenta, passata in vendita da Semenzato, Venezia (19 settembre 1993, n. 29) con l’attribuzione a Cimaroli, avallata da Filippo Pedrocco (A.A. V.V. 1996, pp. 104-109), è stata restituita a Costa dallo scrivente sulla base di riscontri stilistici e iconografici (Succi 2003, pp. 96-101). La piacevole serie ci fa finalmente conoscere la maniera di dipingere di Costa, caratterizzata da una tavolozza tendenzialmente algida, un’ariosità compositiva e un vivace gusto cronachistico sugli esempi di Carlevarijs e Marieschi.

Gli studiosi che si sono occupati delle incisioni di Gianfrancesco Costa hanno considerato quasi esclusivamente la serie delle Delizie del fiume Brenta, le cui edizioni furono oggetto di una prima concisa catalogazione ad opera di Mauroner (1940-II, pp. 473-476) che definì l’artista “geniale e colto”. Lo studioso prese le distanze da quanti avevano qualificato Costa come “un modesto imitatore di Canaletto” o addirittura “un prospettico freddo che nella storia delle belle arti entrò di frodo”, le cui incisioni sarebbero “opera di meccanico esercizio in signoria di riga e squadra, senza calore e vivacità, con segno incerto e ingenuo, e crudezze chiaroscurali da dilettante” (Delogu 1930, p. 157). Calabi (1931, p. 16), con giudizio più meditato, sostenne l’influenza esercitata dalle luminose acqueforti di Antonio Canal su quelle realizzate da Costa con finezza e libertà di tratto, apprezzabili per la nitidezza del segno e per la tonalità limpida e chiara: “Manca loro, però, la maestria del Canaletto nella composizione e nel disegno e il suo vigore nel chiaroscuro”. Spetta a Pittaluga (1939) un’ampia analisi critica delle vedute del Brenta che rivelano nell’autore “attraverso il paziente e vasto lavoro, uno statod’animo così compiaciuto, un desiderio così sincero di fissare l’agreste letizia dei luoghi e degli edifici, un’ansia così ingenua d’attenuare il programma documentario con elementi decorativi e di restare tuttavia fedele al programma, che l’opera se ne vivifica tutta […]. Le acqueforti del Costa sono tutte risonanti di voci canalettesche: i cieli che s’abbassano sulla scena, corsi da linee parallele, sono i cieli di Antonio Canal resi con mano più greve e quindi meno permeabili alla luce; le acque, a piccoli tagli falcati, sono pur esse suggerite dallo stesso modello, anche se il gioco dei riflessi, in queste del Costa, è più spento e non sempre desta vibrazioni all’intorno; le case, che presentano al sole le bianche facciate, rivelando, attraverso sottilissimi gruppi di tagli, le crepe e le macchie dei vecchi intonaci, vogliono ripetere, nonostante l’esattezza dei limiti che accentua singolarmente con effetto cubistico gli spigoli, le case assolate del Canaletto; canalettesco è anche il rapporto fra paesi e figure. Poche, sparse, le figure, rese con la stessa amorosa, vivace cura con cui sono resi gli animali, gli alberi, le rive, gli approdi”. Anche se l’appassionata descrizione dei valori estetici delle acqueforti di Costa appare ricca di elementi suggestivi, non si può tuttavia condividere la tesi della studiosa (divenuta poi un luogo comune) di una dipendenza diretta dalle incisioni canalettiane perché contraddetta da ineludibili ragioni cronologiche e stilistiche. La tecnica incisoria di Costa non ha nulla in comune con quella di Antonio Canal, il cui personalissimo fraseggio grafico, denso e vibrante, è caratterizzato da una grande varietà e complessità di accenti diretti, più che a descrivere, a creare forme allusive, capaci di suggerire vibranti effetti chiaroscurali. Il linguaggio di Costa è semplice, corsivo, estemporaneo, legato ad una realtà topografica resa nella sua genuina freschezza: le rive del placido fiume pulsano della vita, delle persone e degli animali, che si svolge serenamente nel più veneto dei paesaggi. La luminosità diffusa, priva di forti contrasti chiaroscurali, sembra avere piuttosto qualche affinità con quella, tersa e cristallina, delle vedute di Antonio Visentini pubblicate nel 1742 nell’edizione completa Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores. Anche se l’intento principale di Costa è la resa documentaria delle ville e dei palazzi che si affacciano sul corso d’acqua, l’artista non rinuncia a cogliere “con spigliatezza e grazia, le architetture minori e gli elementi di contorno e di ambientazione paesaggistica che vivono attorno alle lussuose costruzioni, e su questi costruisce quel clima sospeso e incantato di serena esistenza che emana dal fiume. È infatti il Fiume l’incontrastato, unico protagonista che vivifica le cose e i personaggi tra terra e acqua, sulle due rive; il mondo faticoso ma apparentemente felice della povera gente e quello, in villeggiatura, spensierato e raffinato dei nobili, ed entrambi li riassorbe in immagini pulsanti di vita dove si legge l’armonia del patto tra l’uomo e la natura” (Tonini 1996, p. 83). L’impegno di illustrare in una lunga, serrata sequenza di immagini le residenze patrizie sulle rive del Brenta è stato risolto con squilibri qualitativi innegabili. Mentre in un nutrito gruppo di tavole del primo tomo l’artista immerge gli elementi paesaggistici, resi con tratti leggeri, in un ambiente vivo, solare, vibrante di riflessi, in quasi tutte le vedute del secondo tomo (le uniche, incomprensibilmente, considerate da Pittaluga) gli edifici, chiusi entro contorni troppo netti, sono collocati in una dimensione vagamente surreale tra cieli e acque resi con monotoni tratti a pettine di un effetto raggelante. La discontinuità stilistica rende plausibile l’ipotesi, formulata da Mason (1979, p. 16), dell’intervento di aiuti. Si può immaginare che l’artista, provato da un lavoro gravoso protrattosi per oltre un decennio e, dal 1751 al 1755 impegnato anche nell’allestimento delle scenografie per il teatro San Samuele, decidesse di accelerare il completamento dell’opera eseguendo alcune lastre per intero, limitandosi in altre all’impostazione generale e all’esecuzione delle figure, giovandosi per il completamento di un collaboratore. L’ariosità del tratteggio, prossimo ai migliori fogli delle Delizie, che caratterizza le dodici stampe dell’ultima serie Aliquot Aedificio […], databile intorno al 1767 (schede nn.158-169), sembra confermare – dimostrando l’inesistenza di una involuzione stilistica nella fase estrema – l’accennata ipotesi. Osservava Pallucchini (1941, p. 45) che Costa, “da buon prospettico, tien d’occhio costantemente l’impaginazione della veduta, dove la parte maggiore è data naturalmente agli edifizi che deve descrivere, ma senza sforzare la prospettiva, bensì sciogliendo tale esigenza in una atmosfera pittorica, dove gli effetti di luce danno vita all’assieme della veduta”. Per Guido Piovene (1960, p. 7), che poneva a confronto le tavole di Coronelli, preziose per il valore documentario, con quelle delle Delizie, Costa “è un paesista, un pittore d’atmosfere; più che le ville ritrae i luoghi dov’esse sono immerse, raggiunge effetti di poesia evocativa.Il cielo delle sue incisioni non è un cielo qualunque, ma quello veneto sul margine tra pianura e Laguna. Ci riporta al momento, disgraziatamente breve, il più bello e illusorio, in cui la natura e la vita cominciano a riassorbire ed a macerare in se stesse le architetture umane, ma la macerazione è appena agli inizi. Le cose, in quel momento breve, non sembrano decomporsi, ma liberarsi verso qualche cosa di più, interamente nuovo: prendono un’animazione, un brio, che non avevano quando erano intatte.” Paolo Tieto (1986, p. 19) ha evidenziato come Costa abbia lasciato “una straordinaria testimonianza della civiltà del suo tempo, una fonte preziosa per studi e ricerche d’ambiente, di vita, di costume”, riproducendo la realtà ambientale in tante inquadrature “dove finezza di tratti e poesia sono di un livello veramente straordinario”. Le acqueforti raffiguranti Lizza Fusina, la chiusa dei Moranzani, la casa del Dazio, l’osteria dei Sabbioni, Oriago, Mira Vecchia (un capolavoro assoluto), i palazzi Marcello, Cornaro, Gradenigo, Grimani, Maruzzi, Solari, Bembo-Valier, rientrano a pieno titolo tra quanto di più fresco e genuinamente lirico è stato creato nel genere della veduta a Venezia nel diciottesimo secolo. Esistono alcune pregevoli edizioni in facsimile della raccolta delle Delizie: una pubblicata nel 1974 dall’editore Bestetti di Milano con introduzione di Giuseppe Mazzotti; un’altra, con introduzione e note illustrative di Paolo Tieto, apparsa nel 1986 a cura delle edizioni Panda di Padova. Un’ulteriore edizione, limitata a 35 vedute messe a confronto con quelle de La Brenta, quasi borgo della Città di Venezia […] di Coronelli, curata nel 1960 da Il Polifilo, Milano, (ristampa: Cremona, 1994) è intitolata Ville del Brenta nelle vedute di Vincenzo Coronelli e Gianfrancesco Costa, con una introduzione di Guido Piovene e noteillustrative di Licisco Magagnato.

 

 

Dario Succi

 

 

 

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Apollonio Domenichini  (Venezia, 1715 - 1765 ca.)

 

 

 

Apollonio Domenichini, Le Zattere con la chiesa dei Gesuati. Baden/Schweiz, Museum Langmatt.

 

 

 

DOMENICHINI, Apollonio - note biografiche

In un saggio pubblicato nel catalogo della mostra Mythos Venedig tenutasi a Baden (Succi 1994 [b], pp. 38-51), prendendo in esame la serie di tredici vedute veneziane di autore anonimo conservate nella Fondazione Langmatt Sidney e Jenny Brown di quella città, avevo osservato che essa sembrava riconducibile a un artista operante sotto l'influenza dell'arte di Michele Marieschi (1710-1743) o meglio del suo allievo e alter ego Francesco Albotto (1721-1757). Questo artista che, secondo la testimonianza di Pierre-Jean Manette usava definirsi «il secondo Marieschi», sposò nel 1744 la vedova del maestro e subentrò nella bottega continuando la produzione di vedute e di capricci in uno stile strettamente aderente, con risultati tutt'altro che disprezzabili. Questo artista fu uno dei più fecondi pittori attivi a Venezia nel Settecento: oggi è possibile tranquillamente affermare che sotto il suo nome si possono raccogliere non solo centinaia di vedute di Venezia ma anche molte vedute di Roma, paesaggi di fantasia e capricci architettonici. Da allora è derivato l'uso di indicare l'anonimo artista, la cui produzione in passato veniva per lo più attribuita a Marieschi, il Canaletto o Bellotto, con l'epiteto di "Maestro della Fondazione Langmatt". Le sue tele compaiono con grande frequenza sul mercato antiquario e sono presenti in molti musei, dove sono schedate come "anonimo canalettiano" o con le attribuzioni più varie da Marieschi ad Albotto, fino al bistrattato Francesco Tironi. Il nome di Domenichini è stato evocato per la prima volta nel Novecento da Fabio Mauroner in un articolo apparso su «Arte Veneta» (1947, p. 49). Trattando della corrispondenza fra l'antiquario veneziano Giovanni Maria Sasso e il ministro inglese John Strange, conservata nella biblioteca del Museo Correr e risalente alla seconda metà del Settecento, Mauroner osservava che il nome di Domenichini ricorreva con notevole frequenza nelle vedute scambiate tra i due solerti trafficanti. Da ciò egli aveva tratto la conclusione che l'artista era tutt'uno con quel "Menichino" che Moschini all'inizio dell'Ottocento (1806, p. 87) aveva indicato tra gli scolari di Luca Carlevarijs. «Sarebbe molto interessante - concludeva - rintracciare, nelle collezioni inglesi o americane, qualche lavoro del Domenichini o firmato o portante, come allora si usava, il nome dell'artista scritto sul telaio». Egidio Martini (2000, p. 159), pubblicando alcune vedute veneziane e romane del Maestro Langmatt, ha segnalato l'esistenza in vari musei e sul mercato antiquario di numerose vedute stilisticamente omogenee per il modo caratteristico di tratteggiare le onde con un sottile segno diritto. Martini ha proposto di attribuire questi dipinti, sia pure in via provvisoria e con un punto interrogativo, a Domenichini: «Tale ipotetica attribuzione coinciderebbe anche con il fatto che esistono le opere senza autore e l'autore senza le opere»; constatazione che condivido pienamente anche considerando che nessun altro nominativo appare fondatamente proponibile in via alternativa per questo misterioso maestro. Pur nella totale mancanza di fonti documentarie sulle vicende biografiche, già in passato avevo avanzato l'ipotesi che l'attività di Domenichini fosse circoscrivibile approssimativamente tra il 1740 e il 1770 sulla base dei riscontri topografici emergenti da varie vedute.

Apollonio Domenichini, risulta iscritto per la prima volta nel registro della fraglia dei pittori veneziani nell'anno 1757 (Favaro 1975, p. 158). Altre notizie si ricavano dal Catalogo dei quadri dei disegni e di libri che trattano dell'arte del disegno della galleria del Conte Algarotti in Venezia, contenente la descrizione delle opere d'arte del conte Bonomo Algarotti. Pubblicato a Venezia dopo il 1776, il catalogo contiene, alle pagine VIII e XI, la preziosa informazione che «Domenichini Apolonio [...] nacque in Venezia nel 1715». La notizia riveste notevole importanza perché consente di collocare gli inizi dell'attività, in maniera indipendente, intorno al 1740: non si conoscono dipinti databili con certezza prima del quinto decennio. È probabile che Domenichini svolgesse l'apprendistato presso un vedutista attivo alla fine degli anni trenta, forse Michele Marieschi nella cui bottega si era formato anche Francesco Albotto. Nel Catalogo, la data di nascita non è seguita da quella della morte, indicata per tutti gli artisti che risultavano deceduti, ne dalla precisazione «vivente», utilizzata per chi nel 1776 era ancora vivo, come per Giuseppe Moretti e Francesco Zuccarelli, ricordati come «Veneziano vivente» e «Fiorentino vivente». Sembra quindi certo che nel 1776 Apollonio Domenichini fosse morto perché nelle schede del Catalogo l'uso del verbo al passato remoto — «nacque in Venezia nel 1715» — viene riservato agli artisti defunti. Dobbiamo concludere che Giannantonio Selva, compilatore del catalogo, ignorasse l'anno della morte dell'artista, probabilmente avvenuta intorno al 1765 perché le testimonianze pittoriche finora conosciute, sulla base di elementi topografici, non vanno oltre il 1760.
Il conte Francesco Algarotti, la cui raffinata collezione di dipinti, disegni e libri d'arte era stata ereditata nel 1764 dal fratello Bonomo, possedeva una coppia di capricci paesistici di Apollonio Domenichini e anche un disegno a penna di un capriccio architettonico, schedato come Veduta di Architettura, che rimane l'unica prova grafica documentata, andata dispersa. La coppia di dipinti è descritta alla pagina VIII del Catalogo: «Magnifica Porta con Ponte dinanzi, che dà ingresso ad una Città, le di cui mura sono in parte diroccate, veggonsi alcune nobili fabbriche che internamente sormontano, e nel di fuori vi sono gli avanzi di antico edificio». Il pendant: «Suo simile. Veduta di una Villa con grandiose e magnifiche fabbriche, parte delle quali sono distrutte, e sul terreno vi sono molti rottami di cornici, vasi ed altro. In tela, alti p. I onc. 3. larghi p. 2. onc. 2». La descrizione si adatta perfettamente ad una coppia di capricci di gusto riccesco di Michele Marieschi, pubblicata dallo scrivente (Marieschi 1989, p. 132), coincidente anche nelle misure (41 X 68 cm). Si può ipotizzare che Domenichini avesse replicato, come spesso accadeva, i due dipinti di Marieschi. Esistono infatti numerosi esempi di capricci derivati da originali del maestro, come la serie di quattro dipinti del Castello Sforzesco a Milano già ritenuti di Marieschi e attribuiti alla «mano di uno stretto collaboratore» da Precerutti Garberi (1968, p. 43). La studiosa aveva rilevato il divario qualitativo rispetto ai prototipi. L'ultima menzione settecentesca di Domenichini è stata resa nota da Mauroner (1947, p, 49). Da alcune lettere dell'Epistolario Moschini (biblioteca del Museo Correr), risulta che numerose vedute veneziane di Domenichini, noto anche con l'appellativo di «Menichino», furono spedite alla fine del Settecento da Giovanni Maria Sasso, singolare figura di mercante e collezionista, a John Strange, un inglese che aveva ricoperto l'incarico di residente britannico a Venezia dal 1774 e con cui Sasso intrattenne una relazione ventennale intessuta di pettegolezzi e di lucrosi affari nella compravendita di dipinti di antichi maestri. Tra le vedute veneziane di Domenichini acquistate da Strange figuravano sette vedute di Venezia e un Bucintoro grande, cioè una tela di notevoli dimensioni raffigurante verosimilmente una Partenza del Bucintoro nella festa dell'Ascensione sul tipo di quella facente parte della serie di vedute conservate a Baden, pubblicate da Borghero (Mythos Venedig 1994, p. 103). Poiché il nome di Domenichini ricorre con notevole frequenza nelle vedute scambiate tra i due collezionisti, Mauroner traeva la conclusione che l'artista potesse identificarsi con quel « Menichino » ricordato da Moschini (1806, p. 87) come scolaro di Carlevarijs. Dopo un lungo oblio, il pittore è ritornato alla ribalta in occasione della mostra Mito e fascino di Venezia quando, in un saggio del relativo catalogo, ebbi modo di approfondire l'esame della serie di tredici vedute veneziane anonime conservate nella Stiftung Langmatt Sidney und Jenny Brown di Baden, ritenendole ascrivibili a un artista operante sotto l'influenza di Michele Marieschi o di Francesco Albotto. I dipinti della Fondazione Langmatt sono infatti caratterizzati da un eclettismo che coniuga la maniera di Marieschi per la stesura materica a macchie di colore e quella di Canaletto per la resa netta degli edifici. Le smilze macchiette, di gusto canalettiano, ricordano per il brioso cromatismo i gruppetti ciacolanti che allietano le vedute di Johan Richter, lo svedese seguace di Carlevarijs operante a Venezia dagli inizi del Settecento fino alla morte (1745). Partendo dalla datazione 1745-1750, ipotizzabile per la serie Langmatt sulla base di dettagli topografici, avevo osservato che, tra i nomi dei vedutisti veneziani attivi intorno alla metà del secolo e ancora avvolti nell'ombra, un particolare interesse presentava quello di Apollonio Domenichini a cui sembrava attribuibile in via d'ipotesi l'intera serie, qualitativamente piuttosto disomogenea. Dalla mostra di Baden derivò l'uso di indicare l'anonimo artista, la cui produzione in precedenza veniva per lo più attribuita a Marieschi, Canaletto, Bellotto e Tironi, con l'epiteto «Maestro della Fondazione Langmatt». Il ritrovamento di un dipinto raffigurante L'arco di Costantino e il Colosseo, datato 1746 (Il paesaggio veneto 2003, fig. 77), l'unico finora conosciuto, dimostra che alla metà degli anni quaranta l'artista aveva raggiunto una maturità stilistica destinata a non subire significative modifiche. In alcune tele, probabilmente eseguite nella fase finale per importanti committenti, la tecnica esecutiva diventa più accuratamente canalettiana, come nella coppia di vedute Il ponte di Rialto da sud e Il Canal Grande da Palazzo Moro-Lin verso la chiesa della Carità dell 'Ermitage di Pietroburgo (72 X 111 cm), attribuite dubitativamente da Fomichova (1992, cat. 250, 251) a Francesco Tironi sulla base di comunicazioni verbali di Fiocco (1956) e Morassi (1961). La terza veduta presenta particolare interesse perché è databile intorno al 1760, raffigurando i palazzi Grassi e Rezzonico dopo l'ultimazione dei lavori: la coppia dell'Ermitage costituisce quindi una rara testimonianza della fase estrema del pittore. Un altro dipinto di Domenichini conservato all'Ermitage, Piazza San Marco verso la basilica, è stato attribuito dubitativamente a Michele Marieschi (Fomichova 1992, cat. 160). Proveniente dalla collezione Vorontsov-Dashkov di Pietroburgo, la tela fa serie con due opere di Bernardo Canal, Il Canal Grande dal ponte di Rialto verso Ca' Foscari e Il Bacino di San Marco verso la Punta della Dogana (cat. 58), pure attribuite dubitativamente da Fomichova (1992, cat. 159,161) a Marieschi. Egidio Martini (2000, p. 159), pubblicando alcune vedute del «Maestro Langmatt», ha segnalato l'esistenza in vari musei e sul mercato antiquario di numerose opere stilisticamente omogenee per il modo caratteristico di tratteggiare le onde con sottili segni diritti. Proponendo il nome di Apollonio Domenichini, Martini osservava che «tale ipotetica attribuzione coinciderebbe anche con il fatto che esistono le opere senza l'autore e l'autore senza le opere». La constatazione è pienamente condivisibile e, non essendo fondatamente proponibile nessun altro nominativo in via alternativa, si può ritenere praticamente sicura l'identificazione di questo piacevole pittore «senza firma» del Settecento veneziano.

 

 

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DOMENICHINI, Apollonio - lo stile pittorico

Si ha motivo di ritenere che l'inizio dell'attività artistica del Domenichini, in maniera indipendente,  debba collocarsi intorno al 1740, o poco dopo: non si conoscono infatti finora dipinti che siano databili con certezza prima del quinto decennio. Nei dipinti della serie della Fondazione Langmatt si evidenzia l'influenza della maniera "matura" di Albotto, riscontrabile nella stesura materica maculata e nello stile accurato che esalta con nettezza i volumi degli edifici, sciogliendosi nella resa sintetica delle smilze macchiette. Le figure, genericamente ispirate ai modelli del Canaletto, ricordano, per la vivacità delle campiture cromatiche dei gruppetti "ciacolanti", un seguace di Carlevarijs, lo svedese Johann Richter che fu attivo a Venezia dal 1710 fino alla morte (1745). In occasione della mostra di Baden avevo avuto occasione di scrivere: «Queste figurette, sottolineano in maniera garbata il fare aneddotico con cui l'anonimo maestro mira a coinvolgere l'osservatore rendendolo partecipe dello spettacolo meraviglioso delle calli, dei canali, dei monumenti in cui si dipana il Gran Teatro della città lagunare. Anche la tessitura cromatica riecheggia abbastanza da vicino non tanto i toni caldi e pastosi di Marieschi quanto quelli piuttosto aciduli di Albotto, trasparenti nella resa ferma dei cieli azzurri solcati da sbuffi di nuvolette strappate o timidamente cumuliformi, nonché nelle distese liquide verdognole, rischiarate senza enfasi dalle striature luminose, allungate e parallelamente graduate, con cui si suggerisce il moto ondoso».

Domenichini, come già affrontato, replicava dipinti di Marieschi, o ne traeva derivazioni da originali, come la serie dei quattro dipinti del Castello Sforzesco, attribuiti alla «mano di uno stretto collaboratore» da Precerutti Garberi (1968, p. 43), che poneva l'attenzione sul divario qualitativo rispetto ai prototipi: uno stile calligrafico piatto, privo delle profondità atmosferiche e della pennellata disinvolta degli originali, con un cromatismo «risucchiato in gamme acidule, smorte, opache» e con figurette «di commento, che si limitano a sottolineare l'aneddoto con un fare svelto, scattante, accurato nei particolari e indagante nell'episodio spicciolo, come un curioso e coscienzioso cronista».

 

 

 

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Jacopo Fabris (Venezia, 1689 — 1761, Charlottenborg)

 

 

 

Jacopo Fabris, Il ponte di Rialto con il Palazzo dei Camerlenghi

 

 

 

Fabris Jacopo - note biografiche

Nato a Venezia nel 1689, Jacopo Fabris fu attivo come autore di scenografie teatrali, venendo particolarmente apprezzato in Germania dove dal 1719 al 1721 fu pittore di corte a Karslruhe. Dopo un soggiorno ad Amburgo (1724 — 1728) dal 1742 lavorò a Berlino come scenografo per il Teatro dell'Opera al servizio di Federico il Grande. L'anno seguente si trasferì a Copenhagen presso la corte di Federico V; in seguito insegnò architettura e prospettiva all'Accademia d'Arte di Charlottenborg, lasciando un trattato di architettura ultimato nel 1760. Avendo trascorso la maggior parte della vita attiva all'estero, si comprende perché le vedute di Venezia e di Roma di Jacopo Fabris siano quasi sempre basate su incisioni o dipinti di altri artisti, tra cui Luca Carlevarijs, Michele Marieschi, Antonio Visentini, Gaspar van Wittel. Questa luminosa visione prospettica della famosa piazza dell'Urbe è in relazione con una veduta di van Wittel, di cui sono note numerose versioni databili tra il 1684 e il 1720 (Briganti 1996, pp. 169-173), dalle quali si differenzia nel vario e gustoso repertorio delle macchiette. L'autografia risulta
confermata, oltre che dalla firma apposta sul verso della tela originale Ja: Fabris pin., dalla presenza delle peculiari caratteristiche tecniche e stilistiche: la descrizione accurata delle architetture con forti contrasti chiaroscurali nel primo piano, i cieli solcati da nubi cumuliformi di notevole effetto decorativo, le macchiette curiosamente affini ai modelli di Bernardo Canal. anni, Jacopo Fabris emigrò all'estero senza più ritornare in patria. È. questo il motivo per cui quasi tutte le sue vedute di Venezia sono basate su incisioni di Luca Carlevarijs, Michele Marieschi e Antonio Visentini. Questa classica ripresa prospettica del Molo verso la riva degli Schiavoni è derivata dalla tavola 11 della Pars Secunda della raccolta di 38 vedute di Venezia di Antonio Visentini derivate da dipinti di Canaletto, pubblicata nel 1742 da
Giambattista Pasquali (Succi 2013, I, p. 207, n. 27): ciò consente di collocare l'esecuzione del dipinto dopo la seconda metà degli anni quaranta, probabilmente
nel sesto decennio. Le principali modifiche riguardano lo spostamento verso il margine della tela a sinistra, nella zona ombreggiata sul fianco del Palazzo Ducale, della colonna con il leone marciano e la raffigurazione totalmente variata delle imbarcazioni e delle macchiette. Lo spostamento della
colonna ha consentito di porre in maggio-re evidenza la splendida facciata del centro del potere politico della Serenissima, senza la fastidiosa soluzione di continuità causata dalla colonna posta tra le due finestre della facciata. Lo stile di Fabris è riscontrabile nella fermezza schematica degli elementi architettonici, nel cielo grigio-argenteo con nuvole scure, nelle macchiette vagamente esemplate sui prototipi di Bernardo Canal.

 

 

 

 

 

 

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Francesco Guardi (Venezia 1712 – 1793)

 

 

 

 

The Bucentaur Departs for the Lido on Ascension Day

Francesco Guardi, La partenza del Bucintoro verso San Nicolò di  Lido, nel giorno dell'Ascensione, 1766-1770,

Louvre Parigi.

 

 

 

 

GUARDI, Francesco - note biografiche

Francesco Guardi nacque a Venezia il 5 ottobre 1712 da Domenico Guardi (1678-1716) e da Maria Claudia Pichler (1673-1744), che misero al mondo altri cinque figli, tra cui due pittori, Gianantonio (1699-1760) e Nicolò (1715-1786). Originaria del paese di Mastellina nella Val di Sole (Trentino), la famiglia Guardi aveva ottenuto nel 1643 da Ferdinando III d'Austria, il riconoscimento del titolo nobiliare con il diritto di fregiarsi dello stemma.
Domenico Guardi si era trasferito a Vienna nel 1690 per studiare pittura su sollecitazione dello zio don Giovanni Guardi, canonico della cattedrale di Santo Stefano. Intorno al 1700 Domenico giungeva a Venezia dove allacciava rapporti di lavoro, per lo più come copista, con la famiglia Giovanelli per la quale eseguì nel 1716, per la chiesa parrocchiale di Valtrigh e nel bergamasco, una pala raffigurante San Zenone, recentemente pubblicata da Montecuccoli (1992).
Alla morte di Domenico, l'appena diciassettenne Gianantonio subentrò nella direzione della bottega operando soprattutto come copista dapprima al servizio dei Giovanelli e poi, a partire dal 1730 circa, del feldmaresciallo Matthias von der Schulenburg dal quale ricevette un regolare stipendio mensile fino al 1745.
Nel testamento del 15 dicembre 1731 di Benedetto Giovanelli si accenna ad un lascito relativo a "copie de Quadri e . . . ] fatte dalli Fratelli Guardi", da cui potrebbe dedursi che anche Francesco aveva esordito come copista di poco conto al servizio dei Giovanelli .
In data 14 ottobre 1738 il parroco di Vigo d'Anaunia, Pietro Antonio Guardi, inseriva nel libro contabile della canonica l'anotazione: "Adì 14 Otobre 1738 ho consegnato i tre grandi quadri a questa chiesa parochiale posti in sagristia in adempimento del legato lasciato nel testamento per licenza di poterlo fare" . Il parroco alludeva alle tre lunette, da lui commissionate a Gianantonio, raffiguranti la Comunione sacrilega del vescovo di Magdeburgo, la Visione di San Francesco e la Lavanda dei piedi la cui suddivisione attributiva fra i tre fratelli Guardi ha costituito a lungo oggetto di discussione per gli studiosi.
Al 18 settembre 1750 risale il primo documento sicuro sull'attività pittorica di Francesco. Si tratta della lettera, pubblicata da Simonson (1904, p . 79), in cui l'artista, scrivendo all'avvocato Carlo Cordellina di Montecchio Maggiore, si dichiara sempre in attesa di ricevere la conferma della commissione "delle pitture" dopo aver consentito alla richiesta di ribasso del prezzo. Il successivo 26 novembre, in una seconda lettera allo stesso avvocato, Francesco lamenta di non aver ricevuto alcun riscontro alla sua "suplica contenente a l'afare delli miei sfortunati modelli" . Dal contenuto delle missive si arguisce che l'artista, ormai prossimo ai quarant'anni, incontrava difficoltà ad affermarsi come pittore di figura, dovendosi reputare che i "modelli "si riferissero — come d'uso — a quadri "d'historie" .
Il 15 febbraio 1757,  Francesco si sposava con Maria Mathea Pagani, dalla quale ebbe cinque figli, tra cui Giacomo (1764-1835) destinato ad ereditare la bottega paterna. Nell'atto di stato libero, compilato l'11 febbraio 1757, tra i testimoni compare, sorprendentemente, il più giovane fratello Nicolò (che si era ammogliato nel 1738), il quale rilasciò una dichiarazione di particolare interesse perché consente di stabilire che la formazione artistica di Francesco era avvenuta esclusivamente nella città lagunare e non altrove (per esempio in Austria), come talora si è ipotizzato: "Francesco è mio fratello, e siamo sempre stati insieme nella casa paterna, né mai è partito da Venezia".
Dal 1761 al 1763 il nome di Francesco Guardi compare nei registri della fraglia dei pittori veneziani e poco dopo, il 25 aprile 1764, il nobile Pietro Gradenigo annotava nel diario la famosa citazione relativa all'artista, definito "buon scolaro del rinomato Canaletto", riportata agli inizi di questo scritto. La morte della moglie, avvenuta il 27 gennaio 1769, "dovette essere una perdita ben amara per Francesco, i cui figlioletti in età tenerissima rimanevano orfani di madre. E pensabile che di essi abbia preso cura, almeno parziale, la sorella di Francesco, Cecilia, sposa del Tiepolo, a quel tempo ancora in buone condizioni di salute dona vitale 67 anni [ . . .] . Si aggiunga che Cecilia pensò di far testamento appena nel 1777, un testamento da cui si rilevano i buoni rapporti tra i fratelli, poiché essa destinava a Francesco ed a Nicolò Guardi 25 once d'argento a testa. Morì due anni più tardi, il 5 giugno del 1779" (Morassi 1973, p . 37) .
Dopo aver compiuto, nell'autunno del 1778, un viaggio nel Trentino per sbrigare questioni amministrative concernenti le proprietà in Val di Sole, nel 1782 l'artista ricevette da Pietro Edwards, ispettore delle Belle Arti, l'incarico ufficiale di dipingere quattro tele in ricordo della visita a Venezia di Pio VI, ottenendo a titolo di compenso 40 zecchini, più otto come regalo. Nello stesso anno Francesco eseguiva alcuni quadri commemorativi della visita veneziana dei Conti del Nord: tra essi spicca il celebre Concerto delle dame nella sala deiFilarmonici, oggi all'Alte Pinakothek di Monaco.
Il 12 settembre 1784 l'ormai ultrasettantenne maestro veniva eletto, con nove voti favorevoli e due contrari, membro dell'Accademia veneziana di pittura. Il 28 novembre 1789 un furioso incendio scoppiato nel deposito di oli presso San Marcuola impressionava fortemente l'artista che lo documentava in un'altra famosa tela, l'ultima databile con certezza, pure custodita all'Alte Pinakothek di Monaco.
L'estrema attività di Francesco è espressa nei bellissimi fogli rievocanti Le nozze del duca di Polignac nella villa Gradenigo a Carpenedo, celebrate il 6 settembre 1790 (Museo Correr), e nelle aeree rappresentazioni del Gran Teatro La Fenice, inaugurato la sera del 16 maggio 1792.
Con queste prove dal segno guizzante che evoca fantasiosamente, allargandolo a dismisura, il campo San Fantin nobilitato dalla nuova costruzione progettata dall'architetto Selva, Francesco Guardi sembra congedarsi — ancora al culmine delle facoltà creative ed espressive — dalla sua avventura artistica. Quella umana si chiuderà il primo gennaio 1793.

 

Dario Succi

 

 

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GUARDI, Francesco - lo stile pittorico

Francesco Guardi, Pittore della contrada dÈ S:ti Apostoli su le Fondamente Nove buon Scolaro del rinomato Canaletto, essendo molto riuscito per via della Camera Optica dipingere sopra due non picciole tele, ordinate da' un Forestiere Inglese, le vedute della Piazza di S.Marco verso la Chiesa, e l'Orologio, e del Ponte di Rialto, e sinistre Fabbriche verso Canareggio, oggi le rese esposte su laterali delle Procurati e Nove, mediante che si procacciò l 'universale applauso " (Gradenigo, Notatori, 25 aprile 1764).

Francesco Guardi "spiritoso nell'inventare, esperto nell'architettura, nel contraffare i tereni, nel'espresione del'aria e del'orizonte [ .. ] lavora eziandio nel'età sua senile in Venezia, ch'ebbe per Patria fortunatamente (Catalogo di quadri esistenti in casa del signor Don GiovaniVianeli [..],1790, p.42).

"Francesco Guardi si è riputato un altro Canaletto in questi ultimi anni; e le sue vedute di Venezia hanno desta ammirazione in Italia e oltremonti; ma presso coloro soltanto che si sono appagati di quel brio, di quel gusto, di quel bello effetto che cercò sempre: perciocché nella esattezza delle proporzioni e nella ragion dell'arte non può stare a fronte del maestro" (Lanzi 1795-1796, p . 180).

"Nel dipingere d'Architettura, che fu la precipua sua professione, andò sulle traccie del famoso Antonio Canal [ . . .] . Le sue vedute di Venezia hanno svegliato in Italia e oltramonti l'ammirazione di tutti coloro che, senza guardar troppo addentro, si lasciano vincere gradevolmente dal brio, dal gusto e dall'effetto vivace che spirano le sue pitture" (Aglietti, Giornale, 1798) .

"L'acquisto delle vedute è ancora più difficile. Per quelle di Canaletto non se ne discorre più; anzi non si parla quasi neppur di quelle del suo nipote Bellotto, quantunque non fossero meraviglie, e per la maggior parte fossero copie tratte dagli originali del Zio. Di Marieschi o non si vede cos'alcuna, o solo qualche pezzo annerito per l'eccesso nel partito di sua macchia. Del Vicentini, del Joli, e del Battaglioli sono quasi tutte invenzioni di capriccio, o vedute alterate di terraferma. Restano le cose del Guardi, scorrette quanto mai, ma spiritosissime, e di queste vi è adesso molta ricerca, forse perché non si trova di meglio. Ella sa però che questo Pittore lavorava per la pagnotta giornaliera; comprava telaccie da scarto con imprimiture scelleratissime; e per tirar avanti il lavoro usava colori molto ogliosi, e dipingeva bene spesso alla prima. Chi acquista de suo i quadri deve rassegnarsi a perderli in poco tempo; ed io non mi farei mallevadore della loro durata per altri dieci ani. Sula scoperta fatane dal Sig.r Tonioli tratai l'acquisto di due quadretti per V.S., ma non ci siamo potuti aggiustare col venditore. Erano graziosetti, e nient'altro .

Il Sig.r Orsetti procurò alle mie istanze di farmene vedere alcuni altri di terza persona, tutta roba da bottega, anzi di rifiuto" (lettera del 23 giugno 1804 di Pietro Edwards ad Antonio Canova).

"Francesco Guardi, nativo di Venezia, dove morì ottuagenario nell'anno 1793, fu pittore di prospettiva. Egli era contemporaneo ad Antonio Canal, e ne camminava sulle tracce; ma non aveva né la dottrina del disegno, né la ragione dell'arte, le quali erano somme nell'intelletto e nella mano del maestro [ . . .] . Non negheremo per altro che le vedute del Guardi non abbiano magia di effetto: anzi è ciò così vero che quelle sono ricercate e pregiate sì dentro e sì fuori d'Italia. Non però si potranno mai confondere con le opere di Canaletto; questi appaga l'occhio, Guardi lo seduce" (Missaglia, Dizionario Biografico Universale, XXVI, 1826, p. 421).

 

Questa breve rassegna critica comprende tutti i giudizi più significativi che furono formulati sull'arte di Francesco Guardi dalla seconda metà del Settecento fino ai primi decenni del secolo successivo.

Significativamente essi considerano solo la produzione vedutistica del pittore veneziano, ignorando completamente il lavoro — poco noto ed ancor meno apprezzato — di figurista. Le affinità con l'arte di Canaletto, evidenziate in quasi tutti i commenti, appaiono stemperate dal franco riconoscimento che la pittura di Guardi, pur qualificata briosa, di gusto ed effetto vivace, spiritosa e seducente, "non può star a fronte del maestro". L'osservazione conserva ancora oggi una sua validità, sol che la si intenda nel senso che il vedutismo di Antonio Canal fu una esperienza unica e irripetibile e che l'avventura artistica di Francesco, inizialmente aderente da vicino ai modelli del famoso maestro, maturò esiti sperimentali, iconografici, stilistici e lirici affatto diversi e pertanto non confrontabili.

II rapporto di dipendenza di Guardi da Canaletto, che appariva scontato agli occhi dei contemporanei, venne sostanzialmente negato nella seconda metà dell'Ottocento quando, sull'onda dell'affermarsi della nuova sensibilità impressionistica, Canaletto — nella cui smagliante pittura di vedute il razionalismo illuminato aveva trovato un interprete d'eccezione — sembrava "un artista freddo e sbiadito", mentre Guardi veniva considerato — annotava Charles Yriarte nel 1878 — "molto più vivo del Canaletto; è un colorista più originale e nessuno è superiore a lui nel suo genere quando segue e realizza il suo pensiero [ . . .] . La sua prodigiosa facilità e la vivacità spiritosa dell'esecuzione, la grazia piccante, unite alle qualità atmosferiche di trasparenza e di luce rimaste insuperate, fanno di lui un pittore a sé [ . . .]".

La Venezia di Canaletto, scriveva a sua volta Paul Leroy nello stesso 1878, è sicuramente più puntuale ed inequivocabile, ma quella di Guardi è altra.

Dopo la pubblicazione della prima monografia curata da Simonson (1904) e di quelle successive di Panizza e Damerini (1912), Giuseppe Fiocco nel 1923 iniziava quell'operazione filologica di discriminazione delle fisionomie dei due fratelli Guardi, Francesco e Gianantonio, quali pittori di figura, che doveva costituire negli anni a venire uno dei problemi più dibattuti ed ingarbugliati nella storia della pittura veneziana del Settecento.

Già nel 1919 Fiocco aveva rivendicato a Francesco, lanciato sulla ribalta nella inedita qualità di figurista, lo splendido ciclo delle Storie di Tobiolo nella chiesa veneziana dell'Angelo Raffaele, la cui attribuzione all'uno o all'altro dei due fratelli Guardi doveva assurgere a elemento nodale di un discorso critico altalenante che avrebbe trovato, non senza accese polemiche, uno sbocco liberatorio nella memorabile rassegna guardesca del 1965 organizzata da Pietro Zampetti.

In precedenza il ruolo protagonistico di Gianantonio nell'ambito della bottega Guardi era stato sostenuto da Fernanda De Maffei (autrice di un documentato volumetto che aveva suscitato le sarcastiche reazioni di Fiocco e di Pallucchini per la proposta di drastico ridimensionamento dell'attività figuristica di Francesco Guardi) e da Antonio Morassi, scopritore del prezioso archivio del feldmaresciallo Matthias von der Schulenburg. I puntigliosi libri-cassa e gli accurati inventari della grandiosa quadreria del comandante in capo delle armate della Serenissima, datosi ad un frenetico collezionismo all'età di sessanta anni, documentando tre lustri (1730-1745) di attività di Gianantonio al servizio dell 'illustre personaggio, portavano un contributo probatorio inequivocabile e decisivo per il dissolvimento delle cortine fumogene che avvolgevano la figura di Guardi senior.

Con la mostra veneziana del 1965 Zampetti riuscì a far emergere con chiarezza i contorni dei due pittori come figuristi: l'arte di Gianantonio nasce da una condizione culturale portata a trascurare la realtà e si esprime nelle forme di una pittura gaia, rarefatta, evanescente, tipica del più leggiadro rococò. A lui dunque andavano restituite senza più incertezze le immagini incantatrici delle Storie di Tobiolo, le Storie romane di Oslo, i soffitti di proprietà Cini, le Storie della Gerusalemme Liberata, le pale della chiesa di Belvedere presso Aquileia e di Ceret e Basso, eccetera eccetera, cioè tutta una serie di capolavori toccati con quelle pennellate guizzanti, sfrangiate e "incendiarie" che avevano suscitato l'entusiasmo degli studiosi.

Altra cosa sono le tele a grandi figure eseguite da Francesco Guardi, pervase da una forza drammatica e patetica inesistente in Gianantonio — che si esprime faticosamente in pose impacciate e ineleganti, gravate da un peso che "la bellezza del colore non riesce a riscattare del tutto", come osservava Edoardo Arslan in un magistrale saggio risalente al 1944, in cui evidenziava il vicolo cieco in cui s'era messa la critica "seguitando a ritener di Francesco le storie di Tobiuzzo". Un esame spregiudicato di quelle pitture avrebbe dovuto portare ad affermare la loro estraneità al figurismo di Francesco, caratterizzato da una particolare configurazione a massa, bloccata da una linea a salienti, di origine veronese-tridentina.

In definitiva lo scontro, qui rievocato in maniera troppo sintetica, tra le opposte "fazioni " di studiosi si concludeva con la vittoria dei "panantoniani", cioè dei sostenitori della preminenza della statura di Gianantonio figurista rispetto a Francesco, venendo messa alle corde la teoria "panfranceschiana" che aveva trovato in Fiocco ed in Pallucchini i sostenitori più convinti.

Il chiarimento di questo problema consentiva finalmente di far convergere l'attenzione su un altro dilemma collocato all'interno dell'itinerario artistico di Francesco, quello degli inizi e dell'evolversi dell'affascinante esperienza vedutistica. L'argomento veniva affrontato in vari articoli su riviste specializzate e soprattutto negli interessanti, ma sullo specifico punto sostanzialmente inconcludenti, dibattiti di un convegno di studi svoltosi nel 1965, poi raccolti nel volume Problemi guardeschi (1967). Il fervore delle discussioni, cui parteciparono Arslan, Mahon, Muraro, Morasi, Pignati e altri, si spense con l'aparizione, tra il 1973 ed il 1975, della monumentale monografia di Morassi sui Guardi: i tre ponderosi volumi dedicati ai dipinti ed ai disegni dissuasero chiunque dall'affrontare l'argomento "Guardi" disseccando per alcuni lustri il filone dei relativi studi.

Eppure alcuni dei problemi fondamentali del vedutismo franceschiano erano rimasti irrisolti. Lo stesso Morassi, il più autorevole degli specialisti, era stato costretto a prendere atto del sostanziale fallimento delle indagini volte a chiarire l'iter cronologico di Francesco, cioè uno degli aspetti fondamentali per la comprensione dell'opera di un artista . "Il problema più grave — scriveva lo studioso quasi con angoscia — è questo: quando cominciò Francesco Guardi a dipingere vedute? E proprio il quesito cui non siamo in grado di rispondere con precisione; è proprio questo, su cui non v'è alcuna testimonianza probante, alcun documento storico. V'è quasi una specie di 'congiura del silenzio ' a mantenere il segreto su questo punto, che pur è tanto importante per la conoscenza dell'artista".

La totale incertezza sugli esordi vedutistici di Francesco si ripercuoteva sull'impossibilità di delineare una coerente evoluzione dell'itinerario artistico, con la conseguenza di sconcertanti oscillazioni, misurabili addirittura a svariati decenni, nella datazione di moltissimi dipinti, fossero vedute, capricci o quadri di figura.

Alla confusione cronologica si sommava l'incertezza attributiva che induceva autorevoli studiosi a negare la genuinità di una larga serie di stupende vedute, addirittura pienamente firmate da Francesco Guardi, sol perché presentavano caratteri stilistici di un'accuratezza quasi canalettiana e perciò ritenute incompatibili con il segno compendiario universalmente noto dell'artista. Valga per tutte l'esempio delle incantevoli, poeticissime vedute lagunari che Hermann Voss attribuì, del tutto arbitrariamente, ad un artista minore come Francesco Tironi del quale non si conosce neanche un dipinto sicuro.

Per converso si confermavano a Francesco centinaia di tele il cui miserabile livello qualitativo diventava pretesto per esaltare, con parole struggenti, la cialtroneria espressiva letta con l'ottica deformante del tocco sintetico "impressionistico" o, con riferimento ai paesaggi fantastici, "preromantico" : così veramente contribuendo a degradare l'immagine del grande maestro. Né accenna a diminuire il flusso degli squallidi capricci in miniatura che incontrano l'incontenibile favore di troppi collezionisti illusi di possedere deliziose opericciole del Settecento veneziano invece di autentiche croste, quelle stesse che non di rado suggestionarono Antonio Morassi il quale, molto generosamente, le definiva "opere squisite del periodo tardo": talmente tardo che nemmeno Francesco era riuscito a vederle .

Chi fu veramente Francesco Guardi e attraverso quali passaggi maturò la sua esperienza figurativa?

È stato detto che la conoscenza dell'opera di un artista resta imperfetta fino a quando non ne è chiara la cronologia. Morassi (1973, p . 208) fu costretto ad ammettere di provare un senso di disagio di fronte all'esistenza di un diaframma nelle ricerche guardesche "e che dopo tanti anni di studio non siamo riusciti ancora ad infrangere del tutto" .

 

Dario Succi

 

 

 

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Joseph Heintz il giovane (Augsburg 1600 c. – Venezia 1678)

 

 

 

Joseph Heintz il giovane, La Caccia ai tori in campo San Polo. Venezia, Museo Correr

 

 

HEINTZ, Joseph il giovane - note biografiche

L’artista, figlio dell’omonimo Joseph Heintz il vecchio pittore di corte di Rodolfo II, nasce ad Augusta verso il 1600. Nel 1617 figura come garzone presso la bottega di Matthäus Gundelach, già allievo del padre deceduto prematuramente nel 1609. Probabilmente, prima di scendere in Italia,  Heintz frequenta anche la bottega di Matthias Kager (1621), noto miniatore e già allievo a Venezia di Hans Rottenhammer (Bushart 1968).

Nel 1625 il giovane è attivo in Italia, a Venezia e a Roma, dove esegue una Veduta di villa Borghese (Campetelli 2003). È forse in questo torno di tempo che papa Urbano VIII gli conferisce, per meriti pittorici, il titolo di Cavaliere dello Sperone d’oro. Nel 1632 si trova di certo a Venezia come testimonia la pala votiva della chiesa di San Fantino. Successivamente risulta iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani dal 1634 al 1639 e nell’elenco della “Tansa de’ pittori” dal 1639 al 1642 (Favaro 1975). Nel 1640 nasce il figlio Daniel, futuro collaboratore. Tra il 1648 e il 1649 firma con l’epiteto Eques Auratus, l’Ingresso del patriarca Federico Corner a San Pietro di Castello, la Caccia ai tori in campo San Polo e Il fresco in barca (oggi conservati al Museo Correr di Venezia). Il 30 novembre 1655 è chiamato, assieme a Nicolas Régnier, a stimare la collezione di Giovanni Pietro Tiraboschi (Savini Branca 1964). L’anno seguente, a coronamento di un periodo di intensa attività pittorica, gli viene commissionato il Ritratto del doge Francesco Corner, da collocarsi nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale. Poco dopo stipula il contratto con il priore della chiesa dei Santi Giovanni e Palo, fra’ Giovanni Premuda, per la realizzazione di una tela celebrante La vittoria della flotta veneziana su quella turca ai Dardanelli (Chiappini di Sorio 1967). Nel 1663 il conte Czernin, plenipotenziario dell’imperatore Leopoldo I, gli commissiona alcune  opere e, a quanto pare, assume per un certo tempo alle proprie dipendenze il giovane figlio Daniel (Daniel 1996).   

Joseph Heintz il giovane muore a Venezia nel settembre del 1678. Il necrologio nella parrocchia di Santa Sofia recita: “il Sig. Iseppo Hens Pittor de anni 78 circa da febre giorni quindici medici Albertini/ Fa seppelir le sue figliole”. Una di certo è quella Regina Heintz ricordata da Martinioni (1663) tra i soli cinquanta “pittori di nome che al presente vivono in Venetia”.

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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HEINTZ, Joseph il giovane - lo stile pittorico

In Italia Heintz il giovane godette inizialmente una certa fama soprattutto come autore di quadri “capricciosissimi”, dove “concerti di mostri, fantasme, di chimere e cose simili” condividono la scena con eroi classici o mitologici. Se l’ambientazione recupera schemi diffusi dalle stampe di Bosch e Brueghel il vecchio, alcuni mostriciattoli derivano invece da matrici callottiane. Due esempi tipici di questa produzione sono l’Orfeo agli inferi della Galleria degli Uffizi e la Vanitas della Pinacoteca di Brera.

Artista eclettico, capace di spaziare con disinvoltura da un genere all’altro, Heintz il giovane fu inoltre il “primo interprete”, a Venezia, “dell’interesse specifico per la veduta” (Pedrocco 2001). Nelle cosiddette Feste veneziane del Museo Correr egli “tenta il documentario con uno spirito figurativo aneddotico e preciso. Ma che spigliatezza, che brio, che vivacità frizzante ed icastica nella resa delle macchiette, dove s’insinua una certa eleganza callottiana, ravvivata dalla cromia accesa e festosissima, che ricorda Forabosco e Maffei. In queste scene spira una vena caricaturale abbastanza in anticipo sui tempi. Insomma l’Heintz appare da queste tele un temperamento che ha infilato la sua strada fuori dall’accademia, dal genere aulico e sacro” (Pallucchini 1937). Fra le lagune il tedesco contava inoltre “un certo numero di seguaci, per di più anonimi forestieri, che si limitavano nelle loro opere a ripetere meccanicamente un ristretto novero di composizioni topografiche, soprattutto l’immancabile veduta della Piazzetta” (Aikema 2002).

Durante la sua lunga permanenza fra le lagune, egli divenne il cronista attento e smaliziato della civiltà veneziana del Seicento. Spettano al suo pennello infatti la serie dei Ridotti e le numerose Lotte sul ponte dei pugni, “antichi e semplici dipinti di divertimenti veneziani”, dove “lo scherzo più insensato diventa lo spasso di tutto il mondo che riempie balconi e si diverte prendendo parte in allegria ed agitazione” (Goethe).

Egli fu, come detto, uno "specialista in vedute urbane condite da gustosi particolari fatti da improvvisate in costumi variopinti o da tranche de vies sature di realismo da bambocciante [...], nel corso della sua carriera eclettica ebbe modo di misurarsi con le vedute di città a volo d'uccello, genere a cui appartiene la tela di Udine: al museo Correr è esposta una grande Pianta prospettica di Venezia con la sua firma, replica con notevoli varianti dell'incisione del 1500 di Jacopo dÈ Barbari [...]. Il catalogo heintziano propone però altri interessanti raffronti per consolidare la nuova attribuzione della Pianta della città di Udine. Collocati allo stesso periodo (la prima metà del sesto decennio del Seicento), il Pescivendolo di collezione privata romana - firmato e datato 1652 o 1655 - e l'Interno di cucina del museo Davia-Bargellini di Bologna dimostrano una forte attenzione alla descrizione caricata della vita della gente comune d'allora, la medesima che frequenta la zona bassa dell'opera udinese" (Lucchese 2004).  

Datata 1666 è invece la pala d'altare della parrocchiale di Laggio di Cadore. "Ad una data tanto avanti nel secolo, lo Heintz costruisce l'immagine variando leggermente il telaio veronesiano; anche la problematica della forma sembra svolta in termini manieristici, modernizzati soltanto dalla pennellata larga e schiumante, piena di tremolii occhielli, cediglie, capricci grafici; come se tutte le cose fossero di carta piegata. Non manca qualche accenno al caravaggismo importato a Venezia dal Saraceni, nelle pagine del libro dagli angoli consunti dall'uso, o nelle unghie nerastre di S. Antonio" (Lucco 1981).   

“Il pittore di Augusta, ultimamente riscoperto dalla critica (in primis Rodolfo Pallucchini), fu effettivamente un precursore in Venezia di generi prettamente collezionistici, quali le vedute della città, le scene di fantasia, le nature morte” (Fantelli 1982). Tuttavia alcune repliche tradiscono “la presenza di una bottega prolifica che sosteneva la produzione del maestro [...]. Talune soffrono uno scadimento qualitativo, altre, probabilmente realizzate in gran parte da Heintz, mantengono invece la qualità pittorica del prototipo” (D’Anza 2004).

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

 

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Michele Marieschi (Venezia 1710 - 1744)

 

 

 

Michele Marieschi, Il palazzo Ducale con la punta della Dogana, Varsavia, Muzeum Narodowe

 

 

 

MARIESCHI, Michele - note biografiche

“Nato a Venezia l’8 dicembre 1710 (Mauroner 1940), e dunque di tredici anni più giovane del Canaletto, Michele Marieschi morì a trentatré anni, il 18 gennaio 1743 («more veneto», cioè 1744), «quando gli si era appena dischiuso il suo vero mondo dell’arte» (Morassi 1966).
Ne scriveva il Guarienti (1753): «datosi con indefesso studio alla Quadratura ed Architettura, fu presto in istato di staccarsi dal Padre [poco prima definito «mediocre pittore»] e portarsi in Germania, dove con la bizzarria e copia di sue idee piacque a molti Personaggi, che lo impiegarono in grandi e piccole operazioni; con che di non poche facoltà fece acquisto». Probabilmente, come riteneva il Mauroner (1940), egli entrò da giovane in contatto col bellunese Gaspare Diziani, stabilitosi a Venezia fin dal 1725, che fu testimone alle sue nozze con Angela Fontana nei 1737. Il Mauroner pensava ancora essere stato il Diziani, che già aveva lavorato in Germania come scenografo, a favorire il viaggio del Marieschi; viaggio che, in ogni caso, dovrebbe esser avvenuto tra il gennaio del 1731, allorché (secondo le ricerche del Manzelli, 1985 ­1986) si faceva garante di Francesco Tasso che doveva apparecchiare la festa del giovedì grasso in piazza San Marco, e il maggio del 1735, quando era a Fano, assieme appunto all’impresario Tasso, per allestire gli addobbi funebri in occasione della morte della regina di Polonia Maria Clementina Sobiesky” (Pallucchini 1995).
Il 3 gennaio 1731, come detto, l’artista prestò garanzia per l’allestimento di un’architettura effimera (Padoan Urban 1980). In questo documento, il primo conosciuto sulla sua attività, l’esplicito riferimento a “Michiel Marieschi Pittor”, induce a credere che all’epoca egli doveva essere attivo già da qualche tempo come pittore di scenografie teatrali e apparati festivi.
Iscritto alla Fraglia dei pittori dal 1736 al 1743, la sua operosità si compendia nel breve periodo veneziano degli ultimi anni di vita.
“Lavoratore instancabile, a partire dal 1738 iniziò ad incidere le grandi tavole della stupenda raccolta di ventuno vedute veneziane, pubblicate tra il 1741 ed il 1742, battendo sul tempo le analoghe sillogi di Antonio Visentini (edizione completa del 1742) e di Canaletto (1744). [...] Forse non aveva ancora finito di incidere le lastre di rame (per cui il Senato gli aveva accordato il 3 giugno 1741 il privilegio privativo decennale) che l’artista «aggravato da male», il 13 gennaio 1742 fece compilare la cedola testamentaria dal notaio Giuseppe Uccelli: «Considerando io Michiel Marieschi q.m. Antonio la fragilità di questa misera vita, la certezza della morte e l’incertezza dell’hora di quella ho stabilito pertanto sino mi attrovo tempo voler disponer delle cose mie qui in terra». Un anno dopo – 18 gennaio 1743 [more veneto, 1744] – l’artista moriva a trentadue anni appena compiuti” (Succi 1989).
Secondo Guarienti (1753) fu “la troppo assiduità alla fatica e allo studio” a causargli la morte.

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

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MARIESCHI, Michele - lo stile pittorico

“Chi fu veramente Michele Marieschi? La ricostruzione della sua personalità artistica costituisce uno dei casi più appassionanti, dibattuti ed intricati nella storia dell’arte veneziana del Settecento. Già durante la brevissima esistenza le vedute veneziane di Marieschi venivano acquistate – come ormai risulta documentalmente provato – dagli amatori inglesi durante il rituale Grand Tour e da blasonati connoisseurs come il Feldmaresciallo Mathias von der Schulenburg (il comandante in capo delle armate della Serenissima), quali capolavori di Antonio Canal detto il Canaletto. Dopo la morte precoce, un oscuro apprendista della bottega di Marieschi, di nome Francesco Albotto, sposò la vedova di Michele nel 1744 e sfornò per tre lustri (fino al 1757) una insidiosa produzione strettamente aderente allo stile del maestro, giungendo fino al punto di farsi chiamare «il secondo Marieschi». Per complicare ulteriormente le cose nel 1711 nacque a Venezia un altro pittore con lo stesso cognome (Jacopo Marieschi) il quale visse assai più a lungo – fino al 1794 – e frequentò la bottega di quello stesso Gaspare Diziani che fu in stretti rapporti anche con Michele” (Succi 1989).
Va detto subito che Marieschi “è un pittore che si esprime tanto nel genere reale della veduta prospettica, di cui ci ha lasciato un campionario di incisioni di alta qualità [Magnificentiores Selectioresque Urbis Venetiarum Prospectus], come in quello fantastico della veduta ideata o capriccio. Evidentemente istradato dagli esempi canalettiani, ha presto raggiunto una sua indipendente visione espressiva, d’un pittoricismo intensamente goduto nel senso materico; e al tempo stesso in rapporto con il gusto teatrale della sua rappresentazione, mediante l’impiego di macchiette recitanti che occupano i primi piani delle sue vedute. [...] Si potrebbe dire che quasi tutte le Vedute del nostro artista siano precedute da invenzioni canalettiane. Ma mentre il Canaletto si avvale del telaio prospettico per condensare quella sua luce magicamente temporalizzata, creando, dopo gli olandesi del Seicento, i primi plein ­air della pittura italiana, il Marieschi accentra il suo interesse sul racconto scenografico, dimodoché le sue Vedute sono tessute per lo più su una spazialità ridotta, costrui­ta su quinte successive, come su un palcoscenico. Esse vanno gustate soprattutto nei particolari: la saporosità d’un muro scrostato, la vibrazione d’un intonaco slabbrato accarezzato dalla luce, un pavimento a spina di pesce, un gruppo di case in lontananza velate dall’aria e ridotte a tessere di mosaico, son tutte occasioni per la ricer­ca minuta del «materico» più imprevisto. Mentre si potrebbe dire che la veduta canalettiana tende alla classicità, quella del Marieschi è essenzialmente decorativa, portata al racconto episodico preottocentesco” (Pallucchini 1995).
“Una pennellata veloce e ricca di giochi di ombra e di luce caratterizza le vedute dell’artista; questo gusto per il pittoresco lo porta ad anticipare per taluni lati la sensibilità del Piranesi, quando costruisce vedute di interni, che si animano e diventano più complesse nel gioco dei vari piani e delle scalinate” (D’Arcais 1966).
Nei suoi capricci inoltre, “in un clima surreale e nostalgico s’inverano poetiche invenzioni fra fantasia e realtà, prodotte da un senso teatrale spiccatissimo  ed è proprio sotto questo aspetto che gli anni giovanili del Marieschi ritornano ora fecondi di nuovi pensieri pittorici” (Morassi 1966). In tali dipinti, animati da gustose macchiette nelle quali appare già il segno del gusto guardesco, “poté meglio esprimere il suo estro immaginoso e fervido, vibrante di luce e di colore” (Lorenzetti 1942).    
Per quanto riguarda la cronologia delle opere, “non esiste nemmeno una veduta dipinta da Marieschi che, sulla base di riscontri topografici o documentari, sia databile con certezza prima del 1735, tutto porta a ritenere che l’artista, seguendo del resto lo stesso itinerario percorso da Canaletto, affiancasse, all’inizio degli anni trenta l’attività di scenografo-macchinista con quella di pittore di capricci, e che solo in un secondo momento si dedicasse al vedutismo, influenzato dalla fama folgorante che Canaletto andava acquisendo in quella specialità. Subito dopo la metà del quarto decennio si verificò infatti un mutamento di rotta e la produzione di vedute prevalse nettamente su quella di capricci” (Succi 1989).
“L’indagine prospettica di Marieschi sembra profondamente caratterizzata dall’impiego della camera oscura con obiettivo quadrangolare, tale da poter abbracciare un campo visivo molto superiore a quello normalmente determinato dallo sguardo umano. Basta girare Venezia con le riproduzioni delle sue incisioni e dei suoi dipinti, e confrontare le opere con la realtà fisica della città, per capire da una parte la cura dedicata ai particolari architettonici e dall’altra la forzatura dei tagli. Questi, stabiliti sicuramente grazie alla camera ottica, riflettono anche, nella scelta molto angolata dei punti di vista, la base culturale di Michele Marieschi, che è quella della scenografia teatrale. Ne risulta un movimento dinamico che coinvolge visualmente chi guarda le sue opere. Il loro magnetismo, desunto dalla concentrazione in un’immagine bidimensionale d’una realtà prospettica che a volte supera i centottanta gradi, procura un sentimento di libertà, di avventurosa spazialità. La rivelazione di questo sentimento costituisce il grande contributo di Michele Marieschi all’indagine vedutistica” (Toledano 1988).

 

 

Daniele D'Anza (2005)

 

 

 

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Antonio Stom (Venezia 1688 –  1734)

 

 

Antonio Stom. Vista di Piazza San Marco dalle Procuratie Vecchie. Collezione privata

 

 

 

STOM, Antonio - note biografiche
Nato probabilmente nel 1688 e morto a Venezia nel 1734 (de Zucco 1976, p. 49), Antonio Stom discendeva da una famiglia di pittori che fra il 1680 e ii 1700 si era affermata a Venezia specializzandosi nella produzione di battaglie. Alla prima generazione, formata dai fratelli Matteo e Giovanni ("Zuanne"), era subentrata una seconda gestita da Antonio ("Tonino") che portò avanti con uguale fortuna l'impresa familiare che aveva bottega in campo Rusolo (Orseolo). Il ruolo ricoperto da Antonio Stom nell'ambito della cultura pittorica veneziana nei primi decenni del Settecento è stato abbastanza sorprendente. Egli infatti fu autore di numerose vedute "prese dal vero" o di fantasia e di gustosi capricci architettonici con ruderi romani e obelischi ai bordi di baie marine che, pur risentendo dei modelli di Eismann e di Carlevarijs, presentano caratteristiche stilistiche spiccatamente originali. Il suo linguaggio pittorico si esprime infatti con pennellate larghe e corsive, a impasto grasso, che lasciano generalmente indefiniti i contorni e con una inusuale tavolozza cromatica a prevalenti tonalità verdi e grigio-azzurrine, mentre le spigolose "figurette" sono toccate a macchie di bianco, blu, rosso cupo. Dopo la morte di Antonio, il ricordo degli Stom svanì nell'oblio e soltanto un illuminante scritto di Antonio Morassi (1962, pp. 291-306) ha portato alla riscoperta di questo artista che «fu pittore di paesaggi, di vedute, di battaglie, di quadri di fantasia e "capricci", ma soprattutto fu un grande "compositore" di scene storiche, un evocatore incredibilmente dotato di avvenimenti, cerimonie, fatti memorabili: insomma un "reporter" pittorico ante litteram e in grande stile». Nel suo studio Morassi restituiva ad Antonio Stom alcune vedute veneziane che erano state in precedenza attribuite ad altri artisti, come Luca Carlevarijs, e gli assegnava anche l'importante serie di tele di palazzo Mocenigo a San Stae (Venezia) narranti eventi storici della famiglia. Lo studioso osservava che i dipinti di Stom si distinguono per l'originalità dei tagli vedutistici e per l'abilità nel movimentare gli spazi: «Egli ama la folla, le grandi masse di popolo, soldati, nobili, le fogge fantasiose, i costumi orientali, turcheschi, ed è felice anzi quando può inserire nelle sue composizioni spettacolari elementi esotici, o maschere, o tipi stravaganti, che ne aumentino il lato pittoresco». Esemplare in tal senso è il ciclo delle cinque grandiose tele (riprodotte in Pallucchini 1994, pp. 231-233) che l'artista eseguì per il palazzo Mocenigo a San Stac, tre delle quali - secondo l'individuazione fatta da de Zucco (1976, p. 54) - illustrano altrettanti episodi - con due suggestivi notturni - del soggiorno a Verona nel 1717 di Violante dÈ Medici "Vedova Elettorale Palatina", che fu ricevuta dal capitano della città Alvise v Mocenigo. Gli altri dipinti rievocano L'ingresso dell 'ambasciatore Advise II Mocenigo a Costantinopoli, avvenuto nel 1709, e Il ricevimento alla Torre di Londra dell'ambasciatore Alvise Mocenigo, il cui stemma di famiglia è visibile sulle sontuose carrozze in attesa sul molo a destra. Quest'ultimo dipinto, di solito menzionato con lo sconcertante titolo L'arrivo di nn principe di Svezia o Chioggia, è sorprendentemente basato, con notevoli varianti, sul dipinto di Carlevarijs raffigurante Il ricevimento degli ambasciatori Nicolò Erizzo e Alvise Pisani alla Torre di Londra, facente parte di un ciclo eseguito dal maestro friulano per la famiglia Pisani verso il 1715-1720 (Succi, Reale 1994, pp. 212-213). La serie di palazzo Mocenigo, tuttora in situ e databile - anche sulla base delle notevoli qualità stilistiche al terzo decennio del Settecento, dimostra, per l'importanza del committente e per l'impegno profuso dall'artista nell'ambizioso progetto di esaltazione di quella illustre famiglia, che la fama di cui godeva Stom era tale da farlo preferire non solo all'ormai vecchio Carlevarijs ma anche all'esordiente Canaletto. Nel ricordare l'esistenza di un gruppo di sei scene di vita veneziana (la Regata, il Parlatorio, il Ridotto, il Ponte dei pugni, la Caccia dei tori, la Festa della Sensa in Piazzetta), di cui alcune firmate a tergo, Pallucchini (1960, p. 42) ne sottolineava il grande interesse perché in esse la tradizione vedutistica di Heintz e il nuovo gusto macchiettistico di Carlevarijs confluivano in brani gustosissimi «per l'estro indiavolato della pennellata di tocco, per la mise en page prospetticamente anacolutica, ma fantasiosa e bizzarra, per la caratterizzazione estrosa delle macchiette. Insomma un brio narrativo, una spigliatezza nell'abbozzare situazioni inventive [...] da costituire precedenti essenziali per il gusto guardesco». Stom intuì genialmente che la vita veneziana e ogni luogo della città lagunare, con i suoi traffici e le sue feste, costituiva di per sé un quadro affascinante. L'artista era indotto a esaltare il lato spettacolare e dinamico della veduta sospingendo gli elementi architettonici in secondo piano per fare spazio al pittoresco affollamento delle imbarcazioni o della gente, che costituisce quasi sempre l'elemento caratterizzante e captante dei suoi quadri. Un esempio notevole di questo nuovo modo di intendere la veduta, espressa in modo sommario e riassuntivo, è offerto dal dipinto raffigurante La caccia dei tori in campo Santo Stefano (fig. 52), forse risalente allo stesso periodo delle sei scene di vita veneziana ricordate da Pallucchini. La tela, medita, raffigura il campo Morosini, cioè una parte della città che era priva di tradizione iconografica, se si eccettua l'incisione con la Caccia dell'orso a Santo Stefano contenuta nella raccolta di stampe edita da Domenico Lovisa nel 1717 (Franzoi 1993, pp. 238-239). II punto di stazione, posto verso il centro del campo, avendo alle spalle la chiesa di Santo Stefano, consente all'artista di riprendere il momento culminante della singolare festa, la cui proibizione venne decretata solo nel 1802, quando il rovinoso crollo di un'impalcatura, causato dal panico suscitato negli spettatori da un toro imbizzarrito, causò numerosi morti e feriti. Stom coniuga la novità del taglio vedutistico con l'assoluta originalità della trasposizione pittorica dell'episodio, descritto con un gusto cronachistico che focalizza l'attenzione sulle graziose figure in maschera e sui tiratori, abbigliati in camice bianco e che reggono le lunghe funi legate alle corna dei tori aggrediti dai cani. Nella produzione di Tonino, prevalentemente dedicata al capriccio rovinistico, i paesaggi "puri" sono rari e quasi tutti risalgono all'ultimo periodo, quando l'artista subì la suggestione delle opere di Marco Ricci. Esemplari in proposito sono i dipinti esposti in mostra, raffiguranti ampie visioni prealpine, in cui l'occhio spazia tra fluenti riviere e deliziosi borghi. Le rade macchiette, toccate a squillanti tasselli cromatici secondo il particolare gusto dell'artista, partecipano senza gesti eccessivi allo spettacolo di una natura grandiosa e solenne, poeticamente evocata. La disomogenea qualità dei dipinti attribuiti a Stom che continuano ad apparire con una certa frequenza sul mercato antiquario, è probabilmente ascrivibile agli interventi della bottega in cui quasi certamente operava insieme ai fratelli. I modi approssimativi e sommari della sua pittura non hanno sempre entusiasmato gli studiosi, che hanno espresso giudizi contrastanti: mentre Morassi (1962, p. 298) ha qualificato Stom come «artista di gran valore che ebbe una visione precorritrice del mondo pittorico a venire«, Pallucchini (1994, p. 234), lo ha relegato nella schiera dei piccoli maestri, pur riconoscendogli «un particolare significato« nel quadro della cultura pittorica veneta del primo trentennio del Settecento.

 

 

Dario Succi.

 

 

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STOM, Antonio - lo stile pittorico

L'Arte dello Stom, come annota il Morassi, è facilmente identificabile: « i colori sono stesi ad impasto grasso, a pennellate larghe,  dando l'impressione d'una pittura a spatola, più che a pennello; le forme non sono contornate, non hanno un nitido disegno, bensì risultano dalle macchie del colore, ciò che si avverte specialmente osservando da vicino le figure, non per nulla dette « macchiette », cioè dipinti appunto a « macchia ». Ben lontano dai rigori prospettici di un Carlevarijs, lo Stom si rivela artista estroso, geniale, portato ad una concezione atmosferica, squisitamente sciolta e luminosa della pittura. In questo senso e nel valore fantastico ed evocativo delle sue immagini, lo Stom,  ebbe un posto ben identificabile nell'arte del suo tempo e fu di stimolo alla stessa formazione di Antonio Guardi. Nel vedutismo ha una posizione personale che si stacca da quella più realistica ed obiettiva di un certo gusto che si andava affermando per seguire soltanto i dettami più profondi delle sue aspirazioni formali.

 

Dario Succi.

 

 

 

 

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Francesco Tironi (Venezia 1745 – 1797)

 

 

 

Francesco Tironi, Veduta delle isole di Murano di San Michele e di San Cristoforo con le Fondamenta Nuove, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle

 

 

 

 

TIRONI, Francesco - note biografiche

Le notizie documentarie su Tironi sono scarse e derivano quasi tutte dagli scritti del canonico veneziano Giannantonio Moschini (1773-1840). Nella sua opera Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a’ nostri giorni (Venezia 1806), dopo aver accennato alle opere del modenese Francesco Battaglioli, Moschini scrive: “Qui aggiungerò ch’è a compiangersi il nostro Francesco Tironi, che morto sia in troppo fresca età da qualche anno, perché i Porti di Venezia e le Isole disegnati da lui, ed incisi dal nostro Antonio Santi [sic], ci fanno scorgere quant'oltre sarebbe arrivato". Qualche anno dopo nella sua Guida per la città di Venezia all'amico delle belle arti (Venezia-Alvisopoli 1815) accennando alle raccolte di incisioni raffiguranti le isole della laguna veneziana, Moschini ricordava “quelle di Antonio Sandi dietro i disegni di Francesco Tironi”. Da ultimo nella sua memoria Dell’incisione in Venezia anteriore al 1840 ma pubblicata postuma (Venezia 1924), Moschini, sempre parlando dell'incisore bellunese Antonio Sandi (Puos d'Alpago 1733-1817), ne rammenta le “XXIV isolette delle Lagune Veneziane, in 4, con disegno di Francesco Tironi”, oltre ai quattro “Prospetti marittimi de’ Porti di Lido, di Chioggia, di Malamocco e de Murazzi”.

Come si vede le fonti antiche ricordano Tironi esclusivamente come disegnatore, ignorandone l 'attività pittorica che viene per la prima volta menzionata da F. De Boni nella sua Biografia degli artisti (Venezia 1840) dove il maestro viene definito “pittore prospettico veneziano” nato “nella seconda metà del secolo decimottavo” e morto “in fresca età circa il 1800”. Nessun documento su Tironi venne scoperto nei decenni successivi. Solo nel 1969 Marina Stefani Mantovanelli, in un articolo pubblicato nel 1969, rendeva pubblico l’atto di morte avvenuta il 28 febbraio 1797, lo stesso anno della caduta di Venezia. La singolare coincidenza consente di reputare l'artista come l'ultimo esponente della gloriosa storia del vedutismo durante la Repubblica Serenissima. Dal necrologio risulta che Tironi era prete, nato da famiglia friulana (il padre era "dalla Brazza") residente a Venezia in Corte Colonna e che aveva “anni 52 circa”. Da ciò si deduce che doveva essere nato nel 1745.

 

 

Dario Succi

 

Tironi Francesco - altri articoli e pubblicazioni :

Dario Succi, Francesco Tironi - Ultimo vedutista del Settecento veneziano

 

 

 

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TIRONI, Francesco - lo stile pittorico

L'unica opera certa di Francesco Tironi era costituita dalla serie di bellissimi disegni preparatori per la raccolta di stampe raffiguranti le isole della laguna di Venezia, che furono incise da Antonio Sandi e vennero pubblicate dall’editore Ludovico Furlanetto in epoca imprecisata, ma comunque successiva al 1779 (e quindi molto probabilmente tra il 1780 e il 1785) perché la raccolta non figura nel catalogo editoriale di Furlanetto uscito in quell’anno (Succi, Da Carlevarijs ai Tiepolo, Venezia 1983, pp. 344-349). Della serie di disegni lagunari sono conosciuti dieci fogli conservati in istituzioni pubbliche, di cui sei al Museo dell’Albertina a Vienna (Pignatti 1974, nn. 36-41), due nella Robert Lehman Collection di New York (Pignatti 1974, nn. 25, 42), uno nella Withworth Art Gallery di Manchester (Pignatti 1974, n. 43), uno nella National Gallery of Art di Washington (Pignatti 1974, nn. 46, 47). Altri cinque disegni della stessa serie si trovano in collezioni private. Sono noti altri disegni di Tironi raffiguranti vedute di Venezia: sei sono conservati nel Victoria and Albert Museum di Londra (Pignatti 1974, nn. 52-57), uno nella National Gallery of Art di Washington, due nella Pierpont Morgan Library di New York (Pignatti 1974, nn. 52-57, 47-49), altri ancora in varie collezioni private.

Mentre la grafica tironiana è stata oggetto di un accurato studio da parte di Terisio Pignatti, che ha pubblicato in una preziosa cartella la serie completa in fac-simile delle stampe di Sandi, riproducendo altresì molti disegni autografi di Tironi (Ventiquattro isole della Laguna / Disegnate da Francesco Tironi / Incise da Antonio Sandi, Venezia, Cassa di Risparmio, 1974), era mancata finora un’indagine critica che gettasse luce sulla genuina produzione pittorica dell’artista. Eppure i disegni di Tironi, stilisticamente ben caratterizzati, costituiscono una solida base di partenza per la ricostruzione della produzione di vedute su tela. Si ricordi che anche di Michele Marieschi, di cui non si conosce neanche un disegno, non era noto nemmeno un dipinto firmato e che la sua produzione pittorica, rimasta avvolta nella nebbia fino alla mostra monografica curata dallo scrivente (Marieschi tra Canaletto e Guardi, Castello di Gorizia, 1989), è stata ricostruita partendo dalla raccolta di ventuno stampe Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores pubblicata nel 1741.

Come risulta dalla documentazione grafica lo stile di Tironi è contraddistinto dalla fusione di elementi canalettiani e guardeschi. Tali caratteristiche compaiono in varie vedute, che ho avuto modo di studiare nel corso degli anni, che presentano evidenti affinità stilistiche con i disegni e che sono tutte databili, sulla base della specifica materia pittorica e di oggettivi elementi tipografici, alla seconda metà del diciottesimo secolo.

Un vero capolavoro, notevole anche per le dimensioni (cm 67 x 144; collezione privata), è la Veduta del molo dal bacino di San Marco che offre una spettacolare visione panoramica della città lagunare. La veduta (che reca sul verso del telaio un’antica attribuzione a Canaletto) dimostra che a quell’epoca l’artista aveva maturato una notevolissima abilità espressiva esemplata sul gusto prospettico canalettiano, mentre il movimentato gioco delle imbarcazioni testimonia l’influenza dei modelli di Francesco Guardi.

Caratteri stilistici analoghi compaiono in una eccezionale serie – la più ampia che si conosca – di quattro bellissime vedute sicuramente autografe di Tironi (cm 58 x 75 ciascuna, collezione privata), anch’esse recanti sul verso dei telai antiche etichette inventariali con titoli in francese e l’attribuzione a Canaletto. Esse raffigurano Il molo con il Palazzo Ducale visti dal bacino di San Marco, Piazza San Marco verso la basilica, La chiesa di San Giorgio Maggiore, Il Canal Grande con la basilica della Salute. Databile intorno al 1780 questa straordinaria serie di vedute, intrise di magia atmosferica che rende con efficacia tutta l’intima poesia della città lagunare, costituisce un documento iconografico fondamentale per la ricostruzione della genuina produzione su tela del singolare artista-prelato.

Attorno a questo primo nucleo “fondante” si possono radunare altre opere di Tironi selezionando quelle vedute che presentano affinità stilistiche, iconografiche e cromatiche, cercando inoltre di porre le basi per una prima ricostruzione dell’itinerario artistico.

Dopo la morte di Francesco Guardi (1793), Tironi impresse alla sua pittura un carattere più spiccatamente guardesco, forse con l’intento di assecondare la richiesta collezionistica di opere del grande maestro scomparso. Ad ogni modo la sua produzione pittorica deve essere stata piuttosto limitata perché le sue vedute non figurano nelle principali raccolte museali e compaiono molto sporadicamente sul mercato antiquario, dove più spesso affiorano opere stilisticamente affini ma di qualità scadente, attribuibili a seguaci o imitatori. L’esistenza di questi ultimi dimostra che l’artista dovette godere ai suoi tempi di un notevole apprezzamento da parte dei contemporanei, come del resto testimoniano le parole di vivo rimpianto scritte da Giannantonio Moschini ricordando “il nostro Francesco Tironi” morto “in troppo fresca età”.

 

 

 

 

Dario Succi

 

 

 

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Gaspar Van Wittel (Amersfoort, 1653 – Roma, 1736)

 

 

 

 

 

Gaspar Van Wittel, Il Bacino verso la Punta della Dogana. Roma, collezione Principe Torlonia

 

 

 

 

VAN WITTEL, Gaspar  - note biografiche

 

 

VAN WITTEL, Gaspar  - lo stile pittorico

 

 

 

 

 

 

 

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Visentini Antonio (Venezia, 1688 - 1782)

 

 

 

Antonio Visentini, La Piazzetta vista dal Molo, acquaforte.

 

 

 

 

 

VISENTINI, Antonio - note biografiche

Antonio Maria Visentini, pittore, disegnatore, incisore, architetto, professore,  nacque a Venezia il 21 novembre 1688 “nel giorno dedicato alla Beata Vergine della Salute” da un modesto artigiano, un barbiere, morto nel 1709.

 

Il profilo biografico di Visentini tracciato da Pietro Guarienti nel 1753, lumeggia gli aspetti di un professionismo esemplare: “Appresa l’arte di dipingere da Antonio Pellegrini, si diede allo studio dell’architettura, e da sé divenne uno dei migliori professori di essa, ed intendentissimo delle regole della prospettiva. Nè di ciò pago ad intagliare in rame si accinse e ciò eseguì con tale intendimento ed esattezza che ammirare si fece nelle opere date in pubblico, e principalmente nella pianta, prospetto, ed interno della Chiesa di S. Marco. Oltre a ciò con molta sua lode in quaranta rami intagliò le vedute più cospicue di Venezia, cavate da altrettanti quadri di Antonio Canal, posseduti dal Signor Giuseppe Smith Console Britannico. Attento, diligente, esatto, indefesso ne’ suoi varj lavori, vive in patria stimato e riverito per il suo sapere e virtù, ed amato per la sua modestia, da cui le altre sue belle doti un particolar pregio ed ornamento ricevono”. 

 

Allievo di Giovanni Antonio Pellegrini (verosimilmente fino al 1708, quando il maestro partì per l’Inghilterra) Antonio Visentini praticò la pittura prospettica, di storia e di figura, come risulta dalle rare testimonianze superstiti: il suo nome compare nei registri della fraglia per gli anni 1711-1721-1770 (Favaro 1975, p. 155). Al 1717 risale il primo rapporto con Joseph Smith: a Visentini furono pagati 25 zecchini in relazione ad una imprecisata commissione combinata da Smith per Thomas Coke (Vivian 1971). Come per Canaletto, l’incontro con il conoscitore inglese fu di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’attività artistica. Intorno al 1726 Smith prese in affitto dal procuratore Girolamo Canal una villa sul Terraglio nel territorio di Mogliano, tra Mestre e Treviso; dopo l’acquisto nel 1731, affidò a Visentini l’incarico di migliorare l’ampia proprietà che comprendeva anche una chiesa e una colombaia. Otto fini acquarelli, conservati nella Royal Library, Windsor Castle (Blunt, Croft-Murray 1957, nn. 538-545) illustrano il complesso architettonico. Il 12 agosto 1722 il Senato accordò il privilegio per la vendita della serie di stampe con la pianta e gli spaccati della basilica marciana e di altre chiese cittadine. Le otto grandi tavole della Iconografia della Ducal Basilica […], incise da Vincenzo Mariotti su disegni di Visentini, furono pubblicate nel 1726 a cura dell’artista che le pose in vendita nella propria abitazione in Campiel di Ca’ Zen in Biri, come si legge sul frontespizio. Una seconda edizione fu pubblicata da Antonio Zatta nel 1761 con il titolo L’Augusta Ducale Basilica dell’Evangelista San Marco […] (Succi 1986, pp. 141-146). Poco dopo l’elezione, nel 1726, a priore del Collegio dei pittori, Visentini iniziò ad intagliare le quattordici vedute della serie Prospectus Magni Canalis Venetiarum derivate da dipinti di Canaletto in possesso di Smith, raccolte in album nel 1735, cui fece seguito nel 1742 la prima edizione completa intitolata Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores […]. Il primo aprile 1733 furono contati a Visentini centottanta ducati per una serie di dipinti collocati nella Zecca, andati perduti (Bassi 1962, p.133); nel 1736 l’artista creò il marchio della libreria e stamperia Pasquali: la dea Minerva entro un cartiglio ornato di motivi classici sovrastato dal nome della bottega La Felicità delle Lettere, destinata a diventare il più attivo centro di diffusione degli ideali della borghesia illuminata veneziana. Dal 1735 al 1742 Visentini fu attivo nell’illustrazione libraria per Pasquali e per Giovanni Poleni, dando prova di notevoli qualità inventive e di una tecnica finissima nella creazione di deliziosi finalini e vignette con simboli della Serenissima, motivi floreali e classici, strumenti astronomici e matematici. Agli inizi del quinto decennio portò a compimento l’importante ciclo pittorico di capricci architettonici nel Palazzo Contarini a Venezia (Delneri 1986 pp. 53-69). Nel 1744 Francesco Algarotti gli affidò il ruolo principale nell’esecuzione dei due dipinti raffiguranti La chiesa di San Francesco della Vigna e L’interno della chiesa del Redentore affiancandogli Giambattista Tiepolo e Francesco Zuccarelli come figuristi (Succi 1986, pp. 79-94; Pallucchini 1994-1996, II, pp. 410-411). Nel 1745-1746 Smith commissionò a Visentini e Zuccarelli un ciclo di undici sopraporta con edifici palladiani immersi nella natura (Levey 1991, nn. 669-676). Nel 1747 l’artista pubblicò la Raccolta di vari Schizi de ornati di celebre Autore […], una serie di ventiquattro tavole ornamentali di delizioso gusto tardobarocco, in parte derivate da invenzioni di Angelo Rosis (Succi 1986, nn. 84-107). Dopo la metà del secolo si accentuò in Visentini l’interesse per le teorie architettoniche ispirate dal rifiuto delle stravaganze del barocco e da una ammirazione incondizionata per Palladio e la classicità. In qualità di architetto ristrutturò il palazzo ai Santi Apostoli sul Canal Grande, acquistato da Smith nel 1740, la cui facciata palladiana, inaugurata il 22 ottobre 1751, verrà sopraelevata da Antonio Selva nel 1784. Nel 1766 costruì il Palazzo Giusti, attiguo alla Ca’ d’Oro. L’impegno teorico proseguì negli anni sessanta con vari manoscritti polemici, tra cui il Contra Rusconi, ornato di finissimi disegni (Biblioteca del Museo Correr, Venezia). Nel 1767 l’editore Pasquali pubblicò, corredandolo di tavole incise da Visentini, il Trattato sopra gli errori degli architetti, scritto dal senese Teofilo Gallaccini nel 1621. Quattro anni dopo (1771) uscivano, presso lo stesso editore, a spese di Smith nel frattempo deceduto (1770), le Osservazioni di Antonio Visentini […] al Trattato di Teofilo Gallaccini sopra gli errori degli Architetti. Entrato a far parte della neonata Accademia Veneziana nel 1755 (donò come pièce de reception il dipinto Prospettiva con architetti, conservato nelle Gallerie dell’Accademia), nel 1764 fu prescelto dal consiglio come professore di architettura prospettica. Ma i Riformatori dello Studio di Padova gli preferirono Gianfrancesco Costa che tenne l’incarico dal 1767 al 1772, quando Visentini potè subentrare, mantenendo l’insegnamento fino al 1778. Al 1764 risale probabilmente il manoscritto
L’introduzione della soda e reale Architettura e Prospetiva […], corredato di numerosissimi disegni: proveniente dalla raccolta Cicognara (1821, n. 871), venne acquisito nell’Ottocento, unitamente alla raccolta libraria del conte, dalla Biblioteca Vaticana (Cod. Vat. Lat. 8482). In precedenza aveva portato a termine uno straordinario lavoro di studio e rilevamento di edifici veneziani, veneti e italiani. I disegni, in parte di bottega, furono riuniti nella raccolta Admiranda Artis Architecturae Varia (Royal Library, Windsor Castle) e nei tre volumi commissionati da Smith Admiranda Urbis Venetae illustranti chiese, palazzi, conventi e scuole della città lagunare (King’s Library, British Museum, Londra). Altre serie di disegni con edifici veneziani e romani sono conservate al Royal Institute of British Architects, Londra (Mc.Andrew 1974).
L’artista morì a Venezia il 26 giugno 1782 all’età di novantaquattro anni e fu sepolto nella chiesa di San Canciano. Una eccezionale longevità gli aveva consentito di dare un notevole contributo pratico e teorico alla storia della cultura visiva veneziana del Settecento: il suo nome rimane legato alle luminose acqueforti, agli innumerevoli disegni architettonici, alle vignette per libri, ai trattati antibarocchi, alla testimonianza di un dinamismo poliedrico che aderì in maniera esemplare agli ideali illuministici del Settecento. L’intera produzione incisoria, di cui viene qui presentata la parte più significativa concernente le vedute, è stata schedata nel catalogo della mostra Canaletto & Visentini, Venezia & Londra (Succi 1986).
 

 

 

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VISENTINI, Antonio - lo stile pittorico

Il primo giudizio sulla qualità estetica delle incisioni di Visentini spetta a Francesco Algarotti che, durante il soggiorno a Venezia con l’incarico di acquistare dipinti per la Galleria di Federico Augusto di Sassonia, in una lettera del 17 giugno 1743 (Posse 1931, p.42) scriveva al conte von Brühl: “J’ai inclus aussi deux avis touchant desEstampes gravées a Venise dignes d’entrer dans le Cabinet du Roy, et dans celui de Votre Excellence. Les vües de Venise sur tout sont extremement belles.” La data della missiva e la presenza di un album di Visentini nel Kupferstichkabinett di Dresda (Heinecken, 1778-1790, III, p. 559) fa ritenere quasi certo il riferimento alle vedute veneziane che erano state appena pubblicate (1742). Moschini (ante 1840, ed. 1924, p. 151) osservava, con notevole finezza critica, che nelle acqueforti di Visentini “vi è franchezza, spirito, intelligenza, e que’ tagli fuggitivi co’ quali e’ trattava l’acqua in ispezialità,
sono maraviglia agl’intelligenti […]. Non so, che i biografi degl’intagliatori ne ricordassero il Visentini. Eppure il meritava quando ancora non avesse che questa sola opera [le Prospettive di
Venezia] condotta”. Intorno al 1818 don Sante della Valentina, il primo biografo, ricordava che l’artista aveva intagliato nel “miglior gusto così architettonico che prospettico […] l’Isolario delle nostre lagune, e lasciò per tal modo un vero monumento di quello che alcune delle nostre amene isolette un tempo erano, e più non sono” (Succi 1986, p. 382). Cicogna (1847, nn. 4545, 4592) definì “pregevolissima edizione” la raccolta delle Prospettive di Venezia e “graziosissime vedutine” quelle dell’Isolario. La lunga parentesi del successivo oblio induceva Watson nel 1950 (Notes on Canaletto and his engravers) a definire Visentini “a dim figure”, una figura oscura. Pallucchini (1941, p. 44), dopo aver riconosciuto all’artista l’impiego di un tratteggio interrotto e “sbavato”, particolarmente propizio a rendere l’estrema ariosità dei dipinti di Canaletto, successivamente (1960, p. 174) giunse ad affermare che “le trascrizioni incisorie di Visentini peccano di fredda pedanteria”, perché offrirebbero una interpretazione degli originali canalettiani “vuota” e “abbastanza infelice.” Per Pittaluga (1952, p. 104), Visentini era “uno degli interpreti del vedutismo obbiettivo settecentesco, a scopo di ricordo di città, le cui stampe, più che dalla fantasia, sono nate da uno stato di curiosità: curiosità non priva di vita sentimentale, di grazia, come tutto ciò che è settecentesco, ma estranea di fatto all’arte”. Dillon (1976, p. 72) notava che lo stile incisorio di Visentini utilizza un “sistema semplificato ma continuamente variabile di tratti paralleli intermittenti, con incroci limitati e leggeri, che riflette senza dubbio lo stile grafico di Canaletto e sembra denunziare perfino la conoscenza del Visentini di qualche primizia acquafortistica dell’artista”. L’ipotesi non tiene conto del fatto che le incisioni visentiniane precedono quelle di Antonio Canal. Dopo il contributo scientifico di Montecuccoli degli Erri (1980) sugli stati dei quattordici rami Prospectus Magni Canalis Venetiarum del 1735, Bettagno (1982, p. 25) rivolse a Visentini il rimprovero di aver “propagandato, non sempre con risultato positivo, l’aspetto e il valore più topografico di queste opere [i dipinti di Canaletto] che, nel segno imitativo preciso ma fondamentalmente freddo del Visentini, ha finito col diffondere l’idea di un Canaletto piuttosto surgelato”. Le basi di una diversa valutazione critica furono poste nel catalogo della mostra Da Carlevarijs ai Tiepolo (Succi 1983, p. 416): “I fogli di Visentini sono tutt’altro che vuoti e freddi perché in essi l’incisore riproduttore riesce a reinventare in maniera originale l’atmosfera dei dipinti canalettiani, dandone un’interpretazione personale ricca di sentimento artistico e pervasa da una singolare verità interiore.”
È già stata rilevata dallo scrivente l’incongruenza del metodo di lettura utilizzato dagli studiosi per valutare le stampe derivate dai dipinti di Canaletto, considerando le acqueforti di Visentini “non come espressione di una tecnica artistica autonoma ma come il tentativo – più o meno riuscito – di trasferire sulla carta le qualità prospettiche e pittoriche dei dipinti canalettiani. Siffatta chiave di lettura ha avuto la conseguenza di far reputare fredde, vuote, prive di respiro atmosferico le incisioni di Visentini, confrontate con la solare luminosità dei dipinti canalettiani. Ma non è corretto porre a confronto due generi del tutto diversi come la pittura e l’incisione, di fatto accettando ancora il declassamento di quest’ultima ad arte minore, sorella povera in bianco e nero della sontuosità cromatica della pittura” (Succi 1986, p. 139). Per la sua peculiare natura, la trascrizione incisoria, essendo priva di quel fondamentale elemento del dipinto che è il colore, può realizzare le qualità artistiche del modello originale solo secondo una scala di valori autonomi. I limitati mezzi di cui l’incisore dispone, ristretti al gioco dei vari tipi di tessitura segnica sul bianco del foglio, impongono l’utilizzazione di una chiave di lettura diversa, perché diversa è la materia su cui l’artista interviene: il che non impedisce di riconoscere che l’incisore possa talvolta trarre da quella fonte di per sé luminosa che è la carta, valori uguali o anche superiori a quelli dell’opera presa a modello. Come osservava Argan (1970, p. 161), la riproduzione a stampa ha una forza di appello visivo assai limitata di fronte alle dimensioni talora imponenti o alla sontuosità dei colori di un quadro. Per tale motivo, essa “piuttosto che contemplata o ammirata, viene letta e riletta; il suo messaggio è diretto al singolo individuo e il fatto culturalmente importante è proprio che lo stesso messaggio sia ricevuto singolarmente da ciascuno”. Considerata in tale ottica, la qualità intrinseca della produzione visentiniana deve essere valutata prescindendo dal giudizio “esterno” sui dipinti corrispondenti. Si considerino le venti acqueforti dell’Isolario che, eseguite tra il 1736 e il 1737, costituiscono invenzioni dello stesso Visentini (schede nn. 41-60): il punto di vista rialzato, tipico dei vedutisti, viene abbassato fin quasi al livello dell’acqua con l’intento di infondere una maggiore naturalezza al taglio prospettico, spogliato di ogni retorica monumentale. In piena armonia con la spontaneità della ripresa, la tecnica si avvale di un segno nitido che inquadra gli elementi paesistici e architettonici in una visione essenziale e fresca, con cieli ariosi che sovrastano gli incantevoli piccoli mondi lagunari. Le vedutine sono adorne di cornici sempre variate, in un delizioso intreccio di elementi classici e di ornamenti rococò: a dispetto della molteplicità degli elementi compositivi – veduta, cornice architettonica, ornato floreale – ogni vignetta risulta squisitamente tersa e di incomparabile finezza. Collegate alle visioni insulari dalla comune destinazione per l’edizione Della Istoria d’Italia di Guicciardini curata da Pasquali (1738), le tredici lettere dell’Alfabeto figurato (schede nn. 61-73) costituiscono un altro saggio delle capacità visentiniane: il disegno delle lettere capitali stacca con misurato rilievo dalla veduta inserendosi nel quadrato del piccolissimo rame con una felicità di proporzioni che crea un rapporto perfetto tra forma e funzione. Con una
tecnica incisoria di una pulizia esemplare, l’artista crea una vignetta di classica compostezza nella quale l’architettura miniaturizzata si offre con una nitidezza visiva che ne consente la immediata leggibilità. Anche nelle trentotto tavole Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores […] si rispecchia il temperamento di un artista che, alieno dal ricorso ai forti contrasti chiaroscurali, fu un finissimo interprete delle tensioni illuministiche del Settecento. Dentro la gabbia delle linee prospettiche, la impeccabile sequenza dei palazzi, nettamente scanditi nei loro volumi, si leva sulle acque del Canal Grande come una realtà luminosa, immersa in un’atmosfera cristallina e immobile: dalla limpidezza della descrizione ottica nasce un rarefatto equilibrio espressivo, un lucido incantesimo. Il disegno impaginativo, coerente fino all’estremo, salda le architetture, i cieli e le acque in immagini dalle quali è espunta ogni concitazione: nulla deve turbare il trionfo delle regole prospettiche, la fiducia illuministica di un’esperienza ordinata, la suggestione di uno spazio perfettamente misurabile. Studiosi sensibili come Morazzoni (1943, p. 191), Pignatti (1974-III, p. 15; 1968-II, p. 9), Mason (1973, p.57) hanno pienamente intuito il fascino di queste acqueforti. Romanelli (1990, p. n.n.) in occasione della donazione al Museo Correr della serie completa delle lastre originali, ha osservato che “il Prospectus non è la somma di una serie di vedute allineate una dopo l’altra: esso è una macchina esplicativa, un sistema che appare funzionare così, nel suo complesso, nei nessi logici e vedutistici che evidenziano – richiamandoli o iterandoli – i legami che connettono tra loro le tavole, che esplicano una parte nell’altra o che anticipano in frammenti evocativi quelle parti che verranno poi a comporre l’insieme della tavola successiva.[…] Le lastre del Prospectus ci giungono quindi con la capacità evocativa e con il fascino alchemico di grandi sublimi specchi della città settecentesca: dentro di essi – in quello spazio virtuale e illusorio che è tipico delle superfici riflettenti – mentre si celano profondità incommensurabili, vengono portati in superficie e rappresentati caratteri, qualità e forme di un mondo indagato nella sua complessità presente non meno che disegnato nelle sue potenzialità per il futuro”. Montecuccoli (2002, pp. 49-51) ha avanzato l’ipotesi di un intervento assistenziale “di tipo disegnativo” di Canaletto nel miglioramento della resa delle acque avvenuto tra la prima (1735) e la seconda (1742) edizione della raccolta di vedute. L’ipotesi non considera che le eccezionali doti grafiche di Visentini si erano già perfezionate nel 1736-1737 con l’esecuzione dei rami delle isole lagunari, i cui accuratissimi disegni preparatori, conservati al British Museum, ribadiscono l’originalità di uno stile che nulla deve al lessico canalettiano.

 

 

 

 

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