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Giambattista Tiepolo (Venezia 1696 – Madrid 1770) - lo stile pittorico

 

 

 

Educato nella bottega di Gregorio Lazzarini, il giovane Tiepolo abbandonò subito la condotta diligente e accademica del maestro per abbracciarne una più spedita e risoluta. “Avido di imitare quanti godeano a’ suoi giorni di reputazioni ora emulò la maniera caricata del Bencovich, ora il forte ombreggiamento del Piazzetta” (Moschini 1806).

Nel suo primo affresco (1716), eseguito per la chiesa vecchia di Santa Lucia a Biadene (Montebelluna), l’artista si presenta quindi “debitore di Federico Bencovich, l’estroso pittore dalmata presente a Venezia fino al 1716”, tuttavia vi si scorge già quella “maniera moderna di dipingere” che Sebastiano Ricci andava diffondendo in quegli anni in laguna, “la cui influenza traspare nell’ariosità dell’impianto compositivo” (Mariuz – Pavanello 1988).

Poco dopo, nel Martirio di San Bartolomeo (Venezia, chiesa di San Stae), l’artista, “nell’ansia irrequieta, insoddisfatta, del suo spirito giovanile, è alla ricerca di nuove soluzioni, di nuove vie. Se il « dramma » della luce costituisce l’elemento fondamentale della sua pittura, che lega ancora, in qualche modo, il Tiepolo al Piazzetta, diversi ne sono però i mezzi di espressione. La resa della forma non appare impostata e risolta a colpi secchi, spezzati, bensì in un impasto più fuso, più compatto, e su morbide modulazioni appare modellata la figura del Santo nel suo atteggiamento di atroce tormento, posta di traverso, diagonalmente, a tagliare in due l’intera composizione; e nuovi sono anche gli accordi di una più chiara intonazione cromatica che lo avvicinano alla pittura di un Liss (Morassi 1943) o a quella di un Balestra (Arslan 1936), quest’ultimo operante a Venezia, ai suoi giorni. Ma la fantasia del pittore ha saputo dare impronta propria alla sua invenzione e ne ha tratto uno dei capolavori della sua giovinezza” (Lorenzetti 1951).       

Successivamente, nei dipinti dei primi anni trenta, quali l’Educazione della Vergine (Venezia, chiesa di Santa Maria della Fava) o l’Adorazione del Bambino della sacrestia dei canonici di San Marco, “la lezione di Piazzetta, ancora avvertibile nella sottolineatura realistica di certe maschere facciali, si sublima in un cromatismo acceso, di ascendenza veronesiana, e in una modulatissima definizione plastica della forma, che sostanzia l’apparizione di un’indefettibile bellezza” (Mariuz 1999). La Madonna con le Sante Caterina, Rosa col Bambino e Agnese (1739 c.) della chiesa veneziana di Santa Maria dei Gesuati è giustamente famosa  per lo “splendore della materia pittorica e anche per la bellezza della Vergine e delle sante. La Vergine, seduta su una nube, è sostenuta da angeli invisibili, mentre il bimbo è scivolato tra le braccia di santa Rosa, che lo sostiene trepidamente, e le altre due sante sono assorte in meditazione. Indimenticabile la veste bianca di santa Caterina, che sembra vittoriosamente emulare le gamme di bianchi della pala del Piazzetta con tre santi, nella stessa chiesa e dello stesso momento” (A. Pallucchini 1968).     

Per l’esecuzione della tela con il Banchetto di Antonio e Cleopatra (Melbourne, National Gallery of Victoria), realizzata qualche anno dopo, l’artista guarda evidentemente a Sebastiano Ricci, ponendosi anzi quasi in gara con quel Convito di Cristo delle Collezioni Reali inglesi che il bellunese aveva dipinto per il console Smith. Tiepolo infatti accoglie quella grandiosità dell’impostazione e ripropone addirittura “il particolare della coppia di colonne in primo piano, recise in alto dalla cornice” ed il loggiato nel fondo. L’episodio raffigurato riprende quanto narrato da Plinio il Vecchio: Antonio, invitato dalla regina a un banchetto, rimase colpito dal grandissimo sfarzo. Per tutta risposta Cleopatra tolse da un suo orecchino una perla di inestimabile valore e la dissolse in una coppa d’aceto che poi bevve, dimostrando con quel gesto la sua indifferenza alla ricchezza. In una versione precedente (Parigi, Musée Corgnacq-Jay), forse il modello di questo, “il banchetto si svolge sullo sfondo di un porticato ad arcate, sul genere di quello della Cena in casa di Levi di Paolo; e al guardaroba del maestro cinquecentesco s’ispirano i costumi, con in più un tocco di eccentricità esotica. Come sempre l’antico per Tiepolo, corrisponde al Cinquecento, l’età d’oro della pittura veneziana che tocca il suo apogeo con Veronese” (Mariuz 2004). In questo caso però il gesto della regina non è abbastanza eloquente, si direbbe quasi timidamente eseguito. Nel Banchetto di Melbourne, al contrario, “il gesto di Cleopatra che solleva la perla al di sopra del calice, pieno per metà di aceto, è diventato il fulcro della composizione. Gli astanti ne sono come ipnotizzati, compreso il cane a destra, che volge il muso verso la regina. Anche il nano di corte, che nella sua posizione defilata non riesce a vedere quello che sta accadendo, ha avvertito il clima di stupore e di attesa che si è creato, e ne chiede conto, ansioso, al servitore moro accanto a lui. Ne sono richiamati perfino i personaggi nel fondo, affacciati alla balaustra della terrazza. Quel gesto sospeso sembra aver bloccato il tempo in un istantanea di durata incalcolabile. L’ostensione della perla: questo di direbbe il vero soggetto del dipinto. Per via di quella concentrazione di sguardi, il meraviglioso spettacolo, di cui Cleopatra sembra reggere le fila, converge e si sublima nella pura forma della perla, che contiene in sé tutti i colori, e li fonde nel suo diafano, ineguagliabile lucore.

L’immaginazione di Tiepolo è continuamente attiva, non si appaga mai dei risultati raggiunti, procede in crescendo. Rispetto al modello, egli ha reso la composizione più imponente e spaziata; ha ribassato il punto di vista in modo da conferire più slancio alle figure: basti vedere come si sforbici la sagoma rampante dell’enigmatico personaggio in pellegrina e copricapo blu lapislazzuli, che entra in scena da sinistra, come sospinto alle spalle dalla luce, portandosi dietro il sentore di un remoto oriente di fiaba” (Mariuz 2004).

“Avendo ormai acquisito Giandomenico come collaboratore a pieno titolo, ed essendo confortato dal solido aiuto del quadraturista Gerolamo Mengozzi detto il Colonna, Tiepolo riesce a portare a termine nelle estati del 1746 e 1747 gli affreschi nella sala da Ballo e in quella più piccola oggi detta degli Specchi presso palazzo Labia a San Geremia. [...] Il programma iconografico e la composizione generale sono intrisi dello spirito di simulazione del teatro. Il tondo centrale del soffitto rappresenta, stando al Ripa, La Virtù che sale alla Gloria dei principi. [...].  Ma sulle pareti, che costituiscono il completamento interpretativo del soffitto, Tiepolo dipinge le più grandi e impressionanti scene di teatro che la pittura abbia mai messo in essere. Con l’aiuto delle quadrature del Mengozzi crea uno spazio doppio con quinte scenografiche aperte e la compagnia in proscenio a recitare due scene madri. Nel Banchetto di Cleopatra lo spettatore sembra invitato a salire gli scalini dipinti e ad approssimarsi (come un nano?) a quella mensa dove si celebra un amore fatto di ostentazione sensuale – il seno ignudo – di orgogli vendicati – la scommessa è vinta da Cleopatra – di sottomissione del trionfatore storico, Antonio, all’espediente di lei e soprattutto alla sua trascinante bellezza. Nell’altro, cioè L’incontro, il movimento è uguale e contrario: lo spettatore resta in attesa che il corteo formatosi sul molo si degni di scendere gli scalini dipinti e di accedere allo spazio della vita. Tutto insomma si risolve nel rituale d’amore, nobilitato sì dall’evocazione classica, ma svolto sulla scena come un prolungato corteggiamento che pare più importante persino della soddisfazione dei sensi, come una trattativa diplomatica fatta di motti e controbattute, di gesti ufficiali che malcelano altre intenzioni e di cenni d’intesa appena disciplinati dall’etichetta”. (Gemin – Pedrocco 1993).

 “A Würzburg, dove soggiornando tra il 1750 e il 1753 il Tiepolo dava magnifico coronamento alle sue ricerche spaziali, non gli dovette mancare la consuetudine con uno dei massimi architetti del tempo, Balthasar Neumann, costruttore della sede arcivescovile nella quale il pittore lavorava. Certamente in Germania il Tiepolo vedeva trionfare quell’illusionismo decorativo che era fondamentale per la sua arte e forse anche per questo, per una completa corrispondenza con l’ambiente, gli affreschi di Würzburg sono così belli e tra le opere più alte da lui dipinte. Ed in quel mondo di magici sortilegi, che è il mondo del più autentico decorativismo settecentesco, in cui tutte le architetture si popolano di fantastiche creature, aprendo i loro spazi all’invasione dei cieli della fantasia, in quel mondo ove scompariva ogni confine tra realtà ed artificio, l’architetto Balthasar Neumann, che nella teatralità barocca aveva trafusa tutta una gravità drammatica, doveva ancor più confortare il Tiepolo nella costruzione della sua straordinaria epopea” (Semenzato 1964).

“Tiepolo fu un personaggio più tradizionale per formazione e commitenza, per il tipo di arte che produsse e per le continue associazioni con l’arte del Veronese. Si è parlato così tanto del suo «debito» con Veronese che spesso ci si dimentica quanto poco il Caliari avesse da insegnarli nel campo della pittura ad affresco. Gli affreschi del Veronese a villa Barbaro non sono un fatto essenziale per l’evoluzione di Tiepolo in questa tecnica; egli non aveva bisogno di precedenti esempi di pittura ad affresco, e vi badò poco. Questa fu per lui, sin dall’inizio, una tecnica naturale. Comprese istintivamente come servirsene per le sue esigenze decorative, rimanendo serio e immaginativamente  potente, vivido e convincente; fu incontestato come pittore di affreschi, e arricchì effettivamente la tradizione veneziana. Qualunque cosa egli abbia presa in prestito dal Veronese, seppe ripagarla mille volte tanto, con moneta nuova di zecca. [...] Che egli non fosse cieco o indifferente nei confronti della natura e delle apparenze naturali è chiaro in tutta la sua arte, e nei suoi disegni sta la prova finale. Tuttavia non era soddisfatto di trascrivere la natura e il naturale, a causa della forza lievitante della sua immaginazione, per mezzo della quale l’ambiente comune e il quotidiano erano trasfigurati in qualcosa di più eccitante, di più ricco e colorato, raramente inquietante. Era nato per creare un universo alternativo, dall’apparenza solida, ben costruito, che dovesse essere estremamente bello. Questo è il chiaro scopo della sua arte, il suo unico «messaggio», da accettare, deridere o ignorare” (Levey 1988).  

“Quest’uomo piccolino, manieroso, mite, che i Veneziani chiamavano con scherzosa bonomia « il Tiepoletto » covava dentro di sé un mare di fantasie, era agitato da una bruciante passione per l’arte. Bastano, ad indicarcelo, quei suoi occhi spiritati, mordenti, che ci vengono incontro dai suoi autoritratti, e quella tensione sensuale nel suo naso d’aquila e nelle sue tumide labbra sinuose. Fu di una potenzialità creatrice quasi senza limiti. Egli abbracciò tutti i generi di pittura: la sacra e la ritrattistica; toccò le corde più drammatiche e quelle più liriche; dominò superfici murali di centinaia di metri quadrati e schizzò telette delicate di poco più che una spanna” (Morassi 1943).

“Il mondo eroico, favoloso, alto che Giambattista Tiepolo evoca su cieli luminosi, e che si contempla a cervice riversa, si capovolge nella realtà bassa, beffarda, della maschera di Pulcinella.

Negli anni ’40, quando Giambattista perviene al sublime della sua visione e riallacciandosi a Veronese ne reinventa il cosmo luminoso sulla vertigine dello spazio infinito barocco, arricchendolo del mordente moderno del capriccio [...], una schiera di Pulcinella entra nella sua fantasia. Nel mondo veneziano Pulcinella non aveva posto nel teatro (quando Goldoni va a Roma a rappresentarvi le sue commedie, il pubblico reclama Pulcinella), se mai era il protagonista del teatro dei burattini, denominati appunto puricinei, che affascinavano i bambini tanto che ne imitavano la parlata chioccia. C’è da chiedersi – e ce lo si è chiesto – da dove venga questo interesse che sembra improvviso e che sembra connettersi con l’esercizio privato degli Scherzi di fantasia, scaturisce insomma dallo stesso nucleo di fantasie segrete. Qui egli aveva calato a terra, in necropoli desolate i personaggi, le comparse che stavano lassù affissate sugli eroi della favola, e li costringe a guardare in basso, a cercare qualcosa che si cela o si consuma fra ossa e cenere. Proprio in due di questi Scherzi fa la sua comparsa Pulcinella, ogni volta un unico Pulcinella, mentre nei disegni e in altre opere compariranno in gruppo” (Mariuz 2004). “Solitari o in gruppo, sono associati a funzioni elementari, al cibo, alla defecazione e al sonno, a tutto ciò che è legato al corporeo, in contrapposizione al mondo della favola e della storia, dove non ci si soffia nemmeno il naso. Siamo, tematicamente, nella dimensione tradizionale del comico; in tutta la commedia dell’arte si riscontra questa ossessione della fame e Pulcinella è sempre alla ricerca del cibo [...]. Dopo la scorpacciata, Pulcinella evacua e dorme. Nel foglio di Trieste [Pulcinella che defeca alla presenza di altri due Pulcinella, Civici Musei di storia e arte] tutti i personaggi guardano in basso, ancora come negli Scherzi: Pulcinella si è tolto il cappello per concentrarsi sulle sue funzioni corporali e continua impudicamente a sfogare i propri bisogni mentre gli altri suoi simili lo guardano schernevoli” (Pavanello 2004).  “È tuttavia evidente che i Pulcinelli disegnati da Giambattista a diverse riprese, nell’arco di oltre un ventennio, non hanno nulla della rigidità burattinesca. Essi si presentano generalmente in gruppo – e questa è un’altra loro caratteristica –, come formassero una « società » a parte; ma, diversamente dai Pulcinelli zingareschi e miserabili di un Magnasco, ostentano un’aria grave, talvolta perfino solenne, turgidi della misteriosa potenza che si attribuisce tradizionalmente al nano. Espressione quasi archetipica di una comicità « bassa », conformato con il suo alto copricapo come un fallo, Pulcinella è l’anti-eroe, l’opposto dell’angelo” (Mariuz 1986).

 


Daniele D'Anza

 

settembre 2005