Articoli correlati:

Zoran Music - la vita, i cavallini e i motivi dalmati     

Daniele D'Anza

Uno sguardo alle opere “veneziane” di Zoran Music

Daniele D'Anza

Zoran Music a Cortina

Daniele D'Anza

Condividi su Facebook

 

Anton Zoran Music

 

Alessandra Doratti

 

 

 


Anton Zoran Music nasce il 12 febbraio 1909 a Gorizia (allora austro-ungarica), discendente da una famiglia di possidenti e produttori vinicoli del Collio goriziano. Il padre era direttore di scuola elementare e la madre insegnante. Allo scoppio della prima guerra mondiale la famiglia viene trasferita a Völkermarkt, in Carinzia. Qui Zoran inizia i suoi studi liceali che terminerà poi a Maribor. Prima di iscriversi all'Accademia di belle arti a Zagabria, trascorre brevi periodi a Vienna dove conosce molti giovani dell'ambiente teatrale e letterario. I primi incontri con la pittura sono Klimt e Schiele e, più tardi, gli impressionisti francesi a Praga. Il suo maestro in Accademia è Babic, l'allora più celebre pittore croato; questi parla con entusiasmo al giovane Zoran della pittura spagnola e soprattutto di Goya. L'artista nel 1935 trascorre due anni di studio a Madrid dove esegue delle copie dalle pitture nere di Goya e da El Greco. Seguono poi nella sua vita dei lunghi soggiorni in Dalmazia e il tanto amato paesaggio carsico diventa determinante nell'evoluzione della sua pittura. Nel 1942 rientra in Italia, dove soggiorna a Gorizia, Trieste e Venezia. Nel 1944 viene arrestato dalla Gestapo e trasferito a Trieste. È accusato dalle SS di amicizie e collaborazione con gruppi antitedeschi, e viene deportato a Dachau. Nel campo di concentramento riesce a procurarsi la carta e a disegnare. Poco dopo a causa di una grave angina lo ricoverano nell'infermeria, dove infuriava il tifo petecchiale e dove i prigionieri, stremati, morivano a un ritmo inverosimile. Egli ricorda:

 

«Ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti che mi seguivano mentre mi facevo strada, scavalcandoli. Occhi luccicanti che in silenzio chiedevano aiuto a uno che poteva ancora camminare. Erano le ultime settimane del campo e questi moribondi erano i resti di trasporti evacuati a piedi dagli altri campi lontani. Quelli che sono stati trascinati fino qui e che non sono morti ai bordi delle strade. Verso sera quelli che morivano e tra loro anche quelli solo creduti morti venivano accatastati come pezzi di legna su un mucchio, come per un rogo, quasi una torretta. Una torretta allucinante che si muoveva, che scricchiolava, si direbbe, se questo scricchiolio non fosse gli ultimi gemiti.
Durante la notte è caduta leggermente la neve - eravamo in marzo -, la mattina dopo la torretta non si muoveva più. Si viveva in un mondo fuori da tutto quello che si poteva immaginare. In un mondo assurdo, allucinante, irreale. Forse su un altro pianeta. Come strane regole, un ordine preciso, crudele, portato al limite di credibilità. Visti da lontano mi sembravano come chiazze di neve bianca, argentea sulle montagne, come macchie bianche di gruppi di gabbiani appoggiati in laguna sullo sfondo scuro della tempesta. Disegnando mi aggrappavo a mille particolari. Quanta tragica eleganza in questi fragili corpi. I dettagli così precisi. Queste mani, le dita sottili, i piedi, le bocche aperte nell'ultimo tentativo di respirare ancora un po' d'aria. Le ossa coperte da una pelle bianca, quasi celestina.
»

 

«...ho imparato a vedere le cose in un altro modo. Dopo le visioni di cadaveri, spogli di tutti i requisiti esterni, di tutto il superfluo, privi della maschera dell'ipocrisia, delle distinzioni di cui si coprono gli uomini e la società-, credo di aver scoperto la verità, di aver capito la verità, - la terribile e tragica verità che mi è stato dato di toccare».


Nel 1946, dopo che il campo è liberato dagli americani, Music ritorna in gravi condizioni di salute a Gorizia e poi a Venezia. Riprende l'attività esponendo a Roma, Ginevra, Zurigo e New York. Nel '51 vin-ce a Cortina il Premio Parigi, attribuitogli da una giuria di critici francesi; nel '52 si stabilisce a Parigi. Negli anni a venire riceve vari premi e dal '61 comincia una serie di esposizioni nei musei e nelle gallerie tedesche, jugoslave e austriache. Nel '73 vince il Gran premio della pittura alla Biennale internazionale di Mentone e si dà inizio a numerose sue retrospettive in tutta Europa e in America.
Music appare come un pittore del sentimento; ha sempre dipinto di ogni cosa, paesaggio, persona e oggetto, l'essenza; con occhio abituato alla contemplazione, al guardare prolungato entro la solitudine, è andato sempre oltre la superficie. Nessuna cosa del mondo è se stessa nella sua mutevole apparenza, ma lo è nella sua immutabile interiorità. Per arrivare alla compattezza spirituale di ciò che è dentro, sono necessari un nativo impulso, una difficile e particolare formazione, la forza della solitudine, l'arte del silenzio, un rapporto col mondo che conosce la caducità del suo volto colorato e felice, la permanenza delle sue note grigie e dolenti. Queste sono le concezioni della vita che Music ha avuto in sorte e ha condotto in una zona di margine, o di incontro, tra civiltà diverse; di confini o di centralità. Forse non esistono zone marginali, poiché non esiste un centro nella vita degli uomini: dove un uomo nasce, vive, assimila esperienze e cultura, lì è il centro.
Silenzio, solitudine, libertà e senso di uno spazio che va oltre l'immagine sono caratteristiche fondamentali dell'opera di Music. Ma questa amplificazione dello spazio non è ottenuta con l'uso della lontananza, dello sprofondamento, nasce anzi da quella specie di arresto spaziale che è la bidimensionalità, come un rilancio verso ciò che non si conosce, la fissazione di un mistero, di un ignoto.
Stando alla critica, si sa che questo elemento in Music deriva dall'arte bizantina, è il segno del suo "orientalismo" ed è il modo per lui di creare quel distacco dalla realtà che funziona da filtro poetico: tutto ciò che passa come giunto attraverso il setaccio deformante della memoria, si fissa immobile e diventa poesia. La bidimensionalità volta ad accentuare il momento della meditazione, dell'evocazione, altera così lo spazio, lo trasforma da spazio della realtà in spazio della fantasia, del ricordo, dello spirito, altera il tempo, rende immobile ed eterna l'immagine.
Avviene nella pittura di Music qualcosa di inesplicabile, lavora al suo centro come in un nucleo di mistero: ciò che è scabro si trasforma in tenero, ciò che è buio in luminoso, ciò che è povero in lirico, un edificio in fantasma, l'orrore in bellezza, la decomposizione in preziosità, un atelier in un grande spazio aperto, un interno di cattedrale in un sogno vago, l'architettura in musica. In Music, quanto nella superficie di una tela può sfuggire è immobile, fissato, senza tempo, senza ora, senza epoca, senza realtà; la sua è un'opera ferma, di tempo solidificato, di durata eterna.
I suoi paesaggi sono i luoghi privilegiati della sua vita: carsico, dalmata, castigliano, senese, umbro, appenninico, dolomitico. Essi formano una lunga sequenza di scabra poesia che ha pochi paragoni nell'arte contemporanea. Desolato, ridotto ed essenziale, seppur dolce e sensibilissimo, deposto in delicate "soffiature", in efflorescenze tenaci ed esili al tempo stesso, in luminose velature, in tenerezze tonali, ci appare il colore: madreperle, terre, rosature antiche, quasi carnali, azzurri; il tono dominante è quello appena bruciato, appena scaldato delle terre, dei vecchi legni, della polvere, delle rocce abbrunite, dei cespugli secchi, delle crete millenarie, dei cadaveri e del miele. Talvolta i colori sono più accesi anche in chiaro-scuri, o meglio in giochi d'ombra e di luce, dove le immagini sono fatte di vento, di sole, di macchie, di nuvole; mentre a volte sulla luce omogenea del fondo, su quei toni distesi in sottili paesaggi, pochi tocchi di bianco, di rosso, di azzurro brillano come pietre preziose e rendono l'immagine simile a un reliquiario sontuoso, ma che racchiude resti di morte. È difficile da descrivere il suo senso del colore poiché è completamente interiorizzato in ogni punto dell'opera. Artista difficile per la complessità delle esperienze, per le sue divagazioni, ha permesso alla critica ogni tipo di interpretazioni, ponendosi in realtà come uno degli esponenti più responsabili e impegnati di tutta la pittura europea dal '45 a oggi. Solo recentemente i critici sono riusciti a considerare la sua opera come un corpus unico e omogeneo, nella sua interezza, sorta da profondità di spirito e di ispirazione mai mutate, sottoposta solo alla variabile figura dei temi, dei periodi, delle vicende, degli affinamenti che lo stile ha subito nel suo ininterrotto avanzare. In precedenza era d'uso consueto opporre delle divisioni precise, con diversità di giudizi qualitativi, di comprensione, di "ascolto". L'opera di Music si svolge in una completa armonia, un lungo percorso che unisce i primi quadri (quelli a "motivo dalmata") agli ultimi (il ciclo del "doppio ritratto"); un grande "insieme" con un cuore segreto e doloroso, perennemente ferito, che irradia la sua drammatica ombra. Forse che prima della sua opera non vi sono i disegni fatti nel campo di concentramento di Dachau, anche se a lato dell'opera per la mancanza di elaborazione fantastica e poetica, nel loro eccesso di verità? Forse è in quella esperienza estrema, vissuta sul margine tra la vita e la morte, che Music ha imparato a conoscere la verità di ciò che è dentro, a vedere sempre oltre la superficie, la miseria dell'uomo, le ossa sotto la pelle, i sentimenti elementari sotto le complicate apparenze. È lì che abita la verità, sui margini della poesia.

 

 

 

Alessandra Doratti