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Pietro Longhi (Venezia 1702-1785) - lo stile pittorico

 

 

 

“Volendo dare un giudizio spassionato sull’opera di Pietro Longhi, diremo che il suo merito principale consiste nell’aver introdotto a Venezia il quadro di genere applicando gli insegnamenti del suo maestro Giuseppe Crespi alla società veneziana del Settecento, che egli, senza pretendere agli intendimenti morali di Hogarth e senza possedere la grazia delicata, né il sentimentalismo, né l’acutezza psicologica dei pittori francesi contemporanei, riprodusse fedelmente con amabile realismo e con inimitabile colore locale in mille gustose scenette colte dal vero” (Ravà 1923). In sede di cultura però, “andranno certamente ricercate ancora, e pesate meglio, le sue ascendenze non soltanto nel bolognese Crespi, ma soprattutto nella pittura borghese e popolare bresciana e bergamasca, che sulla fine del Sei e sul principio del Settecento, era, col Ghislandi e col Ceruti, la pittura più seria e più sincera di tutta la repubblica veneta. Ma il Longhi prende un passo europeo e si misura con la scala del Watteau e dello Chardin” (R. Longhi 1946).
Messa da parte la pittura di grande composizione, come il San Pellegrino condannato al martirio della parrocchiale di San Pellegrino (Bergamo) o la Caduta dei Giganti di Palazzo Sagredo (Venezia), verso la quale non si sentiva portato, l’artista si diede a dipingere quadretti con scene di vita veneziana. Si mise insomma ad annotare con arguzia le abitudini, i commerci, i giochi, gli spassi dei suoi concittadini.
“L’artista guardava intorno a sé nella Venezia più brillante di incontri mondani, come in quella chiusa e assonnata delle antiche dimore, ghiotto delle effimere parvenze della moda e d’ogni particolare in un’acconciatura, un nastro, un fiore” (Moschini 1956). La parlata di Longhi mantenne ugualmente “un ‘atteggiamento bonario, paternalistico e un po’ provinciale che dava il tono alla pacifica aristocrazia veneta di fine secolo: sia che le ragazze fossero intente a rifocillare  con benevolenza il vecchio Servitore fedele (Londra, National Gallery), sia che il signore elargisse un sorriso ai miseri battitori della Caccia in valle (Venezia, Querini). E fu anche spesso una pittura timidetta e codina, là dove inserì nelle sue Famiglie patrizie i bravi abati precettori (Venezia, Ca’ Rezzonico), e sforzò a pose di sorridente devozione le zuccherose contadinotte dei suoi Sacramenti (Venezia, Querini) o delle numerose Prediche” (Pignatti 1968).
Il Concertino delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, il primo dipinto della nuova “maniera” che porti una data: 1741, “ci trasferisce nell’interno di un palazzo veneziano: una casa patrizia, che annovera fra i suoi membri un procuratore di San Marco. A destra, in alto, se ne scorge il ritratto a figura intera, in parrucca e in veste scarlatta. Pur essendo solo parzialmente visibile, è questo un particolare decisivo: non soltanto perché connota senza possibilità di dubbio l’ambiente e il rango sociale degli effigiati, ma soprattutto perché Longhi imposta il suo gioco – eppur con quanta discrezione! -  sul confronto per contrasto fra quell’immagine aulica, ufficiale, e i sei personaggi maschili, occupati, tre a tre, al tavolo da gioco e a far musica. [...] Il ritratto del procuratore è per metà fuori campo, reso in modo sommario: un’immagine convenzionale, relegata al margine dello sguardo; mentre gli altri, che stanno sul palcoscenico della vita, si vedono riconosciuta dall’attenzione del pittore un’inequivocabile, se pur minuta individualità. L’attenzione circoscrive, procede alla messa a fuoco di dettagli sempre più piccoli, ma che si rivelano essenziali alla resa del «tono umorale» della scena: come la presenza della cagnolina che par tutta presa, essa sola, dalla musica. Sarà una musica per cani? S’insinua sotto pelle un’intenzione appena di caricatura, che viene in superficie nel personaggio del fratone, preso dal gioco delle carte con altri due ecclesiastici. Non era mai accaduto che l’aristocrazia veneziana si mostrasse nell’intimità come in questo caso: propriamente in vestaglia, tutta presa nei suoi passatempi. Longhi ha varcato la soglia del privato, finora gelosamente custodita” (Mariuz 1993).
Non può allora non essere “significativo il fatto che nel 1750 il Goldoni, per la prima volta, salutasse in lui un uomo «che cerca il vero». Proprio in questo periodo il Goldoni stava rompendo deliberatamente e in maniera incisiva col vecchio teatro delle maschere e stava tentando una riforma del teatro stesso attraverso il ritorno alla natura. Così il pittore avrebbe potuto benissimo ispirare il poeta – Longhi dipingeva già da anni scenette di genere – piuttosto che il contrario, come generalmente si pensa” (Haskell 1963). 
"Dopo aver raggiunto una brillantezza di scrittura, raffinata nella pungente precisione del segno e nella diafana chiarezza delle tinte, nella seconda metà del sesto decennio il linguaggio di Pietro Longhi denuncia segni di mutamento. Il disegno tende a libera e corsiva approssimazione; i colori acquistano tonalità calde e dense in una contrastata trama chiaroscurale; contemporaneamente la visione dell'artista ha uno scarto verso una più approfondita immagine del mondo. [...] Sino all'ultimo così Pietro Longhi fissa «quel che vede con gli occhi suoi propri» in brevi pagine di cronaca attenta e disincantata, affascinante per la aderenza al vero e significativa dei caratteri storici e umani dell'epoca" (Valcanover 1964).

 

 

Daniele D'Anza

 

maggio 2005