Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona 1578 - Roma 1649)

 

 

Alessandro Turchi nasce a Verona nel 1578. Il soprannome di Orbetto deriva dal fatto che il giovane artista era solito accompagnare il padre cieco (Brenzoni 1927).

In un documento datato 1597, Turchi viene menzionato come “pittore domestico di Messer Felice Brusasorzi” (Gaudenzio 1961-62). Tale alunnato si protrae fino al 1605, ovvero fino all’anno della morte del maestro (Dal Pozzo 1718). A questo punto l’artista, dopo aver completato assieme a Pasquale Ottino la gigantesca Raccolta della manna per la chiesa di San Giorgio in Braida a Verona, comincia a lavorare in proprio. Firma e data (1605) la pala di San Raimondo di Peñafort in Sant’Anastasia, mentre qualche anno dopo (1607) consegna, per l’altare dei Falegnami della chiesa di San Fermo, la grande Adorazione dei pastori.  Il 12 dicembre 1609 “chiede di essere aggregato all’Accademia Filarmonica e succede a Felice come pittore ufficiale: un riconoscimento che gli viene volentieri concesso dai ‘compagni’ che lo conoscevano e apprezzavano le qualità di equilibrio e di eleganza della sua pittura. Questa visione ravvicinata dei primi anni che seguono la scomparsa del maestro dà la misura dell’impegno di Turchi sulla ribalta artistica veronese: un impegno inserito a pieno titolo nell’opera di rinnovamento delle chiese cittadine, che aveva avuto inizio alla fine del Cinquecento ed era stato portato avanti nello spirito attivo della restaurazione della Diocesi promossa dal vescovo cardinale Agostino Valier e dal successore e nipote Alberto” (Scaglietti Kelescian 1999). In questi anni l’artista soggiorna qualche tempo fra le lagune, dove secondo Dal Pozzo (1718) “si fermò in casa di Carlo Saracini Pittore Venetiano”. Non è da escludere inoltre una sua puntata a Mantova, prima del ritorno in patria. “Divisò poscia di veder Roma, quindi colà recossi con Marcantonio Bassetti altro suo condiscepolo e collo stesso Ottino ed ivi giunto diedesi con tutta l’applicazione allo studio delle opere di Raffaello, del Correggio e del Caracci formandosi uno stile tutto suo” (Zannandreis ed. 1891). Nell’Urbe l'Orbetto  partecipa alla decorazione della Sala Regia del Quirinale assieme a Saraceni e Bassetti e riceve alcune commissioni dall’influente cardinale Scipione Borghese. Entra, altresì, a far parte dell’elite aristocratica romana sposando una donna di nobile casato, la quale conduceva un tono di vita sfarzoso e dispendioso “con carozza e livree” (Dal Pozzo 1718). Mancini (1617-21) inoltre informa che il pittore era “di buon costume, studioso e ritirato”, mentre Passeri (1772) aggiunge: “fu il Turco uomo amabile, e rispettoso, di non discara presenza, di pelo castagno, ma alquanto singolare nella guardatura, perché partecipava del losco, benché graziosamente. Si trattava con assai moderata civiltà, e quello che più importa fu di costumi degni d’un uomo onorato, e cristiano”.

Nel 1619 diventa membro dell’Accademia di San Luca, della quale peraltro viene eletto principe nel 1637 sotto il patrocino del cardinale Francesco Barberini. Poco dopo entra anche nella Pontificia Accademia dei Virtuosi al Pantheon (Gaudenzio 1961-1962). “Pur così calato nell’ambiente romano, non abbandona tuttavia il Turchi le relazioni con la città natale: stando a Roma infatti esegue una delle tre pale per la Cappella degli Innocenti in Santo Stefano a Verona, cioè quella dei Quaranta Martiri. Ed è possibile che Turchi abbia inviato a Verona il suo lavoro insieme ai Cinque Vescovi eseguiti dal Bassetti per la stessa Cappella veronese” (Scaglietti Kelescian 1974).

Recentemente Francesca De Marco ha reso noto “L’elenco delle doti non pagate delli maritaggi fatti dall’Arciconfraternita di san Rocco, fino a tutto agosto 1664”, dove figura una certa Angela di Alessandro Turchi, con tutta probabilità la figlia dell’artista. “Se veramente si trattasse della figlia di Turchi, ciò smentirebbe la supposta agiatezza del pittore dovuta alla sua meritata e consolidata fama e a un matrimonio con una donna ricca, e sarebbe confermato quanto dice Dal Pozzo: «morì [...] in angusta fortuna, havendo speso tutti i suoi guadagni in trattarsi nobilmente a genio della moglie in carrozza e livree»” (De Marco 1999).

 

 

Daniele D'Anza