Guido Reni (Bologna 1575 – 1642)

 

   

“Pochi pittori hanno avuto tanta considerazione come Guido, e pochi l’hanno altrettanto meritata. Se non ha conferito alle proprie figure la completezza e la verità di quelle dei Carracci e del Caravaggio, se non ha messo nei propri dipinti altrettanto fuoco e altrettanta passione, vi ha profuso assai più grazia e nobiltà” (D’Argenville 1745-52).

“La nobiltà e la grazia che Guido ha diffuso sui volti, i suoi bei drappeggi, uniti alla ricchezza delle composizioni, ne hanno fatto un pittore dei più gradevoli. Ma non si deve credere che egli sia giunto a questo senza essersi prima sottoposto a un intenso lavoro. Ce se ne accorge soprattutto nei disegni preparatori di grandi dimensioni: ogni particolare è reso con assoluta precisione. Attraverso di essi si rivela un uomo che consulta continuamente la natura, e che non fa alcun assegnamento sul dono felice che egli ha di abbellirla” (Mariette 1741).

Da principio si attenne molto “a quel forte che gradiva la sua scuola, ma temperavalo con più tenerezza che ella non solea; e a poco a poco gradatamente crescendo in questa, giunse dopo alquanti anni a quel delicato che si era prefisso. Quindi più che altrove in Bologna ho udito distinguersi la prima maniera di Guido dalla seconda; e quistionarsi qual delle due sia migliore. Né tutti si arrendono alla decisione del Malvasia, che pronunziò essere la prima più dilettevole, la seconda più dotta” (Lanzi 1789).

“Quanti aspetti diversi scorgiamo in Guido Reni, non solo in relazione ai suoi vari periodi, ma certe volte nello stesso dipinto! Fra tutti i pittori moderni egli è il più compreso del concetto della bellezza pura, e della sua Aurora [Roma, Casino Rospigliosi Pallavicini] si può forse dire, con un giudizio sommario, che in tutta la pittura del Sei e Settecento essa sia l’opera che più si avvicina alla perfezione; ma le Ore non sono tutte di belle forme, e come anche l’Apollo non reggono al confronto con l’unica figura veramente meravigliosa, che è quella dell’Aurora stessa” (Burckhardt 1855).

“Quando egli scoprì la sua vocazione e fissò nella mente il suo ideale di bellezza, sembrò quasi identificarlo, oltre che con l’armonia delle forme classiche e rinascimentali, con le stesse immagini del mito classico. Ma forse senza nemmeno porsi un problema, egli subito si trovò a mediare questo ideale con la realtà in cui viveva, in cui operava, in cui credeva anche: con la realtà storica, politica e religiosa della Controriforma. Fra il suo ideale di bellezza e il suo sentimento religioso già assestato in una quieta e accomodante pietà, egli non sentì forse mai un vero contrasto” (Gnudi 1955).

Sembra quasi che “fin dai primissimi anni della sua nuova e libera attività, Guido Reni intese erigersi a campione di una sovranità cattolica operante, di un trionfo severo e quasi puritano: come si conveniva ad un artista che nasceva nella capitale settentrionale del potere temporale della Chiesa. È molto difficile restituire con parole, oggi, la quasi immediata popolarità, la capacità di diffusione collettiva, insomma la locale attualità del problema così come Guido la presentava fin dai suoi primi dipinti: classicismo cristiano, sacralità religiosa del sublime formale. «Apelle clericale», ebbe felicemente a definirlo il Longhi, dall’interno di questa simbiosi” (Emiliani 1964).      

“La famosa Aurora sviluppa ulteriormente questa grazia ellenica. Se confrontiamo il lavoro del Reni con gli affreschi nelle stanze attigue del casino che lo ospita, le scene dalla Gerusalemme Liberata dipinte dal Baglione e da Domenico Passignano, diviene chiaro perché l’opera reniana fu così appassionatamente lodata da Johann Wolfgang Goethe e universalmente ammirata. Là dove per conferire coerenza all’insieme occorrono decoro, grazia ed un senso ellenico dell’armonia, solo l’opera del Reni manifesta questo rasserenante sentire, mentre le altre appaiono legate e prive di un principio ordinatore chiaro e semplice” (Pepper 1988).

La Strage degli Innocenti della Pinacoteca Nazionale di Bologna, ad esempio, “vale ancora oggi come archetipo di un classicismo pittorico che doveva nutrire di lì a poco, la fantasia del Poussin. Tutto è intenzionalmente perfetto e acutamente deliberato: eppure alita una grande poesia drammatica, che prelude ai drammi raciniani. [...] La straordinaria eleganza della Strage si scioglie qui [Atalanta e Ippomene, Napoli, Gallerie Nazionali di Capodimonte] nel ritmo, perfettamente equilibrato, dei due corpi. In questa silenziosa gara il paesaggio è scomparso, lasciando le figure immerse nell’oscurità improvvisa di un palcoscenico, illuminato gelidamente solo dalle luci di proscenio” (Emiliani 1964).

Con il Sansone vittorioso (Bologna, Pinacoteca Nazionale) “si accentua nella sua pittura l’ispirazione classica (si veda la figura di statuaria di Sansone), sovente unita, come nel caso di questa notissima opera, a una vena elegiaca e commossa (paesaggio e figure dei vinti)” (Baccheschi 1971).

Negli ultimi anni della sua attività l’artista dipinse più volte teste di vecchi, in veste di apostoli e santi, ne è uno straordinario esempio il San Giuseppe della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma.

Infine possiamo ben concludere affermando che “l’irresistibile incanto del Reni era ed è riposto nel sensuale fascino della sua cantilena, in una dolcezza musicale, soltanto a lui propria e perciò inimitabile, della quale sono impregnate le sue creazioni. La maniera con la quale egli colloca l’una accanto all’altra due figure differenziate di finissimo sentimento, il modo con cui lascia cadere frusciando una veste, la maniera con cui per mezzo di una semplicissima curva compositiva egli riesce a far risuonare e vibrare tutta una grande superficie figurativa, tutto ciò ha nella sua indescrivibile sicurezza e logicità qualcosa di addirittura sonnambulesco” (Voss 1923).

 

 

Daniele D'Anza