Marco Liberi (Venezia? 1644 circa – post 1691)

 

 

Scolaro, aiuto e imitatore del padre, Marco Liberi fu considerato dagli antichi biografi un suo modesto contraffattore. “Ebbe tuttavia questi un certo suo carattere parti­colare nelle forme spezialmente, che hanno sveltezza e grazia, ma non hanno la grandiosità di quelle del padre. Le fisionomie sono perfettamente uniformi e quasi caricature delle belle teste dell’insigne maestro” (Zanetti 1771). Va detto che la critica moderna ha in parte rivalutato la posizione di Marco, che appare quantomeno erede non indegno della pittura di Pietro Liberi.
Il Giove e Mnemosine del Szépmüészeti Mùzeum di Budapest è l’unico dipinto firmato dall’artista. La tela, “con l’aquila in cui s’è trasformato Giove che sovrasta con la sua massa scura il delicato nudo di Mnemosine, appoggiata con un braccio sulla terra in una diffi­cilissima posa, è nella maniera di quelle profane paterne tanto nella tipologia come nella colorazione. Ma l’opera manca di quella robustezza formale, di quel calore cromatico che caratterizza il fare paterno. Marco sa dunque mimetizzarsi nello stile paterno, ma con una certa superficialità: soprattutto la sua tavolozza è esangue rispetto a quella del padre, e i contorni sono più marcati, quasi ritagliati” (Pallucchini 1981).
L’aspetto forse più personale e genuino della sua arte affiora in un gruppo di dipinti conservati a  Pommersfelden (collezione Schönborn-Wiesentheid), dove la condotta pittorica si fa più precisa e descrittiva, d’un naturalismo più insistito. Queste mezze figure, ”benché intenzionalmente non lontane dai modi di Pietro Liberi [...] rappresentano l’aspetto più personale e genuino di Marco, per qualche verso memore dell’attenzione alla realtà di certo Forabosco, ma volto soprattutto, per via di portamenti di lume, a una chiarezza definitoria indice di quel «gusto di materializzazione quasi medianica degli oggetti» che il Longhi (1927) gli riconobbe in comune, oltre che col Bellotti, col Caroselli e col ferrarese Caletti” (Pilo 1959). Evidentemente, lavorando per il mercato tedesco, il pittore accentò, verso la fine del secolo, questa vena naturalistica, senza però mutare la morfologia ereditata dal padre.
“Pur distaccandosene per le modalità della stesura, la seconda maniera di Marco è tuttavia, ed ovviamente, legata agli esiti della prima per analogie che appaiono evidenti al conoscitore; i medesimi nasi spioventi, le bocche larghe e mollemente disegnate, gli scorci delle membra talvolta più contratti, un insieme di caratteri «morelliani» che aiutano nella distinzione delle mani dei due gruppi; mani che, del resto – pur senza voler riproporre qui, per analogia, l’annoso problema «delli fratelli Guardi» – non è difficile pensare si siano unite talvolta in collaborazioni assai strette, soprattutto nelle opere di maggiore formato, all’interno delle quali è difficile distinguere l’apporto dell’una e dell’altra, in un lavoro comune che si estende probabilmente anche ad altri membri della bottega, e cioè dell’insieme allora storicamente operante, al quale, spesso, male si applica la filologia attuale, erede del mito romantico della personalità e dell’autografia” (Ruggeri 1996).
 

Daniele D'Anza