Giovanni Lanfranco (Parma 1582 – Roma 1647)

 

   
Giovanni Lanfranco dopo il tirocinio in patria presso Agostino Carracci, giunse a Roma nel 1602. “Erano quelli gli anni in cui era più vivo il dissidio fra la corrente classicistica carraccesca e la corrente naturalistica caravaggesca. Pur facendo parte della schiera carraccesca il Lanfranco non restò del tutto insensibile ai richiami del Naturalismo” (Novelli 1966).
Dalla “luce universale” della cupola parmense del Correggio “e da quella affascinante e romantica interpretazione che ne dava il concittadino Bartolomeo Schedoni”, Lanfranco dedusse “quel suo luminismo all’emiliana, che già prima della partenza per Parma aveva dato qualche timido segno di non voler farsi assorbire tutto dal classicismo di stretta misura (Cristo e la Maddalena di Napoli) orecchiando a modo suo dal caravaggismo « in minore » del tipo Gentileschi-Saraceni-Elsheimer, che sul primo decennio diffondeva in mirabili capolavori in misura ridotta il lume universale del Caravaggio. Basterebbe soltanto il taglio della composizione dell’Agar nel deserto del Louvre, tutta sbilanciata sulla sinistra, mentre a destra s’apre un sereno squarcio di pianura gentileschiana” (Cavalli 1959). Caratteri simili si ritrovano nella Sant’Agata in carcere curata da San Pietro della Pinacoteca Nazionale di Parma, databile ai primi anni del suo secondo soggiorno romano (1613 c.). “Quel taglio trasversale della luce, emanata dalla candela sostenuta dall’angelo a rafforzare quella fioca proveniente dalla finestra, lo ritroviamo in Battistello Caracciolo, in Orazio Riminaldi, in Borgianni come gli incarnati di porcellana arrotondati dal bilanciarsi delle luci e delle ombre, come i panneggi vasti e vaporosamente ripiegati in larghe, profonde e sintetiche linee. L’artista dimostra in questi anni, un interesse profondo per il caravaggismo, soprattutto attraverso la divulgazione dei suoi seguaci, adottando l’uso della luce indiretta per imprimere una credibilità naturalistica ai suoi dipinti ma anche per sottolineare gli effetti espressivi: caratteri intrisi anche del fiamminghismo di Valentin e di Gherardo delle Notti” (Fornari Schianchi 1983). La capacità di gestire e modulare tali effetti produrrà quella “secca  esplosione luminosa dell’Annunciata della Cappella Costaguti in S. Carlo ai Catinari a Roma, a mezza via fra Borgianni e Vouet. [...] Si pensi alle idee che in questo momento tenevano il campo fra i bolognesi a Roma, e alla piccola parte pubblica riservata al Lanfranco. Eppure, era non poca cosa in una situazione letteralmente in mano a Guido e al Domenichino. [...] Ed ecco nel quadro ai Catinari la risposta del Lanfranco a Guido, la cui Annunciata egli aveva visto alzare a Montecavallo; Guido da cui aveva tratto il grande gesto, il «largo», era ora l’alternativa dialettica, il suo antagonista segreto. Col Domenichino l’antagonismo diverrà, addirittura, guerra aperta. D’altro canto, il caravaggismo del secondo decennio, il cosiddetto «metodo manfrediano», di cui non doveva sfuggirli la forza di rottura, era troppo lontano dalla sua indole ottimista e serena di buon carracesco di prima maniera; era troppo d’umor tetro e formalmente chiuso nel suo spazio bloccato dalla luce emergente. La luce del Lanfranco doveva essere quella di casa sua, nata fra Parma e Bologna, nella valle padana più bassa, una luce chiara e ondulante, fasciante, dolce e sfumata, che circolasse ovunque a raccorciare le distanze fra il cielo e la terra. Era la luce che sognava non diciamo la religiosità del Lanfranco, ma la sua confidenza religiosa, il suo civile cattolicesimo emiliano” (Cavalli 1959).     
La pala della chiesa di Sant’Antonino alla Motta di Varese (Vergine con il Bambino, San Giuseppe e San Carlo Borromeo), firmata e datata 1620, “documenta visibilmente una svolta stilistica che decreta la fine definitiva della fase « borgiannesca », con il suo stile raffinato e delicato, e l’inizio del « quinquennio protobarocco », caratterizzato da un’espressione più aspra e tesa. [...] A questo punto Lanfranco aveva trovato un linguaggio personale: non doveva più niente a nessuno, almeno a nessuno dei pittori contemporanei, compreso il Baburen della cappella della Pietà (1616-1617) in San Pietro a Montorio” (Schleier 2001)    
Proseguendo su questa strada l’artista tra il 1625 ed il 1628 realizza forse il  suo capolavoro, la decorazione della cupola della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. Egli “fu il primo a delucidare l’apertura di una gloria celeste con viva espressione di un immenso luminoso splendore” (Passeri  ed. 1772). Con quest’opera Giovanni Lanfranco “lasciò a’ posteri del suo gran genio un mirabile esempio. [...] Onde con ragione questa pittura è stata rassomigliata ad una piena musica, quando tutti li toni insieme formano l’Harmonia; perché all’hora non si osserva minutamente particolar voce alcuna, ma piace il misto, e l’universale misura e tenore del canto. E si come in questa sorte di musica si richiede all’orecchio una maggior distanza, così il colore lontano si unisce, e riesce soavissimo all’occhio” (Bellori 1672).
“Il soggetto iconografico prescelto, in completa sintonia con il culto mariano dell’Ordine teatino e del cardinale Alessandro Peretti Montalto, è quello dell’Assunzione della Madonna, nella Gloria del Paradiso. La rappresentazione si sviluppa, tumultuosa, dall’apice del lanternino verso le sfere più basse, con il Cristo trionfante che si precipita dall’alto per benedire i diversi personaggi che affollano il Paradiso e per accogliere la propria Madre” (Costamagna 2001). “L’idea fondamentale è ancora quella svolta dal Correggio nelle due cupole di Parma ma l’accentuazione della mobilità della luce e delle forme è compiutamente barocca” (Novelli 1966).
Successivamente nell’Erminia tra i pastori (Roma, Pinacoteca Capitolina) “il significato doveva apparire evidente, più che in una allegoria: il poema del Tasso era ben noto e quanto il pastore dice alla fanciulla vestita delle armi di Clorinda rimandava a quel significato che da tempo era il fine della letteratura pastorale, cioè l’insicurezza e la vanità delle glorie, l’inutilità dei conflitti mondani, la pace che si trova solo nelle cose semplici, a contatto con la natura. Nel suo dipinto il Lanfranco non si è servito della storia di Erminia come pretesto per un paesaggio né ha insistito sull’atmosfera pastorale. Ha cercato piuttosto di rendere l’atmosfera della sera (proiezione dello stato d’animo malinconico di Erminia) con il bosco, sul fondo, che diventa una massa nera e indistinta contro la poca luce che ancora si attarda sul cielo. Una luce livida e quasi lunare che illumina obliqualmente le figure, la chioma argentea del pastore, il brillare della corazza, il bianco del vello delle pecore, fissando, nell’attimo, il rapido movimento dei due protagonisti. Nel gesto improvviso del pastore che si ritrae si legge lo stupore; nella figura inclinata in avanti di Erminia, nel suo giungere affrettato, si legge dolcezza, tristezza, gentilezza, d’animo. Qualcosa di momentaneo, di agitato, di indefinito caratterizza questa composizione. È il mondo di Lanfranco, certo, non il mondo del Tasso. Ma i due mondi sono forse meno lontani in questo dipinto che in altri” (Briganti 1985).           
Il dipinto con Venere che suona l’arpa, realizzato poco prima della partenza per Napoli (1634), “molto probabilmente fu eseguito da Lanfranco espressamente per Marco Marazzuoli, virtuoso di arpa e compositore per questo strumento, al punto che era chiamato «Marco dell’arpa», a cui Lanfranco era legato oltre che dalla comune origine parmense, anche dal fatto che il pittore, come riferisce Passeri, aveva una figlia che cantava e suonava questo strumento. L’arpa raffigurata nel dipinto era nelle collezioni Barberini ed è ora conservata al Museo degli strumenti musicali” (Mochi Onori 2001).
Nel 1646 il pittore “fece per l’ultima volta ritorno a Roma dove si apprestò ad affrescare la sua grande impresa finale: il catino absidale della chiesa di S. Carlo ai Catinari con L'apoteosi di S. Carlo Borromeo. L'affresco monumentale, che diverrà in breve tempo fonte d’ispirazione per Pietro da Cortona, in primis, e per tutti i pittori del­la generazione successiva, è da considerare come l’estremo testamento figurativo del Lanfranco; questi, ultimata l’opera, morirà pochi giorni dopo, alla mezzanotte del 29 novembre 1647” (Negro 1995).
“In realtà, è da credere che per il Lanfranco si possano usare molti termini di qualificazione. Fu conservatore e reazionario (ognuno lo è a suo modo e secondo la propria stagione), classicista e romantico, capace di molte verosimiglianze e pronto anche ad intingere invenzioni vecchie di un secolo nel calamaio del caravaggismo, lui «bolognese», schiettamente educato nell’ora di fortuna più fiorita. Ma non fu un eclettico, ché, quasi sempre, anche nell'iniziale benpensare, il suo passo giunge di frequente un piede al di là dei confini prevedibili. Più moderno di quel che il tempo e l’ora potevano consentirgli” (Boschetto 1952). 

 

 

Daniele D'Anza