Andrea Celesti (Venezia 1637 – Toscolano ? 1712)

 

   

Allievo dapprima di Matteo Ponzone, passò presto sotto la guida di Sebastiano Mazzoni. La felice unione di queste componenti, la tardomanieristica del primo e la barocca del secondo, rendono caratteristica, e facilmente riconoscibile, la sua pittura. Interessatosi al gusto naturalistico dei tenebrosi, in voga in quegli anni fra le lagune, risalì, attraverso quella corrente, ad una delle sue origini più vitali, la pittura neoveneziana, dorata e ricca d’impasto, di Luca Giordano. Da Mazzoni trasse il gusto per il colore vivido e la pennellata nervosa, che egli portò alle estreme conseguenze nelle ultime opere, quasi dissolvendo la forma nella luce.
“Il dipingere di questo valentuomo era assai singolare nel modo. Molte volte non meschiava i colori sulla tavolozza, siccome ognuno suol fare; ma mettendo sulla tela una striscia di biacca, una di terra rossa, di gialla, e d’altri colori, univa ogni cosa sul quadro istesso e formava quelle parti, ch’egli avea pensato con incredibile felicità, e con bell’effetto di tenerezza. [...] I contorno delle figure del Celesti non erano de’ più eruditi; ma grande n’era il carattere, bella la forza, e armoniose erano le composizioni delle opere sue; finché meritatamente è tenuto per uno de’ primi Maestri di quell’età” (Zanetti 1771).
Delle prime opere, realizzate per la cappella della Pace ai Santi Giovanni e Paolo di Venezia nel 1675 (Zanetti), rimane solamente l’intelligente lettura che ne fece Cochin (1758): ”Ils sont ingénieux de composition; la manière en est grande; le caractère du dessein en est rond, et les formes molles et indécises, surtout dans les draperies. L’effet en est piquant, les ombres fort noires; les demi teintes sont colorées de tons extrêmement vifs beaux et variés. Il y a beaucoup de tons pourprés, et ils ressemblent fort à ceux de Rubens, lorsqu'il est le plus haut en couleur. Le pinceau en est flou. C'est le plus hardi coloriste qu'on ait vu à Venise: mais il est outré à l'excés et la nature n'est point de cette force”.
Avviato dalla sua educazione accademica allo studio della grande eredità cinquecentesca, e particolarmente in direzione del Tintoretto, verso il quale l’attirava il temperamento visionario e la tendenza a trasfigurare magicamente la realtà per virtù del chiaroscuro, il suo gusto presto virò  verso una fluidità schiarita di intenzione neoveronesiana, sotto lo stimolo di Mazzoni tardo e di Giordano.
Celesti impagina sontuosamente le sue scene entro telai architettonici di gusto veronesiano, spiega con dovizia le forme ma ne trascura, per lo più, il disegno, che solo di rado compare a delineare le ampie campiture di colore generosamente distese da una pennellata fluida e liquida. La sua tavolozza si scoglie sempre più in una sorridente ebbrezza di luci.
È questo il linguaggio che Andrea Celesti spiega con straordinaria ricchezza e stupefacente festosità di colore nelle moltissime opere dipinte, in quasi tre lustri, sulle rive del lago di Garda. Nel grandioso Martirio di San Lorenzo (cm. 950x450), realizzato nel 1703 per la chiesa di San Lorenzo di Verolanuova, “la scena notturna è rischiarata dalle fiamme delle torce che mandano bagliori sulle armature metalliche. Le architetture sullo sfondo sono avvolte nel chiarore perlaceo emanato dalla falce di luna, mentre in alto le nubi sono squarciate dall’improvviso apparire degli angeli che recano la corona e la palma del martirio” (Marelli 2000).    
Il ritrovamento di Mosè della Galleria Civica di Reggio Emilia rivela invece una composizione sobria, vivificata però da un colore tutto impasti: rosati ed azzurrini nel fondo, bianchi, gialli dorati nelle stoffe e negli abiti delle due donne. Il suo stile precorritore appare evidente in quel modo “ormai disorganico di impiantare la composizione, tutto un gioco di spumosità e di iridescenze, d’una succosità prettamente settecentesca e sottilmente rococò” (Pallucchini 1951).
L'artista "svolge le scene della Storia Sacra con una fantasia e una ricchezza d'invenzioni sbalorditive: i suoi conviti non sono meno festosi di quelli di Paolo Veronese: personaggi in numero enorme vi partecipano, servi, suonatori, donne con bambini; donne affacciate ai balconi li contornano. La fantasia vivace del Celesti si spiglia nella descrizione di vesti, vasellami, di nature morte, di panneggi, riportando sulle sue tele lo sfarzo dei costumi e delle ricchezze che il vicino Oriente sfoggia al sole di Venezia" (Mucchi - Della Croce 1954) 
Nelle opere dell’ultima fase l’artista porta avanti il suo luminismo fino ad immergere le cose e l’atmosfera in un pulviscolo dorato, scorporando la forma stessa ed offrendo suggerimenti di qualche portata alla nuova pittura veneta del Settecento. La sua tipologia inconfondibile, derivata in parte, forse, da Andrea Vicentino, fu ripresa da Giuseppe Nogari, ma si possono trovare tracce anche in Antonio Guardi.
Lanzi (1795-96) lo definì “pittor vago, fecondo di belle immagini, di contorni grandiosi, di campi ameni, di arie, di volti, e di vestiture graziose, e talora paolesche; di un colorito finalmente non lontano dalla verità, lucido molto, lieto e soave”.

 

 

Daniele D'Anza