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Francesco Albani (Bologna 1578 – 1660) - lo stile pittorico

   


 

“Oltre la quasi proverbiale amicizia, medesima inclinazione di gusto ed orientamento di cultura legarono fin dal primo alunnato caraccesco l’Albani ed il Domenichino, che, per così dire, «annibalisti» furono a Bologna, e poi tali rimasero a Roma, strictu sensu almeno fino alla morte del maestro (1609), come esponenti di quel classicismo che, come dice il Bellori, mira alla sintesi di Natura e Idea, intesa nel senso di una superiore armonia fra verità e purezza di pensiero, fra sentimento e regola formale” (Cavalli 1959).
Annibale Carracci, a Roma, “nel centro del centro della bellezza antica, con l’eccezionale raccolta dell’antiquarium Farnese, intrise la propria natura emiliana con il senso di quella bellezza: e tutto questo s’imprime e si amalgama nell’intimo spandersi dei colori autunnali della Fuga in Egitto, impaginata con proporzioni e armonie di ceppo antico.
Tale personalissimo e assorto sguardo sul classico era ciò che anche Albani ri­cercava: e le lunette Aldobrandini, sospese, evocative, silenti, dettate da An­nibale ma guidate da Francesco, sono il frutto di questa cruciale percezione.
La Visitazione è impostata tutta su piani lontani dalla ribalta vuota. Il gruppetto centrale è fermo, o di gesti lentissimi. A sinistra, più arretrata, una loggia con colonne ospita un giovane seduto a riposo, e un anziano che da sinistra procede verso di lui. A destra, piccole e avvallate in prospettiva, due donne, una con un bimbo in braccio; più indietro un folto d’alberi, mentre più distanti sono la cittadella e i monti sullo sfondo, su cui stanno sospese grandi nuvole remote. L'antico, anche qui, come nella Fuga in Egitto di Annibale, si manifesta come metodo per frenare l’urgenza delle emozioni, l’impeto dei sentimenti: così trattenuto, l’evento sacro si spoglia di realtà, nelle figure non si ricerca il fisico apparire, ma la metafora di un dolce incontro tra due madri in attesa: un pensiero trepido, discretissimo, rivolto al mistero di due nascite, una imminente, l’altra appena annunciata. Piacerà, è da credere, a Poussin tale essenziale riflessione, che poi, nel grande artista francese, si rivestirà di altre, più austere necessità” (Milantoni 1995)
“Che egli fosse fin dall’inizio incline ad un sentimento intimo e teneramente sfumato della vita, propenso alle dolci illusioni, sensibile ed inquieto, prova ne sia che non mirò quasi mai, a differenza del suo compagno Domenichino, alle ampie decorazioni monumentali, ai temi della storia e della religione, che richiedono vasta architettura e lunga preparazione: poco muro gli bastava per il suo spirito alessandrino e ancora meno tela per i suoi paesi di favola sensuosa, raccontata nel limbo delle passioni, degli «affetti» umani.
Anche negli affreschi la sua totale, diametrale evasione dalla verità caravaggesca che lo portava diritto alla fonte di Raffaello nella Sala di Psiche della Farnesina, oppure il clima delle Logge vaticane, gli serviva soltanto per trovare un modello di sublime euritmia, di dolcezza lineare che potesse soccorrergli a semplificare l’immagine, a purificare entro lo spazio di un cammeo e non ad imbastire un’azione psicologicamente complessa” (Cavalli 1959).
Gli affreschi di Palazzo Verospi (1611-1612) rispecchiano fedelmente quelli raffaelleschi della Farnesina: pervasi d’uno spirito che è stato definito «ellenizzante», danno luogo ad una sorta di neoclassicismo ante litteram.
Al volgere del secondo decennio, il pittore si guadagna un posto particolare presso i collezionisti e gli amatori d’arte, producendo una ricca serie di dipinti mitologici che va dai quattro tondi della Galleria Borghese a quelli d’argomento affine del Museo del Louvre, ai tondi raffiguranti gli Elementi della Galleria Sabauda di Torino, solo per citarne i più noti.  In queste opere “si enunciano i repertori più cari all’Albani, quelli che ne decreteranno la fortuna. Fragrante, leggero, popolarissimo, il mondo degli dei antichi sono boschi tempe­rati da dolci climi, ed è da credere che anche di queste immagini si nutrisse la fantasia degli Arcadi che a fine secolo presero a riunirsi presso il ninfeo verdissimo del clivo Palatino, nel cuore degli Horti Farnesiorum” (Milantoni 1995). L’artista “vi esprime un repertorio di aggraziati sensi, nel contesto di una natura vista attraverso l’insostituibile lezione tizianesca, ma piacevolmente accomodata e rispondente alla medesima, ragionata trama secondo la quale si muovono e si intrecciano le favole mitologiche, che preparano l’Arcadia del Cignani e del Franceschini, del Maratta e del Locatelli. [...] Il genere creato dall’Albani contribuì notevolmente alla diffusione del classicismo bolognese, fornendone una interpretazione che, nell’ultima parte della sua carriera, suonò edulcorata e compiacente al gusto un po’ facile di certi committenti. È certo infatti che l’aspetto più intenso e producente dell’Albani va ravvisato nei dipinti mitologici sopra rammentati, piuttosto che nell’argomento religioso o anche profano ma di formula più accomodata, come le varie redazioni della sua fortunata Danza degli Amorini” (Roli 1966).
“Entro gli anni Trenta cadono alcuni capolavori, come la decorazione della cappella Cagnoli in Santa Maria di Galliera (1632-1633) e l’Annunciazione detta “dal bell’angelo” in San Bartolomeo (1633). Pur figurandovi un’eccezionale ricchezza esecutiva anticipante il Maratta e il cosiddetto ‘classicismo barocco’ di fine secolo, tali dipinti risultano però singolarmente spiazzati nella cultura bolognese di quegli anni, ormai monopolizzata dal rivale di sempre, il Reni. Non tardano tuttavia a mostrarsi i segni di un’irrimediabile involuzione: tra le opere dell’ultima attività, sorrette sempre da un alto magistero esecutivo, si ricordano la decorazione della villa medicea di Mezzomonte (1633), il San Sebastiano eseguito per i Battuti Bianchi di Forlì (1636, ora nella locale Pinacoteca), la pala per la parrocchiale di San Giovanni in Persiceto, il Noli me tangere nella chiesa bolognese di Santa Maria dei Servi (1644), il Riposo nella fuga in Egitto per Vittoria de’ Medici (1659-1660; ora a Firenze, Gallerie)” (Benati 1989).
Fino alla più tarda età “il maestro continua nondimeno la produzione di rami e tele di destinazione privata, dove i consueti temi tratti dalla mitologia pagana, e i soggettini religiosi, si alliterano quasi ad infinitum, con poche variazioni mentali che non smentiscono il lento ma palese decadimento della sua vena. Dalla squisita norma formale del suo terzo decennio, e dalla poetica della grazia classicistica che egli aveva meditatamente conquistato, l’Albani verserà poco a poco nel grazioso e nel manierato e nei lambiccati tentativi di celare le imitazioni di se stesso. Ciò non mancherà di procurargli una sorta di fama minore proprio per quelle minute grazie profuse in Sacre Famiglie e in giochi di Amorini che piaceranno al più svaporato Settecento o in epoche di decadentismo più recente” (Volpe 1962).

 

 

Daniele D'Anza

 

 

aprile 2005