Michele Desubleo

Ercole e Onfale

Olio su tela, cm 263 x 220

Siena, Pinacoteca Nazionale

 

Il dipinto raffigura la fase di servitù alla quale Ercole fu sottoposto per tre anni presso Onfale, la regina della Lidia in Asia Minore, a seguito dell’uccisione dell’amico Ifito, avvenuto durante un accesso di follia. Narra Apollodoro (2.6, 3) che il contatto con la regina, della quale divenne l’amante, condusse l’eroe ad atteggiamenti sempre più effeminati tanto che prese a vestirsi e a ornarsi come una donna ed imparò a filare.
Il carattere essenziale di questa scena è lo scambio degli attributi: Onfale indossa la pelle del leone nemeo e regge la clava, mentre Ercole stringe nella mano un fuso. Tale soggetto, mai trattato nell’arte della Grecia classica, forse perché propone l’eroe in una luce sfavorevole, lo si ritrova nell’iconografia ellenistica.
I pittori rinascimentali e soprattutto barocchi lo usarono per illustrare il dominio della donna sull’uomo, o meglio, la superiorità dell’amore sulla forza bruta. La più alta traduzione figurativa di questo concetto è certamente il pannello con Venere e Marte (Londra, National Gallery) dipinto dal Botticelli, dove la dea dell’Amore, riuscita a placare l’iracondo dio della Guerra, lo contempla riposare sfinito, mentre piccoli satiri scherzano con il suo elmo e la sua lancia.
Pubblicato da Torriti nel 1978 (P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena, Siena 1978) questo dipinto è di certo uno dei capolavori del pittore di origine franco-fiamminga Michele Desubleo. Dopo un probabile soggiorno a Roma, l’artista raggiunse il fratello uterino, Nicolas Régnier, a Venezia. Fra le lagune però Desubleo rimase poco poiché attratto dalle forme pure del classicismo emiliano che Bologna in quegli anni sbandierava. Ivi si trasferì agli inizi del 1630 per entrare nella bottega del campione riconosciuto di tale corrente: Guido Reni.
In questa grande tela della Pinacoteca Nazionale di Siena, l’eco della cultura franco-fiamminga, dichiarata dall’uso di una gamma cromatica accesa e dissonante, si lega al culto della forma idealizzata, così come era stata formulata da Reni e dal Domenichino. Ne sono esempi indiscutibili gli ovali perfetti dei volti delle giovani ancelle, che maliziosamente commentano la scena. Sembra quasi che l’insegnamento reniano abbia svolto il ruolo di fertilizzante su un terreno sementato di pittura fiamminga, la cui lucidità ottica filtra tale classicismo generando un’arte autentica, qualificata da un senso del colore estraneo ad altri “bolognesi”.   
Il purismo formale, al quale sempre anela l’arte di Desubleo, si sostanzia in questo caso nella definizione degli incarnati, preziosamente illuminati da una pennellata spessa e smaltata. L’artista inoltre, al nudo virile e robusto di Ercole, contrappone quello algido e raffinato di Onfale, alimentando così quella vena erotica che un sottile gioco di sguardi sottolinea.
L’opera è da porsi cronologicamente attorno al 1640 - 1641, in sintonia con la pala della chiesa di Santa Maria Assunta di Borgo Panigale (Sacra Famiglia e angeli) e con i dipinti eseguiti per don Lorenzo de' Medici (ad esempio il Tancredi e Erminia degli Uffizi).
 

 

Daniele D'Anza