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Giulio Carpioni
(Venezia 1613 — 1679 Verona)
 

 

Offerta a Venere. Olio su tela, 73 x 98 cm. Collezione privata.
 


Nato a Venezia nel 1613, Giulio Carpioni risulta attivo verso il 1630 nella bottega di Alessandro Varotari detto il Padovanino, da cui apprese i canoni del classicismo veneto, avendo come riferimento la tradizione aurea di Tiziano giovane. Aperto alle molteplici suggestioni della cultura contemporanea, l'artista completò la formazione seguendo il maestro nel 1631 a Bergamo, dove scoprì quel sentimento della realtà che era stato proprio ai lombardo-veneti del Cinquecento. Le posizioni mentali della ricerca del vero e delle istanze classicistiche, apparentemente inconciliabili, convivono nell'opera di Carpioni che derivò da Carlo Saraceni e Jean Le Clerc, presenti a Venezia in quegli anni, il gusto di una forma lucidamente intesa, calibrata nella luce ferma, perfettamente in linea con una tensione ideale orientata verso lo stilismo formale più rigoroso.
Con questo bagaglio l'artista cominciò ad operare autonomamente e nel 1738 si trasferì a Vicenza. Stimolata da una ricerca grafica condotta sugli esemplari di Pietro Testa e di Simone Cantarini e guidata dall'eco dell'opera di Nicolas Poussin, la via del classicismo fu perseguita da Carpioni nella città di Palladio, raggiungendo la piena maturità espressiva negli anni sessanta con quelle "invenzioni ideali, come sogni, sacrificj, baccanali, trionfi, e balli di puttini" ricordati da Pellegrino Orlandi (ed. 1753, p. 311) come "i più belli capricci, che abbia mai inventato altro Pittore".

 

 

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Opera della piena maturità, lo splendido dipinto interpreta il soggetto mitologico trasponendo la tematica in una favola prearcadica. Nell'aria immobile di un paese sognato, le figure intarsiate nell'azzurro cobalto del cielo si dispongono nello spazio aperto della radura: ignare del tripudio festante dei putti, le algide membra delle ninfe sono modellate dall'incidenza della luce, bloccata sullo smalto della forma splendente. L'accesa policromia dei panni esalta la pietra patinata d'argento dell'erma di Venere posta al centro dell'antico rito; la ricchezza dei valori cromatici si alterna entro la griglia conchiusa di campiture predefinite e ricorrenti, come se l'apparente caos del mondo naturale si ricomponesse sotto la regia dell'artista secondo canoni di adamantina chiarezza. La stesura pittorica quieta e precisa, sostenuta da un fermo impianto chiaroscurale, imprime alla scena un andamento languidamente pastorale, lontano dalle interpretazioni classicistiche di Francesco Albani e dalla fierezza eroica di Nicolas Poussin. Databile verso la metà degli anni sessanta del XVII secolo, la tela si colloca nei periodo più intenso e fulgido della produzione di Carpioni, ponendosi, per qualità pittorica e felicità fantastica, accanto alla splendida Offerta a Venere che, proveniente dalla collezione di Joseph Smith, il patron di Canaletto, e documentata da una incisione di Jacopo Leonardis del 1762 (Succi 1983, n. 227), costituisce il vanto di un collezionista genovese (Pilo 1961, p. 98, fig. 124).

 

 

Dario Succi  

 

 

Tratto, con il consenso dell'autore, da:

Il Fiore di Venezia - dipinti dal Seicento all'Ottocento in collezioni private - Leg Edizioni, Gorizia