Luigi Spazzapan (Gradisca 1889 – Torino 1958)  

 

 

 

Pittore elegante, cravattina a farfalla, fusto leggero e trasparente d’occhialini che oggi possono ispirare Alain Mikli, Spazzapan, a cui è intitolata la nota galleria d’arte gradiscana, ebbe gusto per l’indipendenza, atteggiamenti ribelli e anarcoidi (di sera rientrando a casa dopo animate discussioni artistiche con gli amici, non mancò per anni di pisciare sulla pianta di un ricco  signore disprezzato per il comportamento avuto nei suoi confronti); l’aspetto borghese di Spazzapan mascherava il suo carattere difficile (fu aggressivo e gentile nello stesso tempo), e anche  la sua dinamicità, il suo essere sempre entusiasta rampante, violento e romantico con tendenze malinconiche.  Fu stravagante, ma tuttavia coerente.  Si sentiva “oppresso” dal provincialismo e fu  tormentato dalle sue ispirazioni: gli capitò spesso di distruggere furiosamente i disegni eseguiti che non gli piacevano. Il suo occhio era infallibile come l’obiettivo di una macchina fotografica ed egli attingeva dalla memoria. Non voleva essere schiavo di fatti, azioni convenute, di quadri di colleghi famosi e d’opere già “masticate”, viste, ripensate: davanti al foglio di carta egli esaltava il proprio vissuto in modulazioni personali e vertiginose. Con l’acqua creava situazioni impreviste e imprevedibili, sfumava le mezze tinte: una sorta di gioco d’azzardo che via via  affinò a tal punto, da personalizzare il suo stile oggi da chiunque riconoscibilissimo.

Così scrisse di sé negli anni Sessanta:

 

“ Nacqui a Gradisca e finiti gli studi a Gorizia, mi recai a Vienna per studiare pittura ed architettura. Trovai Vienna in piena secessione, quel floreale viennese che inondò tanti paesi. Eleganze di Klimt, retorica balorda e patriottarda. I musei ricchi di Rembrandt, i Goja, i Velasquez mi facevano venire le vertigini. Ma erano anni della rivoluzione nell’arte quelli dal 1910 al 1914.

E Futurismo, Severini con il suo can can, Balla con il suo cagnolino a tante gambe, Dadaisti, Cubisti. Quanto desiderio di andare da Vienna, d’andare là dove si facevano queste belle cose.

Ma venne la guerra del 1914 che mi portò via sei anni. Tornando a casa trovai il poeta Pocarini, strinsi amicizia con lui ed entrai nel gruppo futurista giuliano. Partecipai a tante mostre d’avanguardia ed anche alla prima mostra futurista di Padova con sculture violentemente colorate. Polemica e polemiche. Successi di un giorno. Derisioni, sfottiture, ma ero giovane e contento. Un salto a Monaco m’informò sull’espressionismo tedesco. Costruttivisti, scuola di Kandinsky. Assimilavo tutto con gran facilità perché avevo la mano fatta e leggevo tutto e sempre. Il teatro espressionista tedesco, Pirandello, Martinetti, ed i francesi, Majakowski il russo. Ma uno era più bello dell’altro, tutto così vivo, esplosivo. Nel 1925 feci il gran colpo a Parigi. Esposi alla grande esposizione internazionale dei pannelli astratti puri (mi dispiace per Soldati che ci tiene tanto essere il primo astrattista).

Mi credevano pazzo eppure mi pigliai una medaglia d’argento.

Disegnavo sempre tutto ciò che vedevo, ma così a memoria. Mi bastava osservare attentamente, sapevo cogliere l’essenziale, l’espressione, che divertiva me e più ancora i miei amici, quando dipingevo sui tavolini dei caffè i tipi.

Girai e girai sempre irrequieto. Nel 1928 mi chiamò l’architetto Pagano a Torino. Scattai con entusiasmo ma il lavoro mi fu tolto ed il passaporto anche. Fu la fine. Chiuso per sempre un capitolo della vita di un pittore. Cercai lavoro come illustratore, pittore di pubblicità, ma avevo un altro gusto, un mestiere tutto nuovo che non andava. Tempi difficili per me. Conobbi Persico e diventammo amici. Le nostre discussioni furono spesso feroci. Persico mi organizzò a Milano, al Milione, una mostra di disegni.

Fu una novità. Mi feci conoscere con quei disegni di un rabesco libero, di un’espressione forte, macchie d’inchiostro violenti e poi lavate (i lavis). Lionello Venturi li trovò interessanti e ne comprò diversi forse per aiutarmi. Venne Oppo per una Sindacale a Torino, s’interessò di me e mi portò alla Quadriennale di Roma. Devo tutto a lui. Alla Quadriennale ebbi successo. Ojetti scrisse bene di me, anzi mi chiamò “mano maestra”. Fui presentato al Re in quell’occasione e anche a Mussolini. Da allora fui sempre invitato alle Mostre Nazionali e Internazionali. Feci ancora una mostra a Parigi da Alberti ed una alla Jeune Europe. Buona critica anche là. Mi acclimatai, accettai il postimpressionismo, accontentandomi di far vedere solo il mio temperamento ed il colore, il colore soprattutto. Trovai lavoro come illustratore alla Gazzetta del Popolo. Con quel lavoro tornai alla mia boccettina d’inchiostro di china. Lavoravo di notte e mentre facevo illustrazioni, mi venivano altre cose in testa e giù anche quelle. Notti intere passate così. Mi piaceva immensamente lavorare così di memoria senza correggere niente. Prima uso l’inchiostro di china, che penetra la carta e non lo leva nessuno più. E mi divertiva misurare il mio sapere e la mia impotenza. Se voglio fare una cosa vedo subito se la so fare o la potrei fare. Andare a vedere come è fatta una cosa, eh no! Non mi piace più. Quella prima che ho immaginato, quella deve chiudersi in un’immagine. Questo è il mio ideale e qui ci lascio la vita volentieri.

Se guardo le cose mentre dipingo mi frego, perché corro stupidamente dietro all’oggetto e perdo la pittura. E io non sono proprio niente impressionista. Ora m’accorgo, devo fare come per i disegni, che mi servivo unicamente della memoria e sulla carta vuotavo l’oggetto mio, quello che si era formato dentro di me. La mia natura è anti-impressionista e io devo fare un’altra cosa e cercare il massimo dell’astratto.

Scoppiò la guerra, mi bruciò lo studio, tutti i quadri e migliaia, migliaia di disegni. Dopo la guerra con Mastrojanni, Moreni e Sotsass decidemmo di organizzare una grande mostra a Torino di sola arte nuova. Dal cubismo in su come si diceva allora.

Ma che nome dare?  Premio Torino. Il premio fu dato a Pizzinato, a Vedova, Fazzini, Mascherini, e non ai più vecchi assi. Abbiamo fatto vedere al pubblico torinese Bodner, il più vecchio astrattista svizzero e uno dei più giovani Spiller.

Ma intanto succede che a Venezia Pallucchini rinnova la Biennale e fa finalmente vedere in Italia l’espressione del mondo nuovo.

… E già tutto passato. E qual è adesso la vera pittura? Mah! E chi lo sa! Non sento più parlare di Cèzanne e di tanti altri belli come lui. Dove sono finiti? Dove li hanno messi?”

 

 

Spazzapan scrisse poco e a stento. La firma su una cartolina o su un documento era già troppo per lui. Proprio per questa ragione si è voluto qui riportare quasi integralmente alcuni suoi  interessanti spunti da completare più avanti  con qualche altra nota biografica da lui stesso trascurata o volutamente dimenticata. Ciò anche per rispetto del suo modo di pensare: egli intravide, infatti, il grave danno che i “letterati” possono portare all’arte.

Non sempre i suoi rapporti con la critica furono sereni: egli avvertì varie volte l’obbligo di non essere sistematico (era questa la sua vera natura!), addirittura contrario ai criteri stabiliti e talora non fu capito. Gli furono contrari soprattutto coloro che, esaminando le sue opere, cercarono precipuamente in esse,  solo gli elementi narrativi o l’organizzazione di tali elementi.  Spazzapan predilesse sempre la trasposizione visionaria della realtà!

La sua opera abbondante fece di lui un uomo felice. L’estro naturale che egli manifestò rese vitale l’insieme e gli procurò euforia con il passar degli anni.

Giovane, tra il 1911 e il 1913, nei vari saltuari soggiorni a Vienna, tentò invano gli esami d’ammissione all’Accademia di Belle Arti.

Le vicende militari durante la prima guerra mondiale lo videro sui Carpazi, a Graz, a Libanowska. Fu fatto prigioniero, evase due volte in modo rocambolesco.

Sul fronte italiano egli, di salute già cagionevole, rimase a lungo sepolto sotto una frana con gravi conseguenze polmonari. La guerra finì,  ne uscì segnato nell’animo, ma vivo. Insegnò geometria e matematica ad Idria e dal 1923 si dedicò esclusivamente alla pittura. Partecipo' ad una mostra d’avanguardia a Praga e alla Prima mostra Goriziana di Belle Arti, organizzata da Antonio Morassi.  Realizzò manifesti (Esposizione del Circolo della Caccia di Gorizia), progetti di decorazione murale, tempere, disegni per stoffe, epigrafi. In quegli anni strinse amicizia con i pittori Veno Pilon, Sergio Sergi, Delneri e Fran Tratnik. I loro incontri al Caffè Venezia e al Caffè Corso di Gorizia erano pure occasione di schizzettare ed osservare le “macchiette” presenti cogliendone umoristicamente gli atteggiamenti o gli aspetti più canzonatori: mani, nasi pronunciati, baffi ispidi, bocche distorte da sigarette, grossi sigari o pipe, orecchie a vela, calvizie emergenti,  lucide nuche, pance dilatate dall’alcol e anche  cravatte storte,  scarpe consumate, abbigliamenti grotteschi.

Il tutto condito da una solenne ironica autocritica. E se  l’osservazione acuta fece di Veno Pilon un graffiante e sensibile disegnatore e in seguito fotografo a Parigi, Spazzapan dimostrò il meglio di sé in una scultura bronzea del 1925 che rappresenta la testa dell’amico intimo. Azzeccata è la preponderante linea obliqua del blocco che esalta l’espressione di Pilon e coglie appieno i suoi tratti somatici accentuandone i lati “meritevoli” e la “dilatazione” del viso chiusa in un sorriso beffardo.

Pure di quegli anni è la scultura dell’ingegner Brunner dal cui volto emergono in un ghigno larghe e polpose labbra.

Eseguì numerose tempere con composizioni geometriche e persino ritratti femminili con tali caratteristiche lineari.

Si formò dunque a Vienna poi in Germania e in Francia, dopo una tangenza postfuturista sperimentò le avanguardie da Kandinsky a Delaunay. Si disse attento all’opera di Kokoschka e Beckmann, ma guardò pure a Matisse e Dufy.

Verso la fine degli anni venti conobbe i pittori che in seguito formarono il “Gruppo dei Sei”. Strinse amicizia con Edoardo Persico, con letterati e avvicinò il gruppo torinese del “Selvaggio”: Mucci, Zeglio, Cremona. Disegnò su La Gazzetta del Popolo.

Le chine di quel periodo sono  efficaci: donne allo specchio, donne alla toletta o solitarie in piedi senza ambientazione alcuna, distese su un  sofà o un canapè, mostrano non di rado, abbondanti, flaccidi deretani,  gambe avvolte da calze autoreggenti, sinuose anche, pettinature scompigliate, carnose labbra rosse, occhi truccati alla moda orientale e allungati in sguardi maliziosi. Non mancano i cavallini che Zoran Music vide e poi trasfigurò (non ignaro tuttavia delle pitture preistoriche rinvenute in diverse caverne europee)  in una personalissima, vaga e poetica Dalmazia; negli anni trenta Spazzapan disegnò nature morte, paesaggi, uccelli, selvaggina, scheletri e altri soggetti originali quali delfini o mangiatori di lische. Persico, che collocò storicamente l’arte di Spazzapan su un piano europeo, scrisse che i suoi disegni “sono nudi di intenzioni polemica, come in Grosz, e d’ogni sotteso autobiografico, come in Pascin (sic! in verità un mediocre illustratore); l’inquisizione di Spazzapan non è mai una vendetta o una consolazione, ma una contemplazione estetica, il processo dal reale al fantastico”.

Persico notò anche che “la visione di un mondo decaduto si risolve in Spazzapan nell’espressione di un mondo decadente, con lo stesso processo romantico per cui la voluttà è una liberazione dal dolore”.

Angosciante e  dirompente è il Nudo femminile squartato del 1937 che ci riconduce alle opere di Francis Bacon, ma in maniera assai più palese all’ attuale cinematografia horror o a quella di Dario Argento, Jonathan Demme o David Fincher che prediligono i serial killer mozzafiato. Ed è la sorpresa, lo spiazzamento emotivo, l’incredulità anche ciò che lo spettatore spesso avverte davanti un’opera del pittore!

La sua realtà fantastica è complessa, per niente convenzionale, il timbro della sua pittura lo rende diverso e nel contempo isolato.

La sua trovata tecnica, tuttavia, sempre audace, sicura, lacerata nell’intimo delle sue notti insonni, non sul foglio, sul cartone o sulla tela, non si sovrappone mai all’immagine. Spazzapan risolve il soggetto e la scena con la stessa veemenza della stoccata decisiva di uno spadaccino che conclude vincente una sfida. In questo fare d’ardimento sicuro, nel suo disordine di segni e macchie, il pittore trova la libertà interiore e una via vigorosa che diventa percorso inarrestabile del suo destino.

Negli anni trenta le sue mostre si susseguirono a Torino (in questa città dipinse più volte il Valentino, le vedute sul Po, il Parco Michelotti, le piazze), Venezia (fu invitato alla XX Biennale), Milano, Roma, Parigi.

Famosi dipinti del periodo sono il suo Autoritratto reso con pennellate vibranti oggi in una collezione privata di Torino, Autoritratto con giacca rosa,  il Ritratto di Ginia con teiera.

Il decennio seguente è caratterizzato da un’importante retrospettiva torinese nella quale furono presenti 117 opere, ma anche da  avvenimenti per lui tristissimi: in seguito ad un’incursione aerea, il suo studio in Corso Giulio Cesare nel capoluogo,  fu incendiato ed egli perse in un solo momento molte opere. Fu un duro colpo.

Un artista amico era solito dirmi che un pittore senza opere in casa è un pittore finito. Ma non fu il caso di Spazzapan, sempre attivo e prolifico. Si riprese lavorando con veemenza. E’ del 1942 lo straordinario Nebbia sotto i bombardamenti recentemente esposto a Gradisca, ma non si possono dimenticare il Ritratto di Valeria, Cravatta Rossa, e i suoi  santoni (Santone con leone, Santoni con colombe, Santone Persiano) i tori, i guerrieri, i moschettieri, le figure di generali o di ufficiali, le attrici, le modelle: soggetti preferiti, amati e ripetuti in atteggiamenti diversi, con colori diversi, in azioni diverse.

Altri suoi soggetti furono gli arlecchini, le paludi, i fogliami intricati, le memorie mitiche.

Stagione ricca d’immagini che aggiunse nuovi e originali  elementi al suo già abbondante repertorio figurativo.

Nel 1950 e nel 1954 ritornò alla Biennale di Venezia con i suoi santoni e i suoi gattoni nei quali la materia acquista una propria validità d’espressione, resa da strati sovrapposti che interiorizzano l’innato vigore della sua azione dirompente.

L’anno successivo ebbe una sala personale alla Quadriennale d’arte di Roma e subito dopo ottenne la cattedra di Decorazione al Liceo Artistico di Torino.

Osservò Giuseppe Marchiori: “L’immagine figurale si trasforma nelle macchie o nell’agglomerato di macchie, con lo stesso procedimento della memoria esercitata sulle cose. Sono i riflessi, le luci, le forme di un ambiente tanto diverso dai paesaggi autunnali piemontesi, dalle stradine fra gli alberi con le ultime foglie gialle, un po’ piegati, tra le nebbie della triste pianura o calate sulla città nei lunghi inverni deserti, che Spazzapan scrutava con gli occhi inquieti dai vetri appannati nello studio o di un caffè sotto i Portici di Piazza Castello o di via Po. Il pittore segue ora altri itinerari, va verso il sud, a Ischia, o lungo le coste tirreniche. L’opaca tristezza dei giorni torinesi si dilegua: il pittore vede come sempre, al di là delle cose, ma con la certezza di un illuminato”.

L’indicazione più precisa sulla tarda attività di Spazzapan, che dalla critica è stata rivendicata di valore autentico, di fronte alla quale il preludio sarebbe costituito dall’opera precedente, ce la dà lo stesso pittore: “Faccio così per la voluttà dei miei sensi, mi piace muovere il colore e renderlo bello… E domani? Domani farò vedere un’altra cosa che sarà anche pittura pur essendo diversa”.

Non mancarono anche in questa fase tenaci antipatie ed esacerbate critiche. Non sempre l’artista seppe commuovere, generare sensazioni, condurre  i fruitori della sua pittura verso il sentimento. Spazzapan mai correggeva, ma la sua facilità di condurre l’opera non è solo esercizio esteriore, capriccio illustrativo o virtuosa calligrafia.

Così testimoniò Anna B.: Andai da lui a Torino per il San Silvestro del 1955. Tre anni prima che morisse. Avevo saputo che era molto malato. Tra l’altro, mi disse: - Me ne hanno fatte vedere tante! Io non mi sono mai sentito bene qui.-

Spazzapan si spense improvvisamente nel suo studio il 18 febbraio 1958.

 

 

 

Walter Abrami