Giuseppe Miti Zanetti (Modena 1859 - Milano 1929)

 

Nasce a Modena il 10 ottobre 1859. La morte precoce del padre Vincenzo, un ricco avvocato dedito anche alla politica locale, e la povertà dignitosa che la numerosa famiglia, a causa anche dello stretto conservatorismo materno, viene successivamente a soffrire (la madre infatti, obbedendo a un rigido credo aristocratico, non vuole in alcun modo alienare i beni di famiglia), provocano nel giovane Giuseppe delle vere e proprie crisi di svogliatezza e di abulia che rendono alquanto lento il suo processo maturativo e che, in un’indole forse già naturalmente predisposta, contribuiscono in qualche modo a forgiare quel carattere malinconico, al limite della depressione, che così spesso troverà poi manifesto riscontro anche nella sua produzione artistica.

Nel 1873 si iscrive all’Accademia di Modena frequentando i corsi in maniera irregolare e disattenta (negli stessi anni frequenta le lezioni anche Eugenio Zampighi). Il medesimo atteggiamento, scostante e poco redditizio dal punto di vista dell’applicazione allo studio, lo tiene successivamente anche presso l’Accademia di Bologna, che del resto frequenterà per un solo anno.

All’età di circa vent’anni trova un impiego in uno studio d’arte, dove tra l’altro esegue dipinti su seta, e inizia ad esplorare i luoghi solitari e gli anfratti delle colline bolognesi. In questo periodo stringe una sincera amicizia, destinata a durare nel tempo, con Emanuele Brugnoli il quale lo convince a visitare Venezia, città nella quale Miti Zanetti (Miti è il cognome della madre) si trasferirà poi stabilmente nel 1884, attratto da quelle pulsanti emozioni che lo hanno attanagliato nel corso della precedente visita.

Ed è in questa nuova dimensione d’ambiente che l’artista inizia un frenetico lavoro di ricerca e di osservazione di luoghi, di luci e di atmosfere. Vaga per gli angoli e i sottoportici della città, trascorre giornate intere a Burano e a Chioggia, in barca ispeziona meticolosamente la laguna, avventurandosi particolarmente nelle zone paludose ove è endemica la malaria.

Dalla visitazione e dall’analisi di questi luoghi ne deriva quello stato d’animo emotivo e malinconico che trasferisce, con fare romantico, nella quasi  totalità delle sue opere.

Per l’artista non è la presenza umana che attrae la sua attenzione, bensì il paesaggio che assurge in tal modo al ruolo di vera testimonianza dello stato d’animo che incombe. Il fascino della città non è rappresentato dalla mondanità o dallo sfavillio delle luci dall’effetto scenografico, ma dal triste e cupo silenzio delle paludi malariche o dalle malinconiche ore della notte. Ed egli rende il tutto con pennellate succose e larghe, istintive, limitando la cromia a pochi toni “crepuscolari”, così come avverrà in seguito anche per i paesaggi alpini, dove il cromatismo della densa materia pittorica si limita spesso all’abbinamento di un paio di colori, l’azzurro con il verde o il rosso con il  verde. I pochi tocchi di bianco trasmettono poi tutta la malinconia incombente che trasuda dalla composizione.

Secondo U. Ojetti la sua naturale e profonda vena romantica che si era così ben rivelata nelle opere maggiori, verrà poi mutuata e trasferita, con formule ampiamente sperimentate e alquanto ripetitive, anche in diversi altri lavori della sua produzione più strettamente commerciale.

Trasferitosi a Milano, oltre a dipingere paesaggi alpini, si dedica freneticamente all’incisione nelle sue varie forme (puntasecca, acquaforte a colori, acquatinta, incisione a rilievo) e sperimenta, a partire dal 1910, una sua personalissima tecnica di monotipia. Indubbiamente a rafforzare il suo interesse per la pratica dell’incisione contribuisce la grande amicizia che intrattiene con Mariano Fortuny, il quale lo incita e gli è di stimolo nel perfezionarsi sempre più in tale tecnica di espressione artistica.

Vive gli anni del primo conflitto mondiale in uno stato di grande preoccupazione e turbamento. La morte del figlio primogenito lo getta in un profondo stato depressivo, dal quale si risolleva, e non del tutto, a fatica. Assai apprezzato in Italia e all’estero, partecipa alle più importanti esposizioni nazionali ed internazionali: nel 1889 espone all’Internazionale di Parigi; nel 1902 è a Monaco di Baviera; figura ininterrottamente alla Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia dal 1895 al 1924 (nel 1910, in occasione della IX Biennale Veneziana, gli viene allestita una sala personale con 32 opere); espone inoltre a Modena, Bologna, Torino, Milano, Genova, Firenze, Gorizia, Rimini, Barcellona, Chicago, Buenos Aires, San Francisco, Lipsia, Santiago del Cile ed ottiene più volte ambiti riconoscimenti. Fra l’altro viene anche nominato Accademico di Modena e di Venezia.

Tra le sue opere principali meritano particolare menzione: Paludi di Malamocco, conservata presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano; Pesca, conservata presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; Notturno, collocato nel Palazzo Comunale di Piacenza; Calma e Il figlio della laguna, esposte nel 1888 a Bologna; Una sera d’estate, presentata alla Promotrice di Torino nel 1895; La Malaria, una delle opere sue più famose, presentata nel 1897 all’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia e conservata presso la Galleria d’Arte Moderna Cà Pesaro di Venezia; Scirocco, Rio a Venezia e Notte d’estate, esposte a Firenze nel 1897; Rio triste, presentato a Firenze nel 1898; Silenzio e Venezia che scompare, quest’ultima datata 1900, esposte a Monaco di Baviera nel 1902; Il sonno, esposta all’Internazionale di Venezia del 1903 e conservata presso la Galleria d’Arte Moderna di quella stessa città; Paese fantastico, conservata nel Museo di Buenos Aires; Nell’oblio, presentata a Venezia nel 1905; Notte a Chioggia, esposta alla Internazionale di Venezia del 1910 e conservata a Parigi nel Musée du Luxenbourg; Valle solitaria, esposta alla Mostra delle Tre Venezie a Milano nel 1917; Calma, esposta alla Biennale di Venezia del 1922; Venezia scomparsa e Ultime luci, collocate in prestigiose raccolte private.

La sua parabola esistenziale termina a Milano il 29 gennaio 1929.

 

 

Enzo Montanari