Mario de Maria (Bologna 1852 - Venezia 1924)

 

 

Mario de Maria nasce a Bologna il 9 settembre 1852 da una famiglia aristocratica con tradizioni artistiche (il nonno Giacomo era stato scultore e professore d’Accademia; il padre Fabio, pur esercitando la professione di medico, si dilettava a dipingere ed era un appassionato collezionista). Il nostro s’iscrive inizialmente al conservatorio (l’amore per la musica non l’avrebbe comunque abbandonato per il resto della sua vita), ma dopo qualche tempo s’indirizza verso la pittura ed entra all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove, tra il 1872 e il 1878, trascorre l’alunnato presso Antonio Puccinelli. In questo periodo è tuttavia quello col disegnatore Luigi Serra il rapporto più formativo: con lui de Maria visita Vienna, Berna e soprattutto Monaco, dove conosce, tra l’altro, l’opera di Arnold Boecklin. Conclusi gli studi accademici, si reca a Parigi per visitare l’Esposizione Universale (1878): scopre Delacroix, Millet e i pittori di Barbizon, in particolare Decamps e Troyon. Al 1882 data il suo primo soggiorno londinese, assieme a Vincenzo Cabianca, mentre l’anno successivo trova alloggio a Roma grazie all’interessamento di Serra (si stabilisce nel noto Palazzo Dovizielli di via Margutta, base storica della bohème artistica della capitale). Il contatto con l’ambiente culturale romano è tuttavia difficoltoso, e il pittore preferisce le escursioni con l’amico, durante le quali coltiva anche il proprio talento per la fotografia. Nel 1886 una mostra di diciotto dipinti presentati nello studio di Pietro Giorgi, un allievo di Giulio Aristide Sartorio, testimonia l’affinarsi della sua ricerca; alla fine dello stesso anno esce la raccolta di poesie Isaotta Guttadauro di Gabriele d’Annunzio, illustrata dagli artisti di via Margutta. Ma questo è l’annus mirabilis di de Maria soprattutto perché registra la sua consacrazione ad artista di grido grazie all’esposizione del sodalizio In Arte Libertas, patrocinato da Sartorio e altri due pittori, Alessandro Morani e Alfredo Ricci. Un successo che non tarderà a manifestarsi anche all’estero: la sua presenza è documentata tra 1887 e 1888 a Londra (presso la prestigiosa Grosvenor Gallery ed Earl’s Count), Liverpool, Monaco (Esposizione Internazionale al Glaspalast) e Berlino. Nel 1889 conosce la tedesca Emilia Voigt, pittrice dilettante, che sposerà l’anno successivo a Brema. La famiglia torna quindi a Roma per trattenervisi fino alla nascita del primogenito Astolfo (agosto 1891); il clima culturale poco stimolante e la rottura con In Arte Libertas spingeranno de Maria a trasferirsi a Venezia. In questo periodo l’attività espositiva si dirada in concomitanza all’approfondimento delle tecniche pittoriche dei grandi maestri; la partecipazione alla Sezione di Belle Arti delle  Esposizioni Riunite di Milano, nel 1894, afferma l’evoluzione del nostro anche in virtù della segnatura anticheggiante che da questo momento apporrà sempre ai suoi dipinti, ‘Marius pictor’.

Perfettamente a suo agio, adesso, nel milieu e nell’atmosfera della città lagunare, l’artista diventa un’autentica figura di riferimento: rinomato collezionista e animatore culturale, presiede tra l’altro come sottocommissario alla nascita e allo sviluppo della Biennale – impegnandosi in particolare per l’allargamento internazionale degli espositori – e vi presenta regolarmente le sue opere. Soprattutto significative, per quanto lo riguarda, le mostre del 1907, ove è inserito nella ‘Sala del Sogno’ (concepita come una panoramica sul Simbolismo europeo), e del 1909, in cui beneficia di una sala monografica.

Gli anni a seguire, pur definendo con sempre maggior evidenza il divario tra il nostro e la generazione delle avanguardie – futuristi in primis – vedono il suo impegno estendersi a ulteriori ambiti creativi: tra il 1912 e il 1913 architetta la Casa dei Tre Oci alla Giudecca, in cui innesta sul tradizionale prospetto del fondaco le cadenze di un neogotico ormai perfettamente amalgamato all’art nouveau, mentre nel biennio di guerra 1915-16 concepisce la fantasia anseatico-ogivale del Sogno di Rembrandt ad Asolo, come ritiro estivo.

Fedele alla sua visione del mondo e dell’arte (ancora negli anni ’20 apporta ritocchi a un’impegnativa tela incominciata a Roma nel 1885, il Monte di Pietà), Mario de Maria si spegne a Venezia il 18 marzo del 1924.

 

 

LO STILE

  

Il cursus accademico iniziale è ben presto superato in nome dell’adesione al vero e della ricerca della luce naturale, grazie anche alla dimestichezza con le sperimentazioni degli adepti della ‘macchia’ toscana (Vincenzo Cabianca, Nino Costa e Telemaco Signorini in primo luogo). Il giovane de Maria è quindi ancora disposto a risolvere la propria visione in chiaro, ma già concentrandosi sugli aspetti riposti del reale, indagato nella apparente marginalità delle mura nude e consunte, delle pietre calcinate dalla calura, presaghe di quelle lavorate dai lapicidi gotici nella sua Venezia notturna e onirica della maturità. Gli anni 1880 vedono il progressivo, inesorabile affocarsi della sua concezione luministica verso effetti più sofisticati e allusivi (es. la processione di donne che recano ceri nel crepuscolo lagunare di Rosso di sera, bel tempo si spera, iniziato nel 1882 ma compiuto nella rifinitura ottimale soltanto ventisette anni dopo, secondo una prassi che diverrà normativa nel nostro), ricchi di notazioni meteorologiche impalpabili e virate al saturnino, dove l’inevitabile presa di coscienza dell’Impressionismo si carica di istanze psichiche ormai in linea con la cultura del Simbolismo internazionale (il Boulevard di Parigi del 1886, in raccolta privata milanese, o il più romantico scorcio della Sera d’estate a Parigi, luna velata dello stesso anno). Dal canto loro, le frequentazioni letterarie allargano la gamma del fantastico verso un ‘nero’ che concilia la grandiosità dell’impaginazione classicheggiante (i fondali architettonici del Veronese aggiornati alle recenti reveries mitologiche di Gustave Moreau) al pullulare di spettralità biomorfe come messo in atto in quelli stessi anni da Odilon Redon (la cui suite litografica dell’Hommage à Goya precede di un anno appena le illustrazioni del nostro per la dannunziana Isaotta Guttadauro, compiute nel 1886).

La definizione stilistica è compiuta. S’impone ora nel suo repertorio il singolarissimo stratagemma di convertire, per sovrapposizioni di velature violette, l’attenta riproduzione del lume diurno nel pallore del plenilunio. Incunabolo del travisamento è il piccolo cortile delle Tavole di un’osteria ai Prati del Castello (1884, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna): qui il pretesto cronachistico (un fatto di sangue consumatosi di fresco tra quei rozzi tavoloni) è elevato, con la sapienza dell’ “effetto notte”, al rango della magica surrealtà di un sopramondo mentale, come parimenti accade per il cantuccio devozionale della Consolatrix Afflictorum del 1887. In un altro capolavoro del periodo, i Monaci dalle occhiaie vuote, un demonismo d’ascendenza goyesca fa da controcanto ad un impaginato formale che si direbbe a giorno delle sintetiche scansioni di un Leon Spillaert quando non addirittura di un Edvard Munch. La consistenza della materia, lavorata in una grana sempre più complessa, e il taglio dell’inquadratura attestano d’altro canto l’appassionato studio della chimica e del medium fotografico.

Il trasferimento a Venezia segna la fase più tipica nel percorso di de Maria: gli scorci gotico-bizantini delle calli e dei cortili silenti impongono l’assillo senza fine delle loro tessiture murarie miniaturisticamente indagate in ogni singola asperità o araldica bizzarria di scalpello, protagoniste organiche della scena anche quando la città stimola il ricordo di eventi drammatici (La peste a Venezia nel 1848, 1898-1912) o il sogno di allucinate maestranze (Il fabbricante di scheletri del 1894, riproposto vent’anni più tardi con differenze nello sfondo d’architettura come Storia di un mercante di scheletri). Lontano il vagheggiamento brumoso degli artisti settentrionali in occasionale trasferta lagunare (da Lucien Levy-Dhurmer allo stesso Claude Monet), domina in questi dipinti il nitore d’un filtro ottico insonne, che prosciuga l’aria dall’atmosfera con una smaltatura da gemmario medioevale (le Mura cancrenate del 1906, il Fondaco dei Turchi del 1909).

Ormai non più suscettibile di variazioni, il linguaggio dell’artista indugia sino al termine sull’approfondimento di questi motivi, informandone anzi opere intraprese anche diversi decenni addietro, come ad esempio nel Monte di Pietà, cominciato in effetti nel periodo romano (1885), ma licenziato come elaborazione definitiva soltanto intorno al 1922, alla soglia dello scadere della sua vicenda terrena.

 

 

Paolo Marini

 

 

 

 aver vissuto lo sgombero della mostra come una vera, propria e liberatoria evacuazione.