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Francesco Mennyey - (Torino 1889 - 1950) 

 

 

 

 

 

Francesco Mennyey - Al limitare dei boschi. Bra, collezione privata.

     

 

Szombathely, (dal nome impronunciabile) è una cittadina posta in territorio magiaro, a circa dieci chilometri dal confine austriaco che, tradotto letteralmente, significa “Posto del Sabato” poiché anticamente proprio in quel giorno della settimana si svolgeva un mercato molto frequentato che attirava compratori e commercianti dai paesi limitrofi. Francesco Mennyey (nonno del nostro artista) eroe della rivoluzione magiara del 1848, (per liberare il proprio paese dal dominio asburgico) e che si era rifugiato a Torino nel 1849, era originario di quella città. Francesco nacque a Torino il 7 febbraio del 1889, quando in Piemonte tutto in pittura era già avvenuto. Vent’anni prima con l’incarico al “Grande Reggiano” Antonio Fontanesi, della Cattedra di Paesaggio, all’Accademia Albertina, i suoi “Ulissidi” (come ebbe a definirli Marziano Bernardi) erano usciti dal buio degli studi per inondarsi nella luce della campagna, liberi di agire secondo i propri sentimenti e corrispondevano ai nomi di: Marco Calderini, Giovanni Piumati, Amedeo Ghesio Volpengo, Carlo Stratta, Carlo Follini, Carlo Pollonera, Giacinto Tesio, Ambrogio Raffele, Pio Caglieri, Riccardo Pasquini, Domenico Bologna, Vincenzo Incisa di Camerana, Antonio Fornasero, Francesco Vercelli, il Conte Gherbore Ghé, Francesco Mascarino, Vittorio Bussolino e per ultimo Clemente Pugliese Levi, che furono poi i maestri ai quali guardare e attingere.

 

 

Francesco Mennyey - Nei pressi di S. Vittoria. Bra, collezione privata.

 

 

Mennyey nacque pittore con la frequentazione dell’Accademia Albertina e solo dopo la “Grande Guerra” si dedicò con intensità all’incisione, diventando uno dei più grandi incisori del I° novecento, e proprio grazie a questa sua attività nel 1924 fu invitato alla Biennale di Venezia. Dal verdetto in catalogo, ecco un passo saliente della Giuria d’accettazione, che era composta da Francesco Casorati, Plinio Nomellini e Alessandro Pomi. “…Crediamo che le 233 opere accolte (ne furono presentate 1671) siano degne dell’importanza delle Biennali veneziane, e siamo lieti di affermare che qualcuna di esse che rappresenta lo sforzo generoso di giovani artisti, da veramente confortante motivo a molto ben sperare nell’avvenire dell’Arte italiana”. Nel 1921, Guglielmo Pacchioni recensendo l’opera incisoria di Antonio Carbonati, circa la stessa aveva scritto: “L’acquaforte è tra le forme d’arte che materialmente dispongono di una sola superficie una delle più plastiche: arte essenzialmente di bianco e nero, di chiari e di scuri, di rilievi e di arretramenti, trae il suo carattere il suo valore, la sua più intima essenza dal –valore- che ciascun piano viene ad assumere nella stampa”. Già nel 1922, Emilio Zanzi circa il nostro artista aveva scritto: “Francesco Mennyey è oggi un pittore e acquafortista di prim’ordine. Da qualche tempo seguiamo con stupita ammirazione la sua concessione. Qualche suo lavoro esposto nella passata Quadriennale era destinato al Civico Museo. Ora si presenta con opere ancora più forti di disegno più impregnate di poesia, diremmo più drammatiche”. Il suo esordio espositivo in qualità di pittore, era avvenuto nel 1914, nella annuale rassegna della Promotrice di Torino.  Nel 1910 a soli ventun anni, fu sposo e padre di Costanza, che sarà chiamata affettuosamente Tina, la quale seguendo le orme paterne si cimenterà in pittura e scultura, esordendo nel 1932 con una Personale presso la Galleria d’Arte Bragaglia di Roma. Negli anni successivi nascerà un’altra bambina alla quale sarà imposto il nome di Giuseppina, (Pina) che si realizzerà nell’insegnamento dapprima in qualità di Maestra Elementare e che poi nel dopoguerra otterrà l’abilitazione per insegnare negli Istituti Superiori. Avviatosi alla carriera militare, Francesco divenne ufficiale dell’esercito con mansioni di fiducia all’estero. Ebbe così modo di visitare altri paesi quali: Francia, Olanda, Turchia, Romania, Estonia, Belgio, Grecia e isole Egee, portando con sé nei dipinti, scorci di quei luoghi, veri e propri momenti di alta narrazione stilistica. Legato alla città natale con senso umano e artistico vi trasse le sue più belle incisioni: Le torri Palatine; Palazzo Madama; I gasometri di Corso Novara; Palazzo Reale; Palazzo Carignano; La Gran Madre; Piazza della Consolata; Le chiese di S. Carlo e di Santa Cristina; ecc., un magistrale impegno grafico che lo ha portato a produrre un totale di oltre duecentocinquanta lastre tutte di grande qualità. Vittorio Bottino in merito ha scritto: “Splendidi monumenti in bianco e nero, palpabili di essenze mistiche e materiali, una somma di valori gestuali nell’urbanesimo e nella campagna (…) Pur riconoscendo a Mennyey, ampie aperture coloristiche e precise intuizioni paesaggistiche, meglio si eleva a dimensioni interpretative, tecniche ed elegiache l’incisione”. Il 21 Aprile del 1928 venne inaugurata la 86° Mostra Nazionale della Società Promotrice di Belle Arti di Torino, sotto gli auspici e la guida di S. A. R. il Duca d’Aosta. Gli espositori furono 297 per un totale di 499 opere divise tra pitture, incisioni e sculture. Francesco Mennyey presentò: I gasometri (acquaforte) e il dipinto titolato - Piccolo porto ligure -. Il recensore della stessa Emilio Zanzi tra l’altro scrisse: “…Notevoli sono i paesaggi torinesi e suburbani del Valinotti nei quali le acerbezze cromatiche sono alternate dalla larga visione sintetica dell’ambiente sentito ed espresso con sincero vigore e da tenere presente quelli di Francesco Mennyey e del Manzone”.  Nel 1930 è ancora alla Biennale di Venezia con due opere incise: Santa Cecilia di Alby; e Porta della Marina di Rodi; acqueforti di grande fascino e bellezza, piene di chiaroscuri. Ugo Nebbia sulla rivista bergamasca Emporium, tra l’altro scrisse: “Sul bianco e nero, vale a dire che la Biennale tiene degnamente in onore come conviene ad una forma che ci accosta nel modo più intimo all’indole di certi artisti che sanno servirsi di esso come modo espressivo d’una sincerità e immediatezza sgombre da preoccupazioni. Ogni tentativo critico, cioè ogni ulteriore sosta dinnanzi a quei brevi quadrati di carta, fra le cartelle che li racchiudono in modo ancora più intimo e personale, lascia per ora il posto ad una semplice constatazione di cronaca: la quale vuole solo confermare l’interesse che in tal modo ridesta di tanti artisti e la serietà con cui ha voluto anche in tal genere d’espressioni considerarli l’attuale Biennale”. Sempre nel 1930, fu presente alla IIa Sindacale Regionale Piemontese di Torino. Emilio Zanzi, su Emporium in Cronache Torinesi scrisse: “…Presso la piccola sezione del bianco e nero, sono esposti lavori del Mennyey, del Bozzetti, del Boglione e del Carbonati, monotipi ed energiche xilografie del povero Ercole Dogliani” (che era deceduto il 12 ottobre del 1929 a soli quarantuno anni). Nel 1932 fu invitato per la quinta volta alla 18esima Biennale di Venezia. Trecento artisti italiani furono considerati degni di occupare le cinquanta sale messe loro a disposizione. Le opere furono 1330 appartenenti a 199 pittori, 47 scultori e 54 incisori. Francesco Mennyey espose: Alberi lungo il Po; e Strada malinconica a Torino. Ugo Nebbia sulla rivista Emporium di quel giugno, evidenziando come sia terribilmente difficile giudicare opere d’arte, scrisse: “Vecchio sogno, ogni volta che capita di trovarmi fra i quadri e le statue d’una delle solite mostre, con l’intenzione più o meno definita di dover rendere conto delle impressioni che essa mi suscita, penso sempre quanto sarebbe bello sentirsi liberi da ogni preconcetto, estetismo, ideologia dei tempi nostri per giudicare solo delle qualità intrinseche delle opere”. Nel 1939 a Roma dal 5/2 al 29/7 si tenne la IIIa Esposizione della Quadriennale Romana.

 

 

Francesco Mennyey - Rocche di Pocapaglia. Bra, collezione privata.

 

 

Gli artisti invitati furono 700 per un totale di 2000 opere. Efisio Oppo ammise che forse gli invitati furono troppi. Vista l’emanazione da parte del Governo delle leggi razziali, a tutti i partecipanti fu inviata una scheda per l’accertamento della razza, e per questo motivo furono esclusi artisti affermati quali: Corrado Cagli e Roberto Melli. Francesco fu invitato per la prima e unica volta, (dove già la figlia Tina era stata presente nel 1931 e nel 1935) ed espose sia nella sezione del bianco e nero che in quella del colore. In mostre d’incisione, fu presente ad Atene, Sofia, Parigi, Tallin, Bucarest, Istanbul, dove sempre ottenne premi e riconoscimenti. Non ostante il suo girovagare per mezza Europa, Francesco trovò anche lo spazio per dedicarsi all’insegnamento delle sue materie preferite, presso la Scuola di Arti Grafiche di Torino intestata ad Antonio Fontanesi, dove fu docente di “Tecnologia e Scienze applicate all’Arte” e “Tecniche incisorie”. Ai suoi allievi ricordava spesso quanto soleva dire Fontanesi ai suoi “ulissidi”: “Disegnare è come parlare”. Lo scoppio della IIa Guerra Mondiale lo portò a rifugiarsi nel piccolo borgo di Pocapaglia (in provincia di Cuneo) dove la figlia Pina, era insegnante elementare, andando ad abitare in località San Bernardo, in una piccola casa posta in alto sul costone della collina a dominare la piana circostante, contornata da boschi e da rocche e fu proprio il territorio roerino a offrirgli in età matura un’ultima stagione, sicuramente bella non ostante il conflitto che dopo il 1944 coinvolse anche quel territorio e quei boschi che furono nascondiglio alle brigate partigiane. Gli arroccati paesi del Roero, i suoi tufi erosi dal tempo, l’immensità boschiva circostante denominata “L’America dei boschi” la piana lungo il fiume Tanaro con le sue anse, il ponte sospeso di Pollenzo, sostenuto da enormi cavi di acciaio e lanciato arditamente da una riva all’altra e purtroppo oggi scomparso (poiché all’epoca fu distrutto per motivi bellici) e la vicina città di Bra, ricca di storia e di monumenti, furono stimolo alla sua operatività che fu sia pittorica sia incisiva. Quando piazzava il cavalletto per dipingere in “plein air” non mancava mai di annotare sul suo taccuino tascabile angoli di paesaggio o scorci che stimolavano il suo “occhio”, erano solo schizzi (non ancora disegni veri e propri) ma con i colori segnati, così com’erano usi fare Delleani, Reycend, Pugliese Levi e altri.

 

 

Francesco Mennyey - Orvieto. Bra, collezione privata.

 

 

Le incisioni del Castello di Pocapaglia e a Bra  di Palazzo Traversa e della facciata della chiesa di S. Andrea spiccano tra quelle realizzate nel territorio. Silvia Brizio in merito ha scritto: “L’acquaforte di Mennyey che riproduce la facciata della chiesa di Sant’Andrea di Bra rivela l’energia del disegno, la forza compositiva, la sicurezza del tratto che coglie con vivacità l’animata scena del mercato che si svolge nella parte bassa della composizione”. Di carattere schivo e riservato, Francesco non ebbe mai le arditezze di alcuni suoi colleghi per conquistarsi i salotti che contavano: sia quando agiva in Torino sia quando soggiornava a Roma presso la figlia Costanza. Silvia Brizio, ricordandone la figura sulla rivista “BRA, o della felicità” ne ha sottolineato la severità ma anche il grande rispetto che portava verso i suoi allievi, scrivendo: …La particolarità dello sguardo acuto, degli occhi di colore differente che si posavano con attenzione su tutto quanto bisognava cogliere, nel rigoroso studio del vero che proponeva, la sua severità, il suo enorme virtuosismo, ma più di tutto la grande attenzione per l’individualità dell’allievo, nel pieno rispetto del suo –fare- artistico”.  

A guerra conclusa fece ritorno nella capitale sabauda, dove concluse la sua vita terrena il 15 ottobre 1950. Dopo la sua morte, sulla sua opera cadde il silenzio e soltanto nel 1968 la Galleria Etruria di Cuneo lo ricordò con un “Postuma”. Nel 1971, Stefano Pirra nella sua Galleria all’epoca sita in c.so Cairoli a Torino, gli dedicò un’ampia mostra di dipinti e sempre nello stesso anno, presso la Galleria d’Arte “La Conchiglia” di via Garibaldi, gestita da Diana Casavecchia e dalla madre Mirenza, fu allestita una “Monografica” della sua opera incisoria, ripresa nel 1984. Nel 1975 anche la Galleria “Le Immagini” volle ricordarne la figura con l’allestimento di una bella mostra d’incisioni e dipinti.

 

 

Francesco Mennyey - Vecchio ponte sul Tanaro a Pollenzo - Rodello, collezione La Residenza.

 

 

Presso “La Residenza” di Rodello che per quasi un ventennio ha ospitato la figlia Giuseppina, è esposta una mostra permanente delle opere dell’artista (disegni, incisioni, dipinti) lascito alla morte della stessa e visitabile sempre.  In chiusura voglio ricordare quanto ebbe a scrivere Vittorio Bottino circa il Mennyey: “…Un artista che lavorò quasi in silenzio, -cronista- di un’epoca inserito nel postimpressionismo che si riallaccia alle tradizioni piemontesi di Antonio Fontanesi e di Lorenzo Delleani”.

 

 

Flavio Bonardo  (sabrotu@yahoo.it)   

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

G. Pacchioni – Incisori Italiani: Antonio Carbonati – Emporium n° 324 – dic. 1921

E. Zanzi – Cronache torinesi: La Promotrice di Torino 1928 – Emporium n° 400 –  Apr.1928

U. Nebbia – 17a Biennale di Venezia: I Pittori italiani – Emporium n° 425 – mag. 1930

E. Zanzi – Cronache torinesi: IIa Sindacale Reg. di Torino – Emporium n° 426 – giu. 1930

U. Nebbia - 18a Biennale di Venezia – Emporium n° 450 – giu. 1932

V. Bottino – Nelle incisioni di Mennyey: una Torino leggendaria – Corriere dell’Arte –  1984

E. Bellini – Pittori Piemontesi dell’Ottocento e del 1° Novecento – Torino 1998

Silvia Brizio – Francesco Mennyey – BRA “o della felicità” – dicembre 2006