Giovan Gerolamo Savoldo (Brescia 1480 ca. - dopo il 1548)

 

Adorazione dei pastori. Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo

 

 

La critica ha per molto tempo cercato di ricostruire nel modo piú esaustivo possibile la biografia e la formazione di Giovan Gerolamo Savoldo, un artista attivo nel nord Italia a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Purtroppo, come spesso accade con artisti non di primissimo piano, le notizie biografiche di Savoldo sono frutto di congetture (si presume sia nato a Brescia attorno al 1480) e di pochissime, nonché sparse, informazioni che non si spingono a prima del 1506, anno nel quale è documentato a Parma; un’ulteriore informazione è fornita dall’iscrizione all’Arte dei Medici e degli Speziali di Firenze nel 1508.

Identico problema per quanto riguarda la sua formazione, solo recentemente ricondotta all’ambito lombardo-milanese del primo quindicennio del Cinquecento, in particolar modo Boltraffio, Solario e, ovviamente, Leonardo, del quale cerca di riproporre gli studi luministici (nell’Elia nutrito dal corvo sono evidenti larvali accenni chiaroscurali). Su questo substrato Savoldo innesta un notevole interesse per l’arte tedesca (Tentazioni di Sant’Antonio abate, nella porzione sulla destra, presenta notevoli punti di contatto con i paesaggi fantastici di Hieronymus Bosch, mentre lo sfondo sulla sinistra è, per contro, indubbiamente memore della lezione leonardesca) e per l’incisione düreriana in particolare (ne I santi eremiti è evidente una citazione letteraria del San Girolamo di Dürer del 1512, il che ci permette di stabilire questa come data post quem per l’opera di Savoldo), che si traduce in una netta definizione delle forme e nella monumentalità delle stesse.

Da queste opere, tutte collocabili attorno al 1512-1516, si distacca la pala dipinta intorno al 1520 per la chiesa di San Nicoló a Treviso (La Vergine in trono e i santi Nicola, Domenico, Tommaso, Gerolamo e Liberale e il Beato Benedetto XI Boccasino), nella quale si puó notare un inedito accento tizianesco (nonostante la dialettica chiaroscurale sia ancora fortemente lombarda), dovuto ad un soggiorno dell’artista a Venezia. Ad ogni modo, verso la metà del decennio Savoldo torna artisticamente a rivolgersi (seppur non nettamente come accadrà agli inizi degli anni Trenta) verso l’ambito milanese: esempio di questo ritorno al passato è la pala eseguita per l’altare maggiore della chiesa di San Domenico a Pesaro (La Vergine col Bambino, due angeli e i santi Pietro, Domenico, Paolo e Gerolamo, 1524-1525, oggi conservata a Brera), in cui l’artista abbandona alcuni dei caratteri tizianeschi degli anni precendenti privilegiando una maggiore solidità della materia pittorica e mostrando il suo debito nei confronti del luminismo di Lorenzo Lotto. Ed è proprio al bergamasco che Savoldo guarda in questo periodo: opera emblematica di questa fase è l’Annunciazione di Pordenone, databile sicuramente a dopo il 1527 per la diretta ascendenza dal medesimo dipinto eseguito dal Lotto in quell’anno, del quale riprende testualmente la composizione e, tecnicamente, la capacità di analizzare lo spazio attraverso la luce, elemento distintivo in primis degli artisti fiamminghi.

E proprio gli studi di luce caratterizzano sempre piú l’attività del bresciano: l’Adorazione dei pastori di Torino (1527-1530) e il San Matteo e l’angelo (1530 ca.), solo per citarne alcuni, sottoscrivono appieno la teoria del Longhi che vede in Savoldo il maggior esempio di pre-caravaggismo dell’intero Cinquecento. La luce è ora il prioritario strumento di individuazione plastica e tridimensionale della figura, e porta ad una meno marcata individuazione calligrafica ed a inedite approssimazioni visive che testimoniano una nuova ricezione della tradizione tizianesca.

Intorno al 1530 circa Savoldo lavora per il duca di Milano Francesco II Sforza e, come spesso capita agli artisti itineranti, uno spostamento in una determinata area porta a determinati cambiamenti stilistici: ecco cosí che nei dipinti di Savoldo di questo periodo riaggallano le memorie milanesi della sua formazione, in particolar modo bramantinesche, come dimostrano i volti astratti e i panneggi geometrizzanti realizzati in questi anni. Di questo momento è certamente la Trasfigurazione (1530-1533), un’opera che presenta ancora studi di luce anche se leggermenti mitigati, mentre subito successiva è la pala di Santa Maria in Organo a Verona (1533). Per comprendere il mutamento avvenuto nello stile di Savoldo puó essere utile confrontare questo dipinto con la pala di Pesaro, eseguita quasi un decennio prima: infatti, nonostante la composizione presenti una struttura pressocché identica, l’impaginazione dell’opera veronese risulta piú chiusa e severa e i colori piú freddi e squillanti, mentre gli squadri della veste della Vergine, che guardano indubbiamente a quelli del Bramantino, sono profondamente differenti da quelli di Brera, piú tizianeschi.

La fase tarda si caratterizza specialmente per l‘iterazione di tipologie e atteggiamenti e per la meditazione e ripetizione di strutture impaginative: questo atteggiamento del Savoldo, peró, non deve essere interpretato come una mancanza di fantasia, bensí come un modo per concentrarsi sulle sottili variazioni coloristiche, espressive e luministiche dei suoi dipinti. In questa chiave vanno lette le varie Maddalene che il bresciano esegue intorno al 1535 (due delle quali conservate a Londra e Firenze), le diverse scene con l’Adorazione dei pastori (Brescia, Venezia, Terlizzi) e quelle con l’Adorazione del Bambino, nelle quali talvolta si intrecciano tipologie e pose dei personaggi. Di quest’ultima fase è bene ricordare una peculiarità che avrà vasta eco nella pittura bresciana del periodo (si pensi a Romanino e a Moretto), ovvero quell’interesse prettamente coloristico che Savoldo dimostra nella resa degli ori e degli argenti delle vesti, di cui le Maddalene sono l’esempio piú evidente, ma non l’unico. Il Compianto sul Cristo morto di Berkeley (variante in dimensione ridotta del Compianto già nel Kaiser Friedrich Museum di Berlino, ora distrutto ma eseguito per la chiesa di Santa Croce in Brescia nel 1537), infatti, mostra nel perizoma di Cristo e nel manto della Vergine gli stessi ori e argenti delle Maddalene: un’altra testimonianza, insomma, di quella che puó essere considerata una vera e propria stagione coloristica del Savoldo.

Ultime sue notizie datano al 1548, citato in un atto di vendita a Venezia come testimone e nominato “vecchione” in una lettera scritta da Pietro Aretino.

 

 

Mirko Moizi

 

 


BIBLIOGRAFIA:

 

A. BALLARIN, Profilo del Savoldo [rel. al convegno “Savoldo e la cultura figurativa del suo tempo fra Veneto e Lombardia”], in: B. M. SAVY [a cura di], La Salomè del Romanino, Cittadella, 2007, pp. 197-216.

 

R. SACCHI, Il disegno incompiuto. La politica artistica di Francesco II Sforza e di Massimiliano Stampa, Milano, 2005.

 

F. FRANGI, Introduzione, in: Savoldo. Catalogo completo dei dipinti, collana “I gigli dell’arte”, Firenze, 1992, pp. 5-21.

 

Giovanni Gerolamo Savoldo tra Foppa, Giorgione e Caravaggio [cat. della mostra tenutasi a Brescia nel 1990], Milano, 1990.

 

R. LONGHI, Quesiti caravaggeschi, in: Opere complete, vol. IV, Firenze, 1968, pp. 97-143.

 

A. BOSCHETTO, Giovanni Gerolamo Savoldo, Milano, 1963.