Isola d'Istria (sec. XIV-XVI)

 

 

 

Giuseppe Franceschin

 

 

 

 

Nel 1340 il vescovo di Capodistria Marco Semitecolo, già canonico di Venezia, per sue successori rivendica la decima dell'olio di Isola: un diritto, a suo dire, contemplato dalla legislazione ecclesiastica comune e riconosciuto per antica consuetudine, anche se da diversi anni non onorato.

Invitati ripetutamente a provvedere al versamento della decima con la minaccia della scomunica e interdetto, gli Isolani chiedono al vescovo l'immediata revoca dell'azione intentata in quanto assolutamente priva di fondamento e, comunque, non tale da giustificare una pena e una censura così grave. Quindi, vista inutile la loro richiesta, si appellano al patriarca, che delega il vicario generale Guidone vescovo di Concordia a dirimere la questione.

Al processo che si tiene a Udine il 4.9.1341, il procuratore di Isola, Facino, esibisce uno scritto con il quale il comune, respinge con forza il monitorio del vescovo di Capodistria come infamante e pregiudizievole; ribadisce la legittimità del censo dovuto alla abbadessa, chiedendo che la corte condanni il vescovo al perpetuo silenzio.

 

Il dovuto di ciò che si produce in Isola in olio, vino, frumento ed altro, spetta solo alla veneranda e onesta Signora Abadessa e al suo monastero. Un tanto è confermato da diversi sommi pontefici e da un'antica consuetudine. Il comune è tenuto ad onorare questi impegni solo verso di lei, sotto pena d'interdetto e di scomunica senza previa ammonizione canonica.

Il padre e signor vescovo di Giustinopoli, con animo indurato, si rifiutò di revocare il processo e la sua lettera, che riteniamo nulli in quanto privi di ogni ragionevole motivazione. Chiediamo pertanto che con sentenza, sia imposto al vescovo Marco il perpetuo silenzio e che sia condannato al risarcimento delle spese.

 

Le ragioni del vescovo, che non compaiono specificate nell'atto del processo, sono presentate da Silvestro, pievano del vico di S. Pietro. Alle arringhe, segue un vivace e lungo dibattito, con la partecipazione dei saggi, Agostino da Udine e il canonico Viviano da Polcenigo. Infine, ecco la sentenza:

 

Invocato il nome di Cristo dal quale solo provengono i retti giudizi, sentenziamo che le ammonizioni e gli ordini del signor Vescovo sono da considerarsi ingiusti e contrari all'ordine del diritto e pertanto devono essere revocati. Da quanto prodotto in giudizio dalle parti, appare evidente che le decime dell'olio non sono di spettanza del vescovo, ma solo dell'abadessa. Imponiamo pertanto al vescovo Marco il perpetuo silenzio e lo condanniamo alle spese della causa che saranno successivamente stabilite (1).

 

All'epoca, le rendite di Isola sono sensibilmente ridotte. Non sono pochi coloro che, contrariamente a quanto dichiarato al processo di Udine, evadono le decime e i censi dovuti al monastero. Contro di loro viene chiamato ad intervenire il decano di Aquileia Guglielmo, come conservatore dei beni del monastero e giudice delegato dalla Sede apostolica. Nel 1346, dopo una citazione in giudizio degli inadempienti, pronuncia una sentenza di condanna contro di loro che però non vale a ravvederli. In una successiva citazione succedono gli incredibili fatti di cui parla una carta del monastero.

 

Il nunzio giurato, incaricato di recapitare le lettere, è fatto oggetto di tali minacce da parte degli Isolani, da essere costretto alla fuga senza aver assolto il suo compito. Un secondo nunzio non ha miglior sorte. Non trovando i destinatari, affigge con tutta circospezione una lettera alla porta della città ed una seconda alla porta della chiesa maggiore, poi si allontana in tutta fretta. A questo punto, al suono delle campane a martello, si forma un manipolo di gente che, armi alla mano, si lancia contro il malcapitato, inseguendolo per aquam et terram.

 

Nonostante ciò il decano Guglielmo dice di voler essere benigno verso la comunità e di superare con cristiana magnanimità la loro malizia. Tenta di convincere un procuratore o sindaco di Isola che si trova ad Aquileia a farsi portatore della notificazione, ma ottiene un netto rifiuto. Finalmente trova qualcuno disposto ad effettuare il recapito della citazione, indirizzata, questa volta, al podestà di Isola signor Michele Pisano. Il messo giunge al domicilio del capocomune all'ora di pranzo. Si presenta, stende la mano per consegnare la missiva, ma per tutta risposta il podestà lo prende a schiaffi, e lo caccia in malo modo, con l'approvazione e l'aiuto dei famigliari. Fuori, una turba di scalmanati si lancia all'inseguimento al grido: a morte! a morte!

Immagino che le nostre religiose, informate di fatti così gravi, abbiano paragonato gli Isolani ai perfidi vignaiuoli della parabola evangelica. Il decano Gulielmo, che occorre ricordarlo agiva a nome del papa, dopo l'esito sconcertante di quella missione, considerato che ormai ogni tentativo di entrare in città sarebbe impedito dalle guardie armate, dichiara gli imputati contumaci e invia la citazione al vescovo di Capodistria (2).

Le carte che seguono il criticissimo momento sopra ricordato che coinvolse gli evasori e non solo, ci informano che la controversa questione delle decime del vino, olio, frumento e legumi e quant'è altro (ormai da tempo non si fa distinzione tra censi e decime), trova finalmente una soluzione concordata. Il lodo viene pronunciato nella chiesa maggiore di S. Ermacora di Grado, in data 9.10.1346, davanti al sapiente e reverendo uomo D. Giulio decano di Aquileia, delegato dalla sede Apostolica, con la partecipazione delle parti in causa, rappresentate da ser Delaiuto di Flagogna, sindaco del monastero abitante in Aquileia e da ser Domenico Marano fu Almerigo detto Mengo, discretus vir et sapiens, procuratore-sindaco di Isola, agente in nome di tutti i cittadini elencati ad uno ad uno.

 

Considerate le due sentenze a favore del monastero emanate dal delegato apostolico, l'interposto appello al sommo pontefice da parte d'Isola e il successivo tentativo di risolvere in modo amichevole la controversia su tale materia dubbia e incerta, si addiviene al seguente concordato:

Gli Isolani si impegnano alla consegna, come in passato, di 102 orne di vino: consegna accompagnata dal tradizionale pasto offerto dalla abadessa. Inoltre si impegnano a versare ai nunzi, fattori, gastaldi del monastero, altre 300 orne isolane di vino buono, puro, netto e chiaro dei tino o botti al tempo della vendemmia. Inoltre, sei orne di olio buono, chiaro e netto nel tempo del Carnisprivio o il 25° giorno dopo la Circoncisione e sei staia di buono, schietto e nitido frumento nella festa di S. Margherita di luglio. Consentono di prendere e detenere gli evasori, finchè non avranno soddisfatto integralmente al loro debito, promettendo di non dar corso all'appello e giurando sui Vangeli di non contravvenire ai patti, in pena di 1000 libre di piccoli veronesi.

Il monastero promette di non chiedere in futuro null'altro, oltre a quanto previsto dal concordato; di non insistere nel chiedere l'appello davanti al sommo pontefice, di rinunciare ad ogni eccezione in pena di 1000 libre piccole, riservandosi tuttavia il diritto di scomunica e interdetto nel caso di infrazioni. Come garante, nomina il sopradetto discretus vir ser Giulio q. signor Giovanni Picossi, sindaco del comune di Aquileia. E' data facoltà di prendere gli evasori dovunque siano e di detenerli (3).

Nel 1348 Capodistria si ribella al giogo veneziano, apre le porte alle truppe patriarchine dalle quali tuttavia subisce un grave saccheggio. Poco dopo è costretta alla resa e ad un umiliante atto di sottomissione a Venezia. Nel 1379 anche Isola è occupata dai soldati patriarchini, e liberata l'anno successivo. La pace di Torino (1381) sancisce definitivamente l'annessione di Isola alla Repubblica Serenissima.

Dopo questi eventi, Isola intende ridiscutere l'entità delle decime e dei censi. In causa contro il monastero, si appella al doge di Venezia. Anche questa volta la controversia si chiude con un compromesso pubblicato a Venezia sotto il portico di S. Zaccaria in data 2.4.1384, alla presenza del procuratore del monastero, il nobile Eliseo q. Rizardo di Strassoldo.

1. Per cinque anni Isola verserà 102 orne di ribolla; nei successivi cinque consegnerà 202 orne. Al termine dei dieci anni sarà ristabilita la quota dell'anteguerra (402 orne), salvo il caso che, nel frattempo, sia dimostrato che il dovuto, tutto o in parte, è da considerarsi non spettante per diritto.

2. Nel corso dei dieci anni predetti, non avrà luogo il pasto offerto dall'abadessa a quelli di Isola.

3. In caso di violazione del concordato la pena sarà di 100 lire: pena che, se anche assolta, non esimerà l'osservanza del concordato. Un tanto gli Isolani si obbligano sui loro rispettivi beni mobili e immobili, presenti e futuri (4).

Scaduto il decennio a censo ridotto (1394), gli Isolani non sembrano disposti a versare la quota intera. Lo deduciamo dalla minaccia dell'abbadessa Imilia di Strassoldo di chiedere la scomunica e interdetto e, da parte del comune di Isola, dalla domanda di dilazione del grave provvedimento. Inoltre da una analoga richiesta da parte del doge Antonio Venier di prorogare il termine fino a tutto agosto, al fine di giungere ad un amichevole compromesso (5).

Il concordato raggiunto trova applicazione solo a partire dal 1401: anno in cui viene pubblicato a Venezia, alla presenza del doge. Con tale atto il monastero concede a Isola la riduzione del censo a 275 orne di vino, da consegnare tra S. Bartolomeo e la fine della vendemmia, e tre orne d'olio da versare a febbraio nella festa di S. Maria. Dal canto loro, gli Isolani s'impegnano ad onorare l'obbligo nei tempi stabiliti (6).

Nel 1429 si stipula un contratto di commutazione del censo del vino in denaro: 24 solidi piccoli per orna, da consegnare nella festa di S. Martino (7).

Le carte successive del 1400/1500 riguardanti i censi di Isola segnalano: lamentele degli Isolani sul gravame imposto, ripetuti inviti del doge al podestà del luogo affinchè induca gli abitanti al pagamento del censo annuale, solleciti di pagamento di arretrati e simili.

Nel 1570 le rendite di Isola ammonteranno a tre orne di olio ed a L. 192,4 in denaro contante; le rendite da Pirano, 0,3 orne di olio. Un contratto di data 21.1.1571, ridurrà il censo a sole tre orne di olio, da trasportare a cura del comune di Isola fino al Natissa di Aquileia (8).

 

 

Per la storia di Isola, D. Alberi, Istria, storia, arte e cultura, Lint 2001, 2a ed.

1. Ed. MT. Barbina, Diplomi, cit. copia in BMC, XIV.

2. Atti processuali in OF LIX, pagg. 105-106 regesti; BCU, ms. 1368/ doc. C, edito in R. Hotel, Aggiunte, cit.

3. L. Morteani, Isola e i suoi statuti, doc. D, in Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia patria, Vol. V. Parenzo 1889. L'autore legge nella sentenza dd 9.10.1346 una rinuncia del monastero ad ogni giurisdizione su Isola. Al lodo di Grado è presente, tra gli altri, fra Lorenzo di Venezia abate del monastero di S. Maria di Barbana.

4. L. Morteani, Isola, cit. Documento G.

5. L. Morteani, Isola, cit. Documento E.

6. R. Hotel, Aggiunte, cit. n. 96.

7. BMC, OF XV, c. 154-155; R. Hotel, Aggiunte, n. 93.

8. ASU, CRS, b. 52. In una nota si legge che, dopo la soppressione del monastero, il II libro relativo all'esazione di olio a Isola e Pirano fu trasprtato a Gorizia. Il censo della Spettabile Comunità di Isola risulta pure dai conti del monastero di S. Chiara del 1797-98 (ASU, CRS, b. 55).

 

 

 

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