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Tra vocazione educativa e intenti commerciali: le prime esposizioni triestine dell'Ottocento
 

 

 

 

Donata Levi

 

 

 

 


Tra i quattordici punti che Melchior Missirini elencava nel 1823 nelle sue Memorie sulla romana Accademia di San Luca per motivare l'opportunità, poi sfumata, di allestire una nuova e più ampia sala espositiva, i primi tre riguardavano i vantaggi che ne sarebbero venuti al mercato artistico: alla maggior opportunità di scelta per i compratori e a un ridimensionamento delle frodi dei negozianti, si sarebbe accompagnata la possibilità di eliminare intermediazioni, particolarmente onerose per gli artisti alle prime armi. Negli altri undici, l'accento cadeva su principi ideali, quali la democraticità dell'iniziativa - riconoscendo alle "arti" una naturale vocazione pubblica e popolare -, il beneficio che veniva agli artisti da un sano esercizio critico, il contributo al decoro e alla gloria dell'intera nazione, il suo valore per l'educazione civile ed artistica del pubblico
1. Più di un ventennio dopo, nel 1847, Carlo D'Arco, illustratore di memorie mantovane e già autore di una biografia di Giulio Romano2, riferendosi alle esposizioni organizzate dalle Società promotrici - recentemente formatesi, sull'esempio dell'asburgica Trieste, in varie città italiane -, distingueva nettamente i due aspetti, "quello cioè che riguarda al materiale interesse che ne deriva agli artefici; e quello tutto morale che giovar dovrebbe alle arti"3. Mentre una tabella attestava gli introiti che queste esposizioni avevano portato agli artisti, assai deludenti apparivano i risultati "rispetto all'utilità morale" delle società e della loro principale e talora unica attività, quella espositiva. Come già aveva rilevato due anni prima Pietro Selvatico a proposito dell'esposizione fiorentina4, anche D'Arco lamentava la proliferazione de "l'arte di genere, i paesetti, le vedutine, le fiammingate" e la mancata adesione ai "bisogni spirituali dell'arte ed alla gloria vera della nazione", sottolineando che proprio queste nuove associazioni - le Promotrici - avevano finito per favorire economicamente "quegli artisti che, non ispirati dal genio non avrebbero trovato come spacciare altrimenti le meschine loro opere"5. Le esposizioni promosse da queste nuove associazioni, assai più di quelle di matrice accademica, mettevano a nudo le tendenze di una domanda di mercato volta a una produzione meno impegnata ideologicamente e più consona (quanto a dimensioni e soggetti) alla decorazione degli interni borghesi.
La delusione, da parte della critica, di fronte alle potenzialità individuate nelle nuove istituzioni, si era consumata nel giro di pochissimi anni ed era stata tanto più cocente in quanto, proprio nel carattere associativo delle Promotrici, si era ipotizzato un possibile aggancio con la riforma nell'arte tre-quattrocentesca additata in ambito puristico come modello didattico e operativo. Scriveva Selvatico nel 1845, rievocando la sua speranza, andata ormai delusa di fronte alle "donne seminude", alle commerciali vedute di Venezia e di Firenze, alle "tele per sì fatto modo tinte di giallo e di rosso, da rincarare le sostanze che producono que' colori"
6 dell'esposizione organizzata dalla Promotrice fiorentina: "ricordandomi quanto lo spirito d'associazione avesse potuto operare nella Firenze del medioevo, mi crebbe speranza che codesta istituzione potesse e dovesse ben più che in altri paesi fiorire e portar quindi l'arte toscana a stato migliore"7 . Ancora nel 1842, nelle considerazioni Sull'educazione del pittore storico odierno italiano, Selvatico indicava utopisticamente il ruolo di mecenatismo illuminato e disinteressato che "molti ricchi congregati in società" avrebbero potuto svolgere per alleviare con acquisti, ma soprattutto con premi e stipendi l'indigenza di molti artisti. "In somma, - concludeva - bisognerebbe che le esposizioni italiane pigliassero norma da quelle vantaggiosissime che or si praticano nella Germania e nella Francia, o dalle recenti di Trieste e di Torino in tutto quanto esse presentano di vantaggioso"8.
Il fatto che le due prime Società fossero state fondate a Trieste e a Torino, città che più risentivano dei climi culturali rispettivamente germanico e francese, non è senza significato. Le Promotrici italiane si ispiravano alle Societés des amis des arts e ai Kunstvereine; addirittura gli statuti e le norme della Società filotecnica triestina risultavano puntualmente tradotti da quelli tedeschi, che fin dagli anni Venti si erano formati "zur Verbreitung des Interesses für künstlerische Dinge in möglichst weiten Kreisen, zu welchem Zweck sie teils permanente, teils periodische Ausstellungen veranstalteten" e "zur Forderung von Kunst und Künstlern durch Ankauf von Kunstwerken aus Vereinsmitteln behufs Verlosung unter die Mitglieder"
9. Se lo scopo iniziale era stato di ampliare la domanda e di rendere agevolmente disponibile una variegata e ricca offerta, e se l'esigenza - subito sentita - di federazioni di Kunstvereine10 per organizzare in maniera più razionale ed efficace delle mostre circolanti è riprova di come gli intenti fossero prettamente commerciali, è anche vero che in seguito, in varie occasioni presero corpo iniziative di più disinteressata promozione artistica. Ne è esempio, quella del Kunstverein sassone che - fondato del resto da Goethe e da von Quandt11 - nel 1837 indisse una sorta di concorso per un dipinto di carattere storico ad olio, le cui figure dovevano essere almeno tre quarti il naturale12, oppure il progetto di quello di Lipsia di formare, tramite una parte dei profitti, una collezione pubblica cittadina13, o ancora il proposito del Kunstverein di Francoforte di finanziare un monumento a Goethe14.
Propositi prevalentemente commerciali sembrano invece ispirare l'iniziativa triestina di una "Società filotecnica"
15, il cui scopo - dichiarato nell'articolo primo dello Statuto - era unicamente quello di una mostra-mercato annuale di "opere distinte di Belle Arti di autori viventi" sulle quali essa si riservava un diritto di prelazione per acquisti da distribuire poi tramite una lotteria ai soci. La Società svolgeva inoltre un ruolo di mediazione fra artisti e compratori in quanto si sarebbe adoperata anche - secondo l'art.25 - per favorire lo "spaccio" delle opere non selezionate per la lotteria. La Società, promossa in particolare da Jacopo Nicolò Craigher, commerciante, rappresentante della banca viennese "Arnsein & Eskeles" e dal 1840 console del Belgio, che nutriva forti interessi letterari e artistici 16 , e da Hermann Lutteroth, facoltoso banchiere di origine prussiana e fra i fondatori della RAS17, veniva in effetti a colmare un vuoto "istituzionale" in un contesto che, da un decennio almeno, aveva mostrato una notevole vivacità negli acquisti e nelle committenze di opere d'arte. Significative al riguardo erano state le vicende delle prime più localistiche esposizioni organizzate tra il 1829 e il 1833 dalla privata Società di Minerva. Inizialmente intese a "promuovere l'amore dei buoni studi nella triestina gioventù [...] e [...] offrire ai propri concittadini [...] i resultati dei primi sforzi di quei giovani che alle belle arti si dedicano", si erano subito trasformate - con l'immissione dei pittori professionisti - in manifestazioni mercantili di indubbio successo a riscontro evidentemente delle potenzialità del mercato; a seguito di polemiche e censure, le mostre, riportate dai promotori della Minerva entro un alveo non commerciale, avevano subito mostrato la debolezza intrinseca di un discorso puramente promozionale e non legato allo smercio: crollata la partecipazione di giovani aspiranti artisti che studiavano nelle Accademie di Venezia e Milano, all'Istituto politecnico di Vienna o presso la scuola domenicale artigianale di Trieste, l'ultima esposizione aveva visto una crescita esponenziale della meno accreditata schiera dei dilettanti18. Esaurita questa prima esperienza, negli anni successivi la vitalità del mercato fu testimoniata dall'arrivo di molti artisti che vennero a stabilirsi nella città giuliana (lo scultore Francesco Bosa, i pittori Giovanni Pagliarini, Augusto Tischbein e Giuseppe Rieger ed il litografo Bartolomeo Linassi) e da numerose singole iniziative, quali le mostre personali, organizzate per pubblicizzare e vendere la propria produzione: Giuseppe Tominz ne allestì una nel 1835 nella "sala de' pubblici balli" del teatro, i1 vedutista milanese Carlo Gilio un'altra nel 1839, mentre sempre in quell'anno anche Ippolito Caffi, giunto in città con tre quadri, li aveva subito venduti, ricevendo ulteriori commissioni. Aumentavano l'appeal che la città poteva esercitare per gli artisti quelli che possono considerarsi i due maggiori "cantieri" di quel torno d'anni: la chiesa di Sant'Antonio Nuovo, eretta su disegno di Pietro Nobile, e la cui decorazione pittorica e scultorea si prolungò fino alla fine degli anni Quaranta, e il nuovo cimitero di Sant'Anna, inaugurato nel 1825. D'altro canto proprio la decorazione della nuova chiesa che, essendo di pertinenza del Magistrato civico, poteva porsi idealmente come sede deputata alla promozione degli artisti locali, era stata invece affidata - in assenza di nomi adeguati - a pittori veneti o tedeschi: Grigoletti, Lipparini, Schiavoni figlio, Politi, Tunner e Schönemann. Analogamente i danarosi esponenti del ceto commerciale triestino disposti -per motivi di status sociale o per necessità di arredo o per spassionato interesse per l'arte - ad investire nel mercato artistico spesso avevano dovuto guardare alle piazze di Venezia, di Milano e di Vienna19. In questo panorama ricco di notevoli potenzialità si inserisce dunque l'iniziativa della "Società filotecnica" i cui contorni appaiono iscriversi entro un orizzonte prettamente economico e commerciale. Da un lato si apriva la possibilità per i promotori, poi subito inseriti fra i membri del Consiglio direttivo20, di acquisire una posizione privilegiata e quasi di monopolio, grazie all'esercizio di prelazione che era prerogativa della Società, dall'altro si istituiva una cospicua attività di mediazione, dal momento che, fin dall'inizio, gli acquisti dei privati appaiono ingenti: a parte il picco di 10.379 fiorini raggiunto nella prima edizione della mostra e legato probabilmente alla novità dell'iniziativa, negli anni successivi la media fu intorno ai 5.000 fiorini, con un massimo di 8.380 nel 1844 ed un minimo di 4.030 nel 184521. L'individuazione di un segmento di mercato promettente era sottolineata anche nel commento del quotidiano locale, l'"Oservatore Triestino", quando rilevava come avevano animato i promotori la considerazione di un collezionismo e di una committenza locale già molto vivace e la constatazione della collocazione cardine di Trieste nei traffici internazionali22. Alla realtà delle cifre e allo spirito imprenditoriale dei commercianti e banchieri triestini Francesco Dall'Ongaro, letterato e poeta giunto a Trieste nel 1837 come istitutore privato, ma attivo a partire dall'anno successivo nella pubblicazione, insieme al cognato Pacifico Valussi, del periodico "La Favilla", sovrapponeva una nobile retorica mirando a leggere l'operazione filotecnica nell'ottica di una generosa iniziativa di beneficenza a favore in primo luogo degli artisti più giovani e bisognosi di affermarsi in un mercato viziato dal monopolio di un'immeritata reputazione, poi del progresso artistico in generale, nel senso di un sano contemperamento del "secco purismo e del manierismo convenzionale", e infine del pubblico triestino in particolare, per il quale auspicava un affinamento del gusto che, in mancanza di istituzioni come le pubbliche gallerie e le accademie, un'esposizione pubblica poteva ai suoi occhi favorire23. Alle mostre Dall'Ongaro, che aveva inaugurato la sua collaborazione alla "Favilla" con un articolo programmaticamente intitolato Sul sentimento del bello ricco di impliciti riferimenti alle idee di Pietro Estense Selvatico e di Niccolò Tommaseo, attribuiva dunque una serie di elevati compiti etici e artistici e di intenti educativi e divulgativi24. Iniziando il resoconto della prima mostra, Dall'Ongaro aveva lucidamente calato queste petizioni di principio nei criteri che avrebbero informato i suoi giudizi critici, basatι in primo luogo su contenuto ed espressione: "L'unico canone che applicheremo ai lavori d'arte della nostra esposizione sarà questo: che le opere esposte appartengono veramente alle arti belle [...] Tutto ciò che si riferisce al diligente studio dal vero, al buon metodo dell'eseguire, al disegno, al chiaroscuro, al colorito, al trattamento meccanico - tutto ciò è incluso nella parola arte. Tutto quello che si riferisce al concetto artistico, alla scelta dell'argomento, alla convenienza dei mezzi, alla nobiltà del fine, tutto ciò può essere indicato nell'attributo di belle"25. Non sorprende quindi la sua delusione di fronte al proliferare della produzione e al sempre maggior successo di scene di genere, spesso prive del carattere edificante che le avrebbe riscattate, e soprattutto di vedute e di paesaggi di maniera, che costituivano peraltro la maggioranza delle opere destinate alla lotteria. La delusione era condivisa dal gruppo della "Favilla" e trapelò in maniera sempre più evidente nei resoconti delle successive esposizioni: "L'essere oggidì il genere del paesaggio più che mai in voga, forma un'altra prova di quel che si è detto dapprima: che l'arte cioè dalla chiesa e dal palazzo municipale dove era scopo allo sguardo ed all'ammirazione di tutti, ridottasi a gabinetto dell'amatore, a piacere dell'individuo, perdette l'esteso dominio ch'essa esercitava sopra la moltitudine e quindi s'impicciolì. Non dico, che questo genere non sia pregevole [...], ma bensì che men conseguisse quello scopo prircipalissimo dell'arte di mettere con una potente scossa all'unisono tanti cuori [...] la troppa voga del paesaggio mostra, che l'arte divenendo sempre più privata, più s'allontana dal suo fine e quindi è ben lungi dal procedere [...]"26.
Forse la delusione dell'intelligencija locale, presto condivisa con i critici che avrebbero commentato anche la di poco successiva esperienza torinese
27, non mancò di influenzare, o comunque precorse, la più tarda consapevolezza di Selvatico e di D'Arco che inizialmente avevano salutato con favore i nuovi meccanismi espositivi trapiantati in Italia28. Tuttavia, forse un'altra componente è da rilevare in questa delusione, ed è una componente legata all'accentuata propensione del mercato per la produzione artistica austriaca e tedesca, vista come una negatività che in qualche modo si saldava con la censura nei confronti dei generi cosiddetti minori. Avvertirà nel 1846 Valussi, divenuto nel frattempo direttore della "Favilla", che "Trieste, ove si fa pure qualche lavoro d'arte, [...] ha la sua esposizione alimentata dal di fuori"29. Non solo la provenienza degli artisti riflette infatti la fortuna dell'iniziativa triestina nei paesi di lingua tedesca (Vienna, Berlino, Monaco, Düsseldorf, Dresda, ecc.), ma anche gli acquisti dei privati sono orientati decisamente verso il vedutismo nordico30. La circostanza non poteva mancare di approfondire il divario con le aspettative dei patrioti alla vigilia dei moti del Quarantotto. Il cosmopolitismo invocato nel 1840, quando ancora si auspicava una città "chiamata a divenire veicolo a relazioni di studi nell'occasione dei traffichi, ed anello di civilizzazione e d'affratellamento fra le nazioni"31, veniva restringendosi di fronte alle sempre più insistenti pretese di sottolineare il carattere di italianità della cultura cittadina. Dall'Ongaro, espulso dopo un infuocato discorso a favore di una lega commerciale tirrenico-adriatica in presenza dell'economista Richard Cobden, in visita a Trieste nel 1847, ne sarebbe stato fra i fautori più ascoltati. Quando nel 1850 Angelo Brofferio pubblicò il IV volume delle Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani, vi inserì, sotto la dicitura di Tradizione istriana, due racconti di Dall'Ongaro32. Nella premessa questi, senza significativamente citare in nessun modo l'ambito artistico e mentre elencava puntigliosamente i propri meriti per "suscitar quello spirito, che il governo tentava reprimere" - cioè la fondazione del primo giornale italiano, la diffusione di poesia e prosa italiane, la versione dei testi scolastici, l'istituzione di scuole popolari di canto, le lezioni semipubbliche sulla Divina Commedia -, così esordiva: " Il litorale dell'Istria, e quindi Trieste che n'è la base, per quanto la politica austriaca si sforzi di germanizzarlo, resisterà sempre all'influenza straniera che ne snatura gl'istinti. L'elemento importato dall'Austria non è dotato di forza espansiva, né ha la virtù assimilatrice delle razze latine"33 [...].
L'attacco era sferrato con durezza ad un governo che "non ha risparmiato alcun mezzo per mortificarvi e spegnervi ogni scintilla di vita spirituale, ogni traccia degli antichi costumi, ogni specie di movimento indigeno e consentaneo alle tradizioni italiane"
34. Benché implicito, e probabile che il riferimento fosse anche all'egemonia sul piano artistico. Certo è che, al di là della qualità della produzione artistica presente nelle esposizioni e del discorso sui generi promossi, l'associazione si dimostrò per alcuni anni uno strumento particolarmente adatto ad una popolarizzaziοne dell'arte presso più ampie fasce sociali e nello stesso tempo funzionale alle nuove esigenze di fruizione artistica come mezzo di autopromozione da parte delle classi borghesi. Anche l'accento che in molte recensioni - sia a Trieste sia altrove - viene posto, con tono divertito, sugli aspetti sociali delle esposizioni, diventate luogo alla moda e "rendez-vous dell'eleganza, del buon tempo e del gusto"35 , è prova di un successo presso il pubblico medio, cui evidentemente si adeguava la natura e il livello delle opere esposte. L'associazione, mutuata dal mondo austro-germanico e consona nella sua struttura e nei suoi scopi alle esigenze, anche sociali, di classi che ruotavano intorno al mondo mercantile cittadino36, era venuta dunque a riempire un vuoto, favorendo innegabilmente l'incremento di un collezionismo privato che - come segnala Massimo De Grassi nel suo importante contributo - nei decenni successivi, nell'ambito di un mercato ricco di attività e di iniziative, avrebbe visto l'emergere di varie personalità di rilievo, fra le quali spicca quella di Pasquale Revoltella.
 

 

 

 

NOTE:

1 M. Missirini, Memorie per servire alla storia della Romana Accademia di S. Luca fino alla morte di Antonio Canova, Roma, De Romanis, 1823, ora in Scritti d'arte del primo Ottocento, a cura di E Mazzocca, Milano-Napoli 1998, pp. 333-336.
2 Istoria della vita e delle opere di Giulio Pippi Romano, Mantova, a spese dell'autore, 1838, e Delle arti e degli artefici di Mantova. Notizie raccolte ed illustrate con disegni e con monumenti, Mantova 1857-1859.
3 C. D Arco, Delle moderne Società di Belle Arti istituite in Italia, 1847, in "Rivista Europea", n.s., V, 1847, parte I, pp. 437-451, ora in Scritti d'arte..., cit., 1998, pp. 399-405 (citazione a p. 401).
4 P. Selvatico, Della Società Promotrice di Belle Arti in Firenze nell'ottobre del 1845, in "Giornale euganeo ", II, dicembre 1845, pp. 512-513 e 518-519, ora in Scritti d'arte..., cit., 1998, pp. 394-398.
5 C. D'Arco, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 402.

6 P. Selvatico, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 395.

7 P. Selvatico, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 394.
8 P. Selvatico, Sull'educazione del pittore storico odierno italiano. Pensieri, Padova 1842, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 374. Vedi ora anche la ristampa anastatica, con introduzione e indici di A. Auf der Heyde, Pisa 2007.

9 A. Janda, Schriftliche Quellen zur bildenden Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts. Die Sammlung der Künstlerbriefe in der National-Galerie der Staatlichen Museen zu Berlin, in "Forschungen und Berichte, 150 Jahre Staatliche Museen zu Berlin " , 20, 1980, pp. 421-450, (citazione a p. 431). In generale vedi T. Schmitz, Die deutschen Kunstvereine im 19. und frühen 20. Jahrhundert. Ein Beitrag zur Kultur-, Konsum- und Sozialgeschichte der bildenden Kunst im bürgerlichen Zeitalter, Neuried 2001.

10 Ad esempio il Norddeutsche Kunst-Verein, cui partecipavano quelle di Brema, Lubecca, Rostock e Stralsund oppure il Kunst-Verein delle città a oriente dell'Elba, con Breslau, Danzig, Elbing, Görlitz, Königsberg e Stettin.
11 H. Uhde, Goethe, Johann Gottlob von Quandt und der Sächsische Kunstverein, mit bisher ungedruckten Briefen des Dichters; eine Jubelgabe zum 350jähriges Todestage Albrecht Dürers und zum 50 jährigen Stiftungstage des Sächsischen Kunstvereins, Stuttgart 1878.
12 Bekanntmachung, in "Kunstblatt", 7.3.1837, n. 19, p. 76. Anche il Kunstverein di Braunschweig ordinò al pittore Teichs un dipinto storico (" Kunstblatt " , 11.7.1837, n. 55, p. 224).
13 Nachrichten vom März, Akademie und Vereine, in "Kunstblatt", 2.5.1837, n. 35, p. 139.
14 Nachrichten vom April, Akademie und Vereine, in "Kunstblatt", 6.6.1837, n. 45, p. 184.
15 Su questa società e in generale sulle esposizione artistiche tenutesi a Trieste a metà Ottocento, vedi di chi scrive, Strutture espositive a Trieste dal 1829 al 1847, in " Αnnali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia", s. III, XV, 1, 1985, pp. 233-301, cui si rimanda per riferimenti bibliografici e per una più ampia trattazione.
16 Su Craigher vedi ora http://www.friul.net/dizionario_biografico/?id=1141&x=1 (settembre 2011).
17 Su Lutteroth vedi M. Rieder, Cosmopoliti sull'Adriatico. Mercanti ed industriali tedeschi a Venezia e Trieste, in " Qualestoria ", 1, giugno 2010, pp. 99-133.

18 Vedi D. Levi, Strutture..., cit., 1985, pp. 235-245.

19 Ivi, pp. 246-251.
20 Craigher e Lutteroth vennero subito affiancati da membri della famiglia Sartorio (Giovanni Guglielmo nel Direttorio e Pietro fra i Consultori), dal dr. F. M. Burger, da Carlo Regensdorf e da Carlo Antonio Fontana. Questi nel 1842 fu sostituito da Leone Hierschel mentre Craigher neI 1843 lasciò il posto a Giuseppe de Lugnani, bibliotecario della Civica per più di quarant'anni (1815-1857) e direttore dell'Accademia reale di nautica. Entrambi i sostituiti continuano a comparire fra i Consultori. Si tratta del gotha della finanza e del commercio triestini, tutti fortemente legati al mondo austriaco e tedesco. Friedrich Moritz von Burger, consulente legale della Borsa, diventerà più tardi luogotenente di Milano e di Trieste e poi ministro della Marina (vedi Österreichisches Biographisches Lexicon, 1815-1950, II ed., 1954, 1, pp. 128-129). Carlo Regensdorf, procuratore della ditta commerciale Reyer e Schlik, era fra i dirigenti del Lloyd Austriaco (P. Covre, Carlo Regensdorf ricco mercante e generoso benefattore, in "Archeografo Triestino", IV s., LI, 1991, pp. 307-317).
21 Di grandissimo interesse e suscettibili di ulteriori ricerche e approfondimenti sono i Ragguagli sui resultamenti della Società Triestina di Belle Arti, pubblicati annualmente dal 1840 al 1847 e che contengono gli elenchi dei soci, il bilancio, il catalogo delle opere esposte, di quelle acquistate e di quelle distribuite tramite la lotteria.

22 D. Levi, Strutture..., cit., 1985, p. 269.

23 Ivi, ρρ. 268-269.

24 Ivi, pp. 255-257.

25 Ivi, p. 293.

26 lvi, p. 295.
27 Dell'analogo dibattito che aveva luogo in ambito torinese, sede della seconda Promotrice italiana, si dava prontamente notizia nella "Favilla" del 1845.
28 Vedi supra.

29 D. Levi, Strutture..., cit., 1985, 276.

30 Per un 'analisi più approfondita, ivi, pp. 277-281.
31 Associazione Triestina di Belle Arti, in "Osservatore Triestino" , n. 436 del 19. 3.1840, cit. in D. Levi, Strutture..., cit., 1985, p. 269.
32 La serie diretta dal patriota e letterato fu pubblicata tra il 1847 ed il 1850 dallo Stabilimento Tipografico Fontana di Torino. Le due novelle s'intitolano Il pozzo d'amore e Il berretto di pel di lupo e il testo con cui Dall'Ongaro le introduce, da cui sono tratte le successive citazioni, è datato 1 ottobre 1849.

33 Ινi, p.429.
34 Ivi, p. 430, dove continua: "L'educazione si trasmette in lingua tedesca, gl'impiegati sono tedeschi, tedesco culto, e peggio che tedesco il sacerdozio. Il commercio triestino ha la sua base a Vienna, e il suo credito dipende da quel labirinto di frodi e di monopolj che si chiama la banca nazionale austriaca". All'odio antiaustriaco si accompagnava invece la rivalutazione dell'elemento slavo, cui del resto - seguendo il pensiero di Tommaseo - la "Favilla" aveva prestato grande attenzione: "Il litorale istriano e Trieste sono come que' terreni che mostrano nelle diverse stratificazioni la varia natura degli elementi di che si compongono. La superficie di Trieste può essere tedesca e austriaca: gli è come uno strato d'alluvione che ricoperse in epoche non remote le prime terre. Sotto codesto strato c'è l'elemento slavo nei monti, l'elemento italiano nei paesi prossimi al mare. E siccome quest'ultimo è più espansivo e assimilatore dell'altro, è forza pensare che prevarrà. È finito il tempo che una famiglia o una casta possa fare e disfare la nazione e la lingua. I popoli hanno inteso i loro diritti, e i governi non hanno altra probabilità di durare, se non secondando la corrente, e navigando per essa" (p. 432).

35 D. Levi, Strutture..., cit., 1985, pp. 275-276. Si confronti con l'attenzione alla mondanità presente anche in D. Sacchi, Le Belle Arti e l'Industria in Lombardia nel 1834. Relazione, a. III, Milano 1834, pp. 10-14, in Scritti d'arte..., cit., 1998, pp. 337-340.
36 In questo senso è interessante considerare il fenomeno dell'associazionismo come forma caratterizzante e quasi cifra di comportamento in altri analoghi contesti cittadini, per quella unità di potere economico, politica e cultura che proponeva e favoriva. Si veda ad esempio R. Roth, "... der blühende Handel macht uns alle glücklich... ". Frankfurt am Main in der Umbruchszeit 1780-1825, in " Historische Zeitschrift ", Beihefte, Vom alten zum neuen Bürgert um. Die mitteleuropäische Stadt im Umbruch 1780-1820, n.s., 14, 1991, pp. 357-408.
 

 

 

Donata Levi

(Rivelazioni   -  © Edizioni della Laguna)