Marina Bicchieri

 

 

 

 

CHIMICA DELLA CELLULOSA E METODI DI STUDIO

DELLA SUA DEGRADAZIONE

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

Come tutti i materiali, la carta è destinata a degradarsi sotto l’azione del tempo, dell’uso e dell’ambiente di conservazione. Per evitare di perdere, forse per sempre, un patrimonio culturale di inestimabile valore, occorre programmare oculati interventi che permettano di fruire del bene culturale, anche se danneggiato.

Qualsiasi restauro conservativo implica l’approfondita conoscenza dei materiali sui quali si deve operare, della loro struttura e delle possibili interazioni con l’ambiente di conservazione (inquinanti, luce, temperatura, umidità, ...). Occorre, pertanto, trovare metodi per la loro completa caratterizzazione chimico-fisica e studiare prodotti e trattamenti atti a prevenirne o rallentarne la degradazione.

Il componente principale della carta è la cellulosa, polimero lineare naturale polidisperso, costituito da un numero variabile di molecole di anidro-D(+)-glucosio (unità monomerica), legate tra loro mediante legami 1-4-ß-glucosidici. L’unità strutturale è il cellobiosio. Il numero di volte in cui ciascuna unità monomerica è ripetuta nella macromolecola è detto grado di polimerizzazione e rappresenta una media fra tutti i gradi di polimerizzazione delle singole catene costituenti la cellulosa.

Le molecole di cellulosa si legano fra loro fino a costituire delle fibre, al cui interno è possibile distinguere, anche se non esiste un confine netto, zone con struttura geometrica definita (zone cristalline) e zone in cui le macromolecole sono disposte in modo disordinato (zone amorfe). La regione cristallina conferisce resistenza alla struttura, mentre quella amorfa rappresenta la parte più fragile e facilmente aggredibile.

I meccanismi di degradazione della catena cellulosica sono principalmente di tipo idrolitico e ossidativo[1,2]: le idrolisi possono avvenire sia in ambiente acido che basico, provocando la depolimerizzazione della catena per attacco al legame ß-glucosidico, mentre le ossidazioni possono procedere con o senza scissione di tale legame, in funzione della posizione di attacco da parte dell’ossidante.

 

Idrolisi acida

Per azione di acidi minerali forti la cellulosa si dissolve, subendo idrolisi totale, fino a formazione di glucosio. Con acidi minerali diluiti e con acidi organici l’idrolisi è parziale.

Il meccanismo di idrolisi, Fig. 2, prevede la protonazione dell’ossigeno glucosidico e la successiva scissione del legame, con formazione di nuove unità terminali riducenti, nelle quali si instaura un equilibrio tra forma ciclica e struttura aperta.

La velocità di idrolisi è più elevata se la cellulosa è ossidata: i due processi sono correlati tra loro e l’uno favorisce l’altro.

 

Idrolisi basica

L’idrolisi basica richiede condizioni drastiche: ambiente fortemente alcalino e temperatura elevata. Nel caso, però, si siano formati, per ossidazione, dei gruppi ß-alcossicarbonilici, la reazione avviene rapidamente anche con alcali diluito e a temperatura ambiente (ß-alcossieliminazione, Fig. 3)[3]. Questo può diventare il meccanismo principale di degradazione se si sottopongono cellulose ossidate a deacidificazione molto spinta (pH > 9-9.5).

Fig. 3. Meccanismo generale di ß-alcossieliminazione

Si può anche postulare un meccanismo di idrolisi in ambiente basico che implica il distacco di un’unità terminale dal resto della molecola non ossidata ed il cui risultato, Fig. 4, non è un netto accorciamento della catena, bensì una graduale erosione (peeling) non immediatamente evidenziabile con misure di grado di polimerizzazione.

Con questa erosione compete un più lento riarrangiamento del gruppo terminale, Fig. 5, che, ossidatosi a carbossile, stabilizza la molecola e la rende non più suscettibile alla degradazione alcalina[4].

 

Ossidazione

L’azione dei più comuni ossidanti sulla cellulosa non è specifica e lo studio dell’ossicellulosa è problematico. La degradazione ossidativa ha luogo sia in ambiente acido, sia in mezzo basico [5].

Sono potenzialmente interessati ad un processo ossidativo i gruppi alcolici, primari e secondari, ma è possibile anche la formazione di doppi o tripli legami carbonio-carbonio nell’anello.

Il gruppo alcolico primario dell’unità di anidroglucosio in C6 può essere ossidato ad aldeide e poi ulteriormente a carbossile (Fig. 6); i gruppi alcolici secondari in C2 e C3 sono ossidabili a chetoni. Se entrambi i gruppi sono interessati dall’ossidazione si instaura un equilibrio cheto-enolico (Fig. 7); l’eventuale passaggio da dichetone a dialdeide, con possibile ulteriore ossidazione a carbossile, comporta l’apertura dell’anello glucosidico con rottura del legame C2-C3 (Fig. 8).

Questi gruppi aldeidici, possono poi reagire con un ossidrile, per formare degli emiacetali. In polisaccaridi legati con legame glucosidico 1–4, come la cellulosa, la formazione dell’emiacetale può avvenire intramolecolarmente, con formazione di anelli a cinque o sei termini (Fig. 9)[6].

I gruppi terminali riducenti di ciascuna catena, infine, sono ossidabili a carbossili.

 

Autossidazione

In ambiente basico la cellulosa può essere ossidata dall’ossigeno molecolare[7]. Il meccanismo è prevalentemente radicalico e può essere interpretato in termini di:

• reazioni di iniziazione, in cui si formano radicali liberi e radicali perossidici;

• reazioni di propagazione, in cui i radicali liberi vengono convertiti in altri radicali;

• reazioni di terminazione, che coinvolgono la combinazione di due radicali con la formazione di composti stabili.

 

INIZIAZIONE: RH + O2 R·+ HOO· [1]

R + O2 R·+ O2· [2]

PROPAGAZIONE: R· + RIH RH + RI· [3]

R· + O2 ROO· [4]

ROO· + RIH ROOH + RI· [5]

ROO· R· + O2 [6]

RH + HO· R· + HOH [7]

RH + HOO· R· + H2O2 [8]

TERMINAZIONE: R· + HO· ROH [9]

R· + O2· ROO [10]

R· + R· R-R [11]

Il primo passaggio, secondo la letteratura, comporta l’estrazione degli idrogeni legati ai C1 con formazione di radicali (reazione [3]). La successiva addizione di ossigeno conduce alla formazione di un radicale perossidico (reazione [4]). Questa situazione può condurre alla rottura del legame glucosidico con formazione di un nuovo radicale sulla unità di glucosio adiacente.[8]

La reazione è molto lenta, ma è promossa dalla ionizzazione del substrato in ambiente basico ed è catalizzata dai metalli di transizione quali ioni Fe2+ e Cu2+:

 

Cell-OOH + M n+ Cell-OO·+ H + + M (n-1)+

Cell-OOH + M (n-1)+ Cell-O· + OH - + M n+

I gruppi carbonilici che si formano, a seguito di queste reazioni radicaliche, sugli atomi C2, C3 e C6, favoriscono, in ambiente alcalino, la rottura del legame glucosidico, mediante reazioni di ß-alcossieliminazione.

Se, invece, ci si trova in ambiente acido, i gruppi riducenti della cellulosa possono ridurre il Fe3+, presente nella carta come impurezza o contenuto negli inchiostri, a Fe2+; contemporaneamente il Fe2+ viene ossidato dall’ossigeno atmosferico e forma radicali idroperossidi, i quali, a loro volta, reagiscono con le molecole di cellulosa formando nuovi radicali[9]:

Fe2+ + O2 + H+ Fe3+ + HO2·

RH + HO2· H2O2 + R·

R· + O2 ROO·

 

Un altro meccanismo, Fig. 10, che avviene in presenza di metalli di transizione, è basato su un’interazione di tipo acido-base di Lewis[10].

Secondo questa teoria l’ossigeno emiacetalico (ciclico o glucosidico), si comporta da donatore, cedendo il suo doppietto all’acido di Lewis (MeXn) e provocando un indebolimento del legame carbonio-ossigeno, con conseguente rottura dello stesso e formazione di un carbocatione.

Per quest’ultimo si possono ipotizzare tutte le reazioni proprie del carbocatione: reazione con gruppi OH di catene vicine, reazioni con altri nucleofili presenti, migrazione della carica e successiva eliminazione di un protone dal gruppo -OH, con formazione di un carbonile, ovvero rottura del legame carbonio - carbonio. In ogni caso l’ossidazione, sia essa catalizzata da cationi metallici o non, mostra sulla carta segni evidenti, a livello macroscopico, come l’indebolimento del foglio e, inoltre, la presenza di legami insaturi (carbonili, doppi o tripli legami) eventualmente coniugati fra loro, modifica l’assorbimento della luce da parte della carta, provocando quello che viene comunemente detto ingiallimento.

 

Foxing

Il foxing si manifesta sotto forma di macchie di colore bruno-rossastro, bruno o giallastro, generalmente di dimensioni ridotte e con bordi più o meno netti e regolari.

Molte di queste macchie, se eccitate da radiazioni UV, sono fluorescenti.

I meccanismi di formazione del foxing sono stati studiati sin dagli anni ’30, senza, però raggiungere a risultati conclusivi. In talune macchie si è trovata la presenza di batteri o specie fungine [11,12,13], in altre la presenza di ferro, in altre ancora la presenza di rame[14,15,16,17].

Indagini condotte presso il laboratorio di chimica dell’ICPL[18] sia su macchie di foxing reali, sia su macchie artificialmente indotte hanno permesso di evidenziare come il fenomeno sia sempre accompagnato da una ossidazione molto spinta della catena di cellulosa, caratterizzata da un elevato contenuto in gruppi carbonilici (circa il doppio di quelli presenti nella carta indenne da macchie, chiaramente visibili in IR, con assorbimenti a 1736 cm-1) e dalla presenza di doppi e tripli legami carbonio-carbonio (picchi in IR a 2316 cm-1, 2230 cm-1, 2130 cm-1).

Altre analisi[19] su campioni di foxing causato dalla presenza di ferro, condotte in collaborazione con i Laboratori Nazionali del Sud di Catania, e con l’Istituto per i Processi Chimico Fisici di Pisa, hanno evidenziato delle interessanti relazioni tra il contenuto in calcio delle macchie, quello in ferro e la valenza dello ione ferro (II o III): il contenuto in calcio delle zone «foxate» è nettamente inferiore a quello della carta indenne, cosa che indica che sussiste la possibilità di spostamento degli ioni calcio da parte di quelli ferro, con formazione di legami stabili ferro-cellulosa.

 

 

Metodi di studio

Le misure sulla carta, data la sua notevole igroscopicità, devono essere eseguite in condizione di temperatura e umidità relativa costanti e standardizzate (23°C e 50%UR), perchè i risultati possano essere confrontabili con quelli ottenuti in altri laboratori. Tutte le misure che si eseguono servono per comprendere quale sia lo stato di conservazione del materiale cartaceo su cui si sta lavorando e per permettere di scegliere il miglior metodo di intervento conservativo. Sui documenti originali solo raramente possono essere eseguite misure distruttive. Per tale motivo sono state messe a punto indagini strumentali di tipo non distruttivo che, se anche non sono in grado di determinare quantitativamente l’entità della degradazione, possono farne stimare l’estensione. Sono di seguito riportati i principali metodi di studio impiegati nella caratterizzazione della carta.

 

 

Metodi distruttivi

pH

L’acidità (o la basicità) di una carta rappresenta la capacità che essa ha di impartire reazione acida (o basica) all’acqua con la quale viene messa a contatto. L’entità ed il tipo di reazione dipendono dalle sostanze impiegate nella fabbricazione (solfato di alluminio, residui di sbianca, carbonato di calcio, collanti …), e anche dalla presenza di gruppi acidi formatisi nella macromolecola di cellulosa in seguito a reazioni di idrolisi e di ossidazione. La determinazione può essere effettuata mediante misure di pH (estratto a caldo, secondo TAPPI T435 om-88 oppure a freddo, secondo TAPPI T509 om-83) o tramite misura dell’acidità (o della basicità) titolabile (punto finale pH=7.0) di estratti di carta, ottenuti per ebollizione di 1 ora in acqua, secondo TAPPI T428 pm-85. La misurà può anche essere eseguita in modo non distruttivo, meno preciso, per contatto, impiegando un elettrodo piatto. Quando si eseguono misure di pH, occorre tener conto che la qualità dell’acqua distillata influisce fortemente sulla misura. Bisogna utilizzare acqua bidistillata bollita, con un pH mai inferiore a 6-7.

Il metodo per estrazione a caldo permette di ottenere la dissoluzione di frazioni acide, solubili solo a caldo e si dimostra più rappresentativo di quello a freddo, ma occorre evitare che l’anidride carbonica dell’aria possa entrare a contatto con la dispersione di cellulosa in acqua e utilizzare condensatori a ricadere, muniti di tappi in calce sodata. Il valore ottimale di pH di una carta di pura cellulosa è compreso tra 8.0 e 9.0. Per carte che contengono lignina, bisogna tener presente che la massima stabilità della lignina si ha in ambiente debolmente acido (tra 5.0 e 5.5). In tal caso un buon valore di pH si aggira intorno a pH=7.0.

 

 

Grado di polimerizzazione medio viscosimetrico

La determinazione del peso molecolare medio e del grado di polimerizzazione, può essere effettuata con diverse tecniche che si dividono in assolute o relative, a seconda che esista una legge che colleghi direttamente tali grandezze alla proprietà misurata o si abbia bisogno di costruire prima una curva di calibrazione.

Una misura dalla quale possono essere tratti risultati attendibili e che non necessita di strumentazione costosa è quella della viscosità intrinseca [h], correlata al peso molecolare medio viscosimetrico tramite la relazione di Mark-Hownik:

 

in cui K, K’ ed a sono costanti che dipendono dal polimero.

 

Le misure viscosimetriche si effettuano sciogliendo la cellulosa in adatti solventi, quali la cuprietilendiammina, operando sotto costante flusso di azoto, per evitare l’ ossidazione della cellulosa.

Dette hc ed hs rispettivamente le viscosità delle soluzioni di cellulosa e del solo solvente (cuprietilendiammina 0.5 M), si ha, secondo Staudinger:

 

I dati y = Log [(hrel -1)/c] riportati in funzione di x = c si dispongono su una retta il cui punto di intersezione con l’asse delle y rappresenta la viscosità intrinseca [h].

Le norme internazionali (ASTM, AFNOR, ISO) prevedono che si effettui una sola misura per ogni campione da esaminare e che, ottenuto il valore di hrel, si estrapoli la viscosità intrinseca da dati tabulati nelle norme stesse. Sono accettati valori che per uno stesso campione scartino fra loro del 3%. Non sono riportati dati sulla precisione del metodo.

Per ottenere risultati più affidabili[20], è preferibile operare costruendo per ogni campione la retta Log [(hrel -1)/c] contro c ed ottenendo per estrapolazione il valore [h], tenendo conto degli errori correlati ad ogni singola misura ed applicando il metodo dei minimi quadrati, con errore variabile. Dal valore di viscosità intrinseca estrapolato, si ricava il grado di polimerizzazione medio viscosimetrico. Tanto maggiore è tale valore, tanto più lunga e integra è la macromolecola di cellulosa e tanto maggiore è la stabilità della carta in esame. Studi effettuati sul comportamento della cellulosa in cuprietilendiammina hanno mostrato che Kh assume valori differenti in funzione del DP della cellulosa[21,22].

I valori comunemente accettati sono: Kh=156 per DP compresi tra 3000 e 300, Kh=124 per DP minori di 300.

 

Gruppi carbossilici scambiabili

Il contenuto in carbossili scambiabili si determina spettrofotometricamente (ASTM 1926), misurando a 620 nm l’assorbimento del blu di metilene. La reazione tra gruppi COOH della catena cellulosica e blu di metilene consiste in uno scambio cationico, schematizzabile tramite l’equazione:

(1) COOH = carbossili della cellulosa; MB+ = blu di metilene

L’ aumento di gruppi ossidati nello scheletro della cellulosa provoca una diminuzione di assorbanza del blu di metilene libero in soluzione.

L’ equazione (1) mostra che il valore dell’assorbanza è direttamente proporzionale alla concentrazione [MB+] e inversamente proporzionale alla concentrazione [H+], cioè

A µ [MB+] / [H+]

È dunque necessario, per spostare l’equilibrio (1) verso destra e rendere la sostituzione quantitativa, operare ad un pH sufficientemente alto e tamponato. In particolare, studi sulla dipendenza dell’assorbanza dal pH hanno evidenziato che, per valori di pH compresi tra 7-9, si ottiene la completa neutralizzazione dei gruppi carbossilici e la costanza del valore di assorbanza misurato. L’ utilizzo del tampone, tuttavia, introduce ioni, come ad esempio quelli sodio, che possono competere con il blu di metilene nella reazione di scambio cationico, inficiando la precisione del metodo. Per ovviare a questo inconveniente si deve operare in modo da mantenere basso il rapporto [Na+]/ [MB+], mettendo a reagire con il blu di metilene quantitativi di cellulosa che non consumino tutto il reagente, in modo da non rendere il sodio competitivo nei riguardi della sostituzione cationica. Si lavora, infatti, pesando quantità di cellulosa che diano il 50% di diminuzione di assorbanza rispetto al valore iniziale. Mediante soluzioni a concentrazione nota di blu di metilene, si costruisce preventivamente una retta di taratura in cui si riporta l’assorbanza in funzione di [MB+]. Per ricavare i valori di contenuto in gruppi carbonilici nelle carte in esame, i campioni di carta vengono trattati con una soluzione 2.10-4 M di blu di metilene e lasciati sotto agitazione costante per 24 ore per consentire lo scambio cationico. Dopo aver centrifugato le soluzioni, si misura l’assorbanza del liquido supernatante a 620 nm, punto di flesso della curva di assorbanza del blu di metilene e punto più riproducibile. I valori di assorbanza misurati consentono di entrare nella retta di taratura e di leggere i valori di [MB+] corrispondenti. Si riportano infine in un diagramma i grammi di carta pesati in funzione di [MB+] e si estrapola la quantità di carta che diminuisce del 50% l’assorbanza della soluzione del blu di metilene con cui viene messa a reagire. Si determina, quindi, il contenuto in carbossili, espresso come millimoli di carbossili per 100 grammi di cellulosa, mediante la seguente relazione:

X=(0,0005/W) . 100

Con W si indica la quantità di carta, espressa in grammi, in grado di assorbire il 50% della soluzione di blu di metilene con cui è stata trattata, mentre 0.0005 sono le millimoli di blu di metilene corrispondenti al 50% di assorbimento.

I gruppi carbossilici provengono dall’ossidazione delle funzioni alcoliche primarie della cellulosa, ma influenzano soprattutto la sua acidità. Una carta in buono stato di conservazione ha un contenuto medio di 0.3 m.moli di carbossili per 100 g di carta.

 

Gruppi carbonilici

Non ci sono norme standardizzate che consentano la misura di tutti i carbonili - aldeidici e chetonici - presenti nella cellulosa. Presso il laboratorio di chimica dell’ICPL è stata messa a punto un metodo che si basa sulla reazione di ossidoriduzione tra cellulosa e 2,3,5-trifenil-2H-tetrazolio cloruro (TTC)[23]. Le funzioni carboniliche riducenti (aldeidiche) della cellulosa si ossidano a carbossili, mentre riducono il TTC a trifenilformazano, di colore rosso, che può essere dosato spettrofotometricamente. Per poter dosare anche i gruppi carbonilici di tipo chetonico, che non potrebbero essere ossidati a carbossile, occorre far precedere la reazione da un’idrolisi alcalina, in grado di aprire il legame C2-C3, trasformando gli eventuali gruppi chetonici presenti in aldeidi. A tal fine 0.5 ml di KOH 0.2 N vengono aggiunti ad una quantità esattamente pesata di carta, compresa tra i 5 e i 90 mg, e la sospensione risultante viene posta in bagno termostatico mantenuto a 100°C per 3 minuti. Si aggiungono poi 0.5 ml di 2,3,5-trifenil-2H-tetrazolio cloruro allo 0.2% p/V, mantenendo il riscaldamento a 100°C per 10 minuti. Dopo rapido raffreddamento, si aggiunge alla soluzione 1 ml di HCl 0.1 N per stabilizzare la soluzione.

Il precipitato rosso di trifenilformazano formatosi, viene sciolto rapidamente in alcool etilico (EtOH); la soluzione viene separata dai residui di carta, per filtrazione e portata a volume in palloncino tarato con EtOH. L’assorbanza viene misurata a 480 nm.

È importante notare che le soluzioni di formazano in acqua o in EtOH non hanno il medesimo coefficiente di estinzione molare e. Un elevato contenuto di acqua inficia le misure, mentre un basso contenuto di acqua (<10%) non modifica l’assorbanza della soluzione. Al fine di minimizzare questo problema, tutta la vetreria impiegata nella reazione deve essere asciutta o bagnata con alcool etilico. Un contenuto d’acqua > 40% causa un errore relativo del 50% o più, se comparata con una soluzione alcolica.

Prima di eseguire le misure sui campioni di carta, si costruisce una retta di calibrazione impiegando soluzioni di glucosio a concentrazione nota e con contenuto d’acqua <10%.

Il contenuto in carbonili nelle carte si ottiene dalla retta di calibrazione, calcolando le moli corrispondenti al valore di assorbanza misurato. Carte in buono stato di conservazione hanno un contenuto medio di gruppi carbonilici pari a 0.4 m.moli / 100 g di carta. Su campioni fortemente ossidati si ottengono valori che raggiungono anche 40 m.moli/ 100 g carta.

 

Metodi di studio non distruttivi o microdistruttivi

Spettroscopia Raman

L’effetto Raman fu scoperto nel 1928 dal fisico indiano Chandrasekhara Venkata Raman, analizzando lo spettro di una radiazione luminosa di una lampada a vapori di mercurio, diffusa da una soluzione di benzene. L’osservazione fu effettuata in direzione perpendicolare a quella della radiazione incidente. Raman scoprì che nello spettro della radiazione diffusa, addossate ad ognuna delle righe della radiazione incidente, comparivano altre righe, molto più deboli, caratteristiche della sostanza diffondente ed indipendenti dalla frequenza incidente.

L’assorbimento in infrarosso e la diffusione Raman sono governati da regole di selezione diverse e in molti casi una molecola può avere bande intense sia in IR sia in Raman, ma gli spettri possono non coincidere. Ciò rende i due metodi complementari e molto utili per fini diagnostici.

Nella spettroscopia infrarossa l’eccitazione vibrazionale si ottiene irradiando il campione con una sorgente di radiazione a banda larga, nella regione dell’infrarosso (4000 - 200 cm-1), in quella Raman la sorgente di eccitazione è una radiazione monocromatica, più energetica di quella infrarossa. Per eccitare i campioni si possono usare LASER con diverse frequenze nel visibile, ma anche nella regione del vicino infrarosso o nell’ultravioletto. La possibilità di cambiare la sorgente di eccitazione è estremamente utile per fini diagnostici. Il campione in esame, infatti, può dare effetti di diffusione diversi in funzione della profondità di penetrazione della radiazione al suo interno e in funzione della variazione della sezione d’urto di diffusione. È anche possibile eseguire misure micro-Raman, ottenendo una migliore risoluzione ed una caratterizzazione puntuale della superficie.

I vantaggi della spettroscopia Raman consistono nella rapidità delle misure (da pochi secondi a qualche minuto) e nell’elevata sensibilità nei confronti dei composti inorganici, le cui bande caratteristiche cadono al di sotto di 600 cm-1. La tecnica è, inoltre, non distruttiva e spazialmente definita (dimensioni dello spot del LASER: 0.5 - 400 µm; profondità alcuni µm).

Gli svantaggi provengono, in alcuni campioni, dalla presenza di una banda allargata di fluorescenza, che può mascherare e coprire i picchi caratteristici della molecola in studio.

Nel caso della cellulosa, riconoscere quali gruppi funzionali si siano formati nel corso dell’invecchiamento è di fondamentale importanza per pianificare interventi di conservazione del bene culturale e la spettroscopia Raman può essere validamente impiegata a tale fine [24].

La tecnica non è particolarmente influenzata dai segnali dell’acqua legata alla cellulosa, contrariamente a quanto accade in IR, in cui la larga banda del bending dell’acqua legata, centrata a 1640 cm-1, maschera i segnali di stretching del doppio legame C=C e dei gruppi carbonilici C=O.

Nelle applicazioni allo studio dei meccanismi di degradazione della cellulosa, sono state analizzate in Raman carte in ottimo stato di conservazione, carte che avevano subito attacco idrolitico in ambiente acido e carte ossidate.

Mentre le ossidate hanno dato luogo a sensibili differenze rispetto a quelle non trattate, specialmente nella zona al di sotto di 1800 cm-1, gli spettri delle idrolizzate erano molto simili a quelli delle carte tal quali. Il risultato può essere compreso, se si tiene conto che, mentre l’ossidazione causa modifiche chimiche e strutturali, l’idrolisi, che spezza la catena cellulosica, non ne modifica la struttura.

Gli spettri di carte ossidate sono sempre caratterizzate da un picco centrato intorno a 1577 cm-1, che può essere usato come «marker» dei processi ossidativi.

Nella regione dei 1577 cm-1 cadono le vibrazioni di diversi gruppi, nel nostro caso gli stretching C=C e C=C-O e lo stretching asimmetrico O-C=O.

La presenza di questi gruppi funzionali è confermata da altre bande tipiche.

Si possono anche formare più gruppi carbonilici adiacenti, che possono dar luogo a tautomeria cheto-enolica, con formazione di gruppi C=C-O.

Occorre sottolineare che i carbonili non sono facilmente rivelabili in Raman, dato che l’intensità delle loro bande è bassa, ma la loro presenza è stata, comunque, riscontrata in molti campioni (Fig. 11).

In altri campioni la zona delle bande scheletali non mostra variazioni, mentre la banda a 1577 cm-1 può essere attribuita allo stretching C=C, se confermata dalla presenza di segnali a 634 cm-1 (C=C-H wagging) (Fig.12).

Altri campioni hanno mostrato ulteriori ossidazioni che hanno condotto alla formazione di gruppi carbossilici (Fig. 13), le cui bande diagnostiche si trovano a 636 cm-1 (O=C-O bending in plane), a 1444 cm-1 (OC-O stretching simmetrico) e a 1577 cm-1 (O=C-O stretching asimmetrico).

In altri spettri (Fig. 14) è stato trovato un picco a 1079 cm-1, che può essere assegnato allo stretching asimmetrico C-O di un etere ciclico a cinque membri, in associazione al picco a 716 cm-1 (stretching simmetrico C-O). Questa struttura non è facilmente rilevabile in IR (assorbimento molto debole), ma la sua possibile formazione, nella degradazione della cellulosa, è riportata in letteratura[6]. In Raman il picco dell’etere ciclico è intenso.

 

Fig. 12. Spettro di cellulosa. Eccitazione l = 514.5 nm.

Le frecce indicano le bande attribuite al doppio legame C=C.

 

Molti spettri contengono le bande di diversi gruppi (doppi legami C=C, carbossili, etere, ciò si verifica perché lo stesso foglio di carta può contenere fibre con diverso grado di ossidazione. Quando l’ossidazione è molto spinta si ha persino la perdita della struttura cristallina, che si manifesta con l’assenza di tutte le tipiche bande scheletali.

Se si analizzano le fibrille, facilmente selezionabili sotto il microscopio, si nota che le bande caratteristiche dei processi ossidativi sono molto più intense che nelle fibre. La loro maggiore intensità indica una ossidazione molto spinta, che si può spiegare, tenendo conto che le fibrille sono più facilmente accessibili delle fibre e, di conseguenza, più facilmente ossidabili.

 

Microscopia a forza atomica

La Microscopia a Forza Atomica (AFM) permette di studiare la morfologia di diversi tipi di superfici, in qualsiasi tipo di ambiente, dal vuoto all’aria e alle soluzioni, con risoluzione nanometrica. Si può perciò lavorare sul campione non trattato, così come esso si presenta. In tal modo riduce al minimo la possibilità dell’insorgere di artefatti, causati ad esempio da evaporazione sotto vuoto o da imperfezioni di un film di rivestimento (che sono procedure spesso richieste da altre tecniche microscopiche).

La capacità del microscopio a forza atomica di fornire immagini realmente tridimensionali, con altissima risoluzione, rende la tecnica straordinariamente importante per lo studio morfologico di superfici (tecnica di imaging). Le misure si possono eseguire in contact mode (la punta dello strumento scorre sulla superficie) o in non contact mode (la punta è mantenuta ad una distanza dalla superficie tale da risentire delle forze a corto raggio attrattive o repulsive che si instaurano tra punta e superficie investigata). Nel caso di applicazione a campioni «morbidi», come la carta, è preferibile operare in non contact per evitare di asportare fibrille o di modificare la superficie, cosa che priverebbe di significato l’analisi. In funzione della strumentazione impiegata, la tecnica è non distruttiva o microdistruttiva (per la parte teorica della tecnica cfr. C. Coluzza).

Lo studio della degradazione della cellulosa è stato condotto su carte in diverso stato di conservazione e su carte affette da foxing sia di natura chimica, sia di natura biologica[25,26,27].

Le misure si effettuano eseguendo scansioni su numerose aree del campione, di dimensioni tali da essere significative e in numero sufficiente per fornire risultati statisticamente significativi.

Se si valuta l’altezza e la distribuzione dei profili lungo l’asse di scansione e si definiscono: Rugosità Locale (RL) come lo scarto quadratico medio dell’altezza della superficie rispetto al suo valor medio (rugosità della singola immagine) e Rugosità superficiale (RMS) la media, su tutte le aree misurate, dei valori di rugosità locale, si possono ottenere valutazioni molto interessanti.

Le misure su carte artificialmente invecchiate (Fig. 15) mostrano una netta modifica della morfologia della superficie, con notevole alterazione della sua rugosità: diminuisce l’altezza globale della superficie e aumenta la sua corrugazione ... aumentano le rughe! L’effetto di incremento di corrugazione si manifesta già dopo i primi 7 giorni di invecchiamento, ma diventa particolarmente intenso dopo 28 giorni.

Questo comportamento è ben correlato anche con l’andamento della formazione di gruppi carbonilici (Fig. 16) in funzione dell’invecchiamento accelerato e indica che, con l’invecchiamento progredisce dell’ossidazione e si ha una frammentazione della cuticola esterna delle fibre, che diventano ancora più aggredibili da fattori esterni (chimici, biologici o climatici).

Un’interessante applicazione si è avuta nello studio degli effetti di superficie indotti da foxing chimico e biologico.

Nel caso del Foxing biologico, l’analisi della distribuzione delle altezze della superficie (Fig. 17) indica che la variazione di rugosità è causata dalla presenza di due picchi: uno è consistente col picco trovato nella carta; l’altro è ben separato da questo ed è un marker caratteristico della macchia, del tutto indipendente dall’aspetto colorimetrico.

Le immagini raccolte su foxing biologico non mostrano strutture morfologiche che si ripetono regolarmente nella carta, convalidando l’ipotesi che il foxing biologico si possa pensare come una struttura «stratificata» al di sopra della carta.

 

Fluorescenza X

La tecnica XRF (Fluorescenza di Raggi X) permette l’analisi elementale non distruttiva di un ampia gamma di materiali. I punti di forza dell’XRF sono la possibilità di analizzare campioni senza necessità di alcun tipo di preparazione, siano essi materiali conduttivi (metalli) oppure materiali non conduttivi (ossidi, vetro, ceramica, plastica, cemento etc.), nonché l’analisi di liquidi, (olio, acqua, idrocarburi, etc.). Anche se tutti gli elementi presenti nel campione vengono eccitati dalla radiazione X - e quindi contribuiscono allo spettro - sono rilevabili solo gli elementi con numero atomico superiore a 14 (Si); tutti gli altri elementi vanno a far parte della cosiddetta «matrice oscura». La tecnica di analisi è semiquantitativa; la quantitativa, con precisione anche dello 0,1% si può ottenere solo con campioni con matrice oscura ben nota e a spessore molto elevato. Gli Spettrometri XRF operano attraverso l’irradiazione di un fascio di fotoni X ad alta energia, che eccitano gli elettroni presenti nelle orbite interne agli atomi degli elementi che compongono il campione da analizzare. Le lunghezze d’onda caratteristiche emesse da ciascun elemento sono separate attraverso un sistema di cristalli e rivelatori, l’intensità dei singoli elementi è elaborata da un calcolatore, che fornisce dei risultati qualitativi e quantitativi sugli elementi presenti nel campione analizzato, facendo riferimento a curve di calibrazione costruite con standard internazionali (per la parte teorica della tecnica cfr. C. Coluzza).

Nello studio della carta, la fluorescenza X può essere impiegata per analizzare la presenza di elementi chimici che possono aver indotto meccanismi di degradazione, quali, ad esempio, metalli pesanti. Un caso tipico di applicazione della fluorescenza X è lo studio del foxing. Le figure 19 e 20 riportano due casi di studio su due documenti originali del XVI e del XVII secolo, entrambi recanti macchie di foxing indotte da metalli pesanti, rame e tracce di ferro nel primo caso e ferro nel secondo.

Fig. 19. Ms. XVI sec. analisi XRF di una macchia di foxing indotto da rame (il ferro è solo in traccia)

(Anodo W; acquisizione 300»; tensione del tubo RX: 25 kV; corrente del tubo RX: 0.3 mA)

Fig. 20. Ms. XVII sec. analisi XRF di una macchia di foxing indotto da ferro.

(Anodo W; acquisizione 300»; tensione del tubo RX: 25 kV; corrente del tubo RX: 0.3 mA)

Oltre alle misure in fluorescenza X, sui documenti i cui spettri sono stati mostrati nelle Fig. 19 e 20, è stato possibile eseguire le analisi chimiche, riportate nella tabella sottostante.

I risultati delle indagini hanno evidenziato chiaramente quanto sia differente la degradazione indotta dal rame (che provoca un’ossidazione molto intensa, evidenziata dall’alto contenuto in gruppi carbonilici), rispetto a quella indotta dal ferro (che, come dimostrato in un precedente lavoro[28], provoca idrolisi spinta, evidenziata dal basso grado di polimerizzazione). Un altro dato interessante, che sottolinea come siano differenti i meccanismi di degradazione ossidativa e idrolitica, è il valore di pH della carta della prima metà del XVI secolo: l’ossidazione può avvenire in ambiente non acido e non causa necessariamente acidificazione del supporto.

 

Conclusioni

Sono state riportate le principali tecniche di indagine impiegate per lo studio della degradazione della carta - ad eccezione della tecnica IR, ampiamente dibattuta da altri autori - distruttive e non. Per la trattazione teorica della spettroscopia Raman, della Microscopia a Forza Atomica e della Fluorescenza X, si rimanda all’articolo di C. Coluzza.

Altre tecniche possono essere impiegate in funzione delle necessità degli studi che si vogliono condurre (NMR, XAS, XANES, AA, LIBS) ma si è ritenuto qui opportuno focalizzare l’attenzione su quei metodi - strumentali o di laboratorio - che sono più ampiamente diffusi o particolarmente innovativi nel settore (AFM).

Occorre, inoltre, sottolineare l’importanza dei metodi chimici e spettroscopici nello studio della degradazione dei materiali cellulosici.

Troppo spesso i ricercatori - specialmente quelli di formazione anglosassone - si limitano a valutare le proprietà meccaniche (resistenza a trazione, lacerazione, doppia piega) o ottiche, ma tali caratteristiche macroscopiche non tengono conto dei reali processi degradativi della cellulosa, che sono di natura prettamente chimica.

Perchè si verifichi una significativa modifica delle proprietà meccaniche occorre un tempo decisamente lungo, mentre le variazioni chimiche - quali il contenuto in funzioni acide o ossidate e la depolimerizzazione - si manifestano in tempi più brevi e sono responsabili della reale resistenza del supporto cellulosico, della sua permanenza e durabilità. Di tali modifiche si deve necessariamente tener conto se si vuole operare una corretta tutela del bene culturale.

 

 

Marina Bicchieri

 

 

 

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P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni tecniche, le immagini.

 

 

 

 

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