LA PAGINA D'ARTE DE "IL MONDO"


DI MARIO PANNUNZIO (1949-1966)

 

 


Lorenzo Nuovo

 

 

 

 

 

 


     Lo stato degli studi


Nel panorama degli studi di storia della critica figurativa del secondo dopoguerra, manca una disamina delle posizioni degli autori della pagina d'arte del periodico romano "Il Mondo" - in un primo tempo "Settimanale di politica e letteratura", quindi, dal quarto numero del 1953, "Settimanale politico, economico e letterario" -. Studi - raccolte di documenti, indagini sul rapporto tra arte e critica militante in Italia e affondi sulla trasformazione del vocabolario visivo tra anni Quaranta e Cinquanta - che, anche quando hanno centrato la propria attenzione su periodici o giornali non specialistici (a titolo esemplificativo, sulle pagine culturali de "L'Unità", di "Rinascita", de "L'Europeo", de "L'Espresso", perlopiù a caccia degli articoli delle grandi firme: Mario De Micheli, Roberto Longhi, Francesco Arcangeli, Lionello Venturi), hanno sempre finito per tenere fuori fuoco la definizione dei tratti propri della specola sulle arti costituita dal settimanale diretto da Mario Pannunzio.
Nell'ambito degli studi che, a partire dall'ultimo anno della direzione pannunziana, hanno ricostruito le vicende de "Il Mondo", spazio preminente è stato dato alle battaglie politiche, economiche e civili del settimanale e alla costituzione del gruppo tra anni Trenta e Quaranta. In questo contesto, per primo è stato Tempi di ferro di Antonio Cardini ad avere ragionato sulle posizioni espresse dagli autori de "Il Mondo" in ambito culturale, offrendo un tentativo di inquadramento della "prospettiva laica congiunta alla democrazia" ed alla "cultura neorealista" che, per quasi un ventennio, era stata propria degli autori del periodico. Sempre trattate a parte e mai inserite in un discorso complessivo sulla rivista, le questioni della grafica (che, opera della matita di Mino Maccari ed Amerigo Bartoli, non poteva essere questione disgiunta dalla definizione delle posizioni del giornale in materia di arti visive) e della fotografia, oggetto rispettivamente di due mostre e di un volume firmato da Massimo Cutrupi nel 2005.
 

 

      Gli autori della pagina d'arte de "Il Mondo" tra politica e cultura


L' analisi delle pagine culturali de "Il Mondo" dimostra l'insufficienza di un ragionamento costruito sulla base di una mera contestualizzazione degli scritti figurativi comparsi nel settimanale nel sistema delle arti e nel dibattito critico del secondo Novecento. "Il Mondo", ha osservato Asor Rosa, è stato espressione di un clan, della élite raccoltasi a partire dagli anni Trenta attorno a Mario Pannunzio; un gruppo che, in alcuni dei suoi protagonisti (si citano, a titolo esemplificativo, Antonio Cederna, Alberto Arbasino, Nicola Chiaromonte) e in piena continuità politica e culturale, è poi confluito nell'avventura de "L'Espresso" di Benedetti e Scalfari. Su un ragionamento sempre agganciato alla logica del gruppo hanno insistito anche Scalfari, Cardini e, più di recente, Teodori, gli ultimi saldando questione politica ed economica a battaglie di cultura. Sulla costituzione del gruppo, insomma, vale la pena di indugiare, resistendo alla tentazione di una distinzione tra questioni prettamente storico-artistiche e culturali in senso generale, o addirittura tra scelte di campo in materia di arti visive e battaglie politiche e civili: sono gli stessi autori della pagina d'arte
de "Il Mondo" ad indicare questa strada, in un dibattito che, negli anni dell'immediato dopoguerra, era giocoforza carico di ragioni ideologiche". Servono appoggi ulteriori, aperture interdisciplinari, una ricostruzione di biografie e sodalizi umani, politici e culturali che affondano le loro radici negli anni compresi tra le due guerre e che permettono di fare luce sulle due componenti salienti del gruppo gravitante attorno a Pannunzio ed alla redazione de "Il Mondo". Serbatoi di uomini e di idee, essenzialmente cultura di fronda per quel che attiene agli autori delle pagine culturali, intellettualità liberaldemocratica per quanto attiene alla definizione della rotta politica, economica e civile del settimanale. Per un periodico squisitamente romano come "Il Mondo" e per una figura come quella del suo direttore, la categoria della sociabilità assume un ruolo dirimente; prima che negli ambienti di via Veneto, le tappe di costruzione del gruppo hanno visto molti dei suoi uomini transitare negli anni Trenta per luoghi eletti della cultura e della mondanità romana come il Caffè Aragno, ambiente ripetutamente rimpianto sulle colonne del periodico, e simbolo di una Roma ancora immune dalla modernizzazione soprattutto urbanistica e tecnologica del secondo Novecento (oltre allo stesso Pannunzio, frequentatori assidui del Caffè sono stati, per esempio, Amerigo Bartoli, Leonardo Sinisgalli; e ancora, "rondisti" quali Emilio Cecchi: sua moglie, Leonetta Pieraccini, è collaboratrice assidua de "Il Mondo").
Cultura di fronda, si è scritto. Per quel che concerne la genealogia del gruppo del "Mondo", è documentato il passaggio al settimanale di molti intellettuali e critici prima riuniti attorno alle redazioni dei giornali di Longanesi e Maccari ("L'Italiano", "Il Selvaggio"); di "Omnibus" (giornale diretto dallo stesso Pannunzio e da Benedetti, che di Longanesi erano stati allievi, giornale che fece da collettore di molta della intellettualità italiana che, dalla fronda, nel secondo dopoguerra avrebbe cercato un riposizionamento culturale o anche solo lavorativo); di periodici culturali illustrati e tangenti al gusto della intellettualità romana connotata in arte da un gusto genericamente naturalista o, lato sensu, antimodernista, periodici quali "Il Quadrivio" o "Il Tevere". Chi segua, per esempio - e si cita senza porre distinzione tra disegnatori, redattori delle pagine di cultura e scrittori che per "Il Mondo" confezionarono racconti o, sulle medesime colonne, pubblicarono romanzi a puntate - le parabole intellettuali di Mino Maccari, Amerigo Bartoli, Giuseppe Raimondi, Alfredo Mezio, Giovanni Comisso, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Corrado Alvaro, afferra con esattezza la misura di una linea di continuità troppo spesso recisa nel contesto di periodizzazioni troppo rigide tra il giornalismo - e la cultura, anche visiva - d'età fascista e di prima età repubblicana. Per chi si accinga a comprendere il posizionamento della rivista in seno alle principali diatribe culturali degli anni Cinquanta e Sessanta, è importante, e lo si preciserà in seguito, capire che cosa significhi il ponte gettato tra la Fronda e la redazione de "Il Mondo" attraverso l'ineludibile tramite di "Oggi ".
Tale componente si è innestata sull'ossatura portante de "Il Mondo", i cui autori delle pagine politiche ed economiche, accomunati dalla militanza nei ranghi della sinistra liberale, erano transitati attraverso la tappa obbligata dell'antifascismo - spesso di segno azionista - e, in molti elementi, erano stati allievi di Benedetto Croce. A tale costola liberale devono essere ascritti anche alcuni autori della pagina d'arte de "Il Mondo": oltre a Lionello Venturi e Carlo Ludovico Ragghianti, di cui si dirà in seguito, si possono fare almeno i nomi di Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, Roberto Pane, Nina Ruffini, Carlo Cordié, Angiolo Bandinelli. Ancora. Se si è detto del debito contratto da Pannunzio nei confronti del giornalismo longalonesiano - debito esteso anche all'uso della fotografia - e dell'esempio de "Il Selvaggio" di Mino Maccari, i cui disegni, assieme a quelli di Bartoli, hanno dato sugo anche alle battaglie di cultura e di costume de "Il Mondo", qualche altra riga va spesa per quello che è stato indicato come il secondo corno del problema: la tradizione del giornalismo di impronta liberale. "Il Mondo" di Pannunzio riecheggia l'omonima testata fondata da Giovanni Amendola nel 1922 e soppressa nel 1926 dal regime fascista. Proprio in questo giornale, il 1 maggio del 1925 era comparso il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Riconoscibile, inoltre, è la continuità del giornale nei confronti della struttura e della direzione politica e culturale di riviste come "Risorgimento Liberale" (per l'intervallo di tempo nel quale fu diretto da Pannunzio, 1943-1947), "L'Europeo" di Benedetti (1945-1954), "Il Mondo" di Bonsanti (1945-1946) - Bonsanti che fui poi autore del settimanale pannunziano - e con la poco indagata rivista "Mercurio" diretta da Alba de Céspedes che si era proposta, tra 1944 e 1948, la ricostruzione civile e morale del Paese facendo affidamento su molte delle penne poi transitate al settimanale di Pannunzio, tra cui vale la pena citare almeno Gorresio, Calogero e Garosci.

 


     Nelle mani di Pannunzio, l'"estremista moderato"; la contraddittoria sintesi tra cultura di fronda e universo liberaldemocratico


È in Pannunzio, è chiaro, la sintesi operata tra la cultura di fronda e l'intellettualità liberaldemocratica.
Cardini ha ragionato sul senso dell'operazione messa in atto con la fondazione de "Il Mondo", vale a dire la ricerca di "un contenuto specifico da tutti riconosciuto da dare alla parola democrazia", "su tutti i fronti": "politico, storico, economico, letterario", ed anche "artistico". In ambito culturale, continua Cardini, tale contenuto si identificava nella "esigenza del neorealismo". Cardini che non sbaglia quando connota tale "neorealismo" come componente "separata e distinta dalla propaganda", negando, per quanto riguarda l'arte difesa dagli autori del settimanale, la priorità del contenuto e affermando - lo aveva fatto più volte, negli anni Quaranta, Ragghianti - l'indipendenza delle arti dalla comunicazione di messaggi politici; rivela, di contro, un eccesso di schematismo quando afferma l'estraneità degli scritti di poetica di Pannunzio e delle sue scelte editoriali rispetto alla cultura strapaesana, riconoscendo solo un generico "debito" nei confronti del magistero giornalistico di Leo Longanesi.
La questione va approfondita, o c'è il rischio che la stessa etichetta di "neorealismo" rimanga non solo una scatola vuota, ma generi errate sovrapposizioni con la letteratura della Resistenza o col "realismo socialista", che gli autori de "Il Mondo" leggevano come "realismo esteriore", segnato da "indifferenza morale".
Il primo scatto, è d'obbligo, investe la figura stessa di Mario Pannunzio, il cui profilo è stato tracciato da Cesare De Michelis nei primi anni Novanta. Il profilo di un uomo che ha diretto giornali, si è occupato di politica e storia ma, negli anni Trenta, è stato anche scrittore, critico letterario e cinematografico, pittore; sulle colonne de "Il Saggiatore", mensile fondato a Roma nel 1930, e su quelle del settimanale "Oggi", il cui primo numero è del 21 maggio del 1933, ha preso posizione in alcune delle schermaglie culturali più in voga, difendendo, per esempio, il genere del romanzo dal formalismo, dalla retorica neoclassica ed estetizzante di tanta della letteratura coeva. Il suo punto di vista è stato giocoforza totale, ha investito la complessità degli aspetti umani, dalla politica alla cultura.
È il caso di lasciare a parte, qui, la questione dell'evoluzione del pensiero politico e civile di Pannunzio, la cui azione e le cui intenzioni a partire dagli anni Trenta sono state mosse dalle pale dell'antifascismo e del liberalismo, nodi indagati in tutta la letteratura dedicata a "Il Mondo" ed al suo fondatore. Si intende, piuttosto, scendere nel campo della determinazione del pensiero pannunziano in fatto d'arte e letteratura. Per capire come l'ingrediente della "modernizzazione" perseguita anche attraverso la cultura, individuato da Cardini come il punto di discrimine con la cultura strapaesana, non era tratto distintivo dei critici e degli scrittori che dagli anni Trenta avevano aderito al "gruppo" e, alla fine degli anni Quaranta, preso parte all'avventura de "Il Mondo".
Pannunzio pittore, innanzitutto. Le testimonianze sono poche, ed ancora De Michelis cerca di sciogliere la matassa. De Michelis si sofferma su "un ritratto [pannunziano] della sorella" esposto alla prima Quadriennale (1931), sui "Giocatori di tennis che risalgono a quegli stessi primissimi anni Trenta", sulla "natura morta con Della imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis e un violino"; ne evidenzia l'attenzione nei confronti degli esiti "più incisivamente realistici - non senza eco del realismo magico - della scuola romana". Alla Quadriennale, il ritratto della sorella di Pannunzio era stato esposto nella sala XXI A, assieme ad opere di Mafai, Donghi, Ziveri, Scipione, Ruggeri Quirino; lì accanto, nella sala XXI B, quadri di Francesco Trombadori e Francalancia, abituali frequentatori del Caffè Aragno, nei cui locali Mario Pannunzio era presenza fissa.
Nelle sue diverse declinazioni, si trattava di un campione credibile e rappresentativo della pittura romana tra le due guerre, dal Novecento capitolino al suo superamento in senso intimista, tonalista o espressionista. A Roma si forma il gusto di Pannunzio, il cui "neorealismo" - per dirla ancora con le parole di Cardini - non poteva che essere declinato alla romana, con decise abluzioni nella cultura della "Italia magica", più che nelle direzioni dell'espressionismo o del tonalismo.
La stessa Roma che, e il messaggio era chiaro, nelle categorie formali del ritorno all'ordine e nella ricostituzione d'oggetto aveva trovato riparo dall'avanguardismo e dallo sperimentalismo dei primi quindici anni del secolo. Nella terza saletta dell'Aragno sedevano, accanto al futuro direttore de "Il Mondo", l'animatore di "Valori plastici", Mario Broglio, rondisti come Cecchi, Cardarelli, Baldini, pittori come Francalancia, Ceracchini, Antonio Donghi: ne è testimone il celebre dipinto Gli amici al Caffè di Amerigo Bartoli, conservato presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea. "Realismo magico" è una parola chiave per inquadrare non solo le fonti visive e di cultura dell'opera pittorica, ma anche il gusto di Pannunzio; accanto ad esso, cultura popolare ed arte degli ingenui: antiformalismo, insomma. Centrale, per esempio, tanto nell'opera di Donghi, quanto in quella di Ceracchini. Realismo sì, ma solo se opposto ad astrazione, ad avanguardismo; su questa strada, Pannunzio non avrebbe potuto seguire la rotta intrapresa da un democratico come Lionello Venturi, tra anni Quaranta e Cinquanta sempre più lontano dal sostegno ad un'arte di rappresentazione, attivo nella ricerca di una via di neoimpressionismo liberato dalle gabbie picassiane ed impegnato nel sostegno del lirismo delle soluzioni pittoriche degli astratto-concreti. Venturi, il professore dei "Commentari", la cui indulgenza nei confronti del formalismo, già presa di mira da Ragghianti negli anni tra le guerre, non poteva piacere nemmeno al gusto spiccio degli autori de "Il Mondo", che in più di un'occasione avevano puntato il dito contro il "tono di raffinatezza" che si respirava negli ambienti di una Torino - era lì che Venturi si era formato - "città che si gloria di essere più parigina di Parigi". Il direttore de "Il Mondo", che aveva in mente di allestire una specola sulle arti che cercasse una acrobatica difesa di una figurazione al di fuori del contenutismo imposto dai corifei del realismo socialista, avrebbe affidato la rubrica d'arte contemporanea ad Alfredo Mezio. La sfida, per lui, non concedeva che un ritorno al passato. Il discorso relativo alla letteratura non è dissimile. La difesa pannunziana del genere del romanzo, di una "letteratura di cose", era nata negli anni Trenta sulla scorta della necessità di reagire all'intellettualismo ed al formalismo della prosa d'arte ed al neoclassicismo imperante in età fascista; tra anni Quaranta e Cinquanta, nel pieno dell'affermarsi dei valori della Resistenza e della letteratura neorealista, avrebbe dovuto affrontare il problema di sottrarsi all'equazione antifascismo-comunismo, trovando uno spazio letterario che fosse allo stesso tempo distante dalle tentazioni neoavanguardiste. L'enigma è presto sciolto. Pannunzio avrebbe dato campo, ne "Il Mondo" , a scrittori che lo avevano accompagnato fin dagli anni Trenta. Scrittori le cui opere sono connotate da sensualismo, da prosa di memoria, da deformazione ironica e grottesca della realtà, da un gallismo tutto novecentesco: Brancati, Comisso, Flaiano. Discorso a parte meritano gli artisti del surrealismo italiano o, lezione preferibile, dell"'Italia magica". Artisti le cui pagine sono intrise di elementi di cultura vernacola - alcuni avevano pubblicato brevi racconti ne "Il Selvaggio" di Maccari -, il cui profilo è affatto estraneo all'elitarismo e all'intellettualismo dello stracittadino surrealismo francese: si fanno, per esempio, i nomi di Antonio Delfini (vicino a Pannunzio fin dai primi anni Trenta), Tommaso Landolfi, Enrico Morovich. Emblematica, nel panorama letterario italiano degli anni Cinquanta, la presa di posizione del più assiduo tra i critici letterari de "Il Mondo", Arnaldo Bocelli, sulla polemica sollevata attorno al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; opera, in tutta evidenza, collocata lungo una terza via tra avanguardismo ed engagement. Respingendo le critiche di "conservatorismo o reazionarismo" mosse al romanzo, Bocelli aveva salutato il Gattopardo come opera "di prim'ordine", "di primaria importanza", rigettando questioni di stile, sottigliezze accademiche o manipolazioni politicoideologiche che avevano offuscato la vista di tanta parte della critica.
Qui il senso della sintesi operata da Mario Pannunzio. Sintesi che era senso comune agli uomini del gruppo, se è vero che, alla metà degli anni Sessanta, Alfredo Todisco se la sarebbe presa con quanti, separando ciò che Croce aveva unito, vale a dire "forma e contenuto", avevano da un lato preso la via dell'engagement, avevano cominciato a lavorare sul soggetto, dall'altro, in direzione opposta, ad indulgere al formalismo, allo "strutturalismo". Il credito concesso alle poetiche del realismo nelle arti e nella letteratura in un'ottica che, crocianamente, scivolasse via dai due estremi di formalismo e contenutismo, di avanguardismo e realismo socialista allo scopo di marcare "un contenuto specifico da tutti riconosciuto da dare alla parola democrazia", ha avuto un alto prezzo da pagare: il rifiuto della modernità, la ripulsa delle avanguardie, dell'arte del Novecento. Significativo il giudizio che, nella seconda metà del sesto decennio del secolo, Venturi avrebbe dato degli autori delle pagine d'arte de "Il Mondo": "codini, forcaioli, reazionari, difensori del latifondo". La rotta modernista de "Il Mondo" non ha segnato che le battaglie politiche, economiche e civili.
 


     Croce e i crociani, Venturi e Ragghianti, ne "Il Monde: quale spazio per una critica di terza forza?


Croce e la "religione della libertà". Croce e i crociani, innanzitutto, seguendo il ragionamento di Vittorio Stella, che ha messo la lente sull'eco dell'estetica crociana nel campo delle arti visive. Il punto era stringente per il gruppo riunitosi attorno a Mario Pannunzio ed alla redazione de "Il Mondo". La fede nella religione della libertà aveva implicazioni anche nel campo delle arti visive, ed avrebbe condizionato la rotta intrapresa dai collaboratori del giornale nel dibattito figurativo tra anni Cinquanta e Sessanta. Non si intende sopravvalutare l'impatto del nume tutelare di Croce in seno alle posizioni espresse dagli autori delle pagine culturali de "Il Mondo"; tuttavia, non è possibile sganciare con troppa superficialità le feroci polemiche antiastratte comparse nel settimanale e la linea antimodernista seguita dai suoi autori, dalla condanna del filosofo indirizzata all'"infrenabile attivismo, all'infiacchita attitudine umana a trascendere in valore la pura vitalità, al narcisismo decadentistico, al sempre rinnovantesi imbarbarimento dell'intelletto" rilevati in tanta della cultura del Novecento, invischiata in perniciosi, elitaristi avanguardismi. Gruppi d'avanguardia letti come sistemi snobisticamente chiusi, compartimenti non comunicanti con l'esterno, come ne "Il Mondo" aveva denunciato Alfredo Mezio: "quando una civiltà decade o si corrompe, quando un'arte, una letteratura o una poesia diventano l'esercizio di una casta chiusa", "uno standard universale, come nel periodo alessandrino, l'arte ha finito di parlare".
Due sono le matasse da dipanare. Primo. Il costante riferimento dei redattori de "Il Mondo" agli uomini di punta delle truppe dell'esercito crociano, Lionello Venturi e Carlo Ludovico Ragghianti: il primo, significativamente antifascista fin dal 1931, quando fu tra i pochi docenti universitari a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al regime; il secondo, coinvolto nella lotta di liberazione nelle file degli azionisti e sottosegretario durante il governo Parri. Sono, tra quelli che hanno animato il dibattito critico nazionale tra fascismo e secondo dopoguerra, gli unici critici ad avere collaborato con continuità con "Il Mondo" e, tuttavia, in piena consapevolezza delle posizioni difese dal settimanale diretto da Pannunzio, scrivendo molto poco a proposito di artisti e mostre d'arte contemporanea: Venturi, dopo un affondo su Michelangelo comparso ne "Il Mondo" a pochi mesi dal quarto centenario della pubblicazione delle Vite vasariane, avrebbe aperto una discussione sul nuovo allestimento degli Uffizi; difeso, in uno scritto del gennaio del 1953, gli acquisti operati per la Galleria d'Arte Moderna dall'indebito attacco di alcuni senatori; infine pubblicato, tra 1954 e 1955, alcune memorie di un viaggio in India. Di lì a poco, avrebbe collaborato costantemente con"L'Espresso dalle cui colonne avrebbe - al fatto ci si è già riferiti - più volte polemizzato con l'oltranzismo antimodernista degli autori della pagina di cultura del settimanale pannunziano. Tra Venturi, negli anni del secondo dopoguerra supporto critico degli artisti che si muovevano su una linea "di impressionismo astratto spremuto dal formalismo neocubista" - linea in cui è stato riconosciuto l'"astrattismo ufficiale italiano" per buona parte degli anni Cinquanta - e i critici de "Il Mondo", l'intesa sarebbe sempre stata difficile, arroccati com'erano, questi ultimi, su posizioni di difesa a fil di spada di un'arte di rappresentazione. Con Venturi, tuttavia, fino alla metà degli anni Cinquanta, gli autori della pagina d'arte de "Il Mondo" avevano cercato di misurarsi, e l'iniziativa non aveva a che fare solo con il ruolo di modernizzatore che, a Roma, il critico aveva assunto a partire dal suo ritorno in Italia. Della questione si dirà diffusamente più in là. Qui serve dire che, ripulsa o meno dell'arte astratta, non era semplice, per un autore de "Il Mondo" - giornale il cui orientamento, come detto, era dato dalla bussola crociana - sottrarsi al fascino esercitato da un critico dal 1950 membro della Associazione italiana per la Libertà della Cultura; associazione che, ad apertura di decennio, pareva un'ipotesi concreta, in arte e letteratura, del costituirsi di un fronte anticomunista, della demarcazione di un perimetro entro il quale sarebbe stato possibile elaborare estetiche senza l'invadenza del mondo della politica. Prova della riverenza nei confronti del magistero leoventuriano e della cultura terzaforzista è l'impossibilità, da parte di Alfredo Mezio, critico d'arte de "Il Mondo", di esimersi dal confronto con le iniziative proposte dall'associazione. Diverso è il discorso che vale per Ragghianti. Ragghianti, che negli anni Quaranta aveva insistito sulla autonomia "morale, più che formale, della migliore pittura italiana della prima metà del secolo" alla stregua di "un modello da proseguire, senza rotture di sorta"; che si era dissociato dal clima trionfale nel quale, alla prima Biennale del secondo dopoguerra, nel 1948, erano state accolte le opere di Pablo Picasso; che, in accordo con le coeve prese di posizione di Cesare Brandi, intento, quest'ultimo, alla valorizzazione di una linea italiana che aveva avuto la propria culla nella metafisica, aveva preso le difese della pittura di Giorgio Morandi e Ottone Rosai; che, infine, a metà degli anni Cinquanta avrebbe recuperato, in una Italia che nel suo senso comune ancora iscriveva nel perimetro fascista tutta l'arte degli anni Venti e Trenta, le originali trovate visive di una rivista come "Il Selvaggio" di Mino Maccari. Sono questioni dirimenti: buona parte degli uomini della redazione de "Il Mondo", si è visto, aveva attraversato la stagione di Strapaese o, per un fatto generazionale, si era formata nel clima culturale dell'Italia degli anni Venti e Trenta. È Alfredo Mezio, critico d'arte de "Il Mondo", a citare esplicitamente Ragghianti. In uno scritto del giugno del 1951, Mezio si appoggia alla Miscellanea minore di critica d'arte (Bari, Laterza, 1946), recuperando l'antiformalismo di Ragghianti in chiave antipicassiana. Di più: il riferimento del critico de "Il Mondo" corre ad una pubblicazione della casa editrice Laterza, il sodalizio della quale con Benedetto Croce e con gli ambienti della sinistra democratica e del liberalismo italiano è noto. Ancora: l'anno successivo, la redazione de "Il Mondo" saluta la comparsa nelle edicole del primo numero di "SeleArte", "pubblicazione divulgativa e popolare, ma che al tempo stesso ha il coraggio di proclamarsi non fatta per le masse". Il periodico, nato nel campo della terza forza e dal sodalizio Ragghianti-Olivetti, rappresentava, tra antiaccademismo, opposizione all'isolamento intellettualistico di artisti e critici, volontà di coniugare critica militante con affondi storico-critici sull'arte medievale e moderna, un modello a cui guardare. Il legame Pannunzio-Ragghianti è testimoniato anche dalla consistenza di missive di quest'ultimo tra i materiali del Fondo Pannunzio conservato a Roma presso la Biblioteca della Camera dei Deputati". Molto spesso, oggetto dello scambio epistolare sono problemi di storia - centrale, la discussione sulla Resistenza e la sua eredità - e politici; talvolta, sono messe sul tavolo questioni storico-artistiche. A segnare, appunto, la direzione che avrebbe dovuto prendere una critica d'arte di terza forza.
Scrive per esempio Ragghianti, nel 1951: "mi sono molto piaciuti gli articoli di Mezio sugli equivoci dolorosi - ma, ahimè, data l'impostazione criticamente erronea della mostra, inevitabili - originati dall'esposizione caravaggesca". Il riferimento di Ragghianti corre alla sequenza di scritti di Alfredo Mezio centrati sulla grande retrospettiva di Caravaggio e dei caravaggeschi, curata da Roberto Longhi e aperta a Milano, a Palazzo Reale, nel 1951. Il critico de "Il Mondo" aveva vigorosamente cercato di portare il confronto sui quadri esposti a Milano fuori dall'angolo ideologico nel quale gli intellettuali dei due partiti di massa lo avevano trascinato: se i comunisti avevano letto Caravaggio come "pittore proletario, popolare, progressivo, pittore del Terzo Stato", avevano fatto loro eco gli autori della "rivista di Padre Gemelli", "Vita e pensiero", che nel Merisi avevano riconosciuto un "pittore semplice, umano, cristiano". In Mezio, era evidente, i richiami a Ragghianti e a Croce avevano un significato non trascurabile: quello di lavare in acqua antitotalitaria, liberale gli equivoci di una formazione maturata nell'ambito dello squadrismo rurale de "Il Selvaggio", eredità più volte rivendicata, pur in espliciti distinguo tra cultura e politica; di prendere, inoltre, le distanze dagli imbarazzanti orientamenti di riviste cui aveva collaborato, a partire dai giornali del fascistissimo Telesio Interlandi, le cui battaglie avevano preso una direzione indifendibile soprattutto a seguito della promulgazione delle leggi razziali. Da qui, scelte di campo esplicite, sulla scorta della consapevolezza di essere uomini di terza forza, oltre che scriventi d'arte e letteratura. Nella menzionata polemica nata a margine della mostra caravaggesca, emblematica la trovata con la quale Mezio conclude l'attacco alle truppe del realismo socialista, che avevano individuato in Caravaggio il campione della "democrazia popolare": "popolo", scrive il critico de "Il Mondo", è termine "piccolo-borghese", "una parola che non esiste nel vocabolario comunista" ; "per i comunisti esiste la classe", ed "è strano che debbano essere dei liberali" a puntualizzarlo.
Su questa linea deve essere inserito l'omaggio di Alfredo Mezio a Benedetto Croce in occasione dell'ottantatreesimo compleanno del filosofo. Soprattutto, in questa chiave deve essere letto il tentativo di ascrivere i pittori del gruppo degli Otto, presentati alla XXVI Biennale veneziana da Lionello Venturi, ad una "terza forza" non solo visiva, alternativa da un lato al realismo socialista (ed al suo contenutismo discendente dall'obbedienza ai dettami dello zdanovismo), dall'altro al fronte concreto o geometrico, al nuovo accademismo dei "pittori dell'astrazione, col loro ascetismo formale e le loro nostalgie platonizzanti". Non si esauriva, è chiaro, sulle colonne de "Il Mondo" il tentativo degli uomini di terza forza di compattarsi su comuni posizioni culturali. Lo testimoniano iniziative quali il convegno organizzato nel 1955 dalla rivista "Criterio", tra i cui direttori c'era lo stesso Ragghianti, sul tema "Libertà e Società"; convegno nel cui contesto erano stati ribaditi alcuni cardini sui quali avrebbe ruotato la ricerca degli intellettuali liberaldemocratici: "libertà, misura umana, senso societario, antidogmatismo".

 


Nella direzione di un ostinato antimodernismo: la polemica contro l'arte astratta

 

Stupisce trovare, ne "Il Mondo", due scritti di Piero Dorazio, comparsi nel settimanale tra ottobre e novembre del 1949, mesi nei quali la rubrica d'arte contemporanea non era ancora stata affidata da Pannunzio ad Alfredo Mezio: i due scritti in questione sono Arte degenerata in vetrina e Pittori sull'attenti. Dorazio interviene su temi inseriti a pieno titolo nel solco scavato dal direttore per le pagine culturali del settimanale: dalla rinnovata libertà della cultura che si respirava in Germania occidentale, nazione in quegli anni attenta a ritessere i fili della cultura recisi dalla violenza del totalitarismo e della condanna nazista all'arte degenerata, alla polemica con il contenutismo dell'arte gravitante in orbita comunista, emblema della quale era diventato, nel discorso di Dorazio, un quadro raffigurante "un comizio con molte bandiere" ad opera di Giulio Turcato. Chiamare in causa Dorazio, uno dei firmatari del Manifesto di "Forma" (1947) significava, per Pannunzio, che pure non intendeva indulgere alle nuove ricerche sviluppate in ambiente romano fuori dei confini della rappresentazione, mettere benzina sul fuoco della polemica con gli artisti del "Fronte nuovo delle arti", incatenati in pregiudizi ideologici derivanti dalla presenza incombente del partito; dare spazio, inoltre, ad un artista che si dichiarava insieme marxista, formalista e fautore della "libera creazione d'arte", aveva il preciso significato di mettere in un angolo quanti, sulla scorta dei dettami impartiti da Zdanov, sostenevano la necessità del realismo sociale nelle arti e la equazione marxismo-contenutismo. Del dibattito critico contemporaneo e prima dell'assunzione del ruolo di giudice delle arti da parte di Alfredo Mezio, ne "Il Mondo" non resta altro che alcune prese di posizione firmate da più di un autore - perlopiù scriventi non specialisti, tra cui si segnala Riccardo Bacchelli - contro il camaleontismo e l'opportunismo di Pablo Picasso, attorno alla figura del quale, in Italia, tra la Biennale del 1948 e le mostre milanese e romana del 1953, era venuto articolandosi molto del dibattito critico. Il debutto di Mezio, che avrebbe rivestito il ruolo di critico d'arte lungo tutti i diciotto anni della direzione di Pannunzio, è col botto. Un attacco al cuore dell'arte non formale. Bersaglio, le opere della svolta astrattista di Capogrossi esposte alla Galleria del Secolo di Roma nel gennaio del 1950; Mezio o non Mezio, la mostra aveva fatto scandalo, spezzato il fronte della critica. Nessuna indulgenza nei confronti dell'arte segnica di Capogrossi. Mezio si chiede "che cosa possa ripromettersi Capogrossi dall'uso di questo cifrario"; Capogrossi che voleva collocare la propria ricerca "decisamente fuori della pittura", in direzione di "una specie di scrittura ideografica, a fondo liturgico". Non bastava, continua il critico, "adottare il linguaggio dei primitivi", perché "non si diventa barbari per ragionamento". La rinuncia alla civiltà, "maledizione di tanti artisti moderni", non è che il frutto di "sovrappeso di cultura" e "raffinatezza" : il "cifrario copto" di Capogrossi è "una chiave che apre nel vuoto", e "manca di verità". Alla condanna della virata non figurativa di Capogrossi in concomitanza con la chiusura del quinto decennio del Novecento va collegata, logicamente, la stroncatura della direzione intrapresa dalla ricerca pittorica di Cagli nello stesso torno di tempo. Cagli che aveva presentato la mostra di Capogrossi al Secolo e che, intenzionato a posizionare la pittura "nel regno delle idee pure, della geometria e della matematica", aveva finito per dare vita ad un'opera "quasi sempre stanca e avara".
Spazio privilegiato per il confronto sulle ultime ricerche pittoriche, naturalmente, anche in un contesto come quello della pagina d'arte de "Il Mondo", in cui le assenze (di artisti, esposizioni ed eventi) sono più significative delle presenze, è quello aperto dalle proposte visive della Biennale di Venezia. A partire dall'edizione del 1950. Nel contesto di questa esposizione, Mezio si misura soprattutto con il Padiglione del Messico, i cui protagonisti "esponevano per la prima volta in Europa". Il critico imposta un confronto tra le opere dei centroamericani e quelle di Kandinsky, Arp, Zadkine, Laurens: "di qua c'è la pittura non figurativa fatta di circoli, di rombi, di linee, di segmenti colorati"; dall'altra parte, invece, "una pittura urlante e didattica, piena di fatti, terribilmente polemica, ma spesso anche poetica e commovente". Tributo che risentiva ancora del clima di liberatorio mondialismo respirato alla prima Biennale del secondo dopoguerra, evento attraverso il quale l'Italia, dopo anni di retorica neoclassica e di algidi, scenografici marmi fascisti aveva finalmente aperto le porte all'arte moderna europea e americana.
Altrettanto scontata, nell'ambito di una disamina alla retrospettiva del Futurismo italiano, retrospettiva sulla quale, quell'anno, aveva puntato forte Roberto Longhi, la condanna nei confronti dell'antistoricismo avanguardista. Tutti i suoi protagonisti inclusi, meno Carlo Carrà e Ardengo Soffici. Su quest'ultimo, Mezio, in consonanza con gli scritti di Ragghianti e Brandi già citati, scrive righe chiarificatrici, ampliando il discorso alla rivoluzione operata da "Cézanne in Toscana", rivoluzione che arriva "alle copertine dell'editore Vallecchi, alla sigla editoriale della Voce, disegnata nel più puro stile cézanniano, da Strapaese fino a Rosai". Strapaese, si noti. E Toscana rurale.
Concludono la corrispondenza da Venezia gli omaggi ad Ensor ed al Doganiere Rousseau, presenti rispettivamente con ventisei e ventinove opere nel padiglione Belga e in Sala LVII; un tiepido giudizio sulle opere di Picasso esposte nella sala riservata ai cubisti; soprattutto, la condanna senza appello dell'arte astratta americana, in un ragionamento che tiene assieme le opere esposte a Venezia (tra le altre, tre Pollock, cinque Gorky, quattro de Kooning) ed una riflessione generale sulle esposizioni aperte in quei mesi nelle maggiori gallerie romane: l'arte astratta, scrive il critico, non "ha prodotto niente di nuovo"; a dimostrarlo, il padiglione americano alla venticinquesima Biennale, padiglione che dava l'impressione di "aver visto una lunga carta da parato e senza poter ricordare un solo quadro né il nome di un artista". "Come potrà concludersi questo furore per lo spirito di geometria e per lo spirito di astrazione", conclude Mezio, "il furore di questi artisti che vogliono ricostruire un mondo di forme nuove, senza rapporto con la logica, con la realtà e con San Tommaso, è difficile dire".
Lo spazio dedicato alle ricerche degli artisti astratti italiani alla XXVI Biennale veneziana si limita al citato I pittori della terza forza, probabilmente il più sincero tentativo di Mezio e della redazione de "Il Mondo" di accostarsi al romanticismo venturiano, di compattare il fronte critico di area liberaldemocratica sull'impressionismo non figurativo degli artisti del Gruppo degli Otto alla ricerca di una via italiana all'astrazione. Mezio mette la lente su Vedova, che insiste "in una specie di stenografia emotiva, alla Hartung"; Afro, che, formatosi sulla cifra del neocubismo, ne offe "una riduzione prospettica di forma-colore, analoga alla riduzione che Piero della Francesca fa di Masaccio"; Birolli, che "dopo di aver bevuto fino alla feccia alla coppa del manierismo picassiano, si prova a rivomitarlo nel tentativo di riprendere possesso del mondo obiettivo"; Santomaso, il quale, mai allontanatosi "da questa obiettività, ne propone una interpretazione muscolosamente decorativa alla Léger"; Corpora e Turcato, le cui opere erano risolte in "una specie di compromesso lirico tra forme astratte e immagini naturali". Il boccone è amaro, per Mezio, che tuttavia si accontenta di andare giù duro sul solo Birolli. I successivi giudizi sugli Otto non avrebbero, nel tempo, mantenuto tale equilibrio; a cominciare da quelli appuntati a proposito dell'opera di Emilio Vedova, l'anno seguente definito "pittore-petardo che non esita a considerarsi della famiglia dei grandi sovversivi". Da qui ai testi centrati sulla Biennale del 1954, non cambia molto. Appaiate, corrono dichiarazioni generali di ostilità al modaiolo abbandono della figurazione ed una ulteriore, cauta apertura nei confronti dell'espressionismo astratto e del linguaggio lirico dell'impressionismo non oggettivo. Nello specifico. Nel primo scritto sulla XXVIII esposizione internazionale, un nuovo manifesto antiastratto: "è inutile cercare ai Giardini le inflessioni personali, le caratteristiche locali che facevano delle vecchie Biennali un viaggio a sorpresa attraverso tutte le varietà del mondo". L'astrattismo, infatti, "assorbe tutto, il folklore e l'artigianato", e "propone l'inventario di una realtà fatta di strutture, di fermenti elementari, di ovuli". Operazioni di cultura e, soprattutto, di mercato, la cui "carta finale" sono "i fogli dell'architetto Fontana, bucherellati come un colabrodo", e "le ovaie surrealiste e i glomeri giganti di Arp", che "presentano il paradosso sconcertante di una speculazione difficile, ermetica, di élite, che diventa l'arte dei Ministeri e dei Musei". Quindi, Mezio effettua una doverosa ricognizione sul fronte "inquieto" degli artisti che avevano abbandonato la rappresentazione: dai "semifigurativi" Paulucci, Santomaso e Birolli, ad "astrattisti a tendenza espressionistica come l'americano Kooning o di accento divisionista come Corpora"; da "romantici come Vedova", a "poetici inventori di favole grafiche come Klee, Mirò o Capogrossi". Se "non tutti i prodotti di questa formula rientrano nell'ambito della creazione artistica", Mezio individua, in chiave antiaccademica, come nell'oscillazione "tra tecnica e intuizione", "sta forse la parte più viva e fremente dell'esercizio astratto", e una sorta di "promessa di libertà". Da lì, sulle Biennali, il silenzio più assordante. Nessuno scritto, se non feroci stroncature, sulle pagine de "Il Mondo". O, in un dialogo sempre più difficile con le proposte visive e con il linguaggio della critica contemporanea, polemiche contro il sistema delle arti in Italia, contro il controllo statale sulla cultura, contro la mancanza di trasparenza nei criteri con cui erano assegnati spazi espositivi e premi. Nelle discussioni sul sistema delle arti in Italia, la Biennale era il bersaglio privilegiato da parte degli autori de " Il Mondo". Da lì, tuttavia, la polemica scivolava fino ad abbracciare anche il contesto romano nel quale, a partire dalla metà degli anni Quaranta, era Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d'Arte Moderna, la figura di riferimento, alfiere di un modernismo che, nelle sale del Museo e attraverso esposizioni temporanee ed acquisti, procedeva lungo il corrimano sicuro delle estetiche di Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan.
Negli anni in cui il dibattito critico era imperniato sulla contrapposizione tra realismo ed astrazione, gli autori de "Il Mondo" propendono risolutamente per la prima opzione.

 

 

Oltre la polemica tra astrattismo e realismo. La fortuna critica di Dubuffet, Burri e Pollock


Si è scritto: il rifiuto, da parte degli autori della pagina d'arte de "Il Mondo", di confrontarsi con le proposte artistiche contemporanee, è esemplificato dalla freddezza con la quale essi si sono rapportati, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, alle opere esposte nelle sale delle Biennali di Venezia. Decise stroncature anche da parte di scriventi non specialisti hanno fatto il paio con l'assordante silenzio del critico ufficiale del periodico, Alfredo Mezio. C'è, qui, la necessità di storicizzare, di fare il punto sulla trasformazione in atto nelle arti nella seconda metà del decennio. Perché una svolta c'è stata, ed è necessario riconoscere l'abbandono del tavolo di discussione da parte degli autori de "Il Mondo" alla stregua di una reazione a tali mutamenti. L'astrattismo italiano andava sempre più internazionalizzandosi, aprendo le porte alle più avanzate ricerche europee ed americane ed accogliendo suggestioni materiche e gestuali, fatto che non può, logicamente, essere sganciato da un ricambio generazionale, dall'entrata in scena di artisti nati negli anni Trenta (Manzoni, Lo Savio, Castellani, Schifano, Kounellis). Il tempo della svolta in corso nelle arti visive è scandito dall'impatto che su artisti, critici e opinione pubblica avevano avuto alcune esposizioni (nell'ampio spettro dei riferimenti possibili, si metta la lente per esempio sulle opere degli americani alla Biennale del 1956, sulle iniziative prese tra 1957 e 1958 dalla Rome-New York Art Foundation, sulla mostra romana di Pollock del marzo del 1958), e accompagnato dalla rivoluzione in atto nella critica: oltre ad un cambio generazionale, si attesta in questo ambito anche una rivoluzione del vocabolario, fino ad allora vincolato al lessico della pura visibilità, ed un ripensamento dello stesso ruolo della critica, un necessario riposizionamento rispetto ad artisti ed opere della contemporaneità. Per quanto riguarda la pagina d'arte de "Il Mondo", si attestano alcune significative virate. In primis, la scesa in campo di scriventi più giovani, su tutti Paolo Barozzi e Alberto Arbasino. Il primo, che comincia la propria breve collaborazione nel settembre del 1962 tracciando, e la cosa non sorprende, il profilo di Peggy Guggenheim. Tra arte e mondanità, a dimostrazione di un rapporto sempre più stretto tra ambiente artistico italiano e americano a partire dai secondi anni Cinquanta, Barozzi prosegue mettendo la lente sulle novità recepite negli Stati Uniti, tra happening e pop art; conclude la propria parentesi con un ragionamento sull'arte di Francis Bacon, incontrato a Londra, e con una analisi delle ultime novità provenienti dal fronte dell'optical. Aggiornamenti necessari, per i lettori di un periodico romano come "Il Mondo", specie per quel che concerne la pop art, le cui propaggini in Italia hanno avuto perlopiù i confini geografici e culturali della capitale. Se Barozzi si muoveva tra arte e mondanità, la questione è ancora più stringente per Alberto Arbasino. Molti i suoi articoli comparsi ne "Il Mondo"; articoli nei quali suggestioni storico-artistiche sono mescolate a critica letteraria e teatrale, sulla scorta di un antispecialismo che, in ambito romano e come ha sottolineato Costantino autore, sulle colonne del periodico, della cronaca sportiva, aveva avuto il clamoroso antecedente del d'Annunzio cronista mondano degli anni Ottanta dell'Ottocento. Costume artistico, insomma, più che critica d'arte. Sul pedale dell'antispecialismo è il caso di spingere ancora. Perché il progetto culturale di Pannunzio e degli uomini del gruppo de "Il Mondo" si è dispiegato sulla totalità della scena culturale.
Alla questione si è già fatto riferimento qui sopra: sugli stessi presupposti ragionavano critici d'arte e letterari, teatrali e musicali. Battaglie contro l'irrazionalismo e l'antistoricismo delle avanguardie o, più specificamente, discussioni culturali generali contro l'astrattismo hanno animato le pagine di critica musicale o teatrale del periodico; hanno connotato gli scritti di autori perlopiù attenti alle novità presenti sulla scena letteraria; simili presupposti hanno, infine, orientato giudizi positivi e stroncature su cui sono state costruite le recensioni di libri d'arte.
Soprattutto, la polemica antiastratta o, genericamente, antimodernista, è potentemente balzata agli occhi dei lettori della rivista attraverso le vignette di Mino Maccari e Amerigo Bartoli. Bartoli per il quale, appunta Gino Visentini in un articolo comparso ne "Il Mondo" nell'ottobre del 1958, era impossibile "accettare quelle forme d'arte che, come l'astrattismo, si portano fuori dalla realtà sperimentale, denaturalizzandosi e disumanandosi ".

La matita di Maccari e Bartoli ha fornito un pendant visivo, nel pieno gusto della beffa, alle battaglie di Alfredo Mezio e degli autori delle pagine culturali lungo l'intera stagione de "Il Mondo": dai disegni, sempre accompagnati da salaci motti di spirito, comparsi nel settimanale negli anni in cui era più viva la contrapposizione tra astrazione e rappresentazione, a quelli pubblicati alla metà degli anni Sessanta, quando, sulle colonne del periodico, era stata abbandonata l'idea stessa di un confronto con la modernità. Lo stesso bagaglio con il quale Maccari si era presentato a "Il Mondo" era quello costituito dall'esperienza de "Il Selvaggio" che, come ha scritto Paolo Fossati, era stato "una sorta di galleria permanente del disegno e dell'incisione che fece da polmone alla ripresa della grafica negli anni Trenta". Mezio era stato collaboratore de "Il Selvaggio": sul periodico aveva scritto d'arte, tra la fine degli anni Trenta e l'inizio degli anni Quaranta, e pubblicato disegni. La centralità assunta dall'arte grafica nelle battaglie di cultura di Mezio critico, testimoniata da scritti comparsi in "Il Mondo" fino alla metà degli anni Sessanta, aveva radici sicure.
Allo stesso modo, alla rotta intrapresa nella critica delle arti visive hanno fatto eco le battaglie sostenute dalla rivista sui più pressanti temi d'urbanistica e architettura. Protagonista soprattutto il più assiduo scrivente in materia, Antonio Cederna, che nella sua difesa dei beni storici e paesaggistici d'Italia aveva finito per assumere posizioni di conservatorismo oltranzista: ne sono efficace testimonianza la battaglia con la quale, nel 1954, egli aveva dichiarato la propria ostilità alla costruzione della casa progettata da Frank Lloyd Wright sul Canal grande a Venezia, aprendo, in chiave antimodernista più che specificamente antiorganica, una polemica che vedeva dall'altra parte della barricata non solo altri autori de "Il Mondo", tra cui Roberto Pane, ma soprattutto uomini che, come Carlo Ludovico Ragghianti, costituivano riferimenti ineludibili per gli autori delle pagine culturali del periodico; infine, va sottolineata la polemica con "L'Espresso" e Bruno Zevi sul tema della riqualificazione dei centri storici, polemica apertasi significativamente negli stessi mesi in cui, in fatto d'arte contemporanea, si era consumato il più significativo strappo tra i critici d'arte di punta delle due riviste, Alfredo Mezio e Lionello Venturi. Occorrerà, ora, accennato agli scritti di Barozzi e Arbasino, rimettere la lente sui testi degli autori storici delle pagine d'arte del settimanale. Non è possibile ragionare sulle posizioni assunte da "Il Mondo" a partire dalla metà degli anni Cinquanta se, accanto alle discusse difficoltà di relazione con le più aggiornate ricerche figurative internazionali, non si analizza la contemporanea e straordinaria fortuna critica goduta sulle sue colonne da Jean Dubuffet. A tessere le lodi dell'opera del francese è, naturalmente, il curatore della rubrica d'arte contemporanea, Alfredo Mezio: a partire dal dicembre del 1956 quando, recensendo il volume The Dada painters and poets: an anthology (New York, Wittenborn, Schultz, 1951) e in un ragionamento non clemente sulla traccia lasciata nella storia dell'arte dalle estetiche Dada, il critico salva "il genio caricaturale di Dubuffet". Proseguendo con alcune note a margine dell'esposizione delle opere della collezione Cavellini presso la Galleria d'Arte Moderna di Roma della fine del 1957, mostra nel cui contesto erano state presentate alcune opere di Dubuffet che non davano "un'idea del suo temperamento violentemente satirico e scoppiettante di salute". Concludono la sequenza una riflessione sul rapporto Ensor-Dubuffet e, soprattutto, la recensione alla mostra dell'artista aperta presso la galleria Marlborough di Roma nella primavera del 1963. In questo articolo, Mezio legge, sorprendentemente e provocatoriamente, Dubuffet alla stregua di un "realista", i personaggi delle sue tele come "longanesiani". Si dirà più in là delle ragioni e delle implicazioni a monte dell'operazione di fagocitamento in ventre strapaesano dell'opera dubuffettiana. A testimonianza di un gusto che non era di un singolo scrivente, ma di un gruppo, vengono le analoghe critiche offerte da Giuseppe Raimondi e Claudio Savonuzzi. Il primo, nell'ambito di una disamina a due mostre parigine dell'artista scrive che, in contrasto con il distacco di tanta parte dell'arte contemporanea dal dato di natura, "l'occhio e la mente di Dubuffet sono sempre nell'osservare, e valutare e giudicare, moralmente, le cose, e gli uomini intorno a lui"; il secondo innesta l'opera del francese in una linea di surrealismo che da Jarry e Breton finisce, dopo la seconda guerra mondiale, per comprendere "gran parte dell'attuale action painting", il gruppo Cobra fino, appunto, alla art brut e all'"ultimo anarchico-dada, il De Pisis del surrealismo, Dubuffet insomma".
L'arte di Dubuffet, "ammiratore dei pittori popolari", è arruolata nella falange realista, e costituisce la risposta antiformalistica da un lato al diluvio informale che aveva ingorgato la scena artistica italiana tra la fine del sesto e l'inizio del settimo decennio del Novecento, dall'altro, in chiave primitivistica, una reazione allo stilismo di alcune vecchie volpi della pittura che, come Picasso e De Chirico, nel secondo dopoguerra volevano ancora fare sentire la propria voce. Questione dirimente. All'opera di Dubuffet, Mezio associa sempre quella di Alberto Burri. Fin dal 1954, quando, recensendo una mostra di "pannelli" dell'italiano alla galleria dell'Obelisco il critico osserva come alla base della sua arte ci sia "l'esercizio stimolante della macchia leonardesca di salnitro" trasferito "nel linguaggio dell'arte bruta". L'operazione prosegue negli anni seguenti. Per esempio, nel contesto di una discussione generale sull'arte di Burri comparsa ne "Il Mondo nel febbraio del 1958: al fondo della "estetica degli stracci", Mezio riconosce il peso determinante delle "caricature immaginarie di Dubuffet, fabbricate con centinaia di farfalle morte". E ancora, ad una analoga comparazione Mezio era giunto nel citato Dadà a Berlino. Cruciale, però, in tale accostamento, il giudizio espresso da Mezio a proposito dell'arte di Burri, e emblematico, in questo senso, un articolo comparso ne " Il Mondo" nel gennaio del 1963. Lo scritto, che si informa di una disamina delle opere di Burri esposte presso la galleria Marlborough, si apre con una critica feroce dei cellophane e dei nylon dell'artista: "il cellophane è freddo e repulsivo", e "tutto ciò che l'artista riesce a cavarne è un giuoco formalistico, un puro artificio, di un'impassibilità altrettanto assurda quanto sterile"; "all'esercizio medievale o patarino", prosegue, "succede così l'arte povera, una metafora posticcia che non ha in sé stessa alcuna possibilità di rivalsa poetica"; "questi veli di cellophane sforacchiati, bruciacchiati, sparsi di grumi e di arricciolature, disseminati di crateri da cui emerge il fondo rosso o nero della tela sottostante, restano sospesi nel vuoto come delle bolle di sapone"; di paradossale, conclude, c'è che "il cellophane di Burri sega i nervi, è di gusto liberty". La sensazione, nitida, è che Mezio avesse in mente i coevi testi di Francesco Arcangeli. Il critico de "Il Mondo" pare importare a freddo l'impianto critico arcangeliano, liberandolo delle inquietudini, dell'adesione esistenziale alla base del sistema dello storico dell'arte bolognese insistendo, tuttavia, su un confronto tra l'opera di Burri e pittori di materia come Fautrier e Dubuffet. Proprio Arcangeli, nelle pagine con le quali aveva presentato l'opera di Burri in mostra a Bologna, Galleria La Loggia, tra il 22 di ottobre ed il 1 di novembre del 1957, aveva distinto il concetto di "antistile", l'anti-intellettualismo dell'opera di Dubuffet, dal "vasto e semplice ordinamento della composizione" dell'"elegante" Burri. Il selvaggio, primitivo Dubuffet contro l'eleganza, la persistenza del culto della forma in Burri: qui è la chiave. Ma del fatto che Mezio e gli autori de "Il Mondo" leggessero Arcangeli, esistono prove ulteriori. Nell'ennesimo ragionamento sull'arte di Dubuffet, ancora accostato a Burri, il critico del settimanale diretto da Pannunzio indugia sulla "versione astrattista del problema concernente l'imitazione della natura". Problema risolto attraverso la constatazione che, per Dubuffet, la natura, "concepita non più sotto l'aspetto di un sistema di convenzioni visive", costituiva "un serbatoio di invenzioni e di processi, offerti al pittore in tutta la ricchezza delle loro articolazioni". Soprattutto, continua Mezio, "al concetto di imitazione" deve essere sostituito "quello di comunione", per la comprensione di una pittura astratta "che non riflette ma diventa essa stessa natura": era "la formula a cui Pollock in America, e Morlotti in Italia, hanno dato lustro". Insomma, anche sulle pagine de "Il Mondo", i neonaturalisti sono schierati in forze: e sono i nuovi naturalisti di Arcangeli che, attorno al 1957, aveva tentato di coniugare Morlotti ed i padani con gli espressionisti astratti americani ed i pittori europei di materia. Un ulteriore tassello, almeno, deve essere aggiunto: in una riflessione generale sulla crisi del non figurativo della quale si sostanzia uno scritto comparso nel settimanale nell'estate del 1960, Mezio calca la mano in direzione arcangeliana, con una chiosa che non dà adito a troppe interpretazioni: con la "materia" , scrive, l'arte astratta "ritorna all'imitazione della natura" , "con un' operazione di riporto" indicativa "del malessere in cui si dibatte"; nel versante materico (inaugurato da Rembrandt, in una direzione di continuità della cultura che non fa sconti a quanti asserivano l'ineluttabilità della cesura frapposta dalle avanguardie del Novecento) finiscono per convivere Permeke e Morlotti, Burri e Dubuffet, e perfino "le stesure delicatamente chardiniane di Morandi". Anche relativamente al suggerito ritorno alla natura, è tuttavia plausibile credere che quello di Mezio - lo si deve ribadire - sia un arcangelismo di risulta, scaturito dal distacco dal sostegno di una figurazione stilizzata, terza via tra realismo e astrazione su cui gli autori de " Il Mondo" avevano puntato forte nei primi anni Cinquanta; terza via percorsa, per esempio, da Franco Gentilini, artista caro, in quegli anni, agli autori del settimanale. Sulle colonne de "Il Mondo", insomma, la pittura di Pollock sarebbe recuperata attraverso i testi di uno dei longhiani, proprio nell'anno - non si dimentichi che l'ambiente di riferimento, per gli autori del settimanale, è quello romano - della mostra dell'artista a Valle Giulia curata e presentata dai leoventuriani Bucarelli e Ponente. Perché gli autori de "Il Mondo" avrebbero dovuto guardare ad Arcangeli? Per la battaglia antiformalistica, innanzitutto. Poi, per il sostegno ad una moralità che deriva dal controllo dei mezzi pittorici, "ma specialmente che, con Croce (la cui religione della libertà, per gli autori de "Il Mondo", costituiva la bussola), non conservava tracce di intellettualismo né veniva sottomessa da ardori romantici". Ancora, in Arcangeli era possibile trovare la prospettiva di riqualificazione dell'Ottocento visivo al di fuori dello schematismo di Lionello Venturi, che aveva individuato una cesura troppo netta nella pittura impressionista; uno sbandierato sospetto nei confronti della "voce recitante" di Pablo Picasso; un recupero, senza rotture, della migliore figurazione italiana tra le due guerre, da Carrà a Morandi; infine - e il punto è dirimente, lo si vedrà qui sotto - la prospettiva padanocentrica di Arcangeli si sposava con le polemiche degli autori della pagina d'arte de "Il Mondo" contro l'internazionalismo delle cifre astratte tra neocubismo ed informale.
Polemiche in favore di un'arte delle "regioni", di un rinnovato modello di figurazione che, nella genealogia culturale degli autori del settimanale, contava un ramo ancora strapaesano.

 


       Per la continuità di una linea di rappresentazione italiana, primitiva e magica, e verso un rinnovato modello di arte delle regioni

 


Nella individuazione della migliore figurazione italiana, da contrapporre, progressivamente, al neorealismo ed al neocubismo della fine degli anni Quaranta, all'impressionismo astratto sviluppatosi sotto l'egida leoventuriana negli anni Cinquanta e, infine, all'informale internazionale della fine dello stesso decennio, gli autori della pagina d'arte de "Il Mondo" si muovono sul corrimano sicuro dei testi e delle estetiche dei più volte citati Ragghianti, Brandi, Arcangeli; in tale linea, significativi punti di tangenza sono stati individuati con l'estetica crociana e con i gusti visivi del direttore, Mario Pannunzio; infine, lo si è visto e lo si vedrà, molte delle polemiche contro la modernità si collegano ad una esplicita volontà di provocare, di stupire, hanno una matrice compiaciutamente salottiera, tanto snob da finire con l'assumere colori antisnobistici, da giocare a nascondere la propria cultura.
Prima che, nei primi mesi del 1950, Mezio assumesse il ruolo di critico d'arte contemporanea, è Corrado Sofia, sulle colonne del periodico, a separare il grano dal loglio, a fissare, per i lettori del settimanale, i pittori del canone. In una serie di articoli comparsi nei primi numeri de "Il Mondo", ragiona attorno ad una galleria virtuale, ad una lista di artisti di riferimento: De Pisis, Morandi, Mafai, Maccari, Bartoli, Donghi, Carlo Levi, Savinio. Ad unire questi pittori, l'appartenenza alla medesima generazione (sono tutti nati nell'ultimo decennio dell'Ottocento o nei primissimi anni del Novecento); la frequentazione, per alcuni più assidua, per altri limitata ad alcuni anni della attività (caso a parte, evidentemente, quello di Morandi, al cui nome, tuttavia, era impossibile rinunciare in una operazione culturale che intendeva riaffermare l'autonomia morale degli artisti negli anni Venti e Trenta) degli ambienti artistici e letterari romani"; l'abbraccio ad una figurazione che, dopo l'ultima guerra (il discorso vale anche per Levi, che solo negli anni Cinquanta avrebbe virato verso l'opzione politica e culturale comunista, dopo il postimpressionismo di marca leoventuriana del ventennio e l'azionismo degli anni della Resistenza) non aveva accettato di essere inglobata nella pittura di marca socialista o di piegarsi a direttive di movimenti o di mercato, e aveva continuato a mantenere una posizione orgogliosamente appartata, tra intimismo, espressionismo e declinazioni "magiche". Se Maccari e Bartoli, inoltre, si erano ritrovati fianco a fianco nell'esperienza de "Il Mondo", non va sottovaluta, e della questione si è detto sopra, neppure la componente donghiana e "magica" a monte della stagione di Mario Pannunzio pittore, all'inizio degli anni Trenta. Il primo passo da compiere, per chi si accosti alla lettura de "Il Mondo", è quello di afferrare la necessità, avvertita dagli uomini del gruppo riunito attorno a Mario Pannunzio, di riprendere a ragionare secondo una prospettiva regionale delle arti, prospettiva che si sostituisse all'internazionalismo delle mode figurative astratte (nella stagione compresa tra neocubismo e informale) e a quello della rappresentazione (nello zdanovismo, l'internazionalismo comunista aveva una propaggine visiva). La questione è stata anticipata qui sopra, allorché si è provato ad individuare i punti di contatto di tali istanze con il modello di arte padana di Arcangeli. Quello astratto si profilava, agli occhi degli autori della rivista, come un nuovo accademismo, una maniera internazionale di matrice newyorchese che seguiva di pochi anni l'algido e scenografico neoclassicismo dei marmi del ventennio e che si era sostituito ai pariginismi, al mito stracittadino della prima metà del secolo; neoclassicismo e prospettiva francocentrica che molti di essi avevano fieramente combattuto dal fronte delle regioni dell'arte, perlopiù nelle file di Strapaese. L'insofferenza rispetto alla nuova accademia, al formalismo astratto tra anni Quaranta e Cinquanta e ad una New York nuova Parigi, appare evidente fin dai primi mesi di vita del settimanale. La manifesta, in particolare, il critico delle arti visive, Alfredo Mezio. L'allarme è lanciato nell'ambito del primo scritto sulla Biennale del 1950, nel quale il critico aggira con calcolo il problema della disamina delle opere esposte, preferendo analizzare l'impatto della manifestazione sul paesaggio umano e culturale veneziano: "soffocati dall'internazionalismo dell'arte del Novecento", "i veneziani commentano non senza rimpianto la scomparsa di un tono, di uno spirito e di un color locale". Paga un prezzo salato la Venezia dei "lettori del Gazzettino", la Venezia di Longhi e Guardi, per ritrovare la quale "bisogna risalire verso certe piazzette e certi vicoli d'acqua", ed "è impossibile visitare senza tristezza la saletta che la Biennale ha voluto dedicare quest'anno alla memoria di Favretto". La Biennale, conclude Mezio, aveva invaso Venezia, mutandone l'aspetto: "quest'anno Venezia è una città fauve e post-impressionista come la sua Biennale". La questione è dirimente anche nelle analisi di alcune figure d'artisti comparse ne "Il Mondo" negli stessi mesi. Si vedano, a titolo esemplificativo, gli scritti su Franco Cannilla che, per dirla con le parole di Mezio, come "i Guttuso, i Franchina", aveva cercato uno stile al di fuori della Sicilia e della rappresentazione, ma "dopo di aver fatto il giro completo di tutta l'arte contemporanea", aveva scoperto che "la Sicilia è la migliore delle isole sconosciute"; il giudizio non tenero espresso qualche settimana prima sull'arte di Luigi Bartolini, le cui intuizioni erano spesso complicate dall'imperio delle fonti visive, "una pioggia di colori violentissimi e incandescenti" alla Rouault o alla Vlaminck, un diluvio di riferimenti, cifre stilistiche da Van Gogh a Gauguin sulle quali, in scritti precedenti e coevi, aveva puntato il dito anche Francesco Arcangeli; le considerazioni spese a proposito dei "tappeti su disegni astrattisti" di Carla Accardi presentati alla Mostra del Mezzogiorno, Accardi che era scesa dalla torre d'avorio dell'avanguardismo ed aveva "avuto l'idea di far tessere i suoi tappeti ad Erice, presso Trapani", con "preistorici telai". Ne risultavano lavori che avevano mantenuto "la solidità e la resistenza che sono le caratteristiche dei tessuti fatti in casa". Operazioni simili, Mezio aveva imbastito anche per artisti centrali nel suo ragionamento sull'arte del Novecento, per esempio Gentilini, pittore che Mezio aveva presentato anche sulle pagine del catalogo della XXVI Biennale veneziana. L'artista, scrive Mezio in un articolo del febbraio del 1951, aveva dato il meglio di sé quando, in disaccordo con le nuove cifre imposte dai centri dell'arte internazionale, dove la "specialità" d'ogni artista è "bella e preparata", aveva saputo ritrovare la propria natura di faentino e ceramista, e ritrarre "l'Italia che appare dal finestrino del treno, simile ad un miraggio o ad un immenso trucco archeologico". In questo progetto rientrava, in tutta evidenza, in anni nei quali i sofisticati mercanti newyorchesi stavano cominciando ad assumere il controllo del sistema artistico internazionale, la polemica operazione di riqualificazione dell'artigianato e dell'arte americana dell'Ottocento: "l'arte popolare americana non ha uno stile proprio", ma ciascuna comunità presentava la propria cifra; l'America che, se riusciva a parlare un linguaggio comune, lo faceva "nei materiali, negli strumenti di lavoro e nei bisogni ridotti di una società isolata"; gli umili artigiani americani "non avevano la spregiudicatezza degli artisti d'oggi", "ignoravano l'arte dei pastiches"; i loro oggetti, tuttavia, "ci parlano di un'America patriarcale, arcaica, spontaneamente povera". Per concludere, la presa di posizione più lampante. Nell'ambito della recensione al Premio Nazionale di pittura di Bari del 1955 (significativamente messo al centro dell'agenda critica, dalle cui pagine era già scomparsa l'Esposizione internazionale veneziana), Mezio loda quanto gli organizzatori dell'evento erano stati in grado di fare, vale a dire "riconoscere le zone vive della pittura contemporanea, ed evitare l'estremismo, la moda, lo snobismo". Carattere essenziale per la concezione dell'intellettuale promossa dal gruppo Pannunzio, il fatto che il Premio Bari avesse anche un significato politico: "nato dallo sforzo delle piccole élites radicali del Mezzogiorno", era lo specchio figurativo dell'"illuminismo" liberaldemocratico. Insomma, costituiva la proposta di un riveduto regionalismo dell'arte, in anni in cui, in ambito politico, fervevano i lavori nei cantieri delle Comunità olivettiane e, da parte di alcuni liberaldemocratici vicini alle posizioni degli autori de "Il Mondo", era da poco stata fondata la rivista meridionalista "Nord e Sud". "Oggi che gli artisti parlano suppergiù lo stesso linguaggio internazionale", era possibile tirare una boccata d'ossigeno
solo di fronte a opere come quelle dei marchigiani presentate, nella primavera del 1954, al Palazzo della Quadriennale di Roma: montava, tra i redattori del settimanale, una nostalgia sempre più acuta per le vecchie "esposizioni regionali", per l'arte di una "provincia arretrata, ritardataria, isolata, un po' rustica", evocata attraverso un'aggettivazione di patente matrice strapaesana. Questione altrettanto centrale, quella dell'arte dei primitivi, dei pittori della domenica. Pittura popolare contrapposta ad ermetismo, elitarismo, esistenzialismo, cripticismo delle avanguardie del Novecento. Il filone degli scritti sull'arte degli ingenui è il più consistente, tra quelli portati avanti dal critico d'arte de "Il Mondo", Alfredo Mezio. Tanto per cominciare, l'operazione di recupero dell'arte dei semplici impostata sulle colonne del settimanale non risulta del tutto immune da discendenze crociane: come ricorda Carlo Antoni, il filosofo aveva individuato "una certa affinità tra il poeta e il fanciullo e il selvaggio".
Tale filone è inaugurato in concomitanza col primo scritto di Mezio, centrato sull'arte del "bracciante e disoccupato " Bruno Rovesti; contraddistingue gli articoli usciti su "Il Mondo" nel 1950, quasi a fornire una soluzione visiva alternativa alle mode internazionali presentate a Venezia nell'ambito della Biennale; cavalca Fonda delle iniziative che, tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, avevano promosso la Galleria nazionale di arte moderna e la sua direttrice, Palma Bucarelli, iniziative spesso consistenti in concorsi rivolti a studenti di università e scuole, tra le quali spicca la Mostra di Artigianato artistico dell'Istituto d'Arte Zileri; scivola dalla difesa dell'arte dei bambini a quella di un'altra categoria dimenticata dalle maggiori rassegne d'arte internazionale, quella delle donne, tra le quali spazio precipuo, sulle colonne de "Il Mondo", hanno la "popolana e autodidatta" Deiva De Angelis e la "pittrice improvvisata" Antonietta Raphaël Mafai. Le donne, secondo Mezio, sanno tenere lontano dalle tele gli infingimenti della cultura e dello stile e, in chiave autenticamente primitiva, presentano "tutto ciò che l'astrattismo proibisce all'artista quale materiale spurio e perciò inconciliabile con la vera poesia o la vera pittura". La serie prosegue con una significativa sequenza di scritti comparsi nel settimanale tra il settembre del 1954 ed il gennaio del 1955 mirati alla messa a fuoco dell'arte del "pittore per passatempo" Ilio Vannucci e del barbiere di Ischia Luigi De Angelis; ha, infine, significative code negli anni Sessanta, con scritti come Ruggeri e Carmelina. Alla medesima sequenza e in una chiave che risente sensibilmente delle prese di posizione di Ragghianti a guerra conclusa, sono da annoverare gli scritti sui toscani, dall'"autentico popolano" Lorenzo Viani, "legato a quel mondo di squinternati, di lunatici, di ubriachi, di filosofi da taverna", fino a Mario Marcucci, artista vicino al Rosai "più tirannico" e che rifiuta di mettere "il piede nella trappola di un'arte troppo intellettualizzata". Allo stesso Rosai è dedicata una ingente serie di scritti, a testimonianza del fatto che, negli ambienti de "Il Mondo", sulla difesa dei testi di Ragghianti si era giocata una partita di prima importanza: dell'arte di Rosai è marcata, in particolare, la "autenticità di autodidatta", dimostrata anche dalla "fedeltà al Comune", dalla sua fiorentinità, da "l'istinto riottoso del popolano" che lo aveva "tenuto ostinatamente al di fuori della Città letteraria, dove regnavano gli scrittori del Marzocco e trionfava la retorica dannunziana del rinascimento".
Il gusto per l'arte popolare, in alcuni passaggi, spinge il pedale dello spiritualismo: lo testimoniano l'insistenza di Mezio sull'arte di Fiorenzo Tornea e i frequenti richiami al magistero critico di Edoardo Persico. Tornea inserito da Mezio nel novero degli artisti del canone, all'inizio del 1951; Tomea le cui opere sono, tra 1952 e 1953, oggetto di attente analisi, tra recensioni ad esposizioni e commenti a monografie. Nel contesto delle letture fornite dagli autori de "Il Mondo", Mezio su tutti, alla sottolineatura delle componenti popolari nell'arte tomeiana si salda la marcatura dell'elemento del "territorio", del rapporto tra arte e regione: nell'ambito di una mostra a Cortina, scrive Mezio, Tomea è, tra gli espositori, l'unico, autentico "indigeno". L'attenzione sul mito di uno dei cavalli della scuderia dei cristiani di Persico ha code ancora negli anni Sessanta: a ulteriori squarci aperti sulla pittura di Tomea, vanno aggiunte alcune riflessioni sul lascito culturale di Persico. Dopo le caute prese di posizione in favore dell'espressionismo astratto e dell'impressionismo non figurativo cresciuto sotto l'ala di Lionello Venturi, l'opzione Persico-Tornea è, ancora una volta, una dichiarazione di fede romantica. Nemici, come sempre, l'accademismo, nella vecchia veste classicista e in quella astratta, nel secondo dopoguerra rappresentata dalla ricerca concreta, geometrica.
Ultimo punto: il senso del recupero delle poetiche del realismo "magico" e italiano. Per dipanare la matassa, è necessario mandare l'attenzione agli scritti in memoria di Antonio Donghi che compaiono ne " Il Mondo" tra il 1962 ed il 1964, qualche mese prima ed appena dopo la morte dell'artista. Omaggi a Donghi, artista che, si è scritto in più di una occasione, aveva lasciato il proprio marchio sugli esordi pittorici di Pannunzio; omaggi, tuttavia, che esulano dal ricordo personale e, come rivela un articolo, sempre di Mezio, del marzo del 1964 centrato sul volume di Mario Praz Casa della vita, rientrano in un filone di rinnovato interesse nei confronti della questione del magico.
Magico italiano, tuttavia. Un magico dalle solide radici storiche, tenacemente contrario ai filosofismi bretoniani, ai cifrari avanguardisti. Tra le polemiche ingaggiate sulle colonne de "Il Mondo", quella aperta contro il surrealismo è seconda solo a quella indirizzata nei confronti del realismo socialista; polemiche che, anzi, in alcuni casi coincidono, quando alle discussioni generali sulle caratteristiche del movimento si associano riflessioni a proposito della militanza comunista di molti dei suoi membri. Il problema dell'ostilità degli autori de "Il Mondo" rispetto alle poetiche del surrealismo ha una doppia chiave di lettura: da un lato un sospetto tutto regionalista, figlio di una formazione strapaesana, nei confronti del connotato stracittadino ed internazionalista del surrealismo; dall'altro, altrettanto potente, spinge lo stigma che sul movimento aveva apposto Benedetto Croce, della cui avversione per l'irrazionalismo, il narcisismo decadentistico, l'elitarismo dell'arte del Novecento si è già scritto. Sicché già i primi numeri de "Il Mondo" presentano attacchi impietosi ai corifei internazionali del surrealismo, recensioni ad esposizioni che assumono i caratteri di discussioni culturali generali: è così, per esempio, per gli scritti di Mezio centrati sulle mostre di Fabrizio Clerici, Stanislao Lepri ed Enrico Donati all'Obelisco, rispettivamente nella primavera del 1949, nel marzo e nel novembre del 1950; ragionamento analogo, infine vale per bilanci complessivi sul movimento, tra i quali si segnala quello offerto negli stessi mesi da Bruno Romani. La polemica procede, inesorabile, fino agli ultimi anni della stagione de "Il Mondo": al di là del menzionato Il rifiuto totale, di Giorgio Granata, è possibile segnalare interventi che, opera di più di una penna, dimostrano come, sull'antisurrealismo, il fronte degli autori della rivista avesse saputo compattarsi saldamente, e marciare sulle due strade delle arti e della filosofia: emblematico, in questo senso, Surrealismo e simbolismo, di Michele Biscione.
Occorrerà, per tirare le fila del problema del magico italiano, richiamare alla mente l'ingente pattuglia degli scrittori del surreale già dagli anni Trenta vicini a Pannunzio: Delfini, Landolfi, Morovich. Uomini che hanno seguito il direttore anche nel corso della stagione de " Il Mondo". Occorrerà rammentarne, inoltre, la componente culturale vernacola, la collaborazione alle riviste dirette tra le due guerre dai nani di Strapaese, Maccari e Longanesi. A segnare la rotta, ancora, sono gli scritti di Alfredo Mezio, che già nel giugno del 1954 individua una linea italiana al surrealismo, linea che affonda le proprie radici nel Cinquecento dell'Arcimboldi: nel rapporto tra l'arte di questi e la contemporaneità, il critico afferma la pregnanza anche culturale del confine naturale alpino, negando ogni ipotesi di affinità "tra la fantasia dechirichiana" dell'Arcimboldi, "così allegra e scoppiettante di vitalità", e "le rappresentazioni mortuarie
dei Dall, dei Magritte e dei Tanguy con la loro carica di sottintesi sessuali, l'ostentazione tecnica e la perversità a freddo". Ancora, ribadita la via italiana al magico nel dicembre dell'anno successivo, ascrive ad essa le ricerche di Zuccheri, i cui Bestiari affondano le radici nella "vecchia natura morta secentesca a base di ucellame", natura morta che pareva morta "con le oleografie di Strapaese", e che faceva da contrappeso ai "barbarici" bestiari picassiani. Insomma, lontana dalle componenti freudiane del surrealismo francese, la "bonomia" popolare dell'arte di Zuccheri non portava con sé alcuna traccia "di quell'affettazione manieristica e conturbante"; non è casuale che, pochi anni prima, Maccari avesse lavorato alle incisioni delle Bestie del '900 di Aldo Palazzeschi. Nel solco dell'Italia magica, allora, c'è spazio anche per Dino Buzzati, il cui surrealismo, in barba ai "fanatici della psicanalisi", "non ha radici nella psicologia": "esso pesca nel mondo dell'immaginazione", e "i suoi spunti figurativi" "ricordano lo spirito del Giornalino della Domenica". Mezio avrebbe ribadito simili temi anche con la bocca lontana dall'altoparlante costituito dal settimanale pannunziano e fino alla metà degli anni Settanta quando, volgendo la mente alla stagione de "Il Selvaggio", avrebbe affermato che alla rivista "deve qualcosa anche il surrealismo che, almeno in Italia, è figlio dell'Arcimboldi piuttosto che di Freud".

 


          Da Longanesi a Longanesi: in arte e cultura, gli autori de "Il Mondo" guardano ancora al vecchio maestro di giornalismo.

 

 

Non solo Maccari, nella testa degli autori della pagina d'arte de "Il Mondo". Anche Leo Longanesi. È doveroso cominciare da alcuni dati già discussi. A partire dal costante riferimento da parte di Alfredo Mezio al magistero artistico, non solo culturale di Leo, l'altro nano di Strapaese. Riferimento che, per il critico, era la naturale continuazione di dichiarazioni di stima pubblicate sulle colonne di quotidiani e periodici negli anni Trenta e Quaranta. Almeno due, tra i punti indagati, devono essere ribaditi, per afferrare i contorni del problema. Primo, la legittimazione delle ricerche visive di Dubuffet sulla scorta della somiglianza dei personaggi delle sue tele ai pupi "longanesiani ". Per Mezio, insomma, alla radice del realismo di Dubuffet, c'è la grafica europea degli anni tra le guerre, in Italia alimentata soprattutto dalle vignette comparse ne "Il Selvaggio". Secondo, la affermata centralità della figura di Longanesi dentro tutte le ricognizioni sull'arte grafica, in particolare quella proposta nel quadro della disamina delle opere esposte alla Biennale della caricatura e dell'umorismo, esposizione articolata appunto attorno ai lavori di Longanesi e evento il cui catalogo è accompagnato proprio da una introduzione di Mezio. Non basta. Ulteriori indizi spingono a ragionare sul fatto che la spaccatura tra Mezio e Longanesi, tra Pannunzio e Longanesi sia solo e tutta politica. Uno su tutti dà la misura della questione. In un ragionamento sui pittori della domenica e sull'arte di Alfredo Ruggeri e Carmelina di Capri del febbraio del 1961, Mezio ripercorre la storia delle esposizioni di pittura popolare, filone centrale, si è detto, tra quelli informanti il gusto dei collaboratori de "Il Mondo"; e marca, in tale panorama, il ruolo di apripista di Leo Longanesi (sua la prima mostra sugli "ingenui", scrive il critico, che "risale all'anno della Liberazione di Roma"), ed il successo che i quadri degli artisti della domenica avevano riscosso nell'ambito degli intellettuali che, tra anni Venti e Trenta, avevano animato gli ambienti del Caffè Aragno. La riqualificazione operata da Mezio nei confronti di Leo è ancora più esplicita in un articolo comparso ne "Il Mondo" solo qualche mese prima, Longanesi e bodoni. Commentando "il cortometraggio su Longanesi, di cui il regista Primo Zeglio" (anche lui autore de "Il Mondo", e contato da Romano Bilenchi tra gli Strapaesani torinesi del 1931, anno del trasferimento a Torino della redazione della rivista "ha iniziato la lavorazione per la Documento Film", Mezio si concentra sulla stagione di "Omnibus", rivista presso la quale - nelle parole di Mezio c'è in tutta evidenza la volontà di riscattare il ruolo di Pannunzio e Benedetti, collaboratori della rivista - Longanesi aveva mobilitato "scrittori che il fascismo tollerava come il fumo negli occhi". Qui è la novità dello scritto di Mezio, che nell'ambito della cultura di fronda e della sua eredità colloca una cesura che intende separare quanto meno politica e cultura, contrapponendo Longanesi, voce di "una società conservatrice ma nutrita di cultura fino alla cima dei capelli" , oltreché ineludibile riferimento per i pannunziani, alla "retorica plebea del regime". Stanti divergenze insanabili sul piano politico e civile, sulle pagine de "Il Mondo" si era cercato a lungo di glissare sulla figura di Longanesi. La sua morte, tuttavia, avvenuta nel 1957, aveva costretto ad una presa di posizione. Nell'ambito di un coccodrillo pubblicato nel "Taccuino", i redattori della pagina politica del periodico procedono con cautela, cercando di separare le battaglie di cultura condotte negli anni tra le due guerre da un intellettuale definito un "esempio d'indipendenza, di libera critica, di dissidenza" e il cui ideale "era un'Italia civile, fattiva, vivace moderna", dal "qualunquismo che trabocca dalle pagine dell'opera recente" e, il riferimento è ineludibile, dalle colonne de "Il Borghese". Più spesso, al nano di Strapaese erano andati riferimenti inseriti in pagine di memorialistica soprattutto a firma Leonetta Cecchi Pieraccini. Nei suoi "Aneddoti e occasioni", ricordi carichi di nostalgia per la Roma spazzata via dalla modernizzazione e dalle trasformazioni urbanistiche in atto a partire dagli anni Trenta, non mancano allusioni a Longanesi, al suo ruolo di editore ed organizzatore culturale; anche qui, in alcuni casi, con tributo d'obbligo alla stagione d'"Omnibus", che aveva visto lavorare, al fianco dell'intellettuale, Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti. Alla medesima temperie culturale sono da ricondurre, infine, le tenere suggestioni ricavate da parte di più di un collaboratore de "Il Mondo" dalla lettura di Almanacchi e Strenne, pubblicazioni che avevano traguardato agli anni Cinquanta e Sessanta un gusto letterario e visivo che, in Italia, era stato soprattutto quello degli uomini della cultura di fronda. In pubblicazioni che, ancora nel secondo dopoguerra, presentavano illustrazioni di Maccari Bartolini, testi di Italo Cremona. Longanesi, però, e al fatto si è già fatto riferimento, voleva dire anche "Il Borghese", rivista sulla quale, qualche anno fa, ha fatto luce uno studio di Raffaele Liucci. Gli autori de " Il Mondo", "I Borghese" lo leggevano eccome. Da un lato contrastandone le posizioni politiche, nel quadro di battaglie a tutela dell'antifascismo di segno democratico e del dettato costituzionale, dall'altro per un interessante confronto sulle posizioni espresse in fatto d'arte e letteratura. È ancora Alfredo Mezic che ce ne dà prova, Mezio attraverso i cui scritti è possibile tirare i delicati fili del rapporto tra le linee culturali sulle quali le due riviste si sono mosse tra anni Cinquanta e Sessanta. Un suo scritto, in particolare, fa chiarezza: Pesce d'Aprile, del settembre del 1962. Una rilettura storico-critica del surrealismo, a commento del volume Le Surrealisme di Patrick Waldber (Genève, Skira, 1962). Fondamentali le righe centrate sul versante italiano delle poetiche del surreale: nulla più che "imitazioni provinciali", scrive il critico, quelle partorite in Italia. "Basta sfogliare i pochi numeri di Circolare sinistra", "che alcuni anni fa" aveva tentato di "acclimatare in Italia lo scandalo surrealista". La rivista dimostrava soltanto che "i surrealisti torinesi sono crepuscolari e leggermente qualunquisti", e "si servono di materiale di seconda mano" che, peraltro "Longanesi sfrutta sul Borghese con altro spirito ed energia". "Arruolato per ragioni d'affetto" nella fine del surrealismo, al termine del ragionamento sui più importanti lavori del movimento, un "poisson" di Maccari - l'altro dei nani dell'Italia vernacola tra le due guerre -, il pezzo più notevole tra quelli prodotti di qua delle Alpi. Quanto a "Il Borghese", l'analisi deve essere approfondita. Estesa, almeno per quanto attiene agli anni della direzione di Longanesi (1950-1957), alle sue posizioni in materia di arti figurative. Confrontata, in un dialogo stringente, con la specola sulle arti costituita dalla rivista di Mario Pannunzio che, come si è scritto, sul crinale fra il quinto ed il sesto decennio del Novecento è impegnata in potenti dichiarazioni antiastratte. "Il Borghese" nel quale, per cominciare, a prendere la parola è lo stesso direttore, che fin dai primi numeri, in un discorso carico di nostalgia per la Roma tra le due guerre, la Roma di Bartoli e Vespignani spesso evocata sulle colonne de "Il Mondo" da Leonetta Pieraccini, dichiara guerra aperta all'arte astratta ed al nemico giurato Lionello Venturi, col cui "velo intellettuale" "è meglio pulirsi il naso". Nello stesso torno di tempo, la rivista, in significativo accordo con le posizioni assunte in quelle settimane dai critici del settimanale di Pannunzio, aveva cominciato a prendere di mira gli artisti che, a partire dalla stagione delle avanguardie, più erano stati indulgenti con lo stile, con la maniera. Il caso Severini è emblematico. Liquidato su "Il Mondo" da Alfredo Mezio con l'infamante etichetta di "pittore di testa, razionale", "sempre avido" delle "sottigliezze professionali" proprie di un artista che "non ha nulla da dire", ancorato ad un decorativismo di echi settecenteschi, egli non avrebbe trovato, tre mesi più tardi, da parte degli autori della pagina d'arte de "Il Borghese", parole più concilianti. La sua pittura, scrive un anonimo redattore del periodico diretto da Longanesi, "continua, col belletto sulle grinze, a presentarsi in pubblico con abiti di vecchia foggia"; artista, insomma, la cui più "grande novità" era quella di "scoprire un nuovo linguaggio". Tangenze evidenti tra "Il Mondo" e "Il Borghese" si rilevano anche nella polemica indirizzata contro l'elitarismo avanguardista, perlopiù di segno esistenzialista, degli intellettuali parigini: tra quanti animavano, per esempio, gruppi come il "Dupont-Latin", scrive Enrico Fulchignoni in un articolo comparso nella rivista di Longanesi nel dicembre del 1951, nessuno "dimostra il minimo talento, e soprattutto nessuno lavora a crearsi una tecnica, un mestiere, tanto nel campo delle
lettere che in quello delle arti", ambito in cui le produzioni "sono, nella quasi totalità, di tipo surrealista". Il significato del ragionamento si comprende ancora meglio se si fa procedere una comparazione tra la predilezione per l'anti-intellettualismo, l'antiformalismo degli artisti della domenica
propugnato dagli autori de "Il Mondo", e le analoghe battaglie sostenute dagli autori de "Il Borghese" che, per esempio, nella primavera del 1956 avevano dato assoluta centralità ad una esposizione di quadri di vigili urbani alla Galleria romana del Manichino.
Ad accomunare le riviste, ancora, argomentate, granitiche riserve espresse nei confronti dell'arte di Pablo Picasso; se per quel che concerne le polemiche tra Picasso e gli autori de "Il Mondo" si è scritto, per quel che attiene a "Il Borghese" sarà necessario riportare almeno uno stralcio del testo riservato da Mario Monti all'artista in occasione della grande mostra milanese del 1953. Nello scritto citato, la denuncia dell'avanguardismo fa il paio con attacchi indirizzati in chiave d'arte nazionale all'ecumenismo delle mode visive del Novecento: l'evento, scrive il critico, "ha permesso di far conoscere opere d'arte della potenza del manubrio di bicicletta-attaccapanni a quegli strati sociali che continueranno ad ignorare i capolavori dimenticati nelle loro chiese e nei musei". Emblematica anche la linea scelta a proposito delle Biennali di Venezia. Qui, i punti di contatto con la rotta intrapresa dagli autori de "Il Mondo" si fanno ancora più evidenti. Se, come si è visto, questi ultimi avevano optato per un eloquente silenzio a partire dal 1956, silenzio interrotto solo da alcune accuse rivolte nei confronti del sistema delle arti e delle giurie selezionatrici e premianti, i redattori de "Il Borghese" avevano fin dal 1950 preso la via dello scontro frontale con finanziamenti sbagliati, scelte artistiche discutibili, "competenti" tromboni, " universitari, burocratici o sindacali". Alla Biennale, nei mesi successivi si sarebbe aggiunto un altro bersaglio, vale a dire la Triennale che, nel 1955, aveva ricevuto dallo Stato e dal Comune di Milano sovvenzioni per duecentoventicinque milioni.
Ancora due questioni, niente affatto marginali. Primo, la convergenza tra "Il Mondo" e "I Borghese" travalica lo spazio della critica delle arti contemporanee, e fa sentire la sua presenza anche nell'ambito della disamina dei più pressanti problemi di urbanistica ed architettura: pel esempio, sulla polemica scoppiata nel 1954 attorno al progetto di Frank Lloyd Wright per il Canal Grande a Venezia, sulle colonne de "Il Borghese" Antonio Fornari si assesta sulle stesse posizioni sulle quali, ne "Il Mondo ", si era mosso Antonio Cederna, e in una discussione generale contro il modernismo conclude, polemicamente, che ormai ogni città italiana poteva "vantare il suo wrightiano, così come già da tempo il suo picassiano". Secondo, non è senza significato, per chi voglia definire il gusto visivo espresso dalle due riviste registrare un movimento, un passaggio di collaboratori delle pagine d'arte da un giornale all'altro nello specifico, è dirimente appurare come, nell'agosto del 1954, ne "Il Borghese", sia pubblicato
un disegno di Amerigo Bartoli, attraverso la cui matita, come si è scritto, ne " Il Mondo" si è operato un costante lavoro al fianco delle ricerche artistiche dell'oltranzismo astrattista. Occorrerà, per chiudere, tenere presente la collaborazione, costante, col giornale di Longanesi di Soffici e Bartolini. Quest'ultimo, reduce dall'esperienza di "Mal'aria" (1951-1954), rivista maremmana diretta da Arrigo Bugiani che aveva traguardato agli anni Cinquanta arte e culture dal sapore ancora tutto strapaesano, intensifica la propria collaborazione a "Il Borghese " nella seconda metà degli anni Cinquanta, tra racconti e scritti d'arte che confermavano, in sostanza la dichiarazione del Fallimento della pittura espressa nel 1948, di ritorno dalla prima Biennale dell'Italia democratica.
Soffici, invece, sarebbe diventato collaboratore fisso de "Il Borghese" dopo la morte di Longanesi perlopiù occupandosi della rubrica "Sull'orlo dell'abisso" o della memorialistica delle Pagine di diario, all'interno della quale è efficacemente ricostruito l'ambiente culturale romano degli anni Trenta: centrali, e ormai non può stupire, le figure di Leonetta Pieraccini, Mino Maccari, Amerigo Bartoli, insomma, alcuni tra i più significativi membri della redazione de "Il Mondo". Soffici non avrebbe nemmeno disdegnato di occuparsi d'arte, a partire da Chiave della pittura moderna, comparso nel periodico il 16 gennaio del 1958, mescolando, così, cultura e mondanità.
Nel secondo dopoguerra, insomma, Longanesi (e poi Soffici) e Maccari si schierano in due campi politicamente contrapposti, traghettando tuttavia fino agli anni Cinquanta quanto era stato possibile salvare della cultura di fronda, delle riviste di Strapaese, del gusto del rotocalco. "Il Mondo" "Il Borghese" usano l'un l'altro il randello quando c'è da discutere di Repubblica e Resistenza, ma si strizzano l'occhio quando sul tavolo c'è la polemica contro l'arte contemporanea. Non c'è prova migliore di quella che lascia uno scritto di Piero Buscaroli comparso nel periodico milanese nel giugno del 1960, nell'ambito di un commento alla Trentesima Biennale di Venezia: se la prima parte dello scritto serve a liquidare quadri astratti "tutti uguali, tonti, tetri, lugubri ", e sculture "iettatorie e oscene", la visione di alcune opere di Maccari nella sala del bianco e nero fa stringere il cuore de giornalista: "ma tu, Maccari, che cosa ci fai là in mezzo?".
 

 

Lorenzo Nuovo

 

 

 

p.s.: per motivi tecnici, nel testo, sono state omesse le note dell'autore.

 

 


 

La pagina d'Arte de "Il Mondo" di Mario Pannunzio                            Edizioni della Laguna