Rapporti tra il movimento futurista di Marinetti e la rivista "Der Sturm"

 

 


Alessandro Masi

 


 

 

 

Lo studio analitico dei rapporti tra il movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti e la rivista "Der Sturm", fondata a Berlino nel 1910 da Herwarth Walden, che Marina Bressan ci propone in questo libro, colma un vuoto della storia dell'arte del XX secolo e ricuce i fili di una vicenda complessa che pose in gioco interessi, passioni, polemiche e duri scontri tra due concezioni diverse di interpretare la modernità: l'italianissimo Futurismo, con la sua invenzione del dinamismo e della velocità, contro la profondità del pensiero estetico tedesco, ancora ricolmo di aspirazioni idealistiche tardo romantiche. E tra i due fuochi un uomo coraggioso, il tedesco «organizzatore di mostre a naso ebraico, pesanti occhiali e zazzera giallo sporca polverosa», una natura combattente carica di energia, instancabile nella diffusione e nella mediazione dell'arte di avanguardia, Herwarth Walden, che con la sua rivista "Der Sturm" ebbe il coraggio di stabilire un elemento conduttore tra la dirompente vitalità mediterranea di Marinetti l'italiano «atletico e muscoloso, elegantissimo, irruento, generoso, intuitivo» e l'impeto selvaggio degli espressionisti tedeschi.

Fondata nel 1910, la rivista "Der Sturm" cessò le pubblicazioni nel 1932 dopo aver ospitato per più di un ventennio firme prestigiose della letteratura come Altenberg, Dehmel, Lasker-Schüler ed artisti come Oskar Kokoschka, Kandinsky, Hodler, Adolf Loos e molti altri ancora.

Il libro di Marina Bressan circoscrive dettagliatamente e con rigore filologico, il tratto di storia che unì i destini del gruppo futurista al primo apparire in Germania con la mostra del 1912 promossa da Walden, fino all'epilogo della seconda generazione del movimento negli anni Trenta, ponendo bene in vista quelli che furono i tratti spumeggianti di un rapporto di odio e di amore, suscitato innanzitutto dalla vis polemica marinettiana e dalla spesso incompresa lettura dei quadri di Boccioni, Balla o Severini.

Marinetti subì il fascino di Berlino che ai suoi occhi appariva come una grande capitale del modernismo, ricca di fascino e di attrazione. «Guarda Berlino: è una meravigliosa città futurista, priva di ruderi, di difensori di ruderi e passatisti», aveva confidato a Memoli in un'intervista rilasciata a "Il Giornale d'Italia" il 30 ottobre 1913 dopo aver presentato in settembre, all'inaugurazione dell'Erster Deutscher Herbstsalon, la grande rassegna d'arte voluta e organizzata da Walden. Come Milano, Parigi o New York, Berlino sembrava ai suoi occhi un immenso mare di cemento «città piena di folla, di traffico di vetrine dalle reclames elettriche luminose.» I futuristi rimasero impressionati dalle grandi componenti meccaniche e dinamiche che confluivano a Potsdamer Platz e in particolare dal «meccanizzato Polizei distributore di direzioni e lascia correre semaforico». In realtà, Marinetti con la sua retorica e il conseguente elogio della società tedesca e di un'utopica visione di una terra che «avrebbe dato finalmente tutto il suo rendimento stretta nella vasta mano elettrica dell'uomo» altro non era che un'accesa critica contro l'arretratezza politica ed economica del sistema italiano.

La mostra di Walden alla Sturm-Galerie di Königin-Augusta-Straße 51, suscitò diverse ed aspre critiche. Nonostante che in Germania il Manifesto del Futurismo del 1909 fosse già conosciuto, ciò che spiazzò i commentatori e dette loro occasione di polemica, furono le opere stesse, quei quadri dalle forme disordinate e irrazionali, dall'idea di volere a tutti i costi stupire il pubblico con effetti stravaganti, senzazionalistici e originali a tutti i costi. Ad iniziare dalla stroncatura di Richard Nordhausen a cui seguirono quelle di Max Oppenheimer e di Max Deri, tutta la critica tedesca parlò di visioni confusionarie, di ciarlataneria futurista e di visioni disordinate. «Degli stessi futuristi – scrive Nordhausen - i signori Boccioni, Severini, Carrà e Russolo, non ci si può completamente fidare. Questa prima esposizione dei futuristi a Berlino è anche la più significativa esposizione della pittura italiana che sia mai stata sottoposta al giudizio dei tedeschi.» Mostra difficile da comprendere anche per Oppenheimer che riscontra in quelle tele «visioni disordinate di ricordi di qualsiasi esperienza, fermati nella loro fluidità e mancanza di connessione.»

Alla critica del movimento pittorico futurista si contrapponeva un'apertura ai testi letterari: "Die Aktion" ospitava nel 1913 alcune poesie dello stesso Marinetti tratte dalla raccolta La Ville Charnelle ed altri racconti. In ogni caso, come opportunamente avverte Marina Bressan, si stava reagendo troppo frettolosamente nei confronti del Futurismo, prendendo posizione ancor prima di averlo conosciuto. Alla superficiale analisi artistica, reagirono difatti positivamente letterati e poeti come Hans Thoma, allorché, ammirando le opere dei futuristi, scrive: « Il Futurismo è un grande passo. Esprime un atto liberatorio. Non è una direzione, ma un movimento. Ora per meglio dire: è il movimento degli artisti protesi verso il futuro. Non è questione di singole opere.». E con un pizzico di invidia, sottolinea che sia «un peccato che il paese dell' "interiorità" debba lasciarsi infondere il coraggio dall'esterno.».

Particolarmente interessante risulta la lettera aperta che Alfred Döblin indirizza a Marinetti su "Der Sturm" nel numero 110 del maggio 1912, con la quale pur portando il paragone con Baudelaire e aprendo ad intermittenza di rubinetto i suoi sentimenti di ammirazione, non può fare a meno di criticare quelli, che secondo lui, sono anche i limiti stessi dell'iperbole futurista, ora troppo generosa, ora troppo limitata nell'offrirsi quale riferimento della realtà e del forte personalismo con cui Marinetti conduce il movimento, rischiando di comprometterne spesso il valore. In ogni caso si può parlare di corrispondenze di amorosi sensi tra italiani e tedeschi, tra Futurismo ed Espressionismo, tra intimismo e naturalismo, come evidenzia il critico Gottfried Benn nella introduzione alla raccolta Lyrik des expressionistischen Jahrzehnts, rimarcando la continuità storica e la forte identità della natura culturale germanica: « da Goethe a George a Hofmannstahl la lingua tedesca ha avuto un'omogenea sfumatura, una direzione unitaria, un comune sentimento: ora è iniziata la sollevazione. Una sollevazione fatta di sovvertimenti, estasi, odio, di nostalgia di nuova umanità, realizzata con frantumazione della lingua tesa alla disgregazione del mondo.» La miccia era stata accesa dal Futurismo con il suo dirompente Manifesto del 1909, contenente ardori già presenti nella natura stessa dell'Espressionismo tedesco. Semmai differenze ci fossero state, queste riguardavano le diverse anime dei due movimenti: il primo aperto ad una più ampia comunicazione sociale, l'altro ancora prigioniero di una tradizione d'avanguardia ancorata a schemi romantico-borghesi. Unire idealmente i due movimenti in un unico contesto fu lo sbaglio – a detta di Marinetti – dello stesso Walden, accusato di «aver mescolato i futuristi con gli espressionisti e altri che nulla hanno a che fare col nostro movimento.» In realtà non era questo lo scopo di Walden, le cui simpatie per il movimento italiano coincisero sempre con l'obbiettivo di mantenere "Der Sturm" un punto di riferimento comune a tutta l'avanguardia internazionale, come ebbe a riconoscergli nel 1918 Lothar Schreyer ponendo l'accento sulla instancabile azione della rivista di tener viva la polemica contro ogni errore di «posizioni estetiche e critiche.»

Al di là della vivace dialettica innestata dall'entrata a gamba tesa del Futurismo nella vita artistica tedesca, va detto, per amor del vero, che da più parti si accesero focolai di simpatia per la pittura e la poesia italiane d'avanguardia, testimoniati nella prosa narrativa di Max Hermann e nella stessa poesia di Joachim Ringelnatz. L'attrazione per la distruzione della sintassi, delle regole grammaticali, il dinamismo della parola e l'esplosione del gesto fu, soprattutto per i più giovani, un evento fatale come dimostra il caso di Johann Becher con la sua invenzione della «funzione semaforica degli aggettivi», mutuata dal Manifesto del 1913 di Marinetti sulle Parole in libertà. L'idea comune fu quella di «dar vita a una nuova tradizione sulle ceneri di quella ottocentesca», una sorta di amalgama ideologico composito e disorganico nello stesso tempo che univa italiani e tedeschi nell'intento di liquidare in un colpo solo il retaggio romantico della cultura europea. Nonostante ciò, sulle pagine della rivista monacense "Die Plastik" Tim Klein affermava: «il Futurismo non è un movimento ma un guazzabuglio di indirizzi che sembrano avere in comune soltanto il radicalismo dell'innovazione.» In realtà, se mi è concesso affermarlo in questa sede, furono proprio le funzioni antinaturalistiche dell'avanguardia futurista ad accendere il fuoco del cuore romantico e per questo maggiormente vicine alla sensibilità tedesca, a quella data ancora appesa ai legacci ottocenteschi dell'Assoluto hegeliano e le tese corde di una legittima aspirazione alla modernità. Non era stato Goethe a scrivere uno dei passi più belli sulla natura? Non era l'Espressionismo la fonte più diretta della ragione con l'istinto? Della materia con la forma? Ed infine della ragione con la natura? Rimaneva difficile liquidare tanto presto il monumento di Goethe sostituendolo all'idea di una macchina, per quanto portentosa e miracolosa quanto capace di evocare un nuovo spasimo, una nuova sensibilità. «Quale profonda nostalgia ho di te, natura, di sentirti fedele e cara!» scrive Goethe a Lavater. Avrebbero mai potuto le linee forza di Balla, Russolo, Severini o il dinamismo plastico di Boccioni, il suo sensitivo appello all'invisibilità degli stati d'animo, superare di colpo quel massiccio sentimento di soggezione dinnanzi alla natura degli artisti tedeschi? Dalla lettura delle pagine di "Der Sturm", dal vivo dibattito acceso dei suoi polemisti, dalla criticità dei giudizi, dall'entusiasmo dei suoi letterati e poeti, si comprende quanto fu sofferto e incompiuto il tentativo di disarcionare di colpo la coscienza moderna dalle secche nebbiose ottocentesche. Il Futurismo in generale e in particolare in Germania, fu sofferto e combattuto, amato e odiato più che altrove in virtù di una doppia carica tensiva che legava il mondo tedesco al suo più recente passato. Semmai un contatto fu stabilito tra Futurismo ed Espressionismo, questo fu dovuto alla capacità del primo di semplificare e accentuare la spinta naturalistica trovando originalmente nel secondo i mezzi espressivi per risolvere vecchi e nuovi problemi (G.Au-Beck, 1914). L'attivismo politico, la brama di velocità, l'esaltazione del mondo moderno, furono così storicizzati dalla cultura tedesca fino a ricomprenderli in un fenomeno di ritorno verso la spiritualità e altre forme primigenie.

Cacciato dalla porta, l'ideale futurista rientrava di prepotenza dalla finestra, secondo un'accezione tutta espressionista per quella punta di vitalità, «per quella tempesta di totale eccitazione, per una spiritualità sempre più elevata, per una genialità sempre più grande» (Otto Flanke). Pur riconoscendone i meriti, veniva però precluso al Futurismo l'accesso ai gradini più alti della spiritualità: «la pittura futurista si scatenò in primo luogo nella rappresentazione movimentata dello spazio; via via ogni opera espressionista ha trasformato la contraddittoria staticità delle iniziali tendenze artistiche nel dinamismo intelligente della nostra visione» (Paul Hatvani).

Futurismo sì Futurismo no? Il dilemma critico di cui si circondò Marinetti a Berlino, grazie alla sua esuberanza, alle novità dirompenti dei suoi proclami, alla vitalità dell'arte del suo gruppo, finirono così per stringersi come un cappio intorno al suo più convinto sostenitore: Walden. Costretto a replicare duramente ad una nota di Pfemfert – apparsa sulla rivista "Die Aktion" così scrisse sull"'entrata solenne" del Futurismo a Berlino: «Ciò che era arrivato da fuori era qualcosa di mozzafiato, dunque al di là di ogni aspettativa, si ché, e non per cattiva educazione, ci si dovette mettere le mani tra i capelli e appoggiarsi ad una sedia per non cadere.»

L'amarezza e la strenua difesa di Walden contro l'acidità dei giudizi dei suoi connazionali a riguardo della novità futurista, ha qualcosa di sentimentalmente eroico. Il granito tedesco contro cui egli dovette battersi, altro non era che una sostanziale e radicale divaricazione di interpretazioni di due mondi contrapposti e, forse perfino coincidenti. Come la scintilla sta all'incendio, così il Futurismo innescò nel cuore della Germania il fuoco sacro di una passione mai sopita verso lo spiritualismo dell'arte e un assoluto nascosto sotto le ceneri dell'idealismo ottocentesco.

Il libro della Bressan si continua a leggere fino all'ultima pagina con identica emozione con cui si sfoglia la cronaca di un giornale già fatta storia, ma che tuttavia vive nell'emozione imprevista dello scorrere logico degli eventi. Alla sua sensibile cura è toccato il compito di cucire senza tagliar via alcun lembo, i panni di un labirintico tappeto di giudizi, talvolta aspri, spigolosi, forse ingiusti ma mai banali. Materia grezza e difficile da assemblare, tanto più se riletta con gli occhi e la passione raffreddata di un secolo di storia, in cui ideologie, conflitti e catastrofi non sono riusciti a soffocare quel grido di libertà dell'arte che giunse dall'avanguardia futurista al resto del mondo.

 

 

Alessandro Masi


 

 

 

 

Der Sturm e il Futurismo                                                                                     © Edizioni della Laguna