"LA  BATTAGLIA  DI  CUSTOZA"
24 - 25 LUGLIO 1848

 

 

Mario Troso

 

 

"...il soldato dimostra sempre una particolare sensibilità nel percepire se è ben guidato o meno. "I  (Martin Hobohm)
 

 

 

 

QUADRO GENERALE

 

 

 

1848. La rivoluzione in Italia prima che a Milano comincia a Venezia, che appartenendo al Lombardo-Veneto è anch'essa governata dagli Austriaci. Il 17 marzo 1848, alle notizie del trionfo della rivoluzione di Vienna, la folla si riunisce per chiedere la liberazione di Nicolò Tommaseo e di Daniele Manin imprigionati, poi forza le porte del carcere e libera i due che sono portati in trionfo. In Piazza San Marco è innalzata la bandiera tricolore. Il governatore Palffy concede agli insorti una modesta guardia civica, ma il 22 scoppia una rivolta nell'arsenale. Alle 5 del pomeriggio il governatore militare austriaco, non ritenendo di poter resistere e al corrente dell'insurrezione di Milano, firma la capitolazione e s'imbarca per Trieste con 3.000 uomini. Il 23 si costituisce il governo provvisorio sotto Manin ed è proclamata la Repubblica. La rivolta contro gli Austriaci scoppia improvvisa il 18 marzo 1848 in parte del Lombardo Veneto e a Milano. Nel capoluogo lombardo il comandante austriaco Radetzky dispone di circa 14.000 uomini, 900 cavalli e 30 cannoni, ma gli insorti, costruendo ben 1.650 barricate, creano insormontabili ostacoli al movimento delle truppe austriache e, prendendo di mira e uccidendo a mano a mano tutti gli artiglieri, impediscono ai cannoni di intervenire con la loro azione distruttiva.

 

 

 

 

Così gli Austriaci, sorpresi, bersagliati da ogni dove e affamati, dopo 5 giorni di combattimenti, nella sera del 22 marzo lasciano la città. Devono abbandonare agli insorti anche Bergamo, Brescia, Cremona, Varese, Sondrio, Como, Monza e poi, non sentendosi sicuri, ogni altra posizione sia in Lombardia sia in Veneto per ritirarsi parte a Verona, parte nelle altre tre fortezze del Quadrilatero (Cartina 1) Peschiera, Mantova, Legnago, e parte oltre l'Isonzo. Radetzky si chiude in Verona dove riunisce 41 battaglioni, 35 squadroni e circa 100 pezzi di artiglieria. Pure i Ducati insorgono costringendo Francesco V di Modena e Carlo II di Parma alla fuga. L'insurrezione sorprende il Piemonte che non è pronto però ad entrare in campagna. Soltanto il 22 marzo a Torino il Consiglio dei Ministri decide la radunata al confine sul Ticino di tutte le truppe che si trovano a varie distanze: i reparti più lontani sono a 14 giorni di marcia.

Francia, Inghilterra, Prussia e Russia esprimono contrarietà ad un intervento piemontese. "Però assai più forti delle voci delle maggiori potenze eran le grida di guerra della nazione e il fervore bellicoso che non aveva tregua a Torino, a Genova, a Novara, a Cuneo, ad Alessandria ed in ogni altra città e borgata del regno." Di fronte alla pressione dell'opinione pubblica e di Cavour, il Governo piemontese decide di dare il via all'avanzata prima che siano completate sia la mobilitazione sia la radunata. Così il 25 marzo prende avvio l'avanzata oltre il Ticino di due colonne. Una, con 3.000 uomini (comandata dal Bes), da Novara oltrepassa Milano, ma arriva a Brescia soltanto il 31; l'altra (guidata dal Trotti) con 4.000 uomini da Voghera arriva a Pavia e procede fino a Sant'Angelo Lodigiano sul Lambro. Il grosso dell'esercito piemontese passa il Ticino il 29 marzo e soltanto il 31 si mette in marcia lungo l'asse Lodi-Cremona: dal 25 si sono persi cinque giorni preziosi. Il Comando piemontese entra in guerra contro l'Austria, che rappresenta al momento la più forte potenza militare dell'epoca, senza disporre di un piano di campagna, anzi, dopo aver varcato il confine il procedere dell'azione sarà stabilito discutendo il da farsi giorno per giorno in successivi consigli di guerra.
L'esercito ora comprende cinque divisioni su due corpi d'armata, uno al comando del generale Bava, l'altro del de Sonnaz. Il 4 aprile a Cremona si tiene un Consiglio di Guerra. De Sonnaz propone di marciare lungo la destra del Po e, attraverso il Ferrarese e il Polesine, operare a tergo degli Austriaci appoggiandosi a Venezia, mentre il Bava consiglia una manovra meno ardita: puntare su Mantova, della quale si spera l'insurrezione, e da lì manovrare contro il nemico tra Mincio e Adige. Il Comando Supremo sardo esclude il piano più ardito e decide di muovere contro Mantova, salvo poi cambiare idea quando viene a sapere che quella fortezza è stata potentemente rafforzata.
L'esercito è spostato allora verso nord per attaccare gli Austriaci sul medio Mincio (Goito), fuori dal raggio d'azione delle fortezze di Peschiera e di Mantova. Dopo due settimane dall'inizio delle operazioni i Piemontesi sono dunque arrivati al Mincio, 150 chilometri oltre il confine, dove però rimangono fermi due settimane per esigenze di riorganizzazione. Questa è la prima delle tre stasi che caratterizzeranno le operazioni dell'esercito piemontese.
In questa prima fase l'esercito piemontese è formato da circa 29.000 uomini, 2.000 cavalieri e dispone di 48 bocche da fuoco.

Alla notizia delle insurrezioni di Venezia e di Milano, alcuni Stati italiani, Granducato di Toscana, Stato della Chiesa e Regno di Napoli, mandano verso il Mincio il minimo di truppe che consenta loro di andare incontro alle esigenze dell'entusiasmo popolare. Il granduca di Toscana Leopoldo II dichiara guerra all'Austria e invia il generale De Laugier con 5.000 regolari e qualche migliaio di volontari guidati da Giuseppe Montanelli. Da Roma papa Pio IX invia 10.000 volontari col generale Andrea Ferrari e 7.000 regolari col generale piemontese Giovanni Durando. Da Napoli il re Ferdinando II fa partire la squadra navale dell'ammiraglio de Cosa e il generale Guglielmo Pepe con 16.000 regolari che potranno essere operativi sul Po dopo un mese e mezzo. La squadra navale sarà accolta con giubilo al suo arrivo a Venezia il 16 maggio. L'invio di queste truppe, che ammontano a circa 40.000 uomini, avviene sotto la pressione dell'opinione pubblica e dell'intervento piemontese che si sta rivelando vittorioso.
Presenti in armi a sostegno dei Piemontesi ci sono anche migliaia di altri volontari provenienti dalla Lombardia, dal Veneto, dai Ducati di Reggio e Modena e anche dalla Sicilia al comando di Giuseppe La Masa. Partecipa anche una legione polacca. Ma queste forze senza istruzione, senza disciplina e male armate, saranno pure male utilizzate perché mancanti di un adeguato comando. Per questi uomini non graditi all'esercito regolare sarebbe stato più adatto un comandante come Garibaldi, avvezzo a guidare truppe irregolari o bande, piuttosto che un generale proveniente da una scuola militare, abituato quindi a muovere le milizie secondo rigidi ordini e schemi da caserma.
I Piemontesi avrebbero dovuto procedere contro Radetzky in tempo utile prima che si rinchiudesse in Verona o comunque prima che potesse rinforzarsi. In sostanza avrebbero potuto sorprendere il nemico mentre si trovava in situazione d'inferiorità numerica, confuso per gli scacchi subiti in varie posizioni. Per attuare questa strategia si sarebbe dovuto agire con
la massima rapidità. Secondo Piero Pieri una mossa energica dei Piemontesi avrebbe potuto sorprendere il Radetzky, in ritirata da Milano, già al passaggio dell'Oglio, o in alternativa tagliargli la via di comunicazione con l'Austria lungo la valle dell'Adige. Un'altra mossa da tentare avrebbe potuto essere quella basata su una marcia rapidissima per sorprendere subito Mantova, ancora sguarnita, e collegarsi con l'insorta Venezia, come suggeriva il de Sonnaz. Ma per operazioni del genere ci sarebbe voluto un Comando con l'istinto della manovra e della velocità! I Piemontesi persero invece tempo e non ostacolarono l'arrivo dei rinforzi attesi dal nemico chiuso in Verona, favorendolo. L'esercito sabaudo non solo mancò di rapidità nello sviluppo dell'attacco, ma continuò ad interromperlo con lunghi periodi di stasi.
 

 

 

 

PRELIMINARI ALLA BATTAGLIA DI CUSTOZA

 


Durante il periodo di stasi dall'8 al 27 aprile (vedi Appendice, p. 197), per cercare di sedare l'impazienza dell'opinione pubblica l'esercito piemontese esegue puntate dimostrative contro Peschiera e Mantova. I Piemontesi non hanno i mezzi per investire una fortezza come Verona. In mancanza di piani si riunisce il Consiglio di Guerra il 24 aprile e si decide di passare il Mincio tra il 26 e il 27 e di assediare Peschiera. È già passato un mese dal varco del Ticino! Non si prende in considerazione una manovra a largo raggio per intercettare i rinforzi austriaci che stanno sopraggiungendo da oltre l'Isonzo. Il 29 aprile i Piemontesi conquistano Pastrengo, dove gli Austriaci difendono la linea di comunicazione col Trentino, e li obbligano a riportarsi oltre l'Adige... (segue descrizione da pag. 167 a 179).

 

 

 

 

LA BATTAGLIA DI CUSTOZA, 24 - 25 LUGLIO 1848

 


Secondo il piano stabilito i Piemontesi del Corpo Reale avrebbero dovuto muovere all'attacco contro il supposto fianco sinistro austriaco già alle cinque del mattino ciel 25, ma sono mancati i viveri e sono ancora fermi quando tra le 8 e le 9 si preannuncia invece l'attacco austriaco verso Sommacampagna. Così all'improvviso lo schieramento dei Piemontesi tra Sommacampagna, Staffalo e Custoza da offensivo deve tramutarsi in difensivo, ma poiché resta valida la necessità del collegamento con le truppe del de Sonnaz, Carlo Alberto dispone che la Brigata Aosta, partendo da Villafranca, cerchi di scacciare gli Austriaci da Valeggio mentre con le forze restanti tenterà di opporsi all'offensiva austriaca. Il re sta dunque ingaggiando una battaglia difensiva sulle alture, ma offensiva contro Valeggio e divide così le sue forze, già molto inferiori a quelle del nemico, rinunciando a concentrarle in un punto determinato per ottenere almeno un successo tattico significativo.
Per la riuscita dell'operazione contro Valeggio sarebbe necessaria la collaborazione di de Sonnaz che dovrebbe attaccare gli Austriaci da Borghetto, per chiudere il nemico tra due fuochi. Soltanto alle 11 del 25, ad azione ormai inoltrata e quindi in ritardo, de Sonnaz riceve a Volta l'ordine di partecipare alla battaglia intervenendo da Borghetto contro Valeggio; ma comunica al Comando che, a causa dello sfinimento delle truppe, la sua entrata in azione non potrà avvenire prima delle 6 pomeridiane! I Piemontesi della Brigata Aosta effettuano reiterati assalti per conquistare Valeggio, ma senza il concorso di de Sonnaz non riescono a superare l'ostinata resistenza offerta dagli Austriaci per impedire la riunione delle due masse piemontesi separate dal Mincio.
Sulle alture gli Austriaci hanno intanto attaccato in forze Sommacampagna, Staffalo e Custoza con ripetuti assalti e con l'intervento continuo di nuove truppe (Cartina 4). I Piemontesi devono abbandonare Sommacampagna. Alle 15 si ha una sosta nei combattimenti. Alle 16 Carlo Alberto d'accordo col Bava fa sospendere i vani attacchi della Brigata Aosta contro Valeggio ordinando il ripiegamento su Villafranca delle truppe là impegnate. Il de Sonnaz non dovrà di conseguenza effettuare la prevista azione su Borghetto e Valeggio, ormai superata, e dovrà portarsi a Goito mantenendo però la posizione di Volta. Ma Carlo Alberto, all'insaputa del di Salasco e di Bava, fa poi aggiungere nell'ordine l'autorizzazione ad abbandonare Volta in caso 'di stretta necessità'. Così lo scoraggiato de Sonnaz a mezzanotte del 25 riterrà 'necessario' abbandonare anche Volta e si sposterà a Goito con quelle forze che non è riuscito a portare in aiuto dello scontro risolutivo in atto dall'altra parte del Mincio.
Intanto gli Austriaci hanno ripreso gli attacchi contro Staffalo e Custoza che sono rintuzzati con estrema decisione dalle truppe piemontesi, ma attorno alle 18 entrambe queste posizioni devono essere abbandonate di fronte alla forte preponderanza numerica austriaca. I Piemontesi col re ripiegano su Villafranca. La così detta battaglia di Custoza è finita: i Piemontesi lamentano 212 morti, 657 feriti e 270 prigionieri, gli Austriaci 175 morti, 723 feriti e 422 prigionieri (Tabella 2). "L'esercito piemontese non era né accerchiato né annientato", ma il Re si ritira con tutte le truppe da Villafranca oltre il Mincio a Goito, dove il 27 si riunisce con de Sonnaz e le truppe provenienti da Mantova e Roverbella: tutto l'esercito piemontese è dunque lì concentrato.
Bava aveva previsto di arrivare a Volta con tutto l'esercito per contrastare, da quella posizione chiave, gli Austriaci che volessero varcare il Mincio a Valeggio o a Mantova. Viene quindi ordinato a de Sonnaz di rioccupare Volta, da lui inspiegabilmente abbandonata, ma l'azione è condotta con forze insufficienti dalla III Divisione, e la Brigata Regina è inviata in soccorso troppo tardi. Ancora una volta l'alto Comando piemontese dimostra la sua impreparazione ad agire con tempestività. La mattina del 27 il re raccoglie notizie "...di stanchezza e di scoraggiamento in cui si trovava l'esercito". Lo stesso giorno 27 nel Consiglio di Guerra si decide di chiedere una tregua al nemico. Dal 22 al 27: cinque giorni di combattimenti durante i quali s'erano perdute anche occasioni di vittoria. "Ma la lunga lotta aveva messo a nudo, come non mai in precedenza, tutte le deficienze di comando e d'organizzazione dell'esercito e la conseguente inferiorità rispetto a quello avversario".
 

 

 

 

COMMENTO SULLA BATTAGLIA

 


• Carlo Alberto il manovratore. Il re non seppe cogliere il momento dell'insurrezione di Milano per intervenire. Indugiò nell'attesa di avere assicurazioni circa la forma di governo, repubblicana o monarchica, che sarebbe stata scelta a Milano e a Venezia, e non comprese che la vittoria sugli Austriaci avrebbe messo a tacere ogni discussione e distinguo favorendo la causa dei Savoia. Entrò in Lombardia quando gli Austriaci erano già oltre Brescia a Montichiari e procedette con eccessiva lentezza. Avrebbe dovuto avanzare rapidamente in Veneto ed annientare il Nugent prima di agire contro Verona, poiché da quei rinforzi dipendevano tutte le sorti della campagna. Il Nugent passò l'Isonzo il 16 aprile, ma il re entrò in azione soltanto il 27. Comunque nel 1848 ci furono da parte dell'esercito piemontese vitalità e manovra, caratteristiche che non si ripresenteranno più nel '59 e neppure nel '66. L'entusiasmo dei soldati per le vittorie di Goito, Pastrengo, Santa Lucia non troverà pari nelle due successive guerre risorgimentali. E pensare che nel '48 l'esercito piemontese aveva forze pressappoco pari a quello austriaco, mentre nel '59 ci sarà l'apporto dei Francesi contro le altrimenti preponderanti forze austriache, e nel '66 le forze dell'esercito italiano (non più piemontese) saranno il doppio di quelle austriache.
Resta il fatto che la prima Guerra d'Indipendenza vide l'esercito piemontese impegnato in una moderna guerra manovrata: Carlo Alberto eseguì ardite operazioni cercando di ottenere risultati con la manovra piuttosto che con il brutale assalto frontale, come accadrà invece nel 1859 nella battaglia di San Martino; anche nella guerra del 1866 non ci sarà da parte italiana alcuna manovra, ma soltanto uno scontro casuale e i risultati positivi per l'Italia si otterranno unicamente in seguito alla vittoria dell'alleata Prussia.
Quindi Carlo Alberto fu senz'altro più sensibile del figlio, che dimostrerà, soprattutto nella guerra del 1859, di essere veramente avulso da problemi di strategia e tattica. Carlo Alberto nel '48 guidò tre mosse, ma gli sfuggì poi l'intervento risolutivo, il colpo decisivo. Ma analizziamo le mosse.
- I) mossa verso Verona. Inconcludente. In realtà la popolazione non si era ribellata, ma questo dimostrò la scarsa preparazione dell'iniziativa con insufficiente servizio d'informazioni, piaga perenne del nostro esercito.
- II) mossa, conquistare Mantova. Mossa avviata tanto per fare qualcosa anch'essa inconcludente. Un servizio informazioni efficiente avrebbe segnalato che all'inizio della campagna c'erano buone probabilità di conquistare Mantova.
- III) mossa, attaccare il nemico sul fianco esposto mentre marciava da Verona verso il Mincio. Mossa pericolosa: buono il concetto, troppo lenta l'esecuzione. Avrebbe potuto essere valida se avesse colpito con 36 ore d'anticipo, con la massima rapidità e con ordini chiari e precisi, per impedire che Radetzky, intuita la manovra piemontese, potesse contromanovrare sfruttando la sua preponderanza numerica. È, in effetti, quello che accadde: a Radetzky fu lasciato il tempo di capire la nuova situazione e di modificare il suo piano, l'esercito austriaco quindi fece una conversione a sinistra e si volse contro i Piemontesi con il doppio delle proprie forze.
Carlo Alberto non aveva la visione globale che contraddistingue il grande generale. In quest'occasione egli cercò con un intervento personale, senza Consiglio di Guerra che in quel momento gli sarebbe stato impossibile riunire, di contrastare la mossa austriaca da Verona verso il Mincio, ma disponeva di scarse informazioni e così prese solo provvedimenti parziali, e anche in ritardo. È discutibile il fatto che non abbia riunito tutte le sue truppe in un unico complesso o ad oriente o ad occidente del Mincio, ma una volta stabilito di operare con due formazioni a cavallo del fiume, gli ordini avrebbero dovuto essere tempestivi e precisi per tutte le truppe schierate oltre il Mincio (II Corpo d'Armata, de Sonnaz): raggrupparsi, attaccare gli Austriaci che avevano varcato il fiume e trattenerli, oppure cercare di unirsi con il grosso dell'esercito piemontese che si trovava sull'altra riva. Invece de Sonnaz, rimasto dapprima senza ordini, ricevette in ritardo la direttiva di congiungimento attraverso Valeggio, così che le truppe oltre il Mincio rimasero non solo separate dal grosso, ma anche impossibilitate a contribuire in qualche modo alle operazioni. Carlo Pisacane, commentando le manovre di Carlo Alberto, ne mette in evidenza il mancato tempismo: "L'epoca ancora più notevole per gli errori che spinsero con accelerata velocità il re e l'esercito verso l'abisso, comincia dopo la battaglia di Goito. Si lascia che Radetzky compisse la sua marcia da Mantova all'Adige senza neanche molestarlo. Si marcia su Rivoli allorché gli Austriaci attaccano Vicenza e su Verona quando le forze nemiche vi sono di già rientrate; infine si commette l'errore di bloccare Mantova."
Circa l'incertezza della condotta di Carlo Alberto, che si fa risalire a difetti del suo carattere, occorre rilevare che la situazione politica del momento lo preoccupava per l'atteggiamento della Francia verso la Savoia. Inoltre ritenendo egli imminente il crollo dell'Austria, tendeva ad escludere l'intervento di altre forze: "... egli combatte ma respinge i volontari, rifiuta gli Svizzeri che potrebbero darci un soccorso di dieci o ventimila soldati; egli combatte ma si tarda ad armare il popolo..." Anche il destino della Lombardia preoccupava il re, spingendolo a richiedere l'adesione alla monarchia; ciò fomentò un clima di discordia e gli oppositori del Governo Provvisorio "... lamentavano che con la convenzione stipulata col generale Passalacqua, il Governo di Milano avesse messo ogni sussistenza dell'esercito sardo a carico dei Lombardi." "Nonostante la convenzione, nell'esercito sardo scarseggiarono viveri e tende. Ma l'insuccesso militare della prima Guerra d'Indipendenza è dipeso anche da altri fattori quali: l'insufficienza della struttura di comando e delle qualità dei comandanti, la mancanza di una visione strategica complessiva, lo strascinamento ovvero la mancanza di decisione, il mancato utilizzo di tutte le risorse disponibili. Se ad esempio Carlo Alberto avesse riunito a Villafranca la Brigata Regina e la II Divisione, richiamandole dalla zona di Mantova, avrebbe avuto a disposizione quasi il doppio dei 24 battaglioni con i quali sostenne la battaglia di Custoza.

 

 

• Insufficienza del comando e scarsa qualità dei comandanti. Nell'esercito piemontese mancò uno Stato Maggiore degno di questa denominazione, che preparasse cioè i piani di guerra, li traducesse operativamente ai vari corpi dell'esercito e ne controllasse l'esecuzione. Esisteva un Capo di Stato Maggiore di nome (di Salasco), ma non di fatto poiché costui non aveva predisposto e non preparò alcun piano: si limitò al ruolo del passacarte dall'alto della sua venerabile età e della sua suprema incompetenza. Passerà alla storia per l'armistizio da lui firmato a Vigevano, che i più assegneranno invece a Salasco paese del Piemonte occidentale, confondendo questa località col nome del generale! Carlo Alberto cercò di riempire questo vuoto con un Consiglio di Guerra, dove oltre al di Salasco intervennero i due comandanti di Corpo d'Armata, de Sonnaz e Bava, e il Ministro della Guerra Franzini. Si decideva giorno per giorno a maggioranza il da farsi, senza che fosse impostata una strategia a lungo o almeno a medio termine. Prendendo in prestito un'efficace espressione della terminologia marinara, si procedeva 'a vista' come in un mare di nebbia. Il Comando Supremo inoltre funzionò male perché mancò una ben definita assegnazione delle responsabilità. In base allo Statuto il re era il comandante supremo dell'esercito in guerra; nulla ostava però che il comando fosse delegato a persona qualificata. Ma il re faceva anche di sua testa e interveniva, appoggiandosi a Bava e a Franzini, sempre presente in campo, e suscitando così la gelosia di de Sonnaz che si sentiva isolato e lasciato da parte. In realtà Carlo Alberto dimostrò d'essere pronto alla manovra, ma essa risentì dell'incertezza e dell'indecisione alla base del suo carattere e della mancanza d'esperienza sul terreno, tanto sua che dei componenti l'alto Comando piemontese. L'attenersi scrupolosamente ai regolamenti porta alla mancanza d'iniziativa; Bava lamentava come gli ufficiali superiori non sapessero operare da sé, senza attendere sempre gli ordini, che in certe circostanze non possono giungere in tempo "Ma era più colpa dei sistemi cari ai supremi gerarchi che non degli uomini. "Comunque le truppe piemontesi si batterono bene e ottennero anche cospicui successi contro le più addestrate e meglio comandate truppe austriache. In conclusione l'esercito piemontese era un buon esercito, ma era comandato male. Dove l'alto Comando piemontese mancò completamente, fu nell'accogliere e impiegare al meglio le abbondanti risorse di volontari provenienti con entusiasmo da tutte le regioni d'Italia. Per il buon risultato delle azioni di guerra è di capitale importanza l'entusiasmo e quindi lo spirito di sacrificio con il quale esse vengono eseguite. Tra i volontari questo entusiasmo non mancava, mentre erano carenti l'armamento e l'addestramento. All'armamento avrebbe potuto senz'altro provvedere l'esercito piemontese con i suoi arsenali. All'addestramento, dato il tempo limitato della campagna, si sarebbe dovuto sopperire almeno con degli abili comandanti, dotati di carisma e quindi capaci di ottenere il meglio da uomini poco o punto preparati ad una guerra di movimento. Al contrario truppe molto ben preparate a combattere in formazione, come ad esempio i mercenari svizzeri e tedeschi del '400 e '500, potevano sostenere una battaglia anche in assenza di comandanti di spicco: questa carenza era infatti compensata dall'automatismo dell'azione, assicurata dal continuo addestramento. Si vedano ad esempio gli Svizzeri nelle battaglie dell'Ariotta (1513) e Marignano (1515). Nel 1848 l'esercito piemontese non disponeva di abili comandanti.
Nel Consiglio di Guerra del 5 maggio, ore 15.00 si decise la 'ricognizione su Verona' in base al piano di Franzini che doveva diventare esecutivo il mattino dopo; si può immaginare la preparazione delle truppe che dovevano eseguire l'operazione! De Sonnaz aveva espresso qualche spunto geniale, ma all'atto pratico dimostrò molta confusione nella condotta delle operazioni. Avrebbe avuto, nell'imminenza della battaglia di Custoza, l'occasione di mettere in evidenza la sua intraprendenza con un attacco concentrato contro gli Austriaci che stavano varcando il Mincio, ma gli mancò la percezione del terreno e vagò avanti e indietro in gran confusione, senza concludere alcunché, anzi abbandonando posizioni chiave. Quella percezione del terreno che mancò in genere a tutto lo staff piemontese e compromise la condotta delle operazioni fu invece una delle doti principali del generale Garibaldi. Bava fungeva da consigliere del re, ma non riuscì a correggere le sue incertezze, le sue mezze misure. Fatale la sua assenza da Marmirolo tra il 23 e il 24 luglio, quando avrebbe forse consigliato al re di concentrare tutte le forze disponibili per la battaglia decisiva della campagna.
Purtroppo per i Piemontesi, di fronte al loro Comando Supremo improvvisato c'era Radetzky, un generale che nonostante l'età era ancora molto brillante, con idee ben chiare, deciso a manovrare. Egli poteva contare su di uno Stato Maggiore efficiente, di lunga tradizione e collaudato anche durante le recenti campagne del periodo napoleonico. Possiamo affermare che egli operò rispettando in pieno i dettami di un'efficiente strategia. Era di solito molto rapido. A marzo, senza attardarsi in combattimenti di retroguardia, si ritirò subito in Verona dove si mantenne rinserrato tenendosi sulla difensiva fino a quando non ebbe ricevuto rinforzi . E in questo dimostrò di non sottovalutare l'avversario. Una volta ottenuti i rinforzi si mosse con la massima rapidità e segretezza. Uscì da Verona di notte con tutto l'esercito per arrivare a Mantova passando di fronte all'esercito piemontese che avrebbe potuto assalirlo sul fianco. Mosse subito da Mantova e distrusse i presidi avversari di Curtatone e Montanara. In seguito, constatato che l'effetto sorpresa si era esaurito dopo lo scacco subito a Goito, retrocedette a Mantova per poi spostarsi immediatamente con tutte le forze a Vicenza; vi diede battaglia, sconfisse i volontari e, nell'arco di due giorni, rientrò in Verona che aveva lasciato praticamente sguarnita. Quindi sfruttò la rapidità e la concentrazione presentandosi sempre in forze davanti all'avversario. Adottò l'aurea regola della strategia: colpire a sorpresa con le truppe riunite l'avversario diviso. Così, in occasione del decisivo scontro della campagna, uscì con tutte le forze da Verona per attaccare a Custoza i Piemontesi che avevano invece le forze divise. Ma seppe anche osare, sfruttando la propria rapidità e la lentezza dimostrata dall'avversario, come quando da Mantova si portò a Vicenza per riconquistarla battendo e disperdendo i volontari che presidiavano il Veneto, assicurandosi la strada della Valsugana. Carlo Alberto invece sottovalutò il nemico quando a luglio si spostò su Mantova lasciando davanti a Radetzky una linea fortemente indebolita!
 

 

• Insufficente visione strategica. La condotta di operazioni militari, per avere successo, deve essere impostata secondo alcuni principi fondamentali: informazione accurata, obbiettivo ben definito, rapidità delle mosse, uso della sorpresa, concentrazione degli sforzi ed esatta valutazione dell'avversario. Rapidità e sorpresa sono collegati. L'informazione è di capitale importanza per conoscere cosa fa il nemico e per definire l'obbiettivo. L'esercito piemontese non fu pronto a cogliere il momento favorevole che si stava prospettando, dovuto sia alla situazione locale nel Lombardo-Veneto sia a quella internazionale con la rivoluzione di Vienna e in Ungheria, e si mosse alla cieca, senza informazioni circa la consistenza delle forze nemiche che aveva di fronte e la topografia del terreno da attraversare. Dopo aver varcato il Ticino i Piemontesi procedettero lentamente, non cercarono di sorprendere Radetzky tagliandogli la via di ritirata lungo la valle dell'Adige o penetrando nella fortezza di Mantova prima che fosse rinforzata da truppe austriache.
L'esercito austriaco in seguito alle insurrezioni si stava ritirando, era abbattuto e stava perdendo consistenza per le defezioni. La popolazione dei territori dell'avanzata gli era ostile, era favorevole ai Piemontesi. Ma l'esercito piemontese oltre a mancare di informazioni non aveva un obbiettivo preciso e, di conseguenza, gli mancò la rapidità delle mosse.
La visione strategica del Comando piemontese fu ristretta, così come lo sarà nel '59 e soprattutto nel '66, e fu polarizzata dal Quadrilatero che restava il suo pensiero fisso. Tanto che ancora nel '66 l'alleata Prussia raccomanderà a La Marmora, Capo di Stato Maggiore, di non farvisi irretire! Eppure nel '48 il Veneto avrebbe offerto una buona possibilità di manovra: a marzo, aprile e fino a metà maggio c'era il vuoto di Austriaci, le popolazioni erano favorevoli e dai 12.000 ai 15.000 uomini erano pronti localmente ad intervenire in aiuto. Occorreva un buon generale che li guidasse. Ma non esisteva un programma e quindi neanche un obbiettivo, né purtroppo un bravo generale per raggiungerlo.
Come vedremo, nel '66 questa visione ristretta si ripresenterà, con obbiettivo minimo e anche mal definito. D'altra parte come inventare da un giorno all'altro una mentalità nuova? Impossibile.
Il Piemonte non s'era preparato alla guerra e continuò a non essere preparata anche l'Italia che gli successe.
 


• Lo strascinamento, ovvero la mancanza di decisione. L'esercito piemontese strascinò le operazioni attraverso tre lunghe stasi, tutte a vantaggio del nemico perché gli consentirono di rafforzarsi e di condurre azioni di annientamento periferiche. Queste tre stasi (vedi p. 197 Appendice) durarono rispettivamente 20, 37 e 39 giorni.
Dopo l'attacco a Verona del 6 maggio 1848 l'esercito piemontese pareva caduto in letargo. La mancanza di un'attività di esplorazione gli precluse la possibilità di un grande successo, quando si lasciò sfuggire Radetzky che, uscito da Verona, marciava su Mantova offrendo il fianco.
Scrive il Raulich "... né il re,... aveva l'esperienza e le attitudini del condottiero, ché anzi gli effetti delle incertezze proprie del suo spirito dovevano sentirsi, del pari che nelle politiche, nelle faccende militari, e ciò con pregiudizio molto maggiore che per quelle, quando si pensi che sono specialmente le decisioni rapide e il comando sicuro che accrescono fiducia alle milizie e più valgono ad avvicinar la vittoria.:" L'indecisione dei Piemontesi nelle due settimane che seguirono Goito ebbe non lievi effetti, dal punto di vista politico e da quello militare. Nel campo politico cominciano ad apparire, sulle gazzette lombarde, insinuazioni offensive circa il poco coraggio e la scarsa buona fede dei Piemontesi. Come riferisce il Bava nella sua relazione, i gazzettieri andavano ripetutamente chiedendo come mai si restasse inerti con tante truppe.'"
In campo militare ne risentì il morale dell'esercito, che perse molto della confidenza e dell'entusiasmo durati fin dopo Goito. Così si esprimeva il duca di Genova che comandava la IV Divisione: "Durante tutta la campagna vidi la mia divisione sopportare le maggiori fatiche e privazioni senza lamento: vidi uomini cadere esausti per la fame, e per la fatica, mentre si spingevano alla baionetta contro il nemico...; vidi i miei poveri uomini nelle vie di Sommacampagna senza soccorsi, senza che ci fosse un bicchiere d'acqua per dissetare i feriti; e debbo dire che... non sentii mai alcuno muover lamento od imprecare al destino, che li conduceva a quella guerra. Morivano gridando viva il Re, e raccomandando le loro povere famiglie." E così un anonimo ufficiale piemontese: "I reggimenti che, dopo conosciuta la mossa degli Austriaci, il re aveva spiccati dal blocco di Mantova avviandoli su Villafranca, patirono nella loro marcia gli affanni di un calor d'inferno non concepibile da un uomo che non l'abbia provato... Non credo che i raggi cocenti del sole in Ispagna od in Africa possano riuscire più tormentosi e mortali di quel che il fossero allora nelle campagne fra Mantova e Verona; il termometro di Réaumur segnava da parecchi giorni 28° (35° centigradi); dal cielo spietatamente sereno non muoveva una brezza, un filo d'aria; nella marcia da Marmirolo a Villafranca caddero i soldati a centinaia, quali boccone per non più rialzarsi, quali trascinandosi carponi in riva ai fossi che fiancheggiano la strada dove esinaniti (sic) cascavano sotto il peso delle armi e l'angoscia del caldo, della fame e soprattutto di una sete atrocissima, cercando invano una goccia d'acqua, la frescura dell'erba, un freddo sassolino per mitigare l'arsura delle fauci. Le file dei soldati passavano pietosamente guardando le sponde della via ov'erano sparsi i compagni svenuti, boccheggianti o già fatti cadaveri; i più affranti od i morienti volgevano muti a noi gli occhi torbidi e spenti, guardando ancora una volta i compagni, quell'ultima memoria ed immagine di una Patria che non avrebbero veduta mai più. Noi ci affrettavamo per non piangere, ma ben giurando che la vendetta l'avremmo sfogata sugli Austriaci." "L'istinto del soldato non tardò a discernere che dopo delle marce e contromarce opprimenti e senza scopo, si era molto imbarazzati a intraprendere qualcosa di meglio; che la guerra contro i suoi desideri si trascinava in lunghezza e che il nemico aveva tutto l'agio di ricevere rinforzi per sconfiggerci in seguito. La confidenza nelle proprie forze e nel merito di coloro che li comandavano andava diminuendo ogni giorno; l'entusiasmo si spense:"
E' un tragico destino quello che ha posto sempre i soldati italiani di fronte a inutili, gravi strapazzi e a inutili, sanguinose operazioni per eseguire ordini scriteriati imposti da comandanti impreparati e inadeguati, senza avere mai la soddisfazione e la gioia di essere condotti alla vittoria. Questo accadde nel 1848, ma accadrà nel 1849, nel 1866, nel 1896, nel 1915-1918, nel 1940-1943.
A conclusione del suo commento sulla campagna del 1848 Pieri scrive: "I soldati hanno fatto fino all'ultimo il loro dovere, sopperendo con mirabile abnegazione alle troppe deficienze d'organizzazione e di direzione; ma era vano pretendere che a tutto essi, ed essi soltanto, potessero rimediare."
 

 

• Mancato utilizzo di tutte le risorse disponibili. Nel 1848 ci fu un vizio di fondo nello Stato Maggiore piemontese: il disprezzo per chiunque non provenisse dalle file dei professionisti piemontesi, disprezzo che contrastò l'offerta di combattere contro gli Austriaci da parte dei volontari, sminuendola fortemente, in molti casi fino a renderla vana. Rappresentativo di quest'atteggiamento, che coinvolse tutto lo Stato Maggiore piemontese, è il caso di Giuseppe Garibaldi. Costui nel 1848 si trovava già da 14 anni nell'America meridionale, dove aveva combattuto a lungo sia in terra sia sull'acqua a favore dell'indipendenza dell'Uruguay acquisendo direttamente sul terreno e non in caserma una profonda esperienza tattica e strategica. All'inizio del 1848 fu molto colpito dalle prime notizie degli eventi risorgimentali italiani, e il 15 aprile lasciò Montevideo per raggiungere l'Italia e porre la sua spada a servizio dei locali moti insurrezionali. A Milano, che aveva vissuto le Cinque Giornate, si era già instaurato un governo provvisorio; a Venezia il 22 marzo era stata proclamata la Repubblica. Garibaldi arrivò a Nizza il 22 giugno.
"Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, io ho giurato di ubbidirlo e di seguire fedelmente la sua bandiera. In lui vedo riposta la speranza della nostra redenzione;...'' Quindi Garibaldi fu uno dei pochi Italiani che non si lasciarono trascinare da passioni e distinguo tra monarchia e repubblica, e adeguò subito la sua azione alla realtà e quindi all'impresa al momento più importante: battere gli Austriaci.
Il 5 luglio, durante il periodo della terza stasi dell'esercito piemontese, Garibaldi incontrò Carlo Alberto nel quartier generale di Roverbella e mise a sua disposizione la propria spada e quelle dei suoi Legionari, chiedendo "... di poter comandare, accanto alle truppe regie regolari, un corpo di volontari" col grado di generale. Il re lo accolse con gelida cortesia e lo rimandò a Torino al ministro della guerra al quale comunicò che sarebbe stato disonorevole per l'esercito dare il grado di generale ad un simile elemento! Garibaldi prima di lasciare Roverbella prese fiduciosamente contatto anche con il di Salasco. Ma l'8 luglio, mentre Garibaldi era in viaggio per Torino, il di Salasco scrisse al Ministro della Guerra specificando che "... se il Governo si fosse disposto ad autorizzare formazione di Corpi di simile natura, era d'uopo ottenere una concessione o carta, in cui risultasse lo scopo della compagnia, della sua composizione, e dei limiti estremi della sua forza;..." Quindi burocrazia imperante fu chiamata in ausilio per respingere il povero Garibaldi, mentre il tempo stringeva perché intanto nel Veneto gli Austriaci, di fronte ai Piemontesi, si stavano rinforzando.
A Torino Garibaldi non fu ricevuto dal Ministro della Guerra, ma dal Ministro degli Interni Ricci, che gli consigliò di partire per Venezia: "Colà prenderete il comando d'alcune piccole barche, e come corsaro, potreste essere utilissimo ai veneziani..." Avrebbe potuto essere un buon consiglio, se dato con la convinzione di fare cosa giusta e importante; dato invece con l'apparenza di un ripiego meschino, irritò Garibaldi.
Ecco dunque Garibaldi brillantemente scaricato dal Regio Governo, con una tecnica sempre valida anche ai nostri giorni: è facile capire come gente che adottava simili strattagemmi, senza comprendere il valore degli uomini a disposizione, non poteva che perdere la guerra. Garibaldi si spostò a Milano, dove il 14 luglio il Governo Provvisorio lo nominò generale di brigata. Ma anche qui trovò un generale piemontese a mettergli i bastoni tra le ruote! Era l'anziano, pensionato generale Carlo Sobrero, che inviato da Torino su richiesta del Governo Provvisorio, vi ricopriva l'incarico di Ministro della Guerra. Garibaldi annota: "In Milano... le cose non sarebbero andate male, senza l'ingerenza malefica di un ministro regio Sobrero, le di cui mene ed indefinibili procedimenti mi raccapricciano tuttora.. " La notte dal 27 al 28 luglio il Comitato di pubblica difesa del Governo Provvisorio si riunì in consiglio cui parteciparono generali e uomini politici. Nella seduta tumultuosa anche Garibaldi prese la parola e si scagliò contro Sobrero e i generali piemontesi: "... i volontari accorrevano, voi in cambio di usufruttuare di queste forze preziose le invidiaste, avversaste, disperdeste, dicevate bastare il Re e la sua armata... Sono stato al Campo, e ho veduto i famosi generali di Carlo Alberto: boria di gallonati, inettezza di condottieri! Guidati bene, i soldati piemontesi avrebbero fatto miracoli di valore... "Agli occhi di Garibaldi, esperto per le azioni belliche condotte sul terreno nel corso di parecchi anni, non poteva sfuggire al primo sguardo la 'pacifica' attitudine sedentaria di quei generali, convalidata in lunghi anni di caserma. 'Garibaldi ricevette il 30 luglio l'ordine di partire per Bergamo alla testa dei 1.500 uomini della Legione Italiana: 70 legionari di Montevideo, 300 soldati del Battaglione Anzani, 600 Vicentini, 140 Liguri, 400 Pavesi. Ma ormai era tardi: già il 3 agosto Garibaldi ricette l'ordine di retrocedere da Bergamo a Milano, e il 9 agosto fu firmato l'armistizio. Anche se il trattamento subito da Garibaldi è emblematico, esso restò in ogni caso limitato ad un periodo ormai tardo per la risoluzione positiva del conflitto. A Milano, a Venezia e in tutto il Lombardo-Veneto le sollevazioni popolari avevano cacciato gli Austriaci e avevano poi messo a disposizione contingenti di volontari che, se pur contrastati nel loro sviluppo dal comando piemontese, assommavano sempre a qualche decina di migliaia d'uomini. Ebbene, queste forze non ebbero mai la necessaria attenzione dell'alto comando piemontese, anzi furono disprezzate, considerate composte da gente sospetta e d'impaccio alla causa, spesso costrette all'inattività. Soprattutto il loro intervento fu spezzettato in diverse e limitate azioni difensive, mentre sarebbe stato opportuno il loro concorso, riunite con un obbiettivo ben definito. A formazioni composte in gran parte da volontari entusiasti presenti nel Veneto fu demandata l'azione, di importanza decisiva, di fermare Nugent e batterlo per impedirgli di portare soccorso a Radetzky, chiuso in Verona: ma lì mancò un abile comandante che riunisse quelle forze, che le dirigesse con unità d'intenti e perizia tattica verso l'obbiettivo principale, cioè fermare i rinforzi austriaci. Nugent invece riesci a portare i soccorsi a Verona, battendo successivamente vari corpi di volontari che gli si paravano davanti con una tecnica risalente al tempo degli Orazi e Curiazi! Conseguenze dell'infelice esito del '48: gli entusiasmi si spensero, così che prima nel 1859 e poi nel 1866 le popolazioni del Veneto saluteranno i Piemontesi e l'esercito italiano con un'accoglienza tiepida.
 

 

• Anche Milano impreparata. A Milano "La municipalità presieduta dal conte Casati era stata estranea allo scoppio della rivoluzione anche se contribuì alla sua preparazione morale perché del prossimo sfacelo dell'Austria si parlava da tempo, come di una legge di natura, tanto che Cattaneo fondava su quello sfacelo le sue speranze federaliste. Ma per uno strano fenomeno di imprevidenza la Municipalità non si era mai posta il quesito: se scoppierà la rivoluzione chi governerà Milano?... Nessuno trovò la necessità... di completare la preparazione morale in un vero e proprio ordine di operazione rivoluzionaria, con quadri di dirigenti e di partigiani, con programmi preordinati."
Quindi anche a Milano come a Torino si aspettò, si sperò e non ci si preparò, rimandando di giorno in giorno fino a quando fu troppo tardi. Potremmo affermare che questa tendenza è in linea con tutta la storia italiana di nazione unita, anche la più recente che ha visto utilizzata continuamente l'arte di rimandare e quasi mai adottata la preparazione con pianificazione in tempo utile!

 

 

 

 

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