Due modi di struttura disegnata dell’immagine:

Fontana e Viani

 

 

Enrico Crispolti

 

 

 

 

                                                                                                          

                                                                                  Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1957, bronzo       Lucio Fontana, Attese, idropittura su tela, bianco

 

A questo convegno dedicato all’opera dell’amico Alberto, il mio sarà certamente un contributo piuttosto particolare, essendo infatti rivolto interamente e soltanto al confronto fra due significativi modi di strutturare sostanzialmente attraverso il disegno, cioè attraverso una dimensione precipuamente mentale, la consistenza dell’immagine proposta, e sia questa in un caso plastica e pittorica, sia nell’altro caso esclusivamente plastica. Rivolto esattamente soltanto a un confronto fra, da una parte, i modi di strutturare basicamente l’immagine attraverso un circuito o una trama disegnativi con tutta evidenza pur in soluzioni diverse nel tempo praticati da Lucio Fontana e, da un’altra, i modi di strutturare basicamente l’immagine attraverso il disegno di profili esterni e interni praticati costantemente da Alberto Viani. Quest’ultimo in termini cronologici neanche proprio di un’ulteriore generazione, rispetto a quella di Lucio: di sette anni infatti la differenza, quanti ne corrono fra il 1899 del primo e il 1906 del secondo; ma certamente d’altra generazione sul piano dell’attività artistica: d’approdo più precoce Fontana nei primi anni Venti, muovendosi idealmente fra Archipenko, Maillol e Wildt (prima di incontrare Zadkine e Martini), rispetto a Viani che esordisce nei primi Trenta, primitivisticamente martiniano (assai prima di dialogare originalmente con archetipi plastici cicladici e arpiani).

Un contributo dunque piuttosto singolare il mio, in questa occasione, e che tuttavia subito rimonta dal particolare al generale, non riguardando infatti specificamente soltanto una questione del ruolo fondante del disegno nell’immaginazione plastica di ambedue quanto quello della natura costituzionalmente disegnativa, mentalmente l’uno, idealmente l’altro, dell’immagine che ben diversamente fra di loro hanno proposto. Si tratta infatti di questione fondamentale, complessivamente sottesa, di caratterizzazione di specifico linguaggio, e dunque di visione del mondo attraverso quel linguaggio, dell’uno e dell’altro, disparatamente in una tale sottesa costituzione disegnativa tuttavia affini. Analogamente ambedue infatti risultando orientati nella strutturazione basica della propria costituzione di proposizione plastico-visiva, pur nella diversità sostanziale delle reciproche opzioni immaginative, fra la tensione spazializzante, estroversa, di Fontana e quella appunto idealizzante, introversa, di Viani. I quali fra di loro ovviamente si conoscevano bene, pur senza particolarità di rapporti e frequentazioni.

Una primissima conoscenza fra di loro potrebbe infatti insinuarsi già sotto il segno del collezionista Alberto Della Ragione (che tuttavia comunque non lo fu di opere di Viani), finanziatore di «Corrente», sostenitore della Galleria Genova, appunto genovese, dove Fontana ha esposto nel febbraio 1939, presentato in catalogo da Tullio d’Albisola, all’illustrazione di un testo del quale lo stesso si è dedicato fra 1936 e 1938 (pubblicato poi nel 1943)1 con esiti di grafia pre-spaziale, significativamente connessi a modi di proiezione immaginativa «cosmica» futurista, prampoliniani (era il momento in cui Tullio stesso concorreva a citare Fontana accanto a Fillia, quali autori di «ceramiche astratte», nel testo di Marinetti e dello stesso Tullio, Ceramica e Aeroceramica. Manifesto futurista, del 1938, e citava le «astrazioni cosmiche» di Fontana accanto a quelle di Prampolini e alle «forme aeree» di Fillia nel volumetto La ceramica futurista italiana, pubblicato nel 19392. Con Della Ragione era in rapporti Giuseppe Marchiori, estimatore già allora della scultura di Viani, che conosceva appunto dai secondi anni Trenta. E in una collettiva nella Galleria Genova, di Artisti moderni, all’inizio del 1942, figurano proprio sia Fontana, sia, con un’opera, Viani («un piccolo Viani», accanto a «un gruppo sceltissimo di sculture di Manzù, Martini, Fontana, Mirko, Broggini», annotava nella consueta cronaca in «Emporium» Attilio Podestà)3. E gestore della Galleria era Stefano Cairola, che nel corso del 1942 acquisirà con l’appoggio di Della Ragione la direzione della milanese Galleria della Spiga e Corrente (che succede a Bottega di Corrente, brevemente erede dell’attività della rivista che fu soppressa all’inizio di giugno del 1940, all’entrata dell’Italia fascista nel secondo conflitto mondiale). Galleria della Spiga dove poi nel giugno-luglio 1947 Cairola allestisce con Marchiori la ben nota prima mostra del Fronte Nuovo delle Arti, alla quale partecipa Viani4. Ed è certamente poco dopo che una conoscenza fra Lucio, appena rientrato dall’Argentina e gravitante fra Milano e Albisola, e Alberto può comunque consolidarsi, anche attraverso le occasioni offerte dalle Biennali veneziane. Alla prima delle quali nel secondo dopoguerra, nel 1948, Fontana prende parte come scultore con cinque opere (di cui una esplicitamente Scultura spaziale, dell’anno prima (n. 47/SC/1, del mio catalogo generale Skira, 2006)5 e Viani a sua volta vi espone altrettante sculture appunto con il Fronte Nuovo delle Arti, nella seconda mostra di questo organizzata sempre da Marchiori6.

Ritornato all’inizio della primavera 1947 a Milano, Fontana si è subito affermato infatti come «spazialista», di fatto informale, materico, dinamico, praticando una ceramica d’acceso cromatismo; esplicitamente sentendosi connesso a una tradizione che dalla lezione di «dinamismo plastico boccioniano» risale all’eredità dinamica e d’implicazione materia del Barocco7. Al medesimo livello e in quella partecipazione milanese alla prima mostra del Fronte, e confrontandosi con una cultura plastico-visiva sostanzialmente d’impronta postcubista, Viani pratica invece un plasticismo piano, sintetico, d’accento primitivistico nell’impianto di accentuato analogismo organico, coniugando ascendenze diverse fra Canova e Arp.

Ma il discorso che qui cerco di configurare non può neanche circoscriversi a quell’inizio dei secondi anni Quaranta, interessando in realtà complessivamente entrambe le carriere immaginative proprio già da una loro iniziale consistente affermazione ma spingendosi fino alle più mature ed alle ultime elaborazioni, di entrambi. Entro dunque diversi passaggi delle quali differenti carriere, in modi svariati soprattutto nel caso decisamente evolutivo in senso fenomenologico di Fontana, e in modi invece più consequenziali come genealogia formale organica evolutiva nel caso di Viani, si può riscontrare agevolmente come risulti in maniera analoga sostanzialmente affidato all’essenzialità configurativa del disegno il ruolo strutturante dell’immagine, che per ambedue seppure diversamente, ha chiara valenza mentale, eidetica.

Risultando particolarmente evidente sia nei disegni di Fontana attorno al tema di un’iconografia umana primitivisticamente squadrata (riferimento dominante il postcubismo espressionista di Zadkine), culminante nella sua famosa scultura del 1930, Uomo nero, sia nei connessi rilievi in terracotta del 1931 (quali, per esempio, Figura alla finestra, Gli amanti, [Figure nere], Le amanti dei piloti), e cementi graffiti (per esempio, Uomini, fin dall’inizio degli anni Trenta Fontana configura l’immagine, di profilo piatto sul piano, essenzialmente attraverso la delineazione disegnata del suo contorno, ritagliandola entro un contesto materico8. Proponendo dunque un’immagine figurativa di proiezione mentale, anziché di riscontro ottico-percettivo di matrice dunque naturalistica, insomma un concetto d’immagine figurativa anziché una immagine di rappresentazione figurativa. Un concetto d’immagine, che si fa esplicito appunto nei disegni, più che già un’immagine «concettuale» di cui comunque, quando fra fine degli anni Quaranta ed esordio dei Cinquanta com’è noto ha chiamato costantemente le proprie opere «concetto spaziale», Fontana anticiperà vertiginosamente la consistenza, rispetto all’arte che si dirà quasi vent’anni dopo programmaticamente ed esplicitamente «concettuale». Un concetto d’immagine disegnata costituente una trasgressione energetica di riferimento iconico grafico inciso entro un contesto sostanzialmente materico elementare; quasi Fontana intendesse esprimere la forza virtuale della materia naturale attraverso l’energia vitalizzante d’una presenza figurativa di riscontro mentale. E componenti di tale rastremazione mentale disegnativa dell’immagine sono verisimilmente da riconoscere sia in un imprinting di sintesi configurativa simbolista, di matrice wildtiana, inconscio ma di determinante concorrenza all’opzione fondamentale d’essenzialità delineativa, sia in una pratica di sintesi dinamica futurista con la quale Fontana ha avuto rapporti diretti (dalla confluenza di echi di sintesi in mentalità d’ «arte meccanica» futurista e insieme di «sintesi» tardocubista, a concomitanze con l’incipiente «idealismo cosmico» prampoliniano)9.

Ma la sostanza di consistenza strutturale disegnativa ricorrente nelle immagini proposte da Fontana attraverso la sua lunga avventura creativa si fa più evidente dalla fine degli anni Quaranta, quando non è più soltanto scultore ma soprattutto invece pittore. Ricorre infatti in varia fenomenologia nei «buchi», all’inizio dei Cinquanta, in trame disordinate, liberamente avvolgenti (per esempio i Concetti spaziali 49 B 1-3, 50 B 7, 50-51 B 1, 51 B 12), o in costellazioni aritmicamente ordinate (per esempio i Concetti spaziali 50 B 2, 50 B 4, 51 B 1, 51 B 7, 51 B 14); quindi nelle costellazioni probabilistiche delle «pietre», lungo buona parte dei Cinquanta, in dialettica sempre con trame di buchi (per esempio, 55 P 14, 55 P 28, 55 P 42, 56 P 9), e parallelamente ai sommovimenti e dinamismi materici dei «barocchi» (per esempio, 56 BA 5, 56 BA 9). E poi negli «olii», fra secondi Cinquanta e Sessanta, ove tuttavia subentra soprattutto una libera grafia disegnativa, caratterizzante (per esempio, 62 O 35, 62 O 44, 64 O 11, 68 O 7). Ma anche in ulteriori «buchi» (per esempio, 60 B 21, 66 B 10). E nei «metalli» strutturati proprio sulla trama di tagli trincianti e di grafismi incisi (per esempio, 62 ME 17, 62 ME 18-19-20, 64 ME 3). Ricorre naturalmente nelle cadenze ritmiche dei «tagli», da fine anni Cinquanta (per esempio, 59 T 15, 60 T 45, 60 T 69, 61 T 95, 61 T 105, 64 T 81, 66 T 86), nei profili delle cornici figurate dei «teatrini», altrettanto che nelle costellazioni di «buchi» che ne percorrono i loro fondali, a metà dei Sessanta (per esempio, 65 TE 60, 65 TE 70). Ma più che mai evidente è la sostanza eminentemente disegnativa che costituisce la trama strutturale caratterizzante le «ellisse», nei medesimi anni (per esempio, 67 EL 6, 67 EL 11). Come del resto lo è della caratterizzazione di diversi suoi «ambienti spaziali», fra grafie di neon in particolare negli anni Cinquanta (a cominciare dal famoso arabesco spaziale nella Triennale milanese del 1951, 51 A 1, e per esempio, 53 A 3, 54 A 1, 59-60 A 1) e costellazioni di punti di luce nei Sessanta (per esempio, 64 A 2, 66 A 1, 67 A 1, 67 A 3)10.

Chiaramente da metà degli anni Quaranta (per esempio, da Torso femminile, 1944, Torso femminile o Nudo, 1945), per Viani la componente genetica disegnativa dell’immagine consiste nella assoluta, mentale, nettezza dei suoi profili esterni, che inquadra ed esalta la plasticità tondeggiante e determina il valore ideale dell’immagine stessa, la sua valenza di indizio di un rigore di riscontro morale, in quanto sottintesa ma di fatto esibita evocazione d’una integrità morale dell’immagine umana, alla quale direi corrispondano appunto l’integrità continua del disegno periferico altrettanto che l’integrità del corpo plastico che questo circoscrive. Come accade con molta evidenza in prove ulteriori, quali i nudi essenzialissimi, del 1949, la famosa Cariatide (Nudo), Nu (Nudo seduto) del 1951, Nudo (Nudo seduto), del 1953, o Torso virile, del 1954, evolvendo nell’essenzialità, infine quasi flessuosamente lamellare, dei grandi nudi di metà e oltre dei Cinquanta; premessa alle più disinvolte articolazioni plastiche spaziali sviluppate nei Sessanta e Settanta, dalle «Chimere» fra 1960 e ’62, a La grande madre, del 1966, alle varianti di «Bagnante» o di «Odalisca» lungo i Settanta; fino agli essenzialissimi, astratti, «Nudi femminili» dell’inizio degli Ottanta11.

Annunciando nel 1951 all’amico Vittorino Meneghelli la realizzazione della ricordata Cariatide (Nudo), poi acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, romana, Viani scrive: «Ti faccio il disegno, che è il profilo che l’ha generata e che io ho disegnato infinite volte e ancora continuerei a disegnare se non l’avessi realizzata e dimenticata»12. I modellini in filo di alluminio, di trame sostanzialmente lineari, da metà degli anni Cinquanta, accompagneranno i disegni nell’ulteriore elaborazione strutturale13.

Ma a maggior ragione accade quando appunto da circa metà degli anni Cinquanta Viani assottiglia il corpo plastico delle sue sculture (di peraltro originalmente motivata consonanza formale arpiana), intravedendo e avviando anzi una nuova flessuosità strutturale proprio maggiormente affidata alla fluenza appunto convoluta dei profili curvilinei, e dunque aperta spazialmente in una dialettica a suo modo dinamica. Gli accenni disegnativi, sia epistolari, sia spesso su pagine di giornale, rendevano con molta evidenza quelle sue nuove intenzioni. Come nel caso dello schizzo con il quale, in una lettera dell’inizio del giugno 1957 (un paio d’anni dopo esserci conosciuti, attraverso la mia futura prima moglie Laura [Maria] Drudi Gambillo e l’anno dopo di un nuovo incontro in occasione di una Biennale per molti aspetti memorabile quale fu quella del 1956), mi annunciava le possibilità di sviluppi di un suo nuovo lavoro che sarà nel 1958 Nudo o Nudo seduto. Delineandone accanto appunto i profili, mi scriveva: «di nuovo c’è solo un grande fantasma che ho fatto due volte quest’inverno e che vorrei mandare a una mostra importante perché, pare a me, che apra nuove possibilità alla mia libera immaginazione» (lettera del 7 giugno 1957). O come nel caso degli studi, in particolare su giornali (era «L’Osservatore Romano»), che a me e a Laura diceva di considerare non «disegni pubblicabili»: «Vi prego di credere che non posseggo disegni per la pubblicazione […]. A parte la mia pigra natura da molto tempo, e voi lo sapete, non faccio (meglio non conservo) disegni pubblicabili, ma solo disegnini che sono appunti e riflessioni per le sculture». Nei quali peraltro, di straordinario fascino laboratoriale, la reiterata messa in prova di soluzioni per l’individuazione della consistenza strutturale dell’immagine è tutta d’intenzione disegnativa, di riscontro progettuale mentale, delineandone la presenza in un accenno di soli profili (come nel caso della lettera del 2 ottobre 1958)14.

Ora è significativo per il nostro discorso che entro la formazione o l’iniziale esperienza di lavoro sia di Fontana che di Viani ricorra un’esperienza di pratica del disegno tecnico, cioè di una modalità disegnativa del tutto non di matrice ottico-percettiva ma interamente invece di sintesi di riferimento mentale, in mediazione essenzializzante simbolico-progettuale. Per Fontana è stata la nota esperienza formativa della frequentazione della scuola triennale con indirizzo tecnico presso il Collegio Ballerini di Seregno, quindi dell’Istituto Tecnico Carlo Cattaneo, e della Scuola Superiore di arti Applicate all’Industria nel Castello Sforzesco, nella sezione architettura, a Milano, a metà degli anni Dieci, prima di arruolarsi volontario. Per Viani è stata la formazione, dopo scuole elementari e medie, nel Liceo Tecnico Scientifico di Mestre e poi nell’Istituto Tecnico G.B. Belzoni di Padova, nei primi anni Venti, prima dell’iscrizione nel 1929, compiuto il servizio militare, all’Accademia di Belle Arti veneziana15. Reciproche esperienze che hanno conseguenze analoghe di un imprinting formativo di pratica dell’essenzialità mentale appunto del disegno tecnico: la forte sinteticità determinante la configurazione dell’immagine, e una dimensione progettuale ben prima di evidenza mentale che di possibile allusione rappresentativa, nel ruolo comunicativo dell’immagine. Insomma una nettamente maggiore prossimità della risultanza configurativa di questa al concetto, rispetto ad una sua referenza appunto di rappresentatività figurativa, rispetto insomma al circuito percezione-sensazione-rispondenza immaginativa. È una ricorrenza significativa che accomuna in certa misura in un’origine formativa altrimenti «tecnica» di Fontana e di Viani, giacché si tratta della matrice di una diversità di campo basica e determinante nella conformazione della propria creatività formativa, nella contrapposizione netta fra progetto e rispondenza, fra simbolizzazione mentale e partecipazione sensitiva.

Già negli anni Trenta il disegno di Fontana si afferma come evidenza segnica mentale, costruttiva e cognitiva, dell’immagine proposta, che afferma la propria consistenza plastico-visiva proprio in quanto esplicitamente costituita in modi graficamente essenziali di riscontro in proiezione mentale. Disegno che è proposizione iconica concettualmente motivata, simbolizzazione grafica di un concetto di figura oppure enunciazione mentale di una possibile presenza strutturale segnica, di trama interamente di evidenza grafica; sempre in termini di forma non certo assoluta ma condizionata in una contingenza energetica. Delineando contorni d’immagine, il segno, sopratutto se a penna, si stacca dalla materialità del bianco del foglio, al modo stesso di come il segno inciso, nei rilievi, circoscrive una presenza di idea di figura configurandola dialetticamente entro un contesto materico, quale la terracotta; concetto e materia. Come accade poi nei primissimi anni Cinquanta nelle «tavolette» in terracotta, o nel 1957-58 nelle sculture in bronzo su gambo, o nel 1959-60 nelle «nature», o nel 1964-67 nelle «ellissi». Stando al tracciato di una continuità pur allora più rarefatta del suo lavoro in scultura. Ma, s’è detto, anche − e più chiaramente anzi − tutta la vicenda della ricerca «pittorica» sviluppata da Fontana lungo i primi due decenni della seconda metà del XX secolo si fonda su una costituzione dell’immagine attraverso il dispiegamento d’una trama disegnativa, che in una ricca fenomenologia di soluzioni va dai «buchi» ai «tagli», agli squarci praticati negli «olii» e al libero graffito segnico che ne solca la superficie, al profilo infine di cornice figurata che caratterizza i «teatrini». La costituzione disegnativa dell’immagine è per Fontana lo strumento di una sottrazione della stessa al condizionamento d’un compito di riscontro ad una percettività rappresentativa, configurata invece com’è quale un emblema di riscontro concettuale, pur in dialettico rapporto dinamico con una contingenza materiale, dunque entro un tempo contingente, anche se un tempo interamente fenomenologico, vitalistico, creativo. Non tanto un tempo storico quanto direi un tempo antropologico del vitalismo «moderno», dal Barocco al XX secolo.

Per Viani, sul foglio (o persino appunto sulle pagine de «L’Osservatore romano») il disegno si costituisce come contorno limite dell’immagine, allusivo ad una virtuale plasticità entro quel contorno contenuta. Il disegno costituisce un limite assolutizzante dell’evidenza dell’immagine nel suo profilo costitutivo ma anche nella sua consistenza da quello delimitata. La politezza delle superfici si costituisce infatti nelle sue sculture come estensività plastica della nettezza concettuale dei profili disegnativi che le configurano, nel risultato d’una assolutezza iconico-formale di riscontro ideale. Costitutivamente antipercettivo, antirappresentativo, la struttura disegnata dell’immagine si afferma infatti nel lavoro plastico di Viani nella forza determinante dei profili che hanno funzione di limite delineante specificamente evocativo dell’immagine d’allusività umana (soprattutto nudo femminile, com’è noto), e di un ordine di nettezza visivo-mentale che accentua l’evidenza del campo della plasticità costituente il corpo di quell’immagine. Entro la quale la nettezza disegnativa dei profili si modula nelle possibilità chiaroscurali del corpo plastico dando appunto consistenza di decantata allusività sensuale alla presenza iconica eidetica costituita da ogni sua scultura. Contorno sul foglio, profili nella scultura realizzata, ricorre appunto sempre una determinante disegnativa strutturale nella costituzione dell’immagine che Viani ci propone. Ed è proprio quel profilo dell’assoluto che costituendo strutturalmente l’immagine ne stabilisce il limite nel confronto con la realtà ambientale contestuale, spaziale e temporale. Di un assoluto in certa misura sensitivamente evocato ma metafisico, appunto sottratto al tempo e alla fisicità dello spazio.

Questo non implausibile confronto, pur entro una pronunciata diversità d’opzioni, azzardato attraverso il rilevamento di un’analoga determinante preminenza costitutiva strutturale del disegno nella configurazione dell’immagine, quale dunque ricorre entro la svariata fenomenologia del lavoro, plastico e pittorico, di Fontana, dagli anni Trenta ai Sessanta, come altrimenti entro la continuità evolutiva endorganica del lavoro plastico di Viani, credo di poterlo concludere rilevando una comunanza di esaltazione segnico-strutturale nella totalità del bianco, nel caso di occasioni diverse di presentazione del lavoro di ambedue, datane dall’interpretazione-omaggio di empatia linguistica, in termini di allestimento ambientale, di Carlo Scarpa in edizioni diverse nella Biennale veneziana. Esattamente nella sala bianca, fra gessi e velari, di Viani nella edizione 1958, e nella sala strutturata in bianco per accogliervi soltanto tagli unici, di Fontana nell’edizione del 1966. Evocando una dimensione spiritualistica sostanziale all’idealizzata allusività corporea, nel caso dei gessi di Viani (nei quali, com’è noto, più propriamente si manifestava la sua ascesi di materializzazione mentale dell’entità plastica, la sua fantomaticità ideale di idolo)16. Attraverso la totalità del bianco spingendo invece Scarpa l’interpretazione di Fontana nel senso d’aspirazione ad una dimensione di ultimativa smaterializzazione spaziale, oltre dunque anche la fisicità della materia energeticamente dinamizzata (accadeva in quei tagli unici, su bianco, collocati quasi in un’analogia sacrale entro accoglienti strutture a nicchia bianche ambientate nel bianco)17. Un’interpretazione diversamente declinata in ragione naturalmente della forte diversità dei pronunciamenti immaginativi interpretati, eppure in certa misura analogamente rilevante, entro una totalità di bianco su bianco, proprio l’effettiva consistenza disegnativa delle due differenti tipologie d’immagine: dell’avvolgenza curvilinea dei profili costituenti strutturalmente in immagine le presenze plastiche, purissime, di Viani; e del segno perentorio rappresentato dal taglio unico verticale, di Fontana.

E nel nome di Scarpa, chiudo questo mio particolare contributo.

 

 

Enrico Crispolti

 

 

1 Tullio d’Albisola, Racconto con 14 disegni di Lucio Fontana, Scheiwiller, Milano, 1943. Alcuni sono riprodotti, fra l’altro, in Lucio Fontana, a cura di Enrico Crispolti e Rosella Siligato, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 3 aprile-22 giugno 1998, Electa, Milano, 1998, nn. 1/D/25-30, pp. 87-88.

2 Sia il manifesto del 1938 che il testo del 1939 sono ripubblicati in La ceramica futurista da Balla a Tullio d’Albisola, a cura di E. Crispolti, Centro DI, Firenze, 1982, pp. 169-172

3 Pittori e scultori contemporanei, «Emporium», a. XLVIII, n. 566, Bergamo, febbraio 1942, p. 93.

4 Cfr. Il Fronte Nuovo delle Arti. L’arte italiana attraverso le avanguardie del dopoguerra, a cura di Enrico Crispolti, Luciano Caramel, Luca Massimo Barbero, Neri Pozza, Vicenza, 1999.

5 Cfr. E. Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo ragionato di sculture, dipinti, ambientazioni, con la collaborazione di Nini Ardemagni Laurini e Valeria Ernesti, Skira, Milano, 2006, Tomo I, p. 206.

6 Immagini fotografiche della sala del Fronte sono in Il Fronte Nuovo delle Arti, cit., pp. 58, 60-62 (ivi vedi: Giorgio Nonweiller, Alberto Viani. Una scelta meditata per la scultura, pp. 104-111).

7 Rimando a quanto scritto in Lucio Fontana. Catalogo ragionato…, cit., Tomo I, pp. 18-22.

8 Per Uomo nero e per i rilievi cfr. E. Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo ragionato…, cit., Tomo I, rispettivamente nn. 30 SC 1, 31 SC 4-10, pp. 139-142. Per i disegni cfr. in particolare in Lucio Fontana. I disegni della raccolta Crippa in Varese, a cura di Paolo Campiglio, Sala Veratti, Varese, 24 marzo-25 aprile 1996, Edizioni Lativa, Varese, 1996.

9 Sul rapporto di Fontana con il Futurismo rimando a quanto scritto introduttivamente in Lucio Fontana. Catalogo ragionato…, cit., Tomo I, pp. 22-26.

10 Il riferimento è sempre al mio Lucio Fontana. Catalogo ragionato…, cit.

11 Cfr. in particolare l’ottima documentazione in Pier Carlo Santini, Alberto Viani, Electa, Milano, 1990, in occasione della antologica nelle Fruttiere cinquecentesche di Palazzo Te a Mantova.

12 Alberto Viani, Lettere da lontano, Marsilio, Venezia, 1996, p. 48; la lettera con il profilo delineato di Cariatide, datata 21 maggio 1951, è ripr. a p. 46.

13 Su motivazione e genesi della sua scultura ho scritto Qualche notazione sulla «poetica» di Viani, in Alberto Viani. I disegni, Galleria della Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 15 dicembre 1996-14 gennaio 1997, Electa, Milano, 1996, pp. 27-37. I modellini in filo di alluminio sono significativi per leggere la processualità di genesi strutturale della scultura di Viani, la sua estrema logica interna, complementari e ulteriori dunque rispetto al disegno, tuttavia ritengo azzardato considerarli tout court pariteticamente come ulteriori sue sculture, come si sarebbe potuto supporre entro una retrospettiva quale quella recentemente proposta a Matera (Cfr. Alberto Viani. Opere dal 1939 al 1984, a cura di Giuseppe Appella, Edizioni della Cometa, Roma, 2006).

14 Sul disegno di Viani cfr. in particolare Alberto Viani. I disegni, cit.

15 Cfr. Alberto Viani. Opere dal 1939 al 1984, cit., p. 142.

16 Cfr. Pier Carlo Santini, Alberto Viani, Olivetti-Electa, Milano, 1990, pp. 251-253, 255, 257. Sottolineava allora Pier Carlo Santini che nella sala di Viani Scarpa «ha operato al limite della virtù e del rischio creando condizioni di visibilità che sembrano inalterabili, trovando rapporti di forme nei bianchi diversi variamente penetrati di luce, di squisitissima suggestione» (La XXIX Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Il padiglione italiano, «Comunità», a. XII, n. 62, Milano, agosto-settembre 1958, pp. 80-90). E scriveva Viani medesimo a Meneghelli il 27 giugno 1958: «A Venezia sono riuscito a salvarmi con sei gessi, disposti in due gruppi di tre e in una grande sala di 10x10 metri, perché l’architetto ha rivestito di tela bianca (‘madapolan’) le pareti ed il soffitto-lucernario, creando in tale maniera una specie di ‘scatola-magica’ dove le opere emergono nella loro pienezza lineare dei profili immateriali. È questa una regia demoniaca ai limiti della raffinatezza. Anche le basi sono state ricoperte della medesima tela e le opere assumono veramente un aspetto di modelli gnomici» (Lettere da lontano, cit., p. 106). Ma già il 2 gennaio precedente aveva annunciato all’interlocutore amico di lungo corso: «Quest’anno la Biennale mi presenterà con una grande mostra: molte opere e una sala ampia e bene illuminata. Sarà questa l’unica volta che le mie sculture si potranno vedere nei loro profili dinamici» (ivi, p. 104). Quella sala esaltava proprio la maggiore strutturalità lineare dei profili avvolgenti caratteristici delle nuove sculture di Viani di fine anni Cinquanta; come poteva allora avvertire opportunamente Toni Toniato: «Nelle sue sculture ultime la ricerca di una ‘lineare’ aderenza allo spazio più che alla forma prelude a uno svolgimento di strutture, a una condizione più ‘aperta’ alla sua interna risonanza formale» (XXIX Biennale, «Evento», II s., n. 3-4, Venezia, aprile-luglio 1958).

17 Cfr. il mio Lucio Fontana. Catalogo ragionato…, cit., Tomo I, p. 82; Tomo II, n. 66 A 2, p. 977. Annotava della sala, ammiccante impenitente, Dino Buzzati: «È un ampio spazio ovale completamente bianco dove tante geometriche nicchie che formano una specie di labirinto contengono altrettante tele, ciascuna con un solo taglio verticale. Candidi confessionali, forse, in cui si depositano i peccati attraverso la fessura? Sono altrettanti ‘concetti spaziali’ dell’ingegnosissimo, anzi geniale artista. Se ne ha una sensazione di vertigine» (Biennale. Nel labirinto della mostra veneziana, «Corriere d’Informazione», Milano 18-19 giugno 1966). Ma si può ricordare che proprio attraverso il bianco totale del gesso, per parte sua, Fontana aveva partecipato in modo di caratterizzazione ambientale determinante, già nel 1936, alla famosa Sala della Vittoria, immaginata da Edoardo Persico e realizzata dall’architetto Giancarlo Palanti, con la collaborazione grafica di Marcello Nizzoli, nella VI Triennale di Milano. Totalità quasi magica di immagine nel bianco particolarmente avvertita allora da Raffaello Giolli, che parla di «momento lirico». «Non è soltanto l’improvvisa immersione nel bianco, che fa perdere, di colpo, alla nostra sensibilità il senso stesso del peso e ogni metro dell’abituali misure». «È un bianco fermo: e dall’inusitato trionfo di un tono solo, un tono puro, nella candida luce senza corpo ci si sente subito trasportati in un mondo che i più degli uomini ancora ignorano». E «la limpidezza dei valori elementari scintillanti che si scioglie in quest’opera è lo strappo ormai deciso da ogni viluppo chiaroscurale e da ogni agonia plastica». È «un bianco spettrale, davvero metafisico, di là da ogni corpo, il bianco elettrico dell’improvvisa scintilla»; «è una rivoluzione». Concludendo: «Questo divorante bianco è una profezia»: «giorno, ora, attimo senza ombra, attimo eterno di luce, lampo in cui solo la vita risolve ogni oscillazione di tesi e antitesi nella certezza del creato» (VI Triennale di Milano. La «Sala della Vittoria» (M. Nizzoli, G. Palanti, E. Persico), «Casabella», a. IX, n. 102-103, Milano, giugno-luglio 1936, pp. 14-21; ripubbl. in R. Giolli, L’architettura razionale, antologia a cura di Cesare De Seta, Laterza, Bari, 1972, pp. 204-213). Cfr. Lucio Fontana. Catalogo ragionato…, cit., Tomo I, pp. 52, 94-95; Tomo II, n. 36 A 1-2, pp. 934-935, tavv. CCLXVI-CCLXVII.

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni tecniche, le immagini.

 

 

 

Alberto Viani e il suo tempo                                                                  © Edizioni della Laguna