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Maria Beatrice Giorio

 

 

ARTURO RIETTI E IL JAPONISME: UNA PASSIONE LUNGA UNA VITA

 

 

 

 

 

 

 

Abstract

 

 

Ma contribution veut analyser un des aspects de l'art d'Arturo Rietti les moins étudiés, celui de sa production picturale inspirée par la civilisation japonaise. L'article prendra en considération, d'abord, le corpus d'œuvres d'un point de vue général, afin de démontrer que l'intérêt du peintre vers ce monde plein de charme ne s'exprima pas seulement à la fin de son activité artistique, mais il remonta déjà à la période de sa jeunesse. L'article présentera, par la suite, les tableaux à thème japonais les plus significatifs, en cherchant à individuer et à préciser, pour chacun d'entre eux, le sujet de la représentation. Cela a été possible en considérant que Rietti reproduisit, dans la totalité des œuvres japonaises, des objets précis qui lui appartenaient, parmi lesquels figuraient des statuettes de personnages du théâtre traditionnel et d'autres précieux bibelots. C'est aussi pour cette raison qu'une étude parallèle de sa collection japonaise s'est rendue nécessaire, vu que l'attraction de Rietti vers le monde du Japon se refléta autant dans son art que dans sa vie quotidienne. Le peintre aimait, en effet, tout ce qui concernait cette civilisation millénaire, sans faire de distinctions entre la période ancienne et celle contemporaine, comme le prouvent aussi les titres des volumes présents dans sa bibliothèque personnelle.

Les témoignages directes du peintre, mais aussi de sa fille Anatolia et de l'héritière Anna Caterina ont été fondamentaux pour comprendre comment Rietti se relationna vis à vis de la mode du Japonisme, qu'il connût déjà pendant les années de sa formation, à Munich et à Paris. Une brève étude de ses relations personnelles avec certains hommes de lettres et de la culture contemporaine, comme le pianiste Mieczyslaw Horszowski, confirmera mon hypothèse selon laquelle la passion de Rietti pour le Japon représenta bien plus qu'une curiosité éphémère et elle s'exprimât sous des formes extrêmement variées tout au long de sa vie.

Pour conclure, la contribution n'oubliera pas d'analyser la technique picturale choisie par Rietti pour la réalisations de ses œuvres au sujet japonais: la quasi totalité des tableaux a été réalisés en se servant des couleurs à l'huile, permettant de se rapprocher les plus possible des anciennes peintures japonaises et d'en imiter les décors laqués.

 

 

 

 

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   Il filone ritrattistico è, di certo, la tendenza stilistica che più è stata studiata dell'arte di Arturo Rietti; eppure nel suo corpus di opere compare anche una produzione minore, che si ispira ai soggetti e alle atmosfere della cultura giapponese. In questo contributo si rifletterà sulla ricchezza di tali spunti orientaleggianti nell'opera del pittore nel corso dell'intera attività artistica e, in particolare, in quella finale[1].

L'interesse di Rietti per il Giappone rappresenta una costante, non tanto all'interno del suo patrimonio figurativo, quanto piuttosto in qualità di elemento culturale ed espressivo latente. Come si evince da lettere e testimonianze conservate nel preziosissimo archivio personale dell'artista, il pittore fu un collezionista appassionato di oggetti giapponesi fino a manifestare apertamente questo amore nella propria opera pittorica, in dipinti e nature morte di soggetto nipponico. Tali opere costituiscono un corpus non molto nutrito che comprende una ventina di pezzi tra olii su cartone, tavola, tela, pastelli e disegni, quasi tutti databili tra gli anni Venti e Quaranta.

 

 

 

 

 

Arturo Rietti, Pupi giapponesi. Trieste, Museo di Storia ed Arte

 

 

 

 

 

Soltanto due opere a noi note, il pastello Pupi giapponesi, risalente probabilmente al 1887 e Kakemono, presentata all'Esposizione della Famiglia Artistica Milanese nel 1888, vennero realizzate in età giovanile. Tutte le altre, dai titoli piuttosto generici e ripetitivi di Bambola giapponese, Statuine giapponesi, Ritratto di donna giapponese, datano, invece, al termine della carriera di Rietti, quando l'artista poté dedicarsi con più libertà ad esplorare nuove vie creative, al di fuori delle commissioni ufficiali di ritrattistica che tanto l'avevano impegnato tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo successivo[2].

Per quel che concerne i soggetti rappresentati, si tratta quasi esclusivamente di riproduzioni pittoriche di statuine e bambole provenienti dal Paese del Sol Levante, che nella maggior parte dei casi possiamo identificare con precisione, visto che facevano parte della collezione dell'artista di gusto orientaleggiante. È possibile ricostruire questa raccolta d'arte nelle sue linee generali, grazie agli oggetti e ai libri custoditi nell'archivio Rietti, pur sapendo che di molti pezzi si sono perdute le tracce a causa di avvenimenti sfortunati, tra cui furti, il bombardamento dello studio milanese nel 1943 e l'incendio nella villa della figlia Anatolia nel 1984.

 

 

 

 

 

 

Arturo Rietti, Bambolotti giapponesi. Roma, Archivio Rietti

 

 

 

 

 

Le due statuine lignee Bambolotti giapponesi rappresentano un uomo e una donna inginocchiati e sono giunti fino a noi in perfette condizioni: entrambe furono donate al pittore dall'ambasciatore del Giappone a Ginevra, Inazo Nitobe, in occasione di un loro incontro avvenuto nel 1923.

 

 

 

 

 

 

Arturo Rietti, Statuine giapponesi. Collezione privata
 

 

 

 

 

Rietti dovette nutrire nei loro confronti un affetto particolare, dal momento che le conservò nella propria collezione per diversi decenni, decidendo anche di ritrarle in alcuni olii su tavola e su cartone tra il 1935 e  il 1941[3].

Grazie ad una lettera, oggi alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia e indirizzata da Napoli all'amico Gustavo Botta nel novembre del 1920, sappiamo che Arturo Rietti possedeva altri “due bamboletti Giapponesi”: da quel che si apprende, questi gli erano stati sottratti, a suo dire, da un baule lasciato in deposito all'Hotel Diana, dove il pittore soggiornava con regolarità. Da una sua descrizione piuttosto frettolosa, apprendiamo che doveva trattarsi di due statuine, una in posizione frontale e vestita di verde, l'altra di profilo e di colore blu. Sfortunatamente Rietti non poté recuperare questi oggetti: in nessun dipinto del Maestro raffigurante delle bambole giapponesi a noi noto, infatti, compaiono degli esemplari corrispondenti a tale descrizione. Il pittore si servì, quindi, di altri pezzi della sua raccolta come modello per le nature morte successive, cercando di superare la perdita di queste statuette che lo aveva lasciato, parole sue, “molto afflitto”[4].

Oltre alle due bambole andate perdute e a quelle donategli dall'ambasciatore giapponese, il pittore aveva collezionato anche tutte le statuine che sono oggi conservate nella collezione romana dell'artista.

 

 

 

 

 

 

Arturo Rietti, Bambolotti giapponesi. Roma, Archivio Rietti
 

 

 

 

Tra di esse, compaiono quattro bambole, due donne e due uomini, riproducenti dei personaggi del teatro giapponese, sul modello del tradizionale kabuki.

 

 

 

 

 

 

Arturo Rietti, Bambolotti giapponesi. Ubicazione sconosciuta

 

 

 

 

 

Rietti le ritrasse di preferenza in coppia, accostandole due a due in combinazioni diverse e riproducendole da varie angolazioni. Per quanto concerne le figure maschili, il pittore ne fece anche alcuni ritratti ravvicinati; nell'archivio della casa d'aste milanese Il Ponte, però, gli olii sono registrati con titoli facenti riferimento al mondo cinese (ripresi anche da Lorber), ma la vicinanza stilistica dei soggetti con i due pendant femminili fa pensare che i quattro bambolotti costituissero una serie e che riproducessero, come affermato, dei caratteri del mondo teatrale nipponico, come confermato anche da Anatolia Rietti[5].

Per quanto riguarda la datazione dell'acquisizione della maggior parte dei pezzi della collezione si può ipotizzare che le statuine vi fossero presenti già dai primi anni Venti, dal momento che Rietti ne ritrasse una in un dipinto di cui oggi si sono perse sfortunatamente le tracce, perché sottratto dalla villa degli eredi nell'ottobre del 1981. L'olio su tavola Bambola giapponese con anemone è infatti datato 1922 e doveva essere molto caro al Nostro, dal momento che questi incaricò il noto fotografo milanese Emilio Sommariva di riprodurre il dipinto[6].

La ricchezza e il valore della raccolta orientale riettiana incoraggiano ad approfondire le motivazioni che portarono l'artista ad interessarsi così profondamente all'arte e alla civiltà giapponesi e a domandarsi se si possa riconoscere un fil rouge che unisca la sua produzione tarda alle vicende personali e più prettamente artistiche di tutta una vita.

Il pittore triestino ebbe l'occasione di venire a contatto, già negli anni della sua formazione, con diverse suggestioni facenti parte di quella moda orientalista che da tempo si era diffusa non solo in Europa, ma anche in Italia. A partire dal 1882, il triestino si recò a Firenze, per apprendervi all'Accademia di Belle Arti i primi rudimenti del mestiere; lì ebbe come insegnante Giovanni Fattori, pittore macchiaiolo, ma soprattutto grande estimatore degli xilografisti giapponesi, ammirati in occasione della sua permanenza a Parigi nel 1875. Lo stesso Rietti fu un appassionato amatore di stampe giapponesi, come testimoniato dal corpus di xilografie sopravvissuto allo smembramento della sua collezione e donato dalla figlia Anatolia al Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma nel 1974[7].

Al di là dal sostenere una diretta influenza da parte del maestro fiorentino nello sviluppo di questo amore precoce nei confronti della xilografia, è possibile, comunque, parlare di suggestioni. Rietti poté avvicinarsi, ad esempio, alla grafica giapponese in un primo momento a Firenze e successivamente a Monaco di Baviera, a contatto con la Secessione e, ancora, a Parigi, durante la sua partecipazione all'Exposition Universelle del 1889.

Si trattò, pertanto, di influenze, dirette o indirette, che andarono a sommarsi ad un sostrato culturale ampiamente proteso verso il Paese del Sol Levante. Già a Trieste, infatti, il pittore aveva potuto respirare un'apertura nei confronti della moda orientalista, che ormai nella seconda metà dell'Ottocento poteva dirsi ben radicata, soprattutto nel mondo del collezionismo locale[8].

Per completare questo viaggio in quello che potremmo definire il “giapponismo riettiano”, occorre riferirsi brevemente alle relazioni che l'artista intrattenne con il mondo intellettuale a cavallo tra Otto e Novecento; è possibile ritrovarvi diversi elementi che ci parlano della sua passione non soltanto per l'oggettistica di piccole dimensioni proveniente dal Giappone, ma ugualmente per diversi aspetti di questa millenaria civiltà.

In riferimento alla sua attestata amicizia con il musicista di origini polacche Mieczyslaw Horszowski, sappiamo che i due condividevano la stessa passione per il mondo nipponico rafforzata da un dono che Rietti aveva fatto all'amico, un pannello giapponese con scimmia nello stile di Mori Sosen, parte della sua preziosissima collezione privata, come testimoniato dalla stessa figlia del pianista[9].

Nel medesimo periodo, Arturo Rietti si interessava ugualmente di questioni estetiche riguardanti l'universo giapponese e affrontava con entusiasmo qualsiasi conversazione su questo soggetto: sempre in base a testimonianze indirette, tra cui quelle della figlia Anatolia, sappiamo che le sue preferenze andavano allo scrittore di origini greche Lafcadio Hearn, uno dei primi a scrivere, in quegli anni, di folklore nipponico, e all'artista Takeuchi Seiho, che si era lasciato ampiamente influenzare dalla pittura europea, in particolare quella impressionista. Scorrendo, inoltre, i titoli dei volumi superstiti contenuti nella biblioteca del pittore, ne ritroviamo numerosissimi dedicati all'arte giapponese, alcuni di essi facenti riferimento a studi condotti nell'ambiente critico italiano a lui contemporaneo[10].

Alla luce di quanto detto finora, risulta evidente come la componente giapponese di Rietti abbia rappresentato una costante all'interno della sua ricerca personale come artista e come uomo. Questo interesse si ritrova ugualmente nella tecnica pittorica prediletta per le sue nature morte giapponesi: la totalità dei dipinti giunti fino a noi, infatti, esprime un'attenzione minuziosa nei confronti del colore e della sua brillantezza, vicina alle sperimentazioni della pittura nipponica: il Maestro scelse non casualmente la pittura a olio che meglio del pastello, suo alleato di una vita, poteva rendere le atmosfere laccate e polite, memori degli antichi dipinti giapponesi su tavola.

In questo senso l'adesione del pittore a questo mondo così lontano risulta totale e costante: lungi dal rappresentare una moda di durata effimera o un coinvolgimento passeggero, il suo giapponismo costituì una linfa vitale cui abbeverarsi fino alla fine della propria esistenza. Ed è, anzi, proprio nel periodo conclusivo della sua vita che Rietti si rivolse all'Oriente e alle sue atmosfere riposanti, realizzando opere che aderiscono, soltanto lontanamente, alla tipologia riettiana del ritratto: bambole e statuine dove a contare non è più il guizzo dello sguardo, così perfetto nei dipinti e nei pastelli del filone ritrattistico alla moda, quanto piuttosto un'espressione sorniona, spesso un sorriso, che però nasconde un messaggio non interamente rivelato, “qualcosa che non affiora e non si scopre”, come ebbe a dire Giovanni Borrelli nel 1910[11].

 

 

 

Ringraziamenti:

Desidero ringraziare infinitamente Anna Caterina Rietti per avermi aiutata con le sue testimonianze dirette e la sua conoscenza approfondita dell'archivio del Maestro.

 

  

 

 


Note

 

 


[1]Cfr. L. Crusvar, Il Giappone: miraggio di capitani, gioco della borghesia, in Il sentiero dei mille draghi: viaggio, viandanti, donne e sogno nel mito dell'Estremo Oriente, catalogo della mostra a cura di  A. Ruaro Loseri, Civici Musei di Storia ed Arte (Passariano, Villa Manin), Asolo 1979, pp. 60-70; S. Zanlorenzi, Il giapponismo di Argio Orell, tra contesto internazionale ed esperienza individuale, “L'Archeografo Triestino”, 117, 2009, pp. 557-603; idem, Il giapponismo triestino: il caso italiano tra diplomazia e storia culturale,  “Clio”, XLVI, 2, 2010, pp. 283-99.

 

[2]Cfr. G. Guida, Cronache e giudizi della stampa sull'arte di Arturo Rietti, in Idem, Arturo Rietti, Roma 1946, p. 5; M. Lorber, Arturo Rietti, Trieste 2008, p. 239, n. 3. Per tutte le opere non citate successivamente: M. Lorber, Arturo Rietti... cit., p. 183, n. 29, p. 185, n. 40, p. 239, nn. 5-7.

 

[3]Si tratta degli olii su cartone Statua lignea giapponese, Statua giapponese inginocchiata, Statuina giapponese inginocchiata e Due Statuine giapponesi. Cfr. M. Lorber, Arturo Rietti... cit., p. 184, nn. 37, 39, p. 185, n. 42, p. 239, nn. 2, 4.

 

[4]La lettera è riprodotta in M. Favetta, Arturo Rietti: ritratti e lettere dalla raccolta Gustavo Botta alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, “Arte in Friuli, Arte a Trieste”, 25, 2006, pp. 71-86.

 

[5]La testimonianza è riportata dall'erede Anna Caterina Rietti che a proposito degli oggetti orientali riettiani afferma che  Anatolia vi si riferiva sempre in termini di collezione giapponese. Cfr. M. Lorber, Arturo Rietti... cit., p. 183, nn. 27, 30-32, p. 185, nn. 41, 43, 45-46

 

[6]E. Sommariva, Riproduzione di opera d'arte. Dipinto – Natura morta, 1930, fot., Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, fondo Sommariva, SOM. D. Is. II. 192; M. Lorber, Arturo Rietti... cit., p. 185, n. 43. L'interesse di Rietti risalirebbe già all'età giovanile: grazie ad una preziosissima informazione di Anna Caterina Rietti, infatti, Anatolia Rietti avrebbe datato il pastello Pupi giapponesi, cui si è accennato sopra, 1887.

 

[7] La donazione comprendeva sette stampe di vario soggetto (scene teatrali, paesaggi, personaggi) ad inchiostro su carta. Cfr. Ministero della Pubblica Istruzione, Contratto di compra-vendita, Roma, Archivio Rietti.

 

[8]Le raccolte dell'arciduca Massimiliano d'Asburgo e di Carlo Morpurgo esemplificano tale tendenza, destinata a durare  anche nel nuovo secolo; nel corso degli anni Dieci, infatti, il Circolo Artistico Triestino organizzò due mostre d'arte orientale nella sala dell'Esposizione Permanente, la prima, nel 1908, curata da Carlo Wostry, in cui venne presentata la collezione giapponese Huc, la seconda nel 1912 sotto la curatela di Argio Orell. Cfr. L. Crusvar, Il Giappone... cit., pp. 65-70; C. Wostry, Circolo artistico di Trieste, Mostra giapponese (Collezione Huc): esposizione permanente del Circolo artistico, Trieste 1908; A. Orell, Mostra giapponese 1912: esposizione permanente del Circolo artistico, Trieste 1912.

 

[9]Cfr. B. Horszowski Costa, Miecio. Ricordi di Mieczyslaw Horszowski, Genova 2000, p. 253.

 

[10]Cfr. B. Horszowski Costa, Miecio... cit., p. 253. L'archivio Rietti conserva parte di questa collezione di volumi di proprietà del Maestro tra cui: V. Pica, L'Arte giapponese al Museo Chiossone di Genova, Bergamo 1907;  J. Harada, G. Holme, The garden of Japan, London 1928.

 

[11]Cfr. G. Guida, Arturo Rietti...cit., p. 13.