Note per il convegno «Alberto viani e il suo tempo»1

 

 

Luigi Paolo Finizio

 

 

 

 

Pittura e scultura: tra cubismo e surrealismo

 

Va subito detto che tirando in campo cubismo e surrealismo per la scultura di Viani le connessioni non sono proprio dirette e specifiche. Non solo per i suoi anni giovanili, di formazione, verso le due poetiche si tratta piuttosto di approcci traslati in modo interiore. Secondo sentiti avvicinamenti e richiami in un contesto che da noi, in anni Trenta e Quaranta, è stato piuttosto indistinto fuori dei più netti binari di futurismo, metafisica e novecentismo. Più avanti, sino agli estremi della personale vicenda d’arte, il richiamo invece verrà secondo attingimenti e affioramenti fattisi connaturati alla sua vena espressiva.

Quale tipico sigillo di poetica, rispetto ad altre poetiche più estroverse nel fare e immaginare, si tenga conto per tali premesse di richiamo che la sua scultura, pur sempre avvinta a un nucleo visivo di realtà, è rimasta il frutto non di una pratica materiale modellante sulla materia, di un tradizionale cavar fuori dall’opaco informe, ma di una maieutica interiore, di un suscitare dall’invisibile. In un venire alla luce indotto dal farsi visivo di un segno disegnato. Segno sovente faticoso e ansioso, eppure, nel suo interno dipanarsi e definirsi, sotteso dal disporsi, dall’attesa verso lo schiarirsi della forma, verso il suo imporsi alla luce. Una pratica e un suscitare che per Viani segnano pure una svolta nella sua storia formativa, una rottura sulla tradizione di scultura che infrangendone le convenzioni ne ritrova e rigenera il principio d’immagine, l’ideazione.

Nella mostra del ’90 a Palazzo Te di Mantova, una prima, inedita, occasione di retrospettiva conoscenza sulla scultura di Viani fu offerta dal curatore Pier Carlo Santini con il ritrovamento di alcune fotografie, pubblicate in catalogo, riguardanti il suo periodo giovanile negli anni Trenta. Immagini di opere distrutte che ci dicono della lezione di Arturo Martini, del quale, sappiamo, è divenuto poi, negli anni ’44-’47, assistente nell’Accademia di Venezia. Più in generale, ci dicono come allora si è avvicinato, tramite il Maestro trevigiano, a certe correnti tendenze al «primitivismo», al rustico, a un certo «antigrazioso» coniugati con le libertà plastico-spaziali di visione cubista. Del resto, alla XVIII Biennale, del 1932, la sala di Martini era stata all’insegna della semplice terra cotta e per un ritorno antiretorico all’arcaismo etrusco, di fatto, deviando dal corso ufficiale di scultura volto alla romanità dell’arte. Ma, a ben vedere, le foto delle crete di Viani mostrano uno spirito di demistificazione scultorea ancora più spinto.

La plastica, i lineamenti dei volti delle sue composizioni in creta presentano un che di popolare e semplificato, sino alla riduzione ironica, assenti del tutto nella nostra scultura contemporanea e ravvisabile solo in certa pittura, quella di un Carrà o Léger. La sua ricerca è certo di reazione all’ufficiale spirito oratorio in atto in Italia e sappiamo che già dal 1930, con la XVII Biennale di Venezia, si era istituito un premio speciale per opere votate alla celebrazione del Fascio. Sicché, è in quella luce di ricerca antiretorica che possiamo intendere, come una confessione del giovane Viani, la fotografia della composizione in creta Il poeta a l’osteria del ’33. (Fig. 1)

Confessione, vale a dire, quale un’intima dichiarazione rappresentata dal poeta raffigurato con la mano al petto e l’altra sul banco sopra il foglio, reale, in una sorta di neocubista citazione a collage, del frontespizio della rivista « Il Selvaggio». Cambiando di contenuti, il foglio era passato allora da Firenze a Roma sotto la direzione di Mino Maccari a condurre la propria battaglia, anche ironica, in difesa dell’autonomia dell’arte da ogni ideologismo e dirigismo politico. A intendere perciò, Viani volle significare, non a caso, nella sua creta, contro ogni ubriacatura ideologica, una mutazione che rese la brocca da vino sul tavolo del Poeta a l’osteria in un vaso per fiori. In tal modo, senza farsi prendere da certa fronda «strapaesana», il suo proposito antiretorico pronunciava in scultura una scelta di campo espressivo e il tendere ad una forma di racconto interiore, di libera immaginazione. Libertà di linguaggio che gli arrivava certo più da certa immaginazione pittorica che dalla statuaria o scultura del tempo. Un pungolo di scioltezze e poteri evocativi che riverberandosi dentro la comune tradizione canoviana, anche Viani, standogli vicino, deve aver sentito e metabolizzato, a suo modo, con Martini l’assillo di libertà dall’interno della scultura verso la pittura. Ed ecco un’altra foto di un’opera messa in creta a scandire fisicamente nello spazio una composizione di matrice cubista: Le baccanti del ’33. (Fig. 2)

Un lavoro anche questo disperso e fotografato non finito sulla creta rispetto all’assetto più completo della creta precedente2. Ma già vi si annunciano certe costanti della sua futura scultura. Anzitutto il corpo, quale sua esclusiva forma poetica e qui, per come appare dislocata e visualizzata, già dichiara il suo destino di frammento nel mondo. Vale a dire, non più statua come paradigma e misura antropocentrica ma quale oggetto tra gli oggetti del mondo umano, del suo intero agire e palpitare nella vita. Forma plastica che ha pienezza d’immagine, compiutezza, anche quale lacerto, quale sincope che similmente a certi effetti di sospensione in poesia e musica esalta il senso e il ritmo dell’intero su cui s’imprime. E un’altra costante del suo futuro fare scultura sta nel segno che precede e poi sostituirà il modellato, come s’intravede nel riquadro dell’anfora, dove affiora il tratto inciso e veloce di un disegno che ne prevede un’altra di formato più grande.

Della laconicità della scultura di Viani ha scritto nel ’64 Ragghianti che «assume l’esclusione come una modalità assoluta per interiorizzare al massimo la forma»3. Se la figura femminile resecata all’altezza del seno in Le baccanti prelude alla lancinante sezionatura nell’astrazione della famosa Cariatide del ’51, (Fig. 3) l’altra figura femminile, dal prosperoso bacino visto da tergo, fa da generante e dolce modellato naturale alle scabre superfici di Nudo femminile del ’41 (Figg. 4-5) sino alla spinta elisione-astrazione di Torso femminile del ’45 (Figg. 6-7) e alla sua variante ironica di Nudo del ’46. (Fig. 8)

Si snoda insomma per noi un filo da dipanare, un cammino, che sull’abbandono della tradizione del modellare e delle convenzioni di racconto e rappresentazione per la scultura, nelle sue storiche virtualità di materia e ideazione, sono passate alla suscitazione dal disegno, al suo cercare e confinare la forma su di un foglio piano per poi trasferirla nella volumetria del gesso. C’è come una generante e fattuale giuntura di rispondenza tra i profili del disegno sul foglio e i netti limiti di scultura nello spazio. Scelta operativa marcante per Viani la fondante dizione di poetica. Ne segna cioé la vocazione all’immaginazione interiore e ne dichiara, si è detto prima, le sentite matrici moderne di cultura figurativa verso il cubismo e il surrealismo. Per la sua scultura ha affermato l’artista di non avere riferimenti precisi di partenza, di muovere dalla cultura. Tuttavia, nel bacino di memoria, di cultura plastico-figurativa cui implicitamente attinge, le sue forme sono trovate, così come all’icona del torso vi arriva non per ideale richiamo ma per scavo, per sondaggio. Lo trova: non lo presuppone. Come dire che il suo classicismo o neoclassicismo è più induttivo che deduttivo. Giulio C. Argan nel recensire la sua mostra di gessi all’Arengo di Rimini nel ’74 ha osservato in proposito: «Per tutta la vita Viani non ha fatto che meditare sul concetto del classico, distinguendolo con dirimente dialettica da quella sua deduzione storicistica e normativa che è il classicismo.»4

Ricerca e de-costruzione che incideranno sempre più sullo stesso motivo d’immagine:il corpo femminile. E la de-costruzione dell’intero è indubbiamente un seme raccolto e coltivato da Viani nel campo visibile e invisibile del cubismo.

 

 

Arp/Viani: assillo filologico o comoda deduzione?

 

È un interrogativo che vale poco, ma ha avuto i suoi effetti sulla vita artistica di Viani e ancora oggi riposa alla pari di un luogo comune. Per ragioni di primogenitura nel tempo e immediate affinità formali, questi due grandi e originali artisti dell’immaginario moderno in scultura sono stati e sono accomunati uno conseguente all’altro. Forse con un tacito senso di rivalsa Ragghianti, nello scritto prima ricordato, afferma che ci sono opere in cui Arp è ricorso a Viani in certi esiti d’assolutezza formale. È certo possibile. Sappiamo dell’attenzione di Arp verso Viani testimoniata dallo splendido scritto, in versi e prosa, che gli dedicò nel ’57: Petits poèmes à l’intention de Viani. L’aveva, per così dire, provocata Enrico Crispolti come ci ha poi raccontato nel catalogo della mostra «I disegni di A. Viani» del ’96 a Venezia5. Viani considerava Arp il «patriarca» della scultura moderna e lo ha certo seguito nei suoi percorsi e strategie d’impianto formale con curiosità, ma la sua intenzione restava diversa. E c’è un dato interiore che li accomuna più delle apparenze ed è l’ironia che nel dadaista Arp si da per scontata, ma che appartiene pure alla natura di Viani quanto la sua nota riservatezza e solitudine.

Non poche delle sue invenzioni morfologiche sono il frutto di uno scherzo anatomico, fanno il verso a certi minimi elementi della riconoscibile fisionomia di un corpo, il seno, il collo, l’ombelico. E non è da escludere che a volte abbia guardato, a cominciare da Martini, ad altri scultori del suo tempo, Laurens e Brancusi, Arp e Moore, con lo stesso umore divertito. Del resto, dai rischi maniacali di aver scelto una sola realtà immaginativa, il corpo femminile, non poteva che salvaguardarlo l’innata ironia.

L’interrogativo sui due artisti vale di più se ci serve a capire che il loro comune e apparente approdo comunicativo possiede una matrice suscitativa affine. Quella, nei loro tempi, virtualmente più libera del fare pittura che scultura. Beninteso, vale ripetere, col dire per Viani pittura s’intende il suo campo di disponibilità espressiva in chiave suscitativo-immaginativa. In altre parole, sostanza di fantasia sentita con euristica e liberante configurazione a fronte delle convenzioni di scultura. In Arp è così intricata e sovrapposta tale matrice suscitativa che spesso, nel ricorso al colore e alla bidimensione, gli esiti sono indistinti. In Viani no. Sempre i suoi risultati si collocano netti nello spazio, pervenendo alla rotonda e leggibile vocazione scultorea. Per questo nel procedere dal veloce e involuto disegno la ricerca dà vita ad una dialettica d’elaborazione e definizione interiori che sigilla il vissuto e lo spirito, la materia e l’idea dei suoi esiti d’immagine.

Arp muove da una concezione dell’astrazione e delle forme plastiche che è lecito definire genetico-organica. Concezione in cui il nascere e comporsi delle forme, secondo la sua nota dizione di art-concret, possono seguire un cieco eppure estetico manifestarsi. Altresì, per Viani, ogni spinta morfologia d’astrazione resta intenzionale, segue il dettato che il segno formativo ricerca e attende sul foglio delle ideazioni grafiche. Ed è su questo terreno che la sua pratica mostra nell’insorgere e definirsi delle forme una forte distinzione da quella di Arp, anche quando, in apparenza, somiglianze si danno tra le opere dei due artisti. Insomma, per le forme scultoree di Viani c’è sempre uno stupore esaltante e un affondo nel pungolo d’esistenza, nell’agire e proporsi del corpo nella vita, assenti nella scultura di Arp. Bisogna per questo prestare attenzione non ai disegni finiti, quelli dal tratto netto e sicuro, dove a volte il segno pare riproporre sul foglio lindo di carta l’idea già formata in scultura o sue varianti rispetto al biancore del gesso. (Figg. 9-10-11) Occorre guardare ai disegni di ricerca, a quelli di lavorio svelto e confuso, dove il segno cerca se stesso prima di dare corpo alle forme plastiche. Dove l’ouvre raconte sa propre création, a citare una frase, forse del poeta Paul Valery, che lo scultore riporta in uno dei suoi Cartoni di lavoro6. (Figg. 12-13-14)

Va detto, pertanto, che sebbene con il loro terso compiersi nel biancore della luce di gesso le sculture di Viani appaiano tentare le assolutezze del purismo, pure la loro origine, il loro concretarsi plastico, seguono scaturigini non proprio idealizzanti, di castigatezza formale, ma di senso confuso per intrigo con la vita. Come mostrano, appunto, l’insieme dei disegni preparatori. In essi, l’assiduo e intenso procedere per tracce corsive, per ghirigori e bozzettismi svelti, le varie grafie di segno su motivi che nascono e si ripetono, il montaggio di ritagli con le più varie annotazioni e lo stesso singolare impiego di comuni cartoni e fogli ritagliati da giornali, ci fanno intravedere una sorta di vissuta implicazione esistenziale per le idee formali che ne verranno. (Figg. 15-16-17) Una quotidiana interazione tra il privato, l’intimo dei suggerimenti, gli stimoli e le occasioni esterne che premono e si sedimentano nel suo fare scultura. Forse proprio tramite il ricorso a quei ritagli di fogli di giornale, con il loro supporto tipografico di titoli gridati, di notizie incolonnate e continue a far eco ai giorni e ai clamori della vita, che per Viani la scultura raggiunge la luce, il nitore della forma plastica attraverso le pieghe dell’esistenza, nel rumore della vita. (Figg. 18-19-20)

 

 

Organicismo d’immagine

 

Dopo la mostra personale alla Piccola Galleria di Venezia nel ’44, presentato da una poesia d’incoraggiamento di Arturo Martini, fu con le opere esposte nella sala del «Fronte nuovo delle arti», nel ’48, alla Biennale di Venezia, organizzata e introdotta da Giuseppe Marchiori, che la scultura di Viani si mise a confronto con le attuali ricerche in scultura e pittura nazionali, ma non solo. La sua fu posizione decisa e chiara anche in relazione alle contrapposizioni di linguaggio, tra astrazione e figurazione, conseguenti a quella famosa mostra veneziana. La sua scelta era già in atto ed esplicita tenendosi fuori dei vincoli e imbocchi ideologici. Su quel corso di confronti militanti, la novità della scultura di Viani congiungeva in modo interiore e formativo, in modo vissuto e morale, la coscienza all’inconscio, l’astrazione controllata di scuola cubista all’organicismo intimo e materiale del libero figurare surrealista. Suggerimenti, pungoli ideativi filtrati e sedimentati al di dentro di un sistema di configurazioni, valga ripetere, più di pittura che scultura.

Staccatosi dalla pratica della modellazione su creta, dai moduli del racconto martiniano, come si è seguito prima tramite le fotografie pervenuteci, è dai primi anni Quaranta che Viani ha focalizzato la scultura sul motivo del corpo. Ne ha sondato le scansioni organiche assimilando per astrazione i temi anatomici a scabre fluenze formali, a movenze rastremate nei piani con profili troncati nello spazio. Motivo d’immagine su cui pure premevano stilemi lontani e vicini: dal prossimo e pungolante Martini, con i suoi asciutti e donatelliani assetti anatomici, come in Torso del ’28, (Fig. 20) a certi tratti a disegno di Picasso con il suo gigantismo in pittura, quello caro a Breton, e al suo recente clamoroso quanto drammatico, disgregare le forme naturali in Guernica (’37). Fantasie di forme organiche svolte pure nelle pietre e i bronzi di Arp negli anni Trenta, nelle figure distese e frammentate di Moore, per arrivare alle astrazioni di un Mirò, alle surreali fisiologie di un Tanguy sino ai paradossi di Dalì, ma che potevano anche comprendere le prosperose figurazioni di Léger, che Viani deve aver gustato tramite la lettura dei «Cahiers d’Art». Tuttavia, nel lavoro svolto sulle crete e l’incubato interesse per le figurazioni anatomiche, proprio per allora, non escluderei un più diretto e fermo aggancio a certa pittura di Alberto Savinio. Quella, certo, scoperta dal giovane Viani con la prima mostra in Italia del pittore, residente a Parigi, alla XVII Biennale del 1930, nella sala denominata Appel d’Italie.

Si può supporre che lì Savinio gli abbia donato, tramite le sue fantasiose figurazioni mitologiche, una forte e smaliziata attenzione alle fattezze del corpo, al suo autonomo potenziale espressivo. Da quel teatro di figure titaniche, tutte legate al mondo delle visioni interiori, in cui il corpo è anche metamorfosi del corpo, un mondo che si farà sempre più predominante per Viani, sono forse nate le sue prime arbitrarie incursioni sulla plastica del corpo. Se si va ancora ad una delle fotografie inedite fornite nella mostra del ’90 a Palazzo Te, Figura maschile seduta del ’33, si può avanzare un palese accostamento con certe figure erculee della pittura di Savinio: Prometeo del 1929. (Figg. 21-22-23)

Nei propositi di abbandono del modellare su creta, per quanto indotti dal campo di pittura, erano tutti stimoli che giunsero a Viani per farsi chiare scelte di scultura. Inizi di riflessione immaginativa che dapprima lo indussero a una maniera di riduzione plastica, di rastremazione dei piani di figurazione anatomica rispetto ai modi enfiati, alle esultanze organiche, astratte e figurative, in voga in non pochi degli esempi mirati di pittura e di scultura. Quasi a ritrovare, in modo più stringato, le asciutte tirate d’astrazione del maestro Martini, le sue esagerate fisiologie, come nel Torso qui citato, appunto, sino al testamento di una scultura rivoluzionata nello spazio, dove «i risolventi» della scultura, si fanno «infiniti», come lui ha detto, per il Pegaso caduto del ’43 7. Il bramato e illimitato orizzonte naturale del Maestro si confina per Viani, si raccoglie nella ricerca di un comporre esclusivamente volto al corpo umano. All’uomo anatomico, al suo stare nel mondo e al suo astrarsi dal mondo. Posizione acrobatica nell’esistenza che, quale realtà perigliosa e danzante della condizione umana, presto diventa metafora a tutto tondo per la sua scultura.

Nel gioco di metafora i termini organici si porranno fisici e meta-fisici lungo i motivi di analisi e induzione, di elisione e astrazione sul corpo, a partire, si può dire, dall’intero di Acrobata, un gesso del ’39-’40, anch’esso perduto. (Fig. 24) Un incipit di sesso maschile, destinato a non ripetersi, quasi a segnare l’adamo da cui verranno tutti i futuri lacerti femminili. Il suo intero è smontato, sezionato e ricomposto con le singole parti per sineddoche. Che siano gli arti superiori o inferiori, le spalle o l’addome, il bacino o l’anca, il seno o i pettorali, i glutei o le cosce, Viani apre la sua rivoluzione nello spazio per la scultura, il significare di un libero e improbabile vocabolario i cui lemmi per quanto commutati restano nella lingua del corpo umano. Dal naturale Torso virile del ’39, (Fig. 25) erto e asciutto come uno scudo, all’inventata e briosa grazia erotica di Nudo del ’44, (Fig. 26) le cui movenze nello spazio paiono alludere a quelle dell’Acrobata.

Come a dire che all’idea sublimata della forma compiuta, memoria evolutiva della classicità nella storia e nei linguaggi dell’arte, Viani ha fatto subentrare l’idea sublimata della forma incompiuta. L’essere del non essere, l’essere colto col suo farsi e disfarsi nell’apparire. Su questa via, l’idea stessa di scultura appare definirsi oltre il privilegiato nucleo generativo, il topos anatomico, in un librarsi di piani, in un continuum dinamico di plessi formali che ne sanciscono fisicamente nello spazio l’istante metamorfico, le movenze astratte sino al profilo fantasmatico di una chimera: Nudo sdraiato (’50), (Fig. 27) la già citata Cariatide (’51), (Fig. ) Nudo (’52), (Fig. 28) Torso virile (’53), (Fig. 29) Nudo (’56), (Fig. 30) Danzatrice (’59) (Fig. 31) e, dunque, Chimera (’60). (Fig. 32)

Estremi certo di pienezza e movenze organiche, di persistenze anatomiche in scultura, per astrazione e assolutezza formali nello spazio e nella luce, rispetto alle Forme uniche della continuità nello spazio (’13) di Boccioni, alle teste ovoidali, ai torsi cilindrici di Brancusi degli anni Venti e rispetto pure alla provocatoria dissoluzione di Atmosfera di una testa (’44) di Martini.

 

 

Il corpo glorioso

 

Viani per quanto avanzi nell’astrazione non rinuncia al suo umanesimo organico e, tra dato sensibile e ideazione, all’incedere sul corpo con le sue implicite ed esplicite metamorfosi. Nei veloci e accorti tratti di disegno vi accede sempre dall’estremo di un’astrazione aderente all’essere e agire del corpo, come ad intravederne un’intrinseca trascendenza. È così che lo scultore appare proteso a fare del corpo, del corpo femminile, delle sue funamboliche mutazioni spaziali, una dizione simbolica a meraviglia del creato, ad arabesco di vita: il corpo glorioso.

Nel disegno e nella resa plastica, si è a volte guardato con derisione e incomprensione a certe sue forme che stilizzano il corpo femminile, con una coppia di sfere di diversa o uguale dimensione nel designare la testa o il seno nell’insieme delle spinte astrazioni. Segnali plastici che oltre a integrarsi con invenzione fungono, in fondo, da riconoscimento dentro gli estrosi e improbabili assetti anatomici. (Figg. 26-27, 30-31-32) Indubbiamente, il loro disporsi e inserirsi compositivamente rigenera la stravagante grammatica postcubista picassiana sulle femminili fattezze del corpo, tuttavia, con il conforto dei  pensieri, delle citazioni che Viani amava raccogliere su fogli di lavoro e in quaderni, si può credo assegnare a tali stilemi formali un che di metafisico, con valenze di senso cosmico. Significati colleganti la loro ideazione formale al tema conduttore della sua scultura, il corpo femminile, e ai connotati fortemente simbolici che tale tema d’immagine assume specialmente nelle opere degli anni Sessanta. Niente di dichiarato in merito: per Viani vale sempre l’avviso heideggeriano, da lui riportato, che «gli artisti autentici sono quelli che forniscono meno spiegazioni.»

Tranne che per alcune frasi sottolineate da una dichiarazione di Henry Moore che parlano in vece sua, altro non c’è: «...la mia scultura e il mio disegno sono basati sulla figura femminile in modo più completo che su qualsiasi altra forma della natura...»8. Infatti, a percorrere le annotazioni e riflessioni di Viani non se trova una, almeno a mia esperienza, che affronti il soggetto predominante della sua scultura, il corpo femminile o, a dire così, il corpo umano. La sua ostentata coinvolgenza in scultura pare dispensarlo da ulteriori motivazioni, oppure vale per essa la stessa citazione che Viani fa dall’Erodiade di Mallarmé: «la danseuse n’est pas une femme chi danse.» (Fig. 35) Del resto, sono tante le annotazioni da pensieri altrui che parlano per lui. Non di meno, nei Quaderni ci sono precise esternazioni sulla chiave metafisica della sua scultura: «So di preciso che le mie sculture le ho trovate solo in me stesso e sono i manufatti del mio pensare come metafisico-poetare»9. Il tendere all’assoluto, è idea poetica che Viani confessava dal ’52 all’amico Vittorino Meneghelli proprio alla luce di letture da Mallarmé e Valery: «Problema superbo quello delle soluzioni assolute, che forse sarebbe meglio definire il ‘possibile della poesia’...».10

Concezione di poesia che pervade e configura le intenzioni dell’artista con le intenzioni dell’opera. Col farsi visibile in scultura, in tale circolo tutto interiore si potrebbe perciò riconoscere un transito simbolico in cui i rotondi e anatomici segni astratti rimandano al pensiero dell’essere. Vale a dire, alla parmenidea rotondità dell’essere. E rimandano alla teogonia che dal caos fa scaturire Gaia, la madre Terra e da questa, con il Cielo, il Mare e quindi, dalle sue spume, dall’involucro luminoso di una perla, l’Anadiomene o Venere. Quei lemmi astratti e perfetti di scultura potrebbero ancora condurci al ruolo assegnato in senso metafisico da Mallarmé alla parola, al Verbe, quale originario segno rotondo e sonoro che non contaminato dalla storia può ricomporre in sé l’unità dell’essere. Ho detto prima di come il lavorio grafico dell’ideazione in Viani, con confusione di ghirigori e il supporto tipografico dei fogli di giornale, mostri arrivare alla purezza formale dal caos, dall’ingolfarsi dei segni, dai clamori della vita. Aggiungerei ora − per quanto possano essere casuali nel gioco disinvolto dei cosiddetti doodls intricati a qualche trama geometrica − predominano nei fogli preparatori grafemi curvilinei, disegni a raggiera, varie rotondità aperte e concentriche, quasi che il dettato inconscio faccia da refrain al tema intenzionale. (Fig. 36) Con euforia surrealista alla Dalì, si può leggere in uno dei suoi cartoni: «universo onirico di essenze carnali». Una sorta di esclamazione per l’organicismo delle forme che trova immagine in un suo raro Fotomontaggio degli anni Sessanta11. (Fig. 37)

Lungo gli anni Sessanta e oltre, il fondo immaginativo pittorico, quello mai dismesso in senso surrealista, fornisce nuova linfa al pungolo metafisico, al significato sovrarealistico della sua scultura. Le intitolazioni fanno da guida, Il pastore dell’essere (torso maschile) del 65, (Fig. 38) Il grande idolo del ’65, (Fig. 39) La grande madre del ’66, (Fig. 40) sino a Grande nudo femminile, (Fig. 41) a citare solo queste. Sculture che nel biancore delle loro parvenze organiche, nelle spinte mutazioni dei loro lemmi anatomici, come in certe tradizioni cultuali sciamaniche, fanno del corpo transito di significazioni cosmiche. Parti propizie in cui la carne richiama benefiche e spirituali evocazioni dall’universo. Così Viani adegua le sue inventate anatomie, slarga l’organicismo plastico ad estrosi assetti d’immagine. Il disegno sembra farsi celebrativo nelle forme tese a un respiro trascendente, nel loro aprirsi allo spazio con erta e flessuosa emblematicità religiosa.

L’idea di spazio, per quanto contornato e modulato di luce, è per Viani sempre qualcosa di fisico da attraversare e collocare nella forma, nel suo venire alla realtà dell’immagine plastica, nel suo offrirsi aperta alla scoperta creativa e alla visione. Resta un dato da contemplare. Un’opera che per questo è destinata a staccarsi dall’artista, dal suo artefice, sia come corpo che la produce sia quale corpo che la sostanzia e la configura. Su tale idea di fondo ebbe certo una forte risonanza e interesse per Viani l’avvento della pratica artistica della body-art sulla fine anni Sessanta e oltre. Era venuto meno l’istituzionale distacco e l’opera s’identificava al corpo dell’artista.

Portato a intendere il proprio tempo, a misurarsi con i processi più spinti dell’arte contemporanea Viani non si è sottratto alle loro provocazioni. Ne ha fatto spunto di riflessione per sé, di comprensione e spiegazione didattiche nei corsi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, come attesta la stimolante serie di Tabelloni ora conservata dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Udine. Uno di essi porta chiaro scritto il loro proposito di riflessione citando il filosofo A.N. Whitehead: «nessun danno più mortale può essere arrecato alle giovani menti di quello di indurle al disprezzo del presente»12. Nei due ultimi decenni del suo lavoro, dagli anni 70 agli anni 80, con le profonde mutazioni sul terreno artistico, dove l’evento, le materie povere e la rarefazione concettuale hanno sostituito l’identità del fare e dell’unità costitutiva dell’opera, si davano pure forti e duri sommovimenti nella vita sociale. Certo, non indifferente ai processi in atto, per la scultura di Viani ne venne un visibile effetto: s’interruppe l’unità organica dell’immagine plastica, l’aderenza alle sembianze umane. E per quanto rimescoli le carte del suo fare e immaginare riattingendo alle matrici di cubismo e surrealismo, lo sbocco decisivo è verso un più risoluto pungolo d’astrazione, di rimodulazione astratta.

Anche la ricerca nel disegno ha lasciato il verso curvilineo per tirarsi netto su piani e angolosità, su linee rette e squadrate giunzioni. (Fig. 42) La forma plastica si staglia ancor più nella luce comprimendo e articolando i plessi organici dentro piani geometrici su cui la piega e la voluta anatomica si riducono alla linea, ad allusiva grafia. Questo non tanto nelle geometriche movenze di grazia e ironia, quasi un ritaglio in cifra e compattezza d’oggetto, della serie d’Odalisca del ’74-’75, (Fig. 43) quanto piuttosto nella sequenza successiva, e ultima, di sculture all’avvio e oltre degli anni Ottanta.

Penso agli spianati ed essenziali assetti d’immagine plastica di Nudo maschile, Nudo femminile e Figura femminile dell’82-’83. (Figg. 44-45-46) Sul corso dei piani di disegno, dal gioco suscitante del campo di pittura, dalle virtualità d’immagine, Viani sembra sia pervenuto all’estrema soluzione eidetica del corpo plastico, del suo disporsi e disporre dello spazio, attraverso l’illusione bidimensionale del piano. Un piano astratto, comunque sagomato con allusioni anatomiche. Quanto dietro la svolta in chiave bidimensionale ci sia l’interesse che Viani ha rivolto agli scultori inglesi Antony Caro e Philip King o magari a certe nette sagomature di tele monocromatiche di Lucio Fontana andrebbe comunque studiato13. Avevo scritto per le ultime sue sculture esposte a Mantova nel ’90, e da cui sono partite le mie riflessioni per queste note, che ad osservarle non ci offrono più l’emotivo catturamento dello spazio, il funambolico agire del corpo, il suscitante passo di danza nella vita, ma, con ironia lapidaria e con leggerezza d’animo, ci bisbigliano la pausa silente e religiosa della morte.

 

 

 

Luigi Paolo Finizio

 

 

 

NOTE

 

1 Queste note su Alberto Viani sono nate a fronte di due mostre: una dedicata ai suoi gessi nel ’74 a cura di Pier Carlo Santini presso la sala dell’Arengo a Rimini e l’altra, in ampia retrospettiva, sempre a cura di Santini, nel ’90, presso il Centro Internazionale di Arte e Cultura di Palazzo Te a Mantova. Ne venne un mio articolo, La scultura di Alberto Viani, per la rivista barese «Altrimmagine» nel ’91, (V. n. 10) che qui ho rielaborato su tre nodi riflessivi.

2 Lo stato dell’opera in fotografia può farci pensare che tutte le crete siano state fotografate in un momento cui l’artista le aveva definitivamente messe da parte senza più proseguirle e per memorizzarle prima di distruggerle.

3 C.L. Ragghianti, Alberto Viani, in «Critica d’Arte», XI, fascicolo 61, Firenze 1964.

4 G.C. Argan, Alberto Viani, in «L’Espresso», XXII, marzo, 1974, poi in Occasioni di critica, a cura di B. Contardi, Roma 1981, p. 28.

5 Cat. Mostra I disegni di A.Viani, testi in catalogo di G. Nonvelier, E. Crispolti, L. Perini e C. Piersimoni, Venezia 1996, Rovigo 1997, ed. Electa 1996: come ricorda E. Crispolti il testo l’aveva ottenuto da Arp per un progetto di monografia rimasto irrisolto e quindi lo pubblicò nel catalogo della personale di Viani alla Galleria Odyssia di Roma nel 1961, p. 29. Lo scritto di J. Arp in Jours effeuillés. Poemes, essais, souvenirs 1920-1965, prefazione di M. Jean, Gallimard, Parigi 166, pp. 59-62.

6 Per i Cartoni di lavoro e i Tabelloni didattici che Viani ha utilizzato nei suoi corsi all’Accademia di Belle Arti di Venezia e ora conservati presso la Galleria d’Arte Moderna del Comune di Udine, si veda «Arte/Documento», A.V. I cartoni, officina di segni e disegni a cura di E. Bordignon Favero e M. Piantoni, presentazione di G.M. Pilo e scritti di E. Franzini, E. Viani e G.F. Tramontin in Libri Extra, IX, Centro per lo Studio e la tutela dei Beni Culturali, Edizioni della Laguna, Venezia 2002.

7 Come riporta Gino Scarpa, Martini dichiara in proposito: «Siccome in scultura non si fa che riprodurre il corpo umano nelle sue dimensioni, l’artista, per esaltarlo, deve esagerarlo, aggiungendo, amplificando.» e ancora: «Risolventi, fermo eccetera sono gli angoli, o le forti rientranze, o le apparizioni di altre parti come nel Pegaso caduto. Se l’opera non ha la possibilità di infiniti risolventi, essa diventa un oggettino.» In G. Scarpa, Colloqui con A. Martini, Introduzione di G. Piovene, ed. Rizzoli, Milano 1968, pp. 90 e 7.

8 Le frasi sono sottolineate da Viani, facendole proprie, come gli è solito nelle sue tante letture, da una dichiarazione di Moore apparsa sulla rivista «Retina», n. 1, Milano 1982. Qui si cita da A.Viani. Pensieri sull’arte a cura di E. Bordignon Favero e con un testo di W. Dorigo, Associazione Archivi per l’arte, Cittadella (Padova) 2006, p. 117.

9 Questa e la precedente citazione da Heidegger in «Quaderno H» di A. Viani in ibidem.

10 La lettera in A. Viani, Lettere da lontano, a cura di W. Dorigo e E. Viani, Marsilio, Venezia 1996, p. 59.

11 Il cartone ora sta nel cat. Mostra Alberto Viani e il suo tempo, Accademia di BB.AA. di Venezia e Galleria Bugno, a cura di S. Simi de Burgis, M. Tosa e G.F. Tramontin, Edizioni della Laguna, Venezia 2006, p. 87.

12 Il Tabellone n. 6 riprodotto in I cartoni di A.Viani, op. cit., p. 148.

13 Un suggerimento da indagare proprio in riferimento alle riproduzioni di opere nel dianzi citato Tabellone n. 6 in Ibidem.

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni tecniche, le immagini.

 

 

 

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