Mostra di Guido Andloviz - Introduzione

La Civica Raccolta di Terraglia di Laveno Mombello e  Guido Andloviz

 

 

 

Guido Andloviz

 

La Commedia Ceramica Guido Andloviz a Laveno Mombello


Enzo Biffi Gentili

 

 

Album Puglia, repertorio dipinto a mano della produzione della Società Ceramica Italiana.


Guido Andlovitz amava firmarsi Andloviz. L''italianizzazione" del cognome, che prosegue oltre il crollo del regime fascista, non è a mio avviso riducibile solamente a una scelta politica.
La mia ipotesi è che l'aneddoto sia significativo di una scelta estetica fors'anche inconsapevole. Eppure gli inizi dell'attività di Andloviz (anche a me piace chiamarlo cosi) in campo ceramico, nel 1923, presso la Società Ceramica Italiana di Laveno, avvengono sotto una costellazione stilistica d'oltralpe. Le "fonti" di Andloviz (come di Giò' Ponti, coevo rivale” presso la manifattura concorrente Richard Ginori) sono state a più riprese individuate da vari studiosi, connaisseur, amatori, da Paolo Portoghesi a Carla Cerutti a Mario Munari nell'esperienza della Wiener Werkstätte, di Dagobert Peche e Oskar Kaufman (1). D'altronde, questa fascinazione proveniente da un'area austro-ungarica non caratterizza solo gli anni '20 e lo "Stile 1925" nel nostro paese. Prima influenza, come ha affermato Massimo Carrà, il "Liberty" italiano (2); poi in anni molto recenti. è dichiarato fantasma figurativo, con le opere ceramiche di nuovo di Dagobert Peche e con quelle di Michael Powolny per la Wiener e la Gmunder Keramik, per i designers italiani che si ricimentano con i vasi nell'operazione Nuova Ceramica Nuove Tendentse (3).
Continuare a insistere su queste fonti e a privilegiare solo il primo periodo degli anni '20 non rende giustizia ad Andloviz. L'adozione di un linguaggio internazionale, in variante "bassa" non è di per sè un valore. O meglio lo diviene se il criterio di giudizio è, come troppo sovente è avvenuto e purtroppo ancora avviene, extraestetico, nell'opposizione di calchi o citazioni straniere a una presunta ufficialità e italianità dell'arte del Novecento e "fascista". Ad esempio Franco Bertoni, uno dei curatori della recentissima mostra dedicata al periodo lavenese di Angelo Biancini parla, per Andloviz, e per l'apparente vanità delle sue prove, di "una sorta di obiezione di coscienza nei riguardi della cultura dominante... " e del tentativo di trovare "... la possibilità di dialogare con l'Europa", in una risposta avvertita e cosciente alle espressioni di un "nazionalismo piccolo e medio borghese", da borghesia rurale (tra le quali Bertoni colloca il Futurismo, il solo nostro movimento di avanguardia internazionale in questo secolo). Del resto, non altrimenti è avvenuto per la celebrazione di una presunta "resistenza" rintracciabile negli "stupidi ninnoli graziosi" delle Ceramiche Lenci (4). Insomma, mi sembra di dover condividere una affermazione di Anty Pansera che, riferendosi alle ceramiche di Laveno progettate da Guido Andloviz ed esposte alla II Biennale di Monza del 1925, le giudica talvolta eseguite "con citazioni troppo vicine alle Wiener Werkstetten", anche se, ed è la parte positiva della considerazione, "le sue decorazioni proponevano motivi di vita settecentesca, resi con spirito caricaturale e briosa modernità" (5).
Al di là quindi del rapporto, un poco attardato (molti modelli di Perchè sono degli anni '10), con l'Oltralpe, molto più interessante è il rapporto verticale con la storia e la tradizione della ceramica. Il settecentismo di Andloviz non è solamente riducibile alla moda dell'epoca, solo "citazionistico". Il rapporto tra tradizione e innovazione è un argomento un vincolo di progetto e di mercato. Sono le illustri manifatture settecentesche, lombarde e venete, a fornire temi e modi al progetto di Andloviz. Sopra e sotto gli smalti delle terraglie lavenesi ricompaiono trasfigurate, le deliziose figurine della fabbrica Felice Clerici: ragazze maliziose, il viandante che si riposa (che è anche la fonte, a mio avviso del celeberrimo Pellegrino stanco di Giò Ponti) cacciatori, contadinelle, signore in ghingheri, omini, maschere della commedia. Insomma "le garbate caricature" del XVIII secolo a Milano sono il vero imprinting stilistico per Andloviz e agiranno, certo con minore freschezza, sino a dopo la seconda guerra mondiale (si pensi a un altro tema, quello delle Mongolfiere, anch'esso "pontesco", ma soprattutto, di nuovo, storico; rammento i decori a "Mongolfiera" della settecentesca manifattura veneziana di Geminiano Cozzi) (6). Certo l'elegante umorismo e la bonaria satira con cui vengono raffigurati i personaggi ceramici di Laveno hanno qualche debito con illustratori coevi.

 

Vaso Monza 1930 ca. (foto d'epoca)

 

Mario Munari fa il nome di Sto, Sergio Troano, pertinentemente e andrebbe riguardato anche il Tofano meno noto, il disegnatore di riviste di moda; e si deve qui rammentare un clima di grande "fioritura" dell'illustrazione e della gravure, almeno per i casi, assolutamente emblematici, di Golia, Cambellotti, Nonni, Balsamo Stella, protagonisti di più diretti passaggi tra grafica e ceramica o vetro. Ma è un'altra "ripresa" del gusto settecentesco, quella dell'esotismo orientaleggiante, della derivazione iconografica da modelli cinesi e giapponesi che porterà a mio parere Andloviz molto lontano. Ma se si dovesse obbligatoriamente ritornare alla ricerca di inflessioni "austriacanti" nel linguaggio del primo Andloviz, io proporrei la ricerca, sinora intentata, di radici "astratte" piuttosto che "figurative". La Vienna degli inizi del secolo conosce infatti nel campo della ceramica e delle arti decorative una ornamentazione geometrica sovente adottata in bianco e nero su volumi di severa linearità, sin quasi a configurazioni minimali, come nel caso di vasi di Michael Powolny solo ricoperti da un reticolato ortogonale (in una impressionante precedenza dell'arte "minore" sulla "maggiore": quest'ultima infatti, se si tratta di astrazione, che "applica" le acquisizioni formali della prima, in una inversione delle gerarchie e delle suggestioni teoriche).
Anche nel giovane Andloviz, negli anni '20, compaiono decorazioni astratto-geometriche, seppur in varianti cromaticamente accese, "giallo-rosse: da un lato però esse, nuovamente, si riconnettono a una tradizione molto antica", laddove il decorativo è connesso con il simbolico (e sono, ad esempio, i motivi del meandro, o della svastica, proposti negli stessi anni nei quali Giò Ponti alla Richard Ginori ripercorreva figure di labirinti oppure di solidi geometrici tra neo-platonismo e perspectiva artificialis); dall'altro, paiono segni, con misteriosa precognizione, di future vibrazioni ottiche (e sono, come altri esempi, una "struttura periodica" di triangoli ad avvolgere con implacabile regolarità la superficie di un domestico cache-pot; oppure le strisce a zig-zag che movimentano avanguardisticamente il servizio da caffè Pola).

 

Vaso 630 1930 (foto d'epoca)

 


Così, infine, è forse da supporre la conoscenza, da parte di Andloviz, dei servizi della manifattura viennese di Josef Bock, tra i primi a considerare l'ornamento se non un delitto un peccato e a privilegiare campiture monocrome per esaltare lo studio formale del corpo dell'oggetto.


Gli anni '20 sono quindi un'epoca assolutamente affascinante, ma non solo per quello "stile di vita mondano" secondo Gian Carlo Bojani, caratteristico della progettazione ceramica di un Giò Ponti (7), o per mode geniali e impressive ma sempre caduche; quanto per la compresenza e la mescolanza degli stili, l'articolarsi e il divaricarsi delle estetiche, delle poetiche, delle ideologie. Giulia Veronesi e Rossana Bossaglia hanno ben trattato di queste coesistenze intorno al 1925 (8). In campo ceramico ad esempio è interessante, in area austro-tedesca, la convivenza tra le Wiener Werkstätten al loro sontuoso tramonto e le ceramiche geometricamente decorate all'aerografo e "proletarie" delle manifatture della Repubblica di Weimar. Il problema del rapporto tra l'artista-ceramista e l'industria, sulla qualità del prodotto industriale ceramico, tormentava e appassionava molti, proprio nel 1925. Se si vanno a rileggere le interviste che Guillaume Janneau (9) fece a due "mostri sacri" della ceramica francese, Emile Decoeur e Auguste Delaherche in quell'anno, si comprende bene la questione e la querelle. Per Delaherche, il ceramista-artista è come l'esploratore che apre nuovi territori per i coloni (le industrie) che lo seguiranno. Però, subito dopo, condanna l'uso indiscriminato nell'industria della tecnica del colaggio, soprattutto quando serve a generare forme a sezione angolare, secondo lui illogiche, perchè "Toute forme doit rappeler l'outil qui la crèe" (ed evidentemente la base ideale di tutte le forme è la sfera, e accettabili sono tutte le forme che sembrino generate dal tornio). Decoeur è più moderato: per lui "le grand feu purifie tout" e anche la tecnica del colaggio è praticabile. Ma svolge un ragionamento sacrosanto, sul maggior pregio ceramico dei pezzi solo smaltati rispetto a quelli decorati (il pregio viene contraddetto e invertito quando poi si passa al prezzo al pubblico e alla considerazione del mercato). E Decoeur proverà poi a introdurre i suoi concetti di "qualità" accettando di lavorare come consigliere presso la manifattura di Sèvres dal 1939 al 1948.
Il problema del rapporto con l'industria si pone subito invece per il giovane Andloviz, ventitreenne architetto chiamato alla collaborazione con la SCI. Illuminanti sugli inizi di Andloviz sono alcuni testi inediti che ora riproduco in catalogo, e che ho tratto dal fondo disegni nell'archivio della Società Ceramica Richard Ginori di Laveno e da un repertorio di forme e di decori, disegnato e dipinto a mano, di proprietà di Federico Paglia che fu prima decoratore e poi capo reparto presso la SCI (attualmente il repertorio è nelle collezioni della Civica Raccolta di Terraglia di Laveno Mombello). Il primo testo, straordinario, è il disegno originale per il decoro 1065. su di una forma che verrà poi denominata Monza 15. In legenda, sotto la sagoma dipinta, si prevede una esecuzione nei colori giallo, rosso, verde, d'oro, bleu magarin, violetto, porpora con fascia orange al piede e sfumatura gialla in ogni luce di colore", i contorni sono in nero. Il motivo decorativo è molto classico, a scaglie. Si tratta, come dire, di un incunabolo e di un compendio dei modi di progettazione di Andloviz.

 

Serie di sei piatti Monza 1927

 

L'arduo tripudio cromatico, quasi un catalogo di smalti, complicato dalla previsione di lumeggiature, è un "saggio" sui materiali e le maestranze della SCI, e tende alla produzione di un "capolavoro" (non nel senso aulico, ma in quello, industriale e moderno, di capo d'opera, di prova e misura di un'aristocrazia operaia). Sul regesto del Paglia la stessa forma e lo stesso decoro sono datati 1923, il che sarebbe davvero emblematico di un démarrage strepitoso (ma è comunque certo che la forma con il nome Monza e il numero 15, colloca il progetto negli anni '20). Il vaso in questa versione, non risulta eseguito. Certo, ci sarebbero state grandi difficoltà per la sua realizzazione. E qui introduco, con un altro inedito esempio, il tema del rapporto tra il progettista e le maestranze incaricate dell'esecuzione. Si tratta di un disegno magistrale di Andloviz, un'araldica composizione che eguaglia le migliori riuscite di Ponti. Nell'album di Paglia si ritrova lo stesso disegno, ma con un leggero spostamento verso l'alto del decoro sulla forma (la Monza 87) in modo che stendardi e oriflammi pendano agganciati da un filo che corre in corrispondenza del diametro maggiore del vaso. La capacità di Andloviz di seguire le tettonica dell'oggetto, evidenziata da Flaminio Gualdoni e Silvano Sandini (10), certamente molto deve alla traduzione dei maestri decoratori. Esaminiamo ora una forma nota, la Monza 83 del 1927, che abbiamo ritrovata disegnata in una versione cromatica inedita. Siamo, di nuovo, tra innovazione e tradizione: da un lato la forma è la rielaborane di una fiasca da pellegrino cinese; dall'altro il colore verde dei ramoscelli e delle foglioline conferma la tesi di Mario Munari per cui sarebbe impensabile mettere nel vaso fiori diversi da quelli delle foglie dei fiori.
Inoltre l'uso violento dei complementari nell'accostamento del rosso e del verde riferisce di una ricerca di Andloviz in corso sull'uso del colore come metodologia scompositrice dell'oggetto, che troverà la sua migliore applicazione sui servizi da the e caffè. Anche in Germania le manifatture "razionaliste" della Repubblica di Weimar praticavano sugli oggetti d'uso la differenziazione cromatica dei componenti. In questa direzione di lavoro Andloviz, nella SCI, applicò il contrasto cromatico tra corpo e manici delle tazze da the del contemporaneo servizio Monza 81, come documenta l'album Paglia. Tuttavia riguardando lo stesso repertorio si nota come sin dal 1920 circa, prima quindi dell'avvento di Andloviz, iniziasse, seppur su forme tradizionali, la separazione cromatica dei diversi elementi delle tazze così come, poco dopo, apparissero multi decori all'aerografo. Insomma, da queste brevissime note si comprende come uomini e tecnologie della SCI, fornitori (le decalcomanie venivano importate in gran parte dina Germania) e "commerciali" (che erano poi quelli che dicevano "guardi cosa fa la concorrenza" o "questo è quello che va") furono di fatto, coprogettisti di Guido Andloviz. E' questo va a merito, non a detrimento, del giovane architetto.

 

Servizio da tavola Vecchia Milano 1931

 


Giunti agli anni '30, si può rovesciare l'accusa, in alcuni esiti di Andloviz, di imitazione del gusto straniero. In Germania infatti il mondo ceramico va verso l'obbedienza a un nuovo padrone: Kitsch e la Villeroy e Boch, in clima di "autarchia" e di riscoperta dei valori nazionalistici, rinnega le innovazioni di Weimar e torna a decori tradizionali e ovunque si diffondono con inaspettata rapidità, letteralmente dal giorno alla notte, fiori tedeschi, puntini o bordi azzurrini tedeschi al posto della decorazione spruzzo anni Venti con i suoi vivaci colori e il suo vigore formale... "Terraglia tedesca di argilla tedesca" diceva uno slogan pubblicitario del 1937" (11). Non diversa ma solo politicamente e non esteticamente, e la posizione, sono gli slogan della SCI. E vengono documentati, in catalogo come in mostra, con la ricostruzione di un gigantesco pannello realizzato nel 1938 per la Mostra dell'Autarchia in Roma (ed è il maggiore evento, il più spettacolare, di questa esposizione). Sul pannello si legge Prodotti Autarchici Società Ceramica Italiana di Laveno e sono indicate materie prime e fonti di energia con le zone di provenienza, tutte rigorosamente italiane (San Vincenzo, Gattinara, Tremenico, Ticino, Vizzola Ticino) e per ognuna Andloviz aveva disegnato uno dei suoi sintetici e gradevolissimi paesaggi. Più in basso, sempre Andloviz aveva illustrato le lavorazioni tecniche, stilizzando, con più severità del solito, figure di operaie e operaie. Ancor più sotto, dopo una veduta del profilo dei monti e delle fabbriche di Laveno, una mensola sorreggeva una selezione dei prodotti, dai servizi a vasi del settore Fantasia della SCI (12). E qui compariva con un'anfora intelligentemente semplificata rispetto alla precedente Monza 58 un vaso, già presentato alla VI Triennale di Milano del 1936, che giudico un capolavoro di Andloviz. Si tratta di un altissimo esito espressivo, come avrebbe detto Le Corbusier, dell'invariabile nella storia dell'arte vascolare. La forma globulare già brillantemente esperita nel vaso Monza 91, viene sapientemente ovalizzata e contrasta, in Europa, le più alte riuscite di una "astrazione" Vascolare sospesa tra Avanguardia e Tradizione, razionalità di progetto e intuizione degli archetipi, come gli elaborati, di poco precedenti, editi in Francia dal "purista" Paul Bonifas, il ceramista che fu anche il segretario della rivista L'Esprit Nouveau (e con il quale sussistono forti interferenze nel gusto per una art decò sans decor della quale è tipico esempio il vaso 1264 di Andloviz) oppure le prove fornite in Unione Sovietica dal "suprematista" Nicolaj Suetin, disegnatore capo della Manifattura di Slam di Pietrogrado e d'altra parte sovrasta quelle, di poco successive, realizzate di nuovo in Francia da Emile Decoeur presso la Manifattura di Sèvres.
Occorrerà attendere nel dopoguerra i vasi schiacciati di Edouard Chapallaz e le teorie sull'appiattimento dell'oggetto ceramico (come indice di una tendenza all'"autonomia" estetica e ai valori "visuali") degli inglesi del movimento dello Studio Pottery, per compiere altri accettabili paragoni. Il vaso industriale di Andloviz raggiunge quella atemporalità dell'oggetto che in Germania era stata predicata bene dal Werkbund ed era, negli anni dell'autarchia, invece praticata male, (e qui si coglie una sostanziale differenza, progettuale e morale, dell'industria italiana e tedesca sotto il fascismo e il nazismo). La forma del vaso, come è naturale, viene sublimata quando la smaltatura è monocroma, sia pur a volte raffinatamente maculata o screziata o cristallizzata utilizzando le virtualità tecnico - estetiche del décor de réaction, rarissimo nel modernismo italiano, e assume i toni del rosso vesuvio o di quella patina verde insieme assolutamente tipica di un'epoca (come tipico fu il pur diverso verde del pigmento del cemento dei vespasiani torinesi Renzi) e intemporale, archeologica e futuribile.
Quindi Andloviz, che negli anni Venti, secondo la corrente opinione, è uno dei due Dioscuri Architetti della ceramica italiana con Giò Ponti, negli anni Trenta va promosso come uno dei due grandi architetti della ceramica europea, ma sostituendo il partner, che diviene a mio avviso l'inglese Keith Murray, attivo presso la manifattura Wedgwood. Se Andloviz lavora anche su vasi "a tre sezioni di cono", nella stessa intelligente direzione di un'estetica della macchina utensile ceramica e del suo prodotto agisce Murray con i suoi progetti di oggetti "anulari". Così, anche il figlio d'Albione è "pittore monocromo", dalla tavolozza meno robusta di quella di Andloviz eppur sofisticatissima con i suoi lunari, paglierini, avoriati bianchi e giallini o i suoi orientaleggianti cilestrini e verdini.

La decorazione in Andloviz, è però assiduissima pratica, pienamente e felicemente accettata. In lui non vi è quindi nessuna teorica dichiarazione di un "assoluto" ceramico da opporre a vezzi ornamentali. Ma anche nel campo del decoro Andloviz si rivela un importantissimo innovatore partendo, di nuovo, dalla storia e dalla tradizione del mezzo. Ho già detto della divertita riscrittura settecentesca, e della ripresa della "cineseria'', tematica e cromatica (e Reggiori ha rinvenuto un contenitore Monza che adotta il bianco-blu, tradizionali cifre di questa tradizione) (13). Ma oggi sappiamo che il '700 non fu solo secolo di gusto orientaleggiante in ceramica, ma anche epoca, in filosofia e nell'estetica, di messa in discussione dei canoni proporzionali e simmetrici. Gillo Dorfles ritiene che gli empiristi inglesi furono i primi, con Burke, a dichiarare che la bellezza non aveva "anything to do with calculation and geometry" (una geometria così come era concepita sino ad allora in Occidente) (14). Si guardi ora ad un piccolo capolavoro di Andloviz, un disegno inedito di decorazione "alla cinese". È evidente subito l'andamento diagonale della composizione, sintomatico di una lettura strutturale dell'arte dell'estremo Oriente. Ma anche quando il soggetto non è esotico, come nel caso dei paesaggi lacustri, lagunari e comunque italiani, Andloviz sovente conferma una obliquità del disegno, fughe visuali sghembe, usi accorti del vuoto, in una sottile deriva verso l'assimmetria (e, dal punto di vista pittoricistico, pensando ai suoi monti, tecniche chiaroscurali, giochi di profili, atmosfere e sfarinamenti e annebbiamenti dei tratti quasi zenisti) (15). Anche segni ed emblemi, dall'adozione diretta, rinvenuta nell'album del Paglia, di un classico mono giapponese su una tazza da colazione del 1925: sino al marchio LAVENIA con le sagome dei monti e delle onde, sono sigle di un "giapponismo" di Andloviz e della SCI (16).
Cineseria e giapponismo produrranno poi esiti rivoluzionari nella decorazione dei servizi. La rieducazione dello sguardo compiuta con il passaggio a Oriente induce al privilegio di angoli visuali esterni dei "margini" della composizione, rinunciando alla "centralità" e a sterili giustapposizioni in gabbie ortogonali. Il decoro Lago, sulla forma Vecchia Milano ma soprattutto sulla forma Pomezia (un nuovo brano basico del design nel perfezionamento di una tipologia canonica) è fondamentale snodo e modello della storia della ceramica. Questo tipo di approccio diverrà radicale negli anni '50 con i decori sulla forma Urbino: gli angoli visuali da esterni divengono estremi, figure e oggetti vengono resecati e piegati, vuoti e pieni sono in bilico, ma miracolosamente; l'ornamentazione si capovolta sul pezzo e si aggancia e allaccia tra i pezzi in una calcolatissima, prestabilita disarmonia (dove poi l'intervento dell'utilizzatore, di chi apparecchierà la tavola, di chi a quella tavola mangerà e sposterà e ruoterà i pezzi, aumenterà le possibili differenti configurazioni). La radice di questo design è però antica, la luce che lo fa intendere è sorta a levante.
Il design di Andloviz non si applica, nella SCI, solo a un "artigianato meccanizzato", ma a una e vera e propria produzione industriale. I volumi produttivi importanti, nelle SCI, venivano realizzati nella "tonderia (i piatti) e in genere nei reparti dedicati ai "servizi". Sin dal servizio Monza del 1925 (altrimenti, familiarmente, ma propriamente, chiamato "servizio margherita") Andloviz si dimostra industrial designer "moderno", capace di un disegno denso di analogie con l'organico e i processi di crescita del mondo naturale e vegetale. Il sopraricordato servizio Urbino degli anni '50 è interessante, come hanno notato Sandini e Gualdoni, per la forma ottenuta da sezioni longitudinali di cilindro. Ma la sperimentazione di forme geometriche elementari come base di progetto è precedente: rammento la "quadratura del piatto" del servizio Orvieto ma soprattutto l'estrema pulizia dell'oggetto, la purissima bassa ciotola (dal piatto scompare la tesa, la tradizionale "ala" del servizio Vittuone, un esito anticipatorio del razionalismo e del minimalismo. Il funzionalismo di Andloviz tuttavia non sarà mai "scandinavo" e puritano. Nemmeno nel secondo dopoguerra, quando alle Triennali di Milano come quella del 1951 vengono notati e premiati gli oggetti di Stig Lindberg, Kaj Bojesen, Rut Bryk, Axel Salto, Max Lauger, il lavoro di Andloviz perde il suo carattere di "italianità" (e se davvero e per forza si volesse individuare una falsariga iperborea occorrerebbe tornare all'anteguerra e ad alcuni suoi vasi in terraglia del 1937-40 dalle pareti ondulate, che probabilmente qualcosa dovevano alla visione del famosissimo vaso in vetro Savoy di Alvar Aalto presentato alla Triennale di Milano del 1936).
Al contrario, è come se negli anni Cinquanta emergessero alcuni tratti di quel neoclassicismo che negli anni Venti-Trenta accomunava progetti di Ponti, Andloviz e poi del loro fratello minore ceramico Giovanni Gariboldi. Il neoclassicismo lombardo, stile nato nell'architettura e poi propagato nelle arti applicate, che aveva tra i suoi maggiori rappresentanti, secondo Alberto Clementi (17), Emilio Lancia, Tommaso Buzzi, Ottavio Cabiati, Alpago Novello, Giuseppe De Finetti, Ferdinando Reggiori. Michele Marelli, Paolo Buffa, Guglielmo Ulrich e Mechiorre Bega, nella sua costitutiva ambiguità eclettica conteneva anche valenze anticipatorie. E a Milano, in Lombardia, è stile sopravvivente alle datazioni convenzionali: basti pensare, per quanto riguarda la mobilia, all'opera di Guglielmo Ulrich negli anni Quaranta, che a una analisi strutturale di molti suoi connotati (rastremature e sinuosità, andamenti fusiformi e archeggiati, una   fluida linearità) appare insieme epigonale e novatrice, postliberty e neoliberty, storicista e avanguardista (18).
E per quanto concerne il campo specifico della ceramica, esempio esplicitamente neoclassico, a partire dalla sua intitolazione, è il servizio di porcellana Impero del 1951, prodotto, su un progetto dell'architetto Care Lacca, proprio dalla SCI di Laveno sotto la direzione artistica di Guido Andloviz.
Andloviz stesso offre con un altro servizio, l'Arezzo del 1955, una prova riassuntiva di alcuni tra gli stilemi più alti degli anni Cinquanta in ceramica (la forma a "clessidra" di Fausto Melotti, gli smerli di Giovanni Gariboldi, le asimmetrie bicromatiche della Campi, magari solo come "nota" nelle prese) e prodromi neoliberty (19) a comprova di una permanente vivacità e intuitività progettuale, in contraddizione con il corrente giudizio su di una presunta "stanchezza" dell'ultimo suo periodo di direzione.
L'originalità e il talento anticipatorio di Andloviz si applicano, ed è il terzo caso, anche nel settore della progettazione di apparecchi per impianti sanitari. Ho discusso con Antonia Campi del carattere rivoluzionano delle serie Adamello (1937), Cevedale (1940) e Marmolada (1943).

Quest'ultima rappresenta un vero e proprio climax creativo e la base di tutto il futuro industrial design del sanitario (ma anche il lavabo della Cevedale dal lato anteriore rientrante, è una svolta storica dal punto di vista di preoccupazioni ergonomiche). È da impugnare il primato sinora riconosciuto a Giò Ponti in questo campo con la serie Ponti Z del 1954. E non è solo questione di date; il disegno di Ponti per il lavabo è geometricamente "duro" (con qualche conseguente difficoltà produttiva), e tutto l'oggetto trasmette dinamismo e aggressività (e l'elegante scatto formale psicologicamente è errato). Il superamento dello squadrato e del monumentale era ottenuto. meglio, con il "dolce" invaso dei lavabi di Andloviz.
Ma vi è anche in Andloviz un vero e proprio talento predittivo, che non si misura in anni ma in decenni. Penso alla fondazione del concetto di serie variabile: la possibilità di fornire, per la stessa forma, diverse decorazioni. Questo avveniva per la produzione "di massa" dei piatti, ma anche per le serie limitate del settore "Fantasia" della SCI (vasi, scatole, complementi ecc.). I cataloghi della SCI, per ogni forma, proponevano cinque tipi di finitura: smalto bianco o avorio, smalti semplici, smalti cristallizzati, smalto Vesuvio, decorazioni varie, piane e a rilievo. È l'ultima provvisoriamente, attestazione di geniale modernità: il modello cerami-co, come oggi il modello automobilistico, viene venduto con diverse "vernici" o "allestimenti" (e recentissime esperienze, sempre in campo ceramico, di variazioni ornamentali sullo stesso tema formale, quella da me curata, per l'Agenzia Polo ceramico di Faenza e quella curata da Alessandro Mendini per Tendentse Alessi qualcosa devono all'exemplum di Andloviz) (20).
Si tratta qui non solo di un Andloviz designer, ma art director, pienamente consapevole dei suoi vincoli di progetto. Vincoli di tecnologia. ma anche vincoli di mercato, che può essere di massa come di "nicchia" che esigono una strategia dell'attenzione alle "oscillazioni del gusto". Si può ben comprendere così, ora, il dislivello qualitativo dei progetti di Andloviz, e supporre, persino, un uso forse consapevole del kitsch. Lo smisurato amore collezionistico, la cultura del modernariato e del mercatino, che pur tante benemerenze hanno avuto nella ricostruzione di un patrimonio che sarebbe stato trascurato dalla "cultura colta" sono naturaliter acritiche. Anche le cadute di livello, che vanno riconosciute, in Andloviz e nella SCI, vengono riscattate dalla coscienza della rilevanza e della connessione dei momenti a monte (la ricerca) e a valle (la commercializzazione) del processo produttivo, e di problemi di "gestione della complessità", come direbbe Andrea Branzi.
       Causa finale. Occorreva rovesciare alcune "idee ricevute" sul lavoro di Andloviz. Sui quasi quattro decenni della sua attività, andava rivisto, Anche attraverso testi inediti, il periodo degli anni '20 e andava ingrandito il periodo degli anni '30. Il blow-up operato ha consentito l'individuazione di alcuni fondamentali plessi progettuali, formali e decorativi, che collocano Andloviz con tutta legittimità come protagonista del proto-design italiano, o di una "via italiana al design". Lo stesso carattere ornamentale, di larga parte della sua produzione rispondeva sia a un rapporto critico ma stretto con la tradizione, sia a esigenze industriali e di mercato (inoltre, oggi i termini decorativo o calligrafico hanno finalmente perduto una pronuncia di disvalore). La stessa coincidenza della "fioritura" di Andloviz con una fase politica molto discussa è da riesaminare criticamente. Del resto, studiosi insospettabili come Enzo Frateli hanno affermato che la stessa politica dell'autarchia in Italia è stata uno stimolo per la produzione di nuove idee e nuovi modelli. La stessa Triennale autarchica del 1936 è ceramicamente di importanza mondiale per il confronto assolutamente paritario tra campioni della forma pura e del proto-design come Andloviz, lo spagnolo Antoni Cumella, la tedesca Prude Petri. Il "revisionismo" adottato e la proclamazione di "italianità" non si fermano tuttavia all'aneddoto, seppur di grande importanza documentaria (come la pubblicazione in catalogo di inediti riguardanti un rapporto tra Andloviz e Giò Ponti per la realizzazione di un grande pannello ceramico per la sede del "Popolo d'Italia") né indulgono a tentativi di interpretazione di minuzie testuali (pur molto divertenti, come l'analisi che Mario Munari compie su pomoli e manici di zuppiere di Andloviz che raffigurano la lettera M, nella supposizione di un omaggio a Mussolini).
Ho voluto intitolare questo breve saggio La Commedia Ceramica riferendomi soprattutto a Dante (ma rammento anche un bel titolo di Tommaso Buzzi. Il teatro ceramico per una esposizione dei prodotti dell'ICS alla Triennale del 1930). L'Alighieri, nelle sue Epistole (e più precisamente nella XIII) ci dice che il genere della commedia si caratterizza per un modo "piano e umile" dell'espressione, per una lingua "volgare", comprensibile anche per "le donnette", con venature persino "rustiche". E in volgare, in italiano, alle "donnette" (che compravano i piatti) occorreva anche parlare. Ma poi questo eloquio veniva trasfigurato dal plurilinguismo e dalla "mescolanza degli stili": così, ceramicamente Andloviz era insieme intelleggibile per un vasto pubblico ma suscettibile di diversi livelli di gradimento e di interpretazione. La materia del suo lungo racconto era quella "sublime", nobile dell'oggetto "da parata" ma anche quella "triviale" dell'apparecchio sanitario, attraverso infinite approssimazioni a questi due poli estremi, e infinite contaminazioni di forme e decori. Dante però afferma anche un'altra caratteristica del genere della Commedia: la sua materia "termina prosperamente". Nel paragone che ho adottato (e che certo, deve essere inteso nel mantenimento del senso delle proporzioni) questo lieto fine non può essere applicato. La vicenda umana di Andloviz e quella industriale della SCI non si concludono "prosperamente". La SCI è stata assorbita dalla Richard-Ginori e anche il suo nome non esiste più. Ma da poco, la Richard-Ginori ha rimesso in produzione un servizio Lago di Andloviz. Il Municipio di Laveno Mombello, la Civica Raccolta di Terraglia, l'Amministrazione di Grado e la Regione Friuli Venezia Giulia hanno organizzato importanti mostre. Forse da queste celebrazioni di Guido Andloviz può nascere un nuovo desiderio, per la ceramica industriale italiana, di progetto, e di decoro.
 

 


1) P. Portoghesi, A Pansera, Giò Ponti alla Manifattura di Doccia, Milano 1982; C. Cerutti, Arti decorative del novecento, Art decò. Novara. 1985; M. Munari Guido Andloviz, Ceramiche di Laveno 1923-1942, Roma 1990.
2) M. Carrà, Spazi, forme, colori, Torino 1992.
3) P. Scarzella, Vasi comunicanti, Milano 1988.

4) G. C. Bojani e F. Bertoni, (a cura di) Angelo Biancini tra Faenza e Laveno. Ceramiche 1937 -1940, Firenze 1993. Il libro-catalogo, comunque pregevole per la ricerca su Biancini e per gli apparati, è introdotto anche, con abituale sicurezza, da Gian Carlo Bojani. Lo stesso Bertoni, quando dimentica l'ideologia, porta un utile contributo di conoscenza alle vicende della SCI. Per quanto riguarda la Lenci, vedi M. Appiotti, Lenci, vita di bambola, in "La Stampa", 25 Marzo 1990.
5) A. Pansera, Storia e cronaca della triennale, Milano 1978.
(6) Sulle manifatture settecentesche e la decorazione dei servizi consultare il volume di S. Levy, Tazzine Italiane da collezione, Milano 1968.

7) G.C. Bojani. Introduzione in L'opera di Giò Ponti alla manifattura di Doccia della Richard Ginori. (Catalogo della mostra) Faenza 1977
8) G. Veronesi, Stile 1925, ascesa e caduta della Art Decò, Firenze 1978; R. Bossaglia, I saggi fondamentali. Il Decò italiano, Milano 1975; eadem Arti Decorative e decò in La Metafisica: gli anni 20, Bologna 1980; Guide all'architettura moderna - L'Art Decò, Bari 1984, e Il giglio, l'iris, la rosa, Palermo 1988.

9) G.Janneau, Formes Nouvelles et Programmes Nouveaux. Parigi 1935.

10) F. Gualdoni e S. Sandini, Ceramiche di Guido Andloviz (Catalogo della mostra) Gualdo Tadino, 1981.

11) T. Buddensieg. Terraglia: dal surrogato di porcellana all'articolo di massa, in Ceramiche della Repubblica di Weimar. (Catalogo della Mostra), Milano 1984, pp.17-22.
12) L'originale disposizione del pannello e i prodotti della SCI esposti all'epoca sulla mensola sono documentati in una fotografia riprodotta in A. Minghetti, Andloviz Guido, ad vocem. Enciclopedia Biografica e Bibliografica italiana Ceramisti, Milano 1939, XLI, p.25.

13) Si veda The blue and white tradition in H.M. Fletcher (a cura di). Techniques of the World's great masters of pottery and ceramica. Oxford 1984.
14) G. Dorfles, Il problema dell'asimmetrico, in Elogio della disarmonia, Milano 1986.

15) Sulla pittura cinese e il taoismo e lo zenismo in arte offrono un buon orientalismo i volumi di P.C. Swann, La Peinture chinoise, Parigi 1958

16) Sul giapponismo è fondamentale il volume di S. Wichmann, Giapponismo, Oriente-Europa; Contatti nell'arte del XIX e XX secolo, Milano 1981; sulla "cineseria" è un classico il precedente saggio di H. Honour, L'arte della cineseria, Immagine del Catai, Firenze 1963.

17) Sul neo-liberty come positiva reazione a una maniera di imitazione di moduli danesi o finlandesi e insieme voluta o in volontaria imitazione del passato resta attuale la recensione di Gillo Dorfles alla mostra Nuovi Disegni per il mobile italiano (G. Dorfles, Una mostra a Milano, in Domus, n.367, giugno)

18) E. Biffi Gentili, (a cura di) L'Apprendista stregone, Milano, 1991; 100% MAKE UP. Alessandro Mendini and...La Fabbrica Estetica,  Novara 1992.
19) A Clementi. Storia dell'arredamento (1850-1950), Milano 1952.

20) F. Biffi Gentili. Gli stili passano lo stile resta, in U. La Pietra (a cura di). Guglielmo Ulrich, Milano 1994.

 

P.S.: Dal testo originale sono state omesse la maggior parte delle immagini

 

 

tratto da: Guido Andloviz                                                                           © Edizioni della Laguna

 

 

ne del genio architettonico di Mario Botta, deve aver

 

 vissuto lo sgombero della mostra come una vera, propria e liberatoria evacuazione.