Storia del C

Casella di testo:  

 

 

 

 

 

 

 

CARLO WOSTRY

 

 

L'Arte a Trieste

 

 

 

 


     La gloria d'arte per cui splendette Venezia lasciando un'orma luminosa nei paesi del Friuli, dell'Istria e della Dalmazia a lei soggetti, si arresta alle porte di Trieste, da una parte a Monfalcone, dall'altra a Muggia. Zaule segnava il confine della repubblica: la nostra città ne rimaneva esclusa. È vero che Trieste era allora un piccolo borgo e si trovava sempre in antagonismo con Venezia; ma questa non sarebbe ancora una buona ragione, perché i suoi negozianti arricchiti non sentissero lo stesso bisogno dei loro concorrenti veneziani di fabbricarsi delle dimore sontuose, arredandole con suppellettili d'arte che, naturalmente, avrebbero dovuto risentire di quella scuola e di quell'esempio, mentre la nostra città non poteva e non voleva subire l'influsso di una civiltà di carattere etnico del tutto diverso dal suo, cioè del paese dal quale politicamente dipendeva. E in ciò consiste il miracolo della sua italianità: l'influenza tedesca, che per esempio lasciò tracce notevolissime a Lubiana si da darle una spiccata impronta di città alemanna, avrebbe potuto benissimo far quattro passi di più e arrivare fino a noi. Tentò di farli, ma non trovò mai il terreno adatto al suo sviluppo. Se togliamo dunque qualche singolo edificio che ha l'aria e il tipo di molti consimili veneziani del tardo Seicento o Settecento, è necessario arrivare fino all'Ottocento per riscontrare da noi il primo soffio dell'arte. Giuseppe Caprin nei Nostri nonni » ne parla esaurientemente. Ma non uno degli artisti che avevano lavorato in quel periodo era triestino! Il Molari, che disegnò l'edificio della Borsa e la facciata della Casa Chiozza, era di Macerata; il Selva, che edificò l'interno del teatro Verdi, era veneto; di origine tedesca il Pertsch che ne disegnò la facciata e poi il palazzo Carciotti e la casa Panzera. Gli scultori che collaborarono a queste fabbriche sono il Bosa padre, Bartolomeo Ferrari, il Banti e lo Zandomeneghi, tutti veneti.
La fabbrica che occupò poi maggior numero di artisti fu la Chiesa di S. Antonio Nuovo, eretta su disegni di Pietro Nobile, un architetto di origine svizzera. Le statue dell'attico e gli angeli della tribuna sono del Bosa figlio. I pittori che ne decorarono l'interno sono anch'essi forestieri : il Politi da Udine, il Grigoletti da Pordenone, il Lipparini da Venezia.
Tedeschi sono il Tunner e lo Schönemann. Solo più tardi i quadri della Via Crucis furono eseguiti da alcuni nostri artisti, come Augusto Tominz, l'Acquarolli, il Polli, il Guerini, su disegni di Giuseppe Lorenzo Gatteri.
Sebastiano Santi che dipinse la tribuna dei Gesuiti, la cappella dell'Addolorata di S. Giusto e l'abside di S.Antonio Nuovo, era veneziano. Anche la maggior parte degli scalpellini, fabbri e falegnami che attese a tutte queste opere ci venne dal Friuli, dalla Svizzera, dalla Lombardia. Forestieri sono i decoratori e gli scenografi dei nostri teatri: Domenico Camisetta, Lorenzo Scarabellotto e il valentissimo Sanquirico. Questo primo sviluppo edilizio fece si che molti artisti, i quali avevano collaborato a queste fabbriche, si accasassero da noi. Il Pertsch divenne triestino d'adozione e così i due figli del Bosa, Eugenio e Francesco, e il Bianchi, autore di uno dei due gruppi delle facciate del Tergesteo. Giovanni Bernardino Bison da Palmanova viene quasi considerato triestino per i tanti anni che dimorò a Trieste. E a Trieste nacque il pittore Felice Schiavoni, figlio di Natale Schiavoni, il quale, vissuto a lungo fra noi, era riuscito a farsi una fortuna con i suoi ritratti. Il risveglio economico pronunciatosi allora aveva moltiplicato il benessere e l'agiatezza dei cittadini. L' amore per le belle arti era cresciuto. Sorsero palazzi e lussuose abitazioni. Il danaro passava dalle tasche dei negozianti in quelle degli artisti. Gli artisti sono come i seminatori, dice Giuseppe Caprin : dietro di loro avviene la germinazione.
Nel 1826 - 27 per la prima volta l'Accademia di Belle Arti di Venezia premiò i giovani triestini Lorenzo Butti, Giuseppe Solferini e Gaetano Merlato. La nostra « Società di Minerva » bandiva nel 1830 la sua prima esposizione di Belle Arti. I partecipanti triestini furono il Poiret, il miniaturista Luigi de Castro, lo Sforzi, il Goldmann, il Merlato, il Butti e Anna de Frattnig Salvotti, nipote di Domenico Rossetti, il quale in una lettera all'architetto Pietro Nobile aveva annunziato il sorgere di questo nuovo astro con le seguenti parole: (Vedete, anchè dal sangue dei Rossetti può nascere un'anima pittorica, e più mi consola, che se ne fossero usciti sei presidenti e ventiquattro consiglieri aulici. « Se costei in questa proporzione progredisce fino alla mia età, Trieste avrà almeno da « gloriarsi di una pittrice che lascierà viva memoria di sè. Ma il tutto sta nel progredire « veramente. Le donne sono in tutto come le rose : fioriscono all' improvviso per incantare, « poi restano li per appassire.» Intorno al 1840 convenivano nella casa del mio nonno materno Giovanni Battista Artelli, giunto qui da Venezia con la famiglia intorno al 1800, tutti gli artisti di quell'epoca. Egli era amantissimo d'arte e collezionista. Conservo ancora un vago ricordo de' miei primi anni, il ricordo di grandi teloni che pendevano alle pareti di casa e che per dissesti familiari e molti altri, che poi questi ve ne sono riunioni, le quali erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta un'adunanza del Consiglio direttivo della Società, l'altro un ricevimento in onore del pittore Zoccos. Tre gallerie di quadri antichi, delle quali due aperte al pubblico, contenevano gemme fulgenti furono dovuti vendere. Egli era stato il fondatore di una piccola società o, meglio, di un cenacolo di artisti che si radunava in casa sua e dal quale era stato nominato Console delle Belle Arti, con patente scritta in latino maccheronico. Vice Console era il pittore Dionisio Zoccos da Zante che viveva per lo più a Venezia, ma veniva spessissimo a Trieste dove lasciò anche qualche ritratto non disprezzabile. Conservo una distinta dei soci che componevano quella società; erano in buon numero: Cesare Dell'Acqua e i due Poiret da Trieste, Giulio Carlini da Venezia, Bartolomeo Gianelli da Capodistria, l'architetto Giovanni Berlam, i due Gatteri, Giuseppe Capolino, Edoardo Baldini, Raffaele Astolfi, Domenico Marconetti, tutti da Trieste; Raphael Jacquemin da Parigi, Giovanni Simonetti da Fiume, Annibale Stratta da Cagliari e molti altri che poi lasciarono traccia del loro ingegno in un albo ricco di disegni. Fra due del triestino Giovanni Polli, che danno testimonianza delle loro riunioni, le quali erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta un'adunanza del Consiglio direttivo della Società, l'altro un ricevimento in onore del pittore Zoccos.


 

 

Ricevimento in onore di Dionisio Zoccos.

 

 

 

Tre gallerie di quadri antichi, delle quali due aperte al pubblico, contenevano gemme fulgenti dei secoli d'oro dell'arte.
Nicola Lazovich possedeva un Giambellino, un Tiziano, un Caravaggio, un Guercino e un Claudio Lorenese. Carlo Girardelli vantava altre preziosità del Moroni, di Guido Reni, di Davide Tèniers, di Rosa da Tivoli, del Cignani, del Padovanino e del Parmigianino. Alessandro Volpi contava fra le molte tele di grandi maestri anche un Velasquez. Ma purtroppo tutti questi quadri esularono dalla nostra città.

Molto importanti erano le raccolte di quadri moderni, e numerosi i mecenati: Salomone Parente, Leone Hierschel, Pietro Sartorio, G. G. Sartorio, M. Sartorio, L. Gechter, la contessa Wimpffen, I. N. Craighero, Carlo Antonio Fontana, G. Haynes, F. C. Carrey, il conte Waldstein, il barone Lutteroth, Gracco Bazzoni, Carlo di Ottavio Fontana, Ferdinando De Coll, Cristo Ranieri.
A loro volta altri artisti vennero a dimorare nella nostra città: Carlo Gilio da Milano, il ferrarese Giovanni Pagliarini, i tedeschi Augusto Tischbein, Augusto Seib e il bavarese Mayerhoffer.
Francesco Dall'Ongaro fu nel campo artistico il continuatore dell'opera della Minerva Fondata la Società Filotecnica in unione con Cristo Ranieri, un greco che a suo tempo aveva frequentato la casa della regina Murat, col capo della Comunità inglese Giorgio Haynes e con lo scozzese O. Carrey, promosse esposizioni artistiche che si susseguirono per otto anni. Ne era presidente il conte Waldstein. Alla prima Mostra del 1840 figurarono più di cinquecento opere con la partecipazione di Francesco Hayez, di Massimo d'Azeglio e d' Orazio Vernet. Ma la germinazione artistica era avvenuta e aveva portato i suoi frutti. A questa mostra si erano presentati altri valenti triestini: oltre al miniaturista Luigi de Castro e a Lorenzo Butti, Giovanni Madrian e il capostipite di una dinastia di pittori, i Tominz, l'ultimo rampollo della quale, Alfredo, della terza generazione, vive sano e vegeto tra noi, nonchè un fanciullo di nove anni, Giuseppe Lorenzo Gatteri. L'Accademia di Venezia preparava intanto un'altra covata: i pittori Augusto Tominz, Raffaele Astolfi, Francesco Guerini, Cesare Dell'Acqua e Giovanni Polli; e ancora Giuseppe Gallico, Domenico Marconetti, che divennero poi insegnanti, gli scultori Edoardo Baldini e Giuseppe Capolino, un forte artista che aveva dato sicura promessa di sè ma che fu colto dalla morte a trent'anni. E poi l'architetto Giovanni Berlam, capostipite lui pure di una generazione di egregi artisti : gli architetti Ruggero, suo figlio, e il nipote Arduino ; inoltre il goriziano Antonio Rotta, il pittore poi tanto in voga per i suoi interni domestici, e il capodistriano Bortolo Gianelli, pittore di marine. Con Giuseppe Lorenzo Gatteri, Cesare Dell' Acqua, Giuseppe Capolino e Giovanni Berlam incomincia la nostra era artistica. La famiglia dei Tominz apre la serie dei pittori triestini, per quanto il più vecchio, Giuseppe, fosse nato a Gorizia nel 1790; ma stabilitosi nel 1820 a Trieste, considerò questa la sua città adottiva. Terminati gli studi a Roma, si dedicò quasi esclusivamente al ritratto nel quale diventò maestro insuperato. Fu straordinariamente fecondo. Si racconta che durante la permanenza a Trieste della squadra inglese nel 1830, dipingesse venticinque ritratti di quegli ufficiali eseguendone uno al giorno. Fra i ritratti suoi più notevoli vanno annoverati quello del Re di Napoli Gioacchino Murat e quello del Papa Pio VII, che dovrebbe trovarsi in Vaticano. Alla Mostra del ritratto tenutasi a Firenze nel 1911 figurarono il suo tanto decantato ritratto del « Nano ostricaro » e quello della signora Smart di Trieste. Egli fu anche ottimo miniaturista. Suo figlio Augusto nacque a Roma nel 1818 e mori a Trieste nel 1883. Studiò a Venezia col Lipparini e col Politi. A loro volta furono suoi scolari i triestini Giovanni Rota (appartenente a un' altra triade di artisti, il musicista Giuseppe e il cantante Giacomo) che prese poi dimora a Parigi, e Antonio Valdoni che esercitò a Milano. Il Museo Revoltella conserva tre quadri di Augusto Tominz ed è pure dipinto da lui il soffitto della sala da ballo nel palazzo dove ha sede il Museo, del quale il nostro artista fu conservatore dal 1873 fino alla sua morte. Era pure segretario della Società di Belle Arti che annualmente continuava ad allestire le sue mostre e che ebbe vita fino al 1882. Opere sue di genere sacro si trovano a S. Antonio Nuovo: una S. Lucia e tre quadri della Via Crucis.
Era opera sua anche il Martirio di S. Lorenzo nella Chiesa di Servola che bruciò nel 1880. Nella Chiesa dei Cappuccini si conserva una Beata Vergine con varii Santi; a Villa Vicentina dipinse l'Assunta per la cappella Baciocchi. Lasciò molte opere a Villaco e a Vienna. Esegui un rilevantissimo numero di quadri di soggetto romantico, in gran voga al suo tempo, che avevano lo scopo di tener desta la fiamma dell' italianità. Di ritratti ne esegui un' infinità: si può dire che ogni famiglia ne possieda qualcuno, oltre alle fotografie, in quel tempo rinomate, che uscivano dallo studio fotografico che aveva aperto in Piazza della Borsa.
Augusto Tominz era un mordace burlone. Una volta aveva eseguito un S. Giuseppe per una chiesa dell'Istria. Pare che prima della consegna del quadro vi sia stato fra lui e il parroco una divergenza che credo concernesse una diminuzione del prezzo pattuito. Per vendicarsi il Tominz pasticciò malamente la testa del Santo, poi inviò la tela a destinazione. Il prete fece qualche protesta intorno a quel particolare, al che il Tominz rispose che si provasse a ripulire la testa con un po' di acquaragia. Il parroco esegui l'istruzione e, dopo una buona pulitura, ne usci fuori un S. Giuseppe con la testa di Garibaldi. Un'altra volta fu un negoziante montenegrino, l'Opuich , che protestò per un suo ritratto ordinatogli e che poi non volle accettare. Il Tominz se ne stizzì. Sul ritratto dipinse delle sbarre di ferro che si incrociavano a quadrati. L'Opuich figurava in prigione: e cosi fu esposto sotto il pronao della Borsa, dove allora il Rose, il Rieger, il Grubas, il Malacrea e altri mettevano in mostra i loro quadri. L'Opuich ne fu avvertito e non frappose indugi nel mandare a comperare il ritratto. Una bella gli toccò nel 1848, mentre usciva dal Teatro Corti insieme con suo fratello Raimondo, ch'era stato in origine maestro di musica, ma poi, divenuto troppo pericoloso per le sue allieve, aveva dovuto cambiar mestiere e diventare ispettore delle pubbliche piantagioni. Molti devono ancora ricordarlo. A ottant'anni ne mostrava trenta di meno. Pareva uno zerbinotto.  Era di una vitalità sorprendente, di un umore indiavolato. Marciava d'inverno in giacca con un  bastoncino in mano: pareva che andasse sempre alla conquista di allori femminili. Mori a ottantasei anni cantando un'aria della Traviata. Costoro dunque uscivano dal Teatro Corti dopo una riunione patriottica che pare avesse dato ai nervi del presidente della Camera di Commercio, Vicco. Questo diede incarico a certo Accerboni di aspettare i due Tominz all'uscita col mandato speciale di bastonarli. I due, sopraffatti, si buscarono qualche cazzotto. Intervennero i bochter (specialissimo vocabolo triestino di quei tempi, storpiatura del tedesco Wächter, cioè poliziotti).
Bastonati e bastonatori furono scortati al Direttore di Polizia. Gli assalitori furono condannati a qualche giorno di oscurità, ma dopo qualche ora liberati. I due Tominz furono consigliati di esulare per qualche tempo. Partirono per Udine. A Prosecco si incontrarono con lo stesso Vicco e con l'Accerboni. Scesero dalla carretta, si precipitarono sui due malcapitati e si presero una rivincita ad usura. Arrivati poi a Udine, il Gazzoletti li accolse e furono festeggiati. A un banchetto egli lesse una sua poesia che ricordava l'episodio irredentista del Teatro Corti, i cazzotti e la rivincita. Intanto il gusto e l'interesse per le arti si accentuavano maggiormente, e aumentavano gli amatori e i mecenati. Dal 1840 al 1880, oltre a Pasquale Revoltella, del quale parlerò poi diffusamente, i mecenati furono molti.
Il palazzo Brambilla in Via SS. Martiri era divenuto proprietà dei baroni Elio e Giuseppe de Morpurgo che vantavano nella loro raccolta opere insigni, fra cui tre quadri di Palma il Giovine.
Raccolte d'arte tenevano pure i baroni Rittmeyer e il barone Lutteroth, l'Oblasser, il barone Zanchi, il De Coll, il Bontempelli, Giuseppe Sartorio, Giorgio Galatti, il Kalister, il barone Parisi e Marco Amodeo.
La Società di Belle Arti continuava ad allestire le sue mostre annuali che si tenevano nella sala della Borsa e poi nel palazzo Revoltella.
Ma un'altra istituzione sorse con intendimenti affini : la Società per l'Arte e l' Industria. Ne era presidente il barone Reinelt e segretario l'architetto Giovanni Berlam. Essa promosse l'esposizione che si tenne nel 1871 su quell'area denominata « Campagneta che dal giardino pubblico andava fino alle alture di Via Chiozza dove oggi sorge il Politeama Rossetti. In questa esposizione vi era un po' di tutto e non vi mancava un padiglione per le Belle Arti. Giuseppe Caprin nel suo periodico intitolato « Libertà e Lavoro » aveva segnalato tra i quadri dei nostri triestini l'opera di un giovane al quale auspicava un brillante avvenire.
Il quadro, intitolato Amleto era di Eugenio Scomparini. Il Makart vi aveva mandato un enorme telone di soggetto fantastico e Antonio Rotta il suo « Ciabattino , che furoreggiò.

 

 

La mostra sotto il pronao della Borsa. Giuseppe Rota.


Gli amatori trovarono poi nei due tedeschi Vendelino e Giuseppe Schollian i fornitori di quadri per i loro appartamenti. Ambidue tenevano dei locali di esposizione, l'uno al Corso e l'altro in via del Ponte Rosso, ora Via Roma, e vi accoglievano le opere dei  nostri artisti. Tuttavia la mostra caratteristica rimaneva ancor sempre sotto il pronao della Borsa. Quel posto era il preferito dagli artisti e anche non dai più modesti, perché a tutte le ore vi passavano gli uomini d'affari e... il resto si capisce.
Oltre al Malacrea, vestito alla fiamminga, che esponeva le sue frutta e i suoi fiori, v'era il Grubas che dipingeva vedute di Venezia, il Rose autore di quadretti satireggianti i nostri contadini e certo Tumme che faceva il paio col Malacrea descritto dal Caprin.
Questo Tumme era un tedesco e parlava un triestino sassone composto di voci peregrine di un'armoniosità poco comune. Il nostro dialetto che più di una volta aveva dovuto subire le carezze linguistiche dei nostri padroni d' un tempo e dei nostri vicini, dovette certo meravigliarsi delle proprie elastiche qualità di adattamento nel servir da incrocio a un gergo che rassomigliava molto all'abbaiar dei cani e a certi suoni che parevano uscir dalla bocca del Tumme come da una catapulta. Egli abitava una soffitta rischiarata da un grande abbaino. Di mobili non vantava un gran lusso: un canterano, nei cui cassetti erano riposti alla rinfusa sacchetti di colori, fiaschette d'olio, un macinino, dei frammenti di budella per insaccare i colori preparati, dei pennelli induriti; un tavolo aveva chiesto l'equilibrio a una parete alla quale era addossato; alcune scranne capaci di tradimento verso chi si fidasse troppo delle loro staticità. Un'abbondante nevicata di polvere dava un' intonazione grigia a tutti gli oggetti, perfino a un vecchio cane che sonnecchiava in un canto; un panchetto faceva argine a un mucchio di rifiuti. Sulla parete triangolare del fondo stava inchiodata una lunga fascia di tela, divisa in tanti rettangoli. In ognuno di questi egli dipingeva un quadretto. Non era specialista in un genere solo ma, da eclettico, eseguiva paesaggi e marine, nature morte, fiori, scene campestri, allegorie. Procedeva cosi : preparava diversi pentolini di colori che servivano per l'acqua, per l'aria o per il color locale e li distendeva simultaneamente su tutte le parti che quei dieci soggetti richiedevano. Poi finiva ciascuno a sè con un' abilità e rapidità straordinarie, curiose a constatarsi ancora oggi. Terminato il quodlibet lo portava tutto d'un pezzo al posto dell'esposizione e vi si metteva di fianco rimanendo in attesa come fa l'uccellatore. Il cliente, prima o dopo, ne era adescato ed egli con le forbici tagliava fuori a richiesta sia la natura morta, che il paesaggio o l'allegoria.
Francesco Beda conobbe da ragazzo questo bel tipo, che andava a trovare di quando in quando. Era un pezzo d'uomo alto e forte e già oltre la settantina. Da buon tedesco era entusiasta della musica e quando l'ascoltava, per godersela meglio, si ficcava il dito pollice della mano destra in bocca e lo succhiava e, come correva sempre in cerca di delizie musicali, il suo dito portava visibili tracce di corrosione. Viveva solo, ma oltre al vecchio cane che gli faceva compagnia dormendo, teneva un merlo che saltellava per lo studio e aveva una spiccata predilezione per quel mucchio di scopature che talvolta diventava montagna. Era là che l'uccello si spassava e un po' col becco, un po' con le zampe si ingegnava di far ritornare al posto di origine ciò che la scopa aveva avuto cura di ammucchiare. I veri padroni di casa erano però i topi che vi regnavano dispoticamente. Per rabbonirseli e perché non gli rosicchiassero le tele, aveva gran cura di far trovar loro ogni terzo giorno dei saltimpanza (panini dolci) freschi. In cambio le bestiole non trovavano altra maniera di dimostrare il loro gradimento che saltando insolentemente sulle ginocchia di quei visitatori che si soffermavano più di un quarto d'ora nello studio. Il suo orologio a pendolo era un capolavoro d'ingegnosità. I cilindri metallici che lo facevano camminare, col tempo, chi sa come, erano spariti. Il Tumme, da uomo di metodo, insofferente di inesattezze, alle quali la mancanza di un orologio avrebbe potuto farlo incorrere, li aveva sostituiti con due bottiglie di forma differente che già avevano contenuto del vino Terrano » per il quäle aveva una spiccata predilezione, e l'orologio non si era punto accorto di essere messo in moto dai due fiaschetti d'acqua, ai quali il Tumme dava la piena quando necessitava. Aveva poi una fisionomia caratteristica: le labbra incorniciate da due grossi mustacchi bianchi, che portavano costantemente tracce di umidore anche nei giorni di gran bora. Per un difetto delle glandole, aveva una salivazione abbondante, e distribuiva a destra e a sinistra costantemente delle spruzzatine, senza far caso se a riceverle fosse la sua grande tela o il canterano o il malcapitato visitatore che si trovava a portata. Tanto è vero - raccontava il Beda - che più di una volta rincasando dopo una visita fattagli, portavo le tracce di quel secondo battesimo ed era mia madre ad accorgersene, perché mi redarguiva : «Ti xe sta ancora da quel vecio pitor tedesco, xe vero ? ., e prendeva una pezzuola e mi asciugava.. Non aveva delle abitudini speciali nel vestire, portava la giacca del taglio di quel tempo abbottonata fino al mento. Appariva decente. Solo forse i suoi indumenti intimi accusavano qualche leggero inconveniente. Mutava di camicia solo quando aveva bisogno di uno straccio per pulire i pennelli. Vendeva abbastanza bene i suoi quadretti. Da ultimo trovò uno che ne fece incetta insieme con quelli del Malacrea, cioè quel libraio Czerwinsky, al quale successe poi lo Schimpff in Piazza della Borsa.
Dopo il 1860 il numero dei nostri artisti si era accresciuto di molto. Oltre al Gatteri, al Berlam, al Capolino e a Cesare Dell'Acqua, che lasciò Trieste in quel torno di tempo per stabilirsi nel Belgio, si notavano il Collamarini, il Moretti, il Fabretto, lo Hönigmann, lo scultore Cameroni, l'Acquarolli, lo Zuccaro, il Marconetti, il Cortivo e gli scultori Spaventa e Depaul: tenevano convegno al Caffè Chiozza. Altri vivevano separati, come l'Astolfi, il Mayerhofer, il Baykoff, l' Haase, il Fiedler, l' Höning, questi ultimi tutti stranieri.
Giulio Carlini da Venezia vi faceva annualmente delle soste abbastanza prolungate ed eseguiva ritratti. Cosi fu poi di altri due ritrattisti: il Sorio, veronese, e il pastellista Della Valentina.

 

 

Pasquale Revoltella. (Da una litografia di Kriehuber - Vienna 1855).

 


Pasquale Revoltella, mecenate e filantropo per eccellenza, fu il più gran signore che abbia avuto Trieste. Nato a Venezia nel 1795, apparteneva a una famiglia umile e poverissima di macellai, nella parrocchia di S. Geremia. Rimasto orfano di padre fin da bambino, fu la madre Domenica che con stenti lo allevò, supplendo come potè alla sua istruzione che allora era troppo difettosa nelle scuole. La sua infanzia fu rallegrata da questo affetto materno, che gli lasciò memoria di gratitudine e di venerazione e impresse un tratto caratteristico alla sua vita.
Venne qui nei primi anni del 1800. Dopo dure prove, seppe farsi strada da sè, fondò una casa di commercio che importava legnami e granaglie e col tempo si arricchì a dismisura.
Vado debitore di gran parte di queste notizie all'amico Alfredo Tominz, che le seppe per bocca di suo padre il quale visse molto vicino al Revoltella, come pure da suo zio Carlo Marussig, che fu uno dei procuratori della ditta. Abitò la casa Fontana in Piazza del Sale fino a che non fu compiuto il palazzo che stava costruendogli l'architetto Hitzig di Berlino, autore del teatro reale di Dresda Il palazzo fu inaugurato nel 1858 con un gran ballo al quale intervenne anche l'arciduca Massimiliano, allora governatore della Lombardia. Fu un animatore di tutte le arti; letterati, artisti e scienziati furono da lui splendidamente onorati. Fu un impareggiabile suscitatore di energie. Fondò con Francesco Gossleth la Scuola Triestina di disegno che prese poi il nome di Banco Modello. Francesco Gossleth era falegname edile. Gran parte del mobilio del palazzo Revoltella e del castello di Miramare è opera sua. Abitava nel suo palazzo di via Bellosguardo, oggi proprietà del barone Leo Economo nel Viale della III Armata. Armonia, ribattezzato poi Teatro Goldoni e malauguratamente demolito ai nostri giorni. Creò e finanziò la Compagnia Drammatica Bellotti-Bon e si era quasi accordato con Gustavo Modena per istituire a Trieste un teatro stabile di prosa, progetto questo che poi, non so per quale ragione, non potè essere effettuato. Nel suo palazzo si succedevano feste, balli, grandi ricevimenti ai quali partecipavano le famiglie più cospicue della città. Balli, feste e fiere di beneficenza a pagamento si alternavano con grande larghezza ed il ricavato andava per lo più devoluto all' Istituto di Beneficenza del quale fu uno dei fondatori e per il cui incremento nessuno contribuì quanto lui.

Ebbe sempre parte attivissima come presidente nelle esposizioni annuali della Società di Belle Arti. Erano di casa sua i pittori Butti, Haase, Augusto Tominz, lo scultore Bottinelli, Pizzolato, Gioacchino Hierschel (in arte Van Hier), ottimo pittore di marine, e lo scultore Depaul.
D'estate partiva per le spiagge nordiche di Ostenda, del Belgio, della Francia e terminava solitamente a Parigi, viaggiando sempre nella sua berlina, fornita persino della cucina e di ogni sorta di comodità. Talvolta villeggiava al "Cacciatore", nel suo casinetto rustico, in mezzo al magnifico parco, affidato alle cure di un sapiente e rinomato giardiniere, Severino Milanese, che fra le piantagioni più rare coltivava nelle serre quei famosi ananas che comparivano ai grandi pranzi del signore. In questo parco fu terminata di costruire nel 1867 la cappella dove dovevano riposare i suoi resti mortali accanto a quelli della madre, provvisoriamente collocati sotto l'altare della Beata Vergine delle Grazie da lui fatto erigere nella Chiesa dei Gesuiti (S. Maria Maggiore).
Tutto ciò che questo magnifico e munifico Signore operò - scrive l'abate Luigi de Pavisich - fu a incremento e decoro della sua città di adozione. Fu per sua iniziativa che sorse il grande albergo Hôtel de la Ville, dapprima nominato Metternich. Fu uno dei promotori e il più forte azionista nella costruzione del Tergesteo, della Villa Ferdinandea, del Bersaglio, del Teatro Armonia, dello Stabilimento Tecnico Triestino e della fabbrica di birra Dreher.
Alle chiese non diede soltanto il suo obolo, ma molte devono a lui gran parte delle ricchezze in esse custodite. Contribuì con ingenti somme all'erezione della Chiesa dei Cappuccini. Donò un ostensorio e molti arredi sacri, che erano stati rubati poco prima, alla Chiesa di S. Maria del Soccorso, facendovi pure il pavimento di marmo. Fu munifico verso i Conventi delle Monache Benedettine di Trieste e dei Francescani di Capodistria, nonchè verso altri dell'Istria, della Dalmazia e della Bosnia e verso quelli delle Servite Eremitane Scalze di Venezia e di Chioggia. Si deve pure alla sua generosità se la Chiesa di S. Geremia a Venezia, dove il Revoltella fu battezzato, può vantare quella magnifica facciata ed il sontuoso pavimento. Volle che la Chiesa dei Mechitaristi di Trieste avesse il suo organo. Donò lampade d'argento e un baldacchino alla Chiesa di S. Giacomo Una lampada ricchissima donò pure al convento di Ramie in Terra Santa. Altre chiese del Friuli, del Goriziano, del Trevigiano, di Spalato, di Prevesa, di Antivari, della Turchia, della Svizzera, quella votiva di Vienna, ebbero da lui doni e contributi.
Ma sopra tutto gli istituti di beneficenza furono sempre da lui prediletti. Contribuì largamente all'erezione del nostro Civico Ospedale. A lui devono riconoscenza 1'Ospedale Infantile, la Società di Mutuo Soccorso per Infermi, l'Istituto dei Sordomuti di Gorizia, quello delle Pericolanti di Venezia, degli Orfani dei Pescatori di Chioggia e delle Convertite e Scarcerate. Fece generose elargizioni per il riscatto dei fanciulli cristiani in Turchia e per i neofiti maomettani ed israeliti.
Molte cose utili alla cultura morale e intellettuale della sua cara Trieste ideò e compi, e fra le altre menzionate è, si può ben dire, opera sua la Scuola Superiore di Commercio oggi Regia Università di Scienze Commerciali, che, secondo il suo testamento, doveva intitolarsi « Fondazione Pasquale Revoltella ». Da lui venne edita in 10.000 esemplari l'elegante Guida in lingua italiana, tedesca e inglese Tre giorni a Trieste, scritta dal Formiggini, dal Kandier, dallo Scrinzi e da lui stesso e pubblicata in onore dei delegati della Società delle Ferrovie che nel settembre 1858 si riunirono a Trieste. Apprezzando i sommi vantaggi che alla nostra città apportava il Taglio dell' Istmo di Suez, ne fu a Trieste il primo e caldissimo propugnatore : perciò la Società lo acclamò riconoscente suo Vice Presidente, e quindi, quale Presidente della Camera di Commercio, fece parte della Commissione che doveva riunirsi in Egitto col Lesseps per trattare di quella grande impresa.
Pasquale Revoltella era celibe: un bellissimo uomo, alto e imponente di persona e vivacissimo di modi. Pareva una figura napoleonica, elegante e irreprensibile nella sua redingote color noce, i calzoni attillati, il panciotto a fiorami e la tuba di castoro. Suoi amici inseparabili erano il barone Hierschel, Pietro Kandier, i Sartorio e de Minerbi. In sul mezzogiorno arrivava al suo posto di osservazione dinanzi al negozio Tropeani, in Piazza della Borsa. Non conosceva il francese, ma al passaggio di qualche bell'esemplare femminile faceva scappar di bocca due o tre paroline in quella lingua. Fu un grande conquistatore di cuori femminili e vuolsi che di molti abbia avuta assoluta padronanza. Ai suoi pranzi ristretti conveniva anche quell'ineffabile e dotto medico che portava il nome di dottor Alessandro de Goracuchi e che quarant'anni or sono camminava ancora per le vie di Trieste a tutte l'ore in marsina, con largo sparato della camicia e i polsini a bracchette.
Costui faceva sempre molto onore alla tavola del Revoltella, che quand'era di buon umore si spassava delle sue trovate più o meno scientifiche. Il dottor de Goracuchi, quando s'assideva a tavola poneva il suo gibus a terra, fra i piedi. Ciò che non arrivava ad ingoiare, lo faceva pian pianino scivolare dal piatto nel suo cappello. Il Revoltella mandò a studiare all' Accademia di Venezia i pittori Francesco Beda e Alberto Rieger e fu il protettore di Cesare Dell'Acqua e di Giuseppe Lorenzo Gatteri.
Mandò la figlia del suo maggiordomo, Rosina Voena, cremonese, a studiare il canto al morte di lui, vennero a mancare alla protetta i mezzi necessari per la continuazione degli studi, fu il barone Giuseppe de Morpurgo che continuò a sussidiarla. Essa divenne una cantante celebre e con la famosa Kupfer esordi all'Apollo di Roma.
Durante la catastrofe del 1860 e lo scandalo delle forniture nella guerra d'Italia del 1859 sorse un sospetto di correità anche su Pasquale Revoltella che fu deferito al Tribunale di Vienna; egli però fu assolto da ogni imputazione per mancanza di prove, e un anno dopo nominato barone.
Pasquale Revoltella mori nella sua villa «al Cacciatore » nel settembre del 1869 a 74 anni. La salma venne trasportata in città ed esposta nella grande sala del secondo piano del suo palazzo, convertita in cappella ardente. Tutta Trieste prese parte ai suoi funerali.
In lui la città nostra perdette un distinto e benemerito cittadino, - scrive un giornale del tempo - che anche dalla tomba con la generosa eloquenza delle sue beneficenze e dei suoi provvedimenti pare che imponga silenzio a ingiusti avversari, ed ecciti i migliori a seguire il suo esempio. Ultimo monumento che egli pose a se stesso è il suo testamento. Da esso vedesi come egli amava la nostra città, come ne desiderava il progresso, la prosperità, il decoro. Quanti seppero, quanti sanno fare altrettanto? La pratica delle mercature fu il campo dove egli colse tesori. Con la moderazione e con la rettitudine arricchì per arricchire gli altri, per largheggiare coi poveri, per promuovere utili e pratiche istituzioni, e da vero mecenate, allogando lavori d'arti belle, incoraggiando chi per l'arte sentiva in sè ardere la scintilla dell' ingegno. Ebbe per la madre un potente affetto e fu la sola donna che egli amò davvero. Al posto della casa meschina ove egli passò con essa i primi anni di vita nella più pura armonia di affetti, elevò più tardi all'Armonia: un elegantissimo teatro, e la casetta prossima ai suoi magazzini fu poscia da lui convertita in un palazzo che per magnificenza, splendore e sontuosità è il gioiello della nostra città. La solennità alla quale andiamo incontro, quale è appunto l'inaugurazione del canale di Suez, ricorderà a onore e speranza di Trieste la parte vivissima che egli prese in quest' opera di civiltà. Fu sua madre che sempre lo incitò e incoraggiò a non disperare di se stesso, a ripromettersi tutto dalle proprie risoluzioni ed a formarsi quella temprata energia dell' indole che lo distinse poi in tutto il corso della sua vita. Fu acclamato padre dei poveri e con gentile pensiero li volle sempre partecipi nelle feste della carità. Fu religioso ma senza ostentazione ed egli si era preparato già da lunga pezza con filosofica e cristiana rassegnazione a rinunciare alla vita presente.
Egli lasciò erede il Comune del suo palazzo con tutte le collezioni d'arte, numismatiche, libri, mobili, a condizione che questo venisse convertito in un Museo di Belle Arti, e vi aggiunse una generosa dotazione. Mercé la generosità di questo suo figlio adottivo oggi Trieste può vantare una istituzione che è di gran lustro e decoro del paese : il Civico Museo Revoltella. Per la saggia amministrazione del capitale fondazione, dovuta ai suoi Curatori, esso potè arricchirsi in seguito di opere egregie.
Spero che questo Museo, - egli scrive nel suo testamento - prenderà gradatamente quello sviluppo, che è nelle mie migliori intenzioni, e che il Municipio non gravato da altre spese, tranne quelle d'imposta, di custodia, della conservazione dello stabile e degli oggetti, vorrà secondare le mie speciali raccomandazioni, dedicando la sua premurosa sollecitudine ad un istituto che tornerà ad ornamento e decoro di questa città tanto da me affezionata. Lasciò inoltre un capitale di tre milioni di fiorini in legati e opere di beneficenza a Trieste e a Venezia.
Non dimenticò la Chiesa di S. Geremia in quest'ultima città, lasciando un rilevante importo destinato all'ultimazione della medesima. Il podestà dott. Massimiliano d'Angeli, commemorando il trapassato in una seduta del Consiglio Comunale, deplorò la perdita di un uomo sotto ogni titolo meritevole della riconoscenza della città, il quale, sebbene non nato a Trieste, diede le più ampie prove di affezione e di simpatia a questa città, ed anche morendo volle darle testimonianza del suo affetto.

 

Edizioni Italo Svevo. Trieste, ottobre 1991