Netsuke

 

Il fascino del Netsuke, antico portafortuna dei samurai giapponesi

 

 

 

Alessandra Doratti

 

 



Bocciato ai severissimi esami di letteratura, il generale cinese Chung Xuei (in giapponese: Shoki) si suicidò. L'imperatore gli fece un favoloso funerale, e il militare, per riconoscenza, liberò il palazzo imperiale dai demoni che lo circondavano. Questo fantasma del leggendario Shoki, suicida per amore delle belle lettere (e della bella carriera connessa con il superamento dell'esame), divenne per i giapponesi un portafortuna; e ricomparve, questa volta sotto forma di oggetto di belle arti, come un personaggio dei "netsuke", i "bottoni", o "ganci" del loro costume nazionale.
Non a caso la storia è ambientata in Cina. Mezzo millennio prima dell'introduzione in Giappone, i cinesi avevano già i netsuke, anche se li chiamavano con un altro nome "chiutzu". L'usanza di accarezzarli traendone situazioni tattili gratificanti durante la conversazione si è poi trasferita nel costume giapponese, insieme all' adozione dell' oggetto, alla fine del XVI secolo. Il netsuke era anche la classica coperta di Linus.
Una "coperta" dotata di poteri magici e terapeutici, un po' amuleto e un po' medicina: la scelta di certi legni, per esempio, era determinata dalle virtù curative e salutari che venivano attribuite ai materiali; la scelta di alcuni soggetti era determinata dal loro significato fausto e augurale. Quando ai samurai, nel secolo scorso, venne vietato di portare la coppia di spade (il tradizionale "daisho"), gli esautorati guerrieri la surrogarono appendendo alla cintura vari oggetti, ognuno con il relativo netsuke.
Gli antichi sigilli o timbri cinesi che rappresentavano leoni o eremiti, adatti a netsuke, costituiscono i più antichi esempi giapponesi, denominati "tobori", cioè "scultura straniera".
Ma la svolta dell'oggetto tattile all'immagine prima fantastica e poi realistica (tale trapasso avvenne quando si sviluppo' una committenza mercantile e borghese) è un frutto tipico della civiltà giapponese e del suo gusto per la rappresentazione miniaturizzata del mondo: l'infinitamente piccolo è un motivo ricorrente nell'estetica di quel paese, e anche il collezionismo ha saputo appropriarsi felicemente di questa possibilità.
Da una ventina d'anni una caratteristica notevole del mercato dell'arte è costituita dall'interesse crescente che i collezionisti internazionali dimostrano per gli oggetti molto piccoli, facilmente trasportabili per le loro dimensioni. Così, è proprio il caso di dire che una cosa più è piccola e più vale. Il termine generico di netsuke si applica ai vari tipi di contrappesi che servivano agli antichi giapponesi per sospendere con un cordoncino alla cintura del kimono gli "inro" (scatolette per sigilli, inchiostri solidi, medicine) le borse da tabacco o altri contenitori e oggetti. Il motivo di questo armamentario è che il costume nazionale giapponese non aveva tasche.
Il netsuke (si legge "netske") si è sviluppato soprattutto all'inizio del XVI secolo fino alla rivoluzione Meiji, cioè fino al declino del sistema feudale. Con la restaurazione dell'impero, all'inizio del periodo Meiji, cominciava per il Giappone l'età moderna, e anche i giapponesi adottarono il modo di vestire occidentale, con relative tasche.
Etimologicamente netsuke significa "radice che fissa", ed è probabile che in origine questo accessorio fosse soltanto un pezzo di legno sommariamente lavorato, ma accuratamente levigato per non sciupare la seta dell' "obi", la larga fascia avvolta come una cintura sul kimono.
Molto presto però, grazie alla loro innata raffinatezza, i giapponesi trasformarono codesto ciondolo in una scultura miniaturizzata. I fabbricanti di articoli religiosi furono, pare, i primi a offrire alla loro clientela delle figurine che servivano come netsuke. Vendute presso numerosi templi disseminati per tutto il paese, esse rappresentavano secondo i casi, dei e demoni scintoisti o buddisti, oppure saggi buddisti.
In seguito il mondo animale in tutte le sue forme divenne il tema favorito dagli scultori di netsuke. Contrariamente all'opinione occidentale, nell'ottica giapponese non esistono bestie considerate vili e altre nobili. Tutte le manifestazioni della vita vengono poste sullo stesso piano. Per questo motivo i topi pullulano letteralmente nel bestiario nipponico. E per la stessa ragione si incontrano spesso delle piovre, questi molluschi dalle "cento mani" che pare fossero considerati in Estremo Oriente come il simbolo erotico per eccellenza. Accanto alla fauna aborigena reale, raffigurata con uno stile naturalista, si trovano anche delle specie fantastiche.
Come il "kiriu", una sorta di dragone derivato dal folclore cinese, oppure il "shishi", mezzo leone e mezzo cane, che tiene in bocca una sfera che la destrezza degli artigiani ha saputo rendere mobile. Più tardi infine apparvero, nel variegato repertorio dei fabbricanti, le rappresentazioni della vita quotidiana, gli oggetti domestici più comuni e ogni sorta di vegetali. Queste statuette, di 5 o 6 cm in media, sono lavorate per lo più in differenti tipi di legno: bosso, hinoki (una sorta di cipresso), sandalo, ebano, ciliegio. Altro materiale molto usato, l'avorio, anch'esso di origini diverse: avorio di elefante (importato
all'inizio del XVII secolo), zanne di ippopotamo, cinghiale, narvalo o tricheco, denti di tigre e capodoglio. Utilizzato anche il corno, specie quello del cervo perché a buon mercato. Esistono degli esemplari in giada e altre pietre dure, ma sono pezzi più tardivi o decisamente moderni.
Le più comuni ed apprezzate sculture dei netsuke sono i "katabori" ossia quelle a tutto tondo ed implicano un foro per il cordoncino (che si chiama "himotoshi"). Se un netsuke non ha un foro, allora si tratta di un okimono, ossia un ornamento di alcova, realizzato nel periodo Meiji, o dopo di esso, ed ha un valore inferiore.
Tra le altre varietà dei netsuke il secondo tipo più diffuso e più antico è il "manju", di forma circolare e di diametro dai 4 ai 6 cm generalmente in avorio. La decorazione è scolpita in bassorilievo su un faccia e incisa sull'altra. Un altro tipo di netsuke molto vicino al manju è il "kagamibuta". Quasi sempre di forma rotonda quando è visto di faccia, consiste in una coppella (di solito in avorio o in corno) con il bordo leggermente incurvato, su cui è fissato un disco di metallo. La decorazione, soprattutto mediante fiori, può essere semplicemente incisa o servirsi di leghe sofisticatissime e tinte sottili. Questi kagamibuta erano realizzati dai fabbricanti di sciabole.
Di un genere del tutto differente i "netsuke–maschere" permettono di formare delle collezioni originali. Sono maschere realizzate in avorio o legno a volte laccato, e possono essere copie in scala ridotta di quelle normalmente portate dagli attori del teatro giapponese. Talora rappresentano demoni più o meno mostruosi o ancora il volto sorridente della dea della gaiezza, Okame.
Altri oggetti che avevano un'altra funzione sono stati a volte portati come netsuke. Per esempio delle scatolette in lacca, dei sigilli, dei pallottolieri da calcolo, degli orologi solari; e non bisogna dimenticare gli acciarini in pietra focale e i portacenere, dato che i giapponesi allora fumavano volentieri la pipa. Tali netsuke si riconoscono perché sono forniti del famoso himotoshi, il foro per il cordoncino.
Ritornando ai netsuke a tutto tondo o katabori, essi sono di gran lunga quelli di maggior valore. Quest'arte della scultura miniaturizzata è culminante tra il 1750 e il 1850. Su circa 3.000 firme finora identificate, solo alcune dozzine appartengono ad artisti autentici.
Numerosi scultori tra i più importanti e i più antichi, però, non hanno mai firmato le loro opere, mentre altri si attribuivano la paternità di lavori eseguiti in realtà dai loro stessi allievi. Perciò è meglio (come sempre, d'altra parte) giudicare un'opera di per se stessa e non per la firma.
Per vedere pubbliche collezioni di netsuke, conviene andare all'estero: al Museo Baur di Ginevra, al Musée d'Enner a Parigi o al British Museum e al Victoria and Albert Museum di Londra. In Italia una collezione di circa 200 esemplari è conservata al Museo d'Arte Orientale di Ca' Pesaro a Venezia. Anche il Museo d'Arte Orientale E. Chiossone di Genova ne possiede una raccolta meno ampia. Solo una quarantina di netsuke è esposta al pubblico.

 

 

Alessandra Doratti