L’impeto schizoide di Adolfo Levier, pittore di razza.

 

 

Walter Abrami

 

 

 

 

                        

Mentre il motore di una Fiat 500, un quattro cilindri che sviluppava 13 CV a quattromila giri al minuto  rombava nell’officina meccanica di mio padre, due gentiluomini di età diversa, eleganti, arzilli e curiosi, osservavano i movimenti delle sue braccia fidiache dai polsi forti e le mani  nodose, sporche di grasso, decise, che si destreggiavano abilmente - il cofano alzato e la testa china -  in mezzo alla ferraglia.

Tra un commento e una domanda specifica sull’automobile, aspettavano impazienti che la messa a punto del poderoso bolide felicemente battezzato Topolino dalla fabbrica torinese dopo il successo, fosse conclusa.

I due clienti erano Ugo Carà che in quegli anni viveva a Roiano in Villa Bandel e Adolfo Levier, suo anziano amico.

L’officina-garage, sita in via dei Moreri, era poco distante da Scala Santa e la gentile e appariscente moglie dello scultore (Maria Enrichetta Bandelli) che  guidava il veicolo senza emulare Nuvolari, preferiva parcheggiarlo nella via quasi piana: Carà e Levier partivano spesso da lì e si facevano condurre volentieri.

Con le loro spavalde ed emancipate signore (la consorte del pittore si chiamava Bruna Fraistainer), qualche volta andavano in gita a Venezia stringendosi coraggiosamente nella biposto per più di tre ore all’andata e altrettante al ritorno.

Talora raggiungevano assieme anche un modesto paese del Carso o un piccolo porticciolo istriano dopo aver sorseggiato un caffè a Muggia.

Discorrere piacevolmente con Carà e ricordare oggi nel suo studio due uomini temprati dalla vita (ovviamente per aspetti diversi del tutto diversi) quali mio padre, artigiano di stampo antico e Adolfo Levier, pittore gagliardo e irruente, significa per me percepire un coinvolgente profumo lontano.

 Nel disordine affascinante dei suoi bronzi distesi condotti sui ritmi del mistero, degli esili corpi di donne che cercano con gli occhi l’acrobazia del sole, (centauri, danzatrici vibranti, bagnanti filiformi, abili giocolieri), parlare con il Maestro di quegli anni è  una lezione indimenticabile...

 Tra i trespoli collocati suggestivo ambiente che esaltano gli equilibri plastici di qualche recente scultura, tra bassorilievi, chiavi antiche che ci accomunano nella passione, ma anche medaglie commemorative, ceramiche e cartelle sparpagliate piene di opere grafiche, Carà mi racconta...

 

“ Tra me e Levier c’erano trentacinque anni di differenza e quando lo conobbi, ai tempi delle mie prime partecipazioni alle Biennali veneziane del 1934, 1935 e 1936, pur se giovanile nello spirito, egli aveva superato la sessantina.

Frequentava Vittorio Bergagna ed aveva molte conoscenze importanti.

Per noi, artisti delle nuove generazioni, era un emblema, una sorta di baluardo storico dell’arte triestina in Europa: ricco di esperienze, prodigo di consigli, Levier riusciva ad infondere buon umore con una carica di simpatia straordinaria, ma anche a farci valutare i rischi della professione.

I suoi aneddoti raccontati con nonchalant da una voce suadente che catalizzava per la pronuncia ‘accentuatamente esotica’, erano volutamente misurati, privi di stucchevoli baldanze, ma conducevano le nostre fantasie nelle lussuose dimore  di Monaco o negli ambienti della Secession viennese o  nei decantati salotti parigini..

Egli amava la compagnia, la conversazione, il dialogo con gli amici anche se fondamentalmente era “riservato, estremamente gentile, forse timido”.

Frequentava molto i locali, i ritrovi cittadini, ma prediligeva il bar “Si” all’angolo tra le vie Machiavelli e Roma (qui veniva anche il pittore Brumatti) e il Caffè Minerva in Viale XX Settembre: nei mesi estivi dai suoi tavolini all’aperto, ammirava le splendide ‘mule’ triestine in una loro consueta passeggiata e si rammaricava di non essere più giovane nonostante la conclamata energia sessuale.

Qualche volta mi invitava nel suo appartamento sito all’ultimo piano di un edificio in via Torrebianca dove aveva pure lo studio e ciò che ricordo sono i suoi cartoni dipinti con foga (in età avanzata dipingeva dopo il pranzo e ne eseguiva almeno uno al giorno!)  che sparpagliava incurante del colore fresco sul pavimento del corridoio all’entrata del bagno: un originale ‘zerbino’ sempre diverso che ora, dopo la quotazione di quattromila sterline ottenuta in un’asta di Sotheby’s  da un suo ritratto mondano, molti vorrebbero possedere... (erano le opere meno riuscite, quelle che non lo convincevano più o il ritratto di qualche cliente arrogante che non lo aveva voluto pagare insoddisfatto della sua esecuzione?)

Nel 1942 con Bastianutto, Cernigoj, Spacal, la Lupieri e la Pittoni esponemmo  alla Permanente di Milano; nel 1945 - ormai lo conoscevo bene - eseguii il bronzo della sua testa: in un incontro preliminare mi raccontò che negli anni del soggiorno parigino la sua ricca famiglia, gli faceva pervenire dei piccoli lingotti d’oro che egli si premurava di trasformare in valuta.. Sempre infatti aveva vissuto da ricco...”

 

Anche Livio Rosignano che fu vicino al pittore e più volte negli anni Cinquanta si recò a disegnare e a dipingere con lui nell’immediata periferia cittadina (Gretta, Roiano, Servola, Montebello, Longera, Cattinara furono le loro mete!) è prezioso testimone.

 

 “Quando agli esordi una delle mie maggiori aspirazioni fu quella di possedere uno studio, Levier mi suggerì di infischiarmene, di non fare una malattia...

Mi ammoniva convinto: “Fai della strada il tuo studio perché solo l’osservazione costante, la necessità di disegnare con ogni luce, la ricerca continua dei soggetti, l’esercizio, ti renderanno pittore vero, smaliziato e consapevole dei tuoi mezzi: sarà la strada la tua prima, impareggiabile maestra e non te ne pentirai!”

 

Rosignano conserva (e adopera) ancora il testimone passatogli da Levier: un modesto cavalletto che probabilmente i tarli non sono riusciti a mangiucchiare per l’intenso odore di petrolio, di vernici, di colori.

In Fiori gialli senza nome con la vena poetica che lo caratterizza anche quando scrive, Rosignano ci regala una pagina nostalgica:

 

“...Uno degli ultimi giorni di uno splendido febbraio, si era nel 1953, andammo a Barcola, con il tram naturalmente, che sferragliava in maniera incredibile e che ad ogni curva ci buttava uno nelle braccia dell’altro. Fu il nostro ultimo abbraccio. Il pomeriggio fu lieto: Levier protendeva il viso verso il mare socchiudendo gli occhi che il sole, di faccia non lo accecasse. Il sole che lui amava tanto e che di lì a qualche giorno non vide più.”

 

Fu colpito da un attacco di angina pectoris mentre come sua abitudine era seduto al caffè e destino volle che morisse il giorno in cui si spense Stalin.

Quasi ottantenne Levier spiritosamente soleva dire: ”Sono in rettilineo d’arrivo e vorrei fregare il russo...”

Nel 1954 il Consiglio Direttivo dell’Associazione Belle Arti di Trieste istituì un premio di pittura alla memoria di Levier; la giuria composta dai pittori Brumatti, Bergagna e Sbisà e dallo scultore Carà’ premiò il quadro “Rotaie” di Rosignano, erede spirituale del pittore.

 

 

 

Walter Abrami