Le Corbusier - La leçon de Rome versus la leçon de Venise

 

 

Alberto Spinazzi

 

 

 

 

Benché possa sembrare paradossale, Utopia che non è in nessun luogo, è comunque innanzitutto uno spazio.

Françoise Choay[1]

 

 

La laguna è un esempio di geografia volontaria: di delicato equilibrio tra naturale e artificiale trasformato, corretto, sorvegliato per secoli; i principi di insediamento di Venezia e delle isole della laguna vi dipendono completamente. (…) Anche tutto questo è un insegnamento importante per l'architettura della nuova modernità.

Vittorio Gregotti[2]

 

            L’opera di Le Corbusier necessita, sempre di più, di una rilettura critica che riprenda a trattarne le grandi tematiche progettuali, il rapporto con le città, la matematizzazione poetica più che razionale, dello spazio dell’uomo e il grande valore, si direbbe assoluto, attribuito all’individuo stesso come elemento determinante l’ambiente urbano e abitativo. A tal proposito sembra che nella più recente letteratura critica dedicata a Le Corbusier si tema una presunta accusa di poca scientificità se ci si arrischia a “generalizzare”, nel senso più buono e sincero del termine, le sue ricerche. Rischiare d’andare al di là del singolo e spesso inutile dato documentario appare infatti come indice di poca specializzazione. A nostro avviso gli archivi del sapere risiedono in uno spazio che non è sempre fisico, ma ha tuttavia ration-d’etre nel momento in cui si cerca di ricondurre alcune idee o interpretazioni, a volte anche lecite forzature, a una logica coerente, pur se non sempre giustificabile e dimostrabile dal punto di vista scientifico. A mio avviso, si può anche forzare la storia e cercare delle relazioni, anche dal valore retroattivo, addirittura in ciò che può non apparire chiaro a una prima ortodossa lettura. La storia dell’architettura ha ormai acquisito tutti gli strumenti da utilizzare per diverse analisi di un medesimo tema, ed è arrivato forse il momento di tenere insieme tutti questi approcci, ovviando in tal modo alla velocità con cui la disciplina si è forse troppo evoluta, da Bruno Zevi all’ultimo Tafuri, attraverso tutte le esperienze delle avanguardie operative degli anni Settanta.

            Affrontare, quindi, il rapporto tra due grossi modelli della città occidentale, Roma e Venezia, nelle impressioni che ne trae Le Corbusier si rivela un ottimo esercizio per mettere alla prova alcune relazioni tra gli appunti e le idee del maestro e in qualche modo reinserirsi sulla scia stessa suggerita dai capisaldi stessi del movimento moderno, ben esplicata da Zevi quando sostiene che nostro compito è:

 

 

dimostrare che la vitalità del linguaggio architettonico moderno fonde con l’impegno di forgiare una versione moderna, futuribile e comunque incentivatrice, delle fasi storiche che ci precedono. Di fronte ad esse risultano assurde sia la passività imitatrice dei revivals che l’indifferenza rinunciataria di alcune avanguardie. La rivoluzione storiografica è una componente ineliminabile di quella architettonica.[3]  

 

 

                Si cercherà quindi di far reagire insieme (per usare una metafora cara ad Erwin Panosky) diverse letture utopiche o antiutopiche della città di Venezia. La domanda che deve emergere dall’intero lavoro è la possibilità di una continua utopizzazione architettonica ed urbanistica, e quindi sociale, della realtà lagunare. La riflessione non deve esimersi dal inquadrare il destino di tale spontanea teoria e effettiva realizzazione urbana, che paradossalmente troverà la sua apoteosi nel momento dell’evolversi della civiltà macchinistica, tanto da influenzare perfino alcuni progetti per la rete stradale di New York negli anni venti del Novecento.[4] Non è questa pura retroattività della storia? E Le Corbusier non s’inserisce quindi in un contesto generale, piuttosto che in uno slancio di geniale intenzione, quando riprende la leçon de Venise per concepire il piano d’Anversa, pubblicato nella Villa Radieuse?

            A partire dai primi anni venti e dalla redazione dell’Esprit Nouveau, Le Corbusier sposta la sua attenzione dall’analisi dei grandi spazi urbani al ruolo dell’individuo nella nuova società. In Urbanisme scrive:

 

 

l’homme marche droit parce qu’il a un but: il sait où il va. Il a décidé d’aller quelque part et il y marche droit.[5]  

 

 

È l’uomo, il singolo, il destinatario principale delle riflessioni architettoniche ed urbanistiche moderne. Le Corbusier si presenta così non come il teorico della società macchinistica, come è spesso stato interpretato, ma come colui che al contrario profetizza un uso strettamente strumentale della macchina da parte dell’uomo. Nei primi anni venti, quando concepisce Vers une architecture e Urbanisme, il protagonista letterale della sua teoria non è l’uomo generico, ma il pedone, colui che, come si è visto, cammina dritto perché sa dove andare e a tal fine usa i propri insiti mezzi, mentre la bestia, l’asino, che avrebbe quasi le stesse possibilità fisiche è costretto a zigzagare nel caos. La macchina e quindi la città e l’abitazione devono essere asservite a questo scopo. E’ fondamentale, a mio avviso, aver chiaro questo spunto, non dissimile nell’intenzioni dall’irredentismo futurista. L’ordine serve l’uomo, il caos lo nega.

            Venezia, infine, è il modello di una nuova gerarchia urbana moderna. Roma, la città storica per eccellenza, ne è la negazione e smuove in Le Corbusier una profonda polemica anti-rinascimentale. Ancora nel 1934 Venezia viene descritta come:

 

cette ville qui, à cause de son plan d’eau, représente l’outillage le plus formel, la fonction la plus exacte, la vérité la plus indiscutable – cette ville qui, dans une unité unique au monde, en 1934 encore (à cause du plan d’eau) est l’image entière, intégrale des actes hiérarchisés d’une société[6]

 

 

            Il vero nucleo della polemica risiede nell’antinomia implicita tra la realtà urbana lagunare e quella romana. La capitale italiana era ancora, nei primi anni del ‘900, la meta prediletta del Grand Tour e Janneret la prende a pretesto per scagliarsi contro un mito dell’architettura di tutti i tempi, demolendone, forse con un eccesso di snobismo, tutto il fascino. Sembra che, prima del fallimento dell’Esprit Nouveau, Le Corbusier avesse in mente di preparare proprio un articolo dal titolo La leçon de Venise da giustapporre alla Leçon de Rome, ripubblicato in Vers une Architecture.[7]  Per Janneret Roma ha molte caratteristiche delle sue amate città mediterranee, senza averne però le forme e l’armonia. E’ un ambiente pittoresco, un grande bazar:

 

 

La lumière y est si belle qu’elle ratifie tout. Rome est un bazar où l’on vend de tout. Tous les ustensiles de la vie d’un peuple y sont demeurés, le jouet de l’enfance, les armes du guerrier, les défroques des autels, le bidet des Borgia, et les panaches des aventuriers. Dans Rome les laideurs sont légion.[8]

 

 

Agli occhi del giovane progettista, ciò che nella cultura postmoderna diventerà icona, il caos, che nella spontanea giustapposizione romana di diverse atmosfere spazio – temporali regna sovrano, appare al contrario laido, sporco ed inutile. Antirazionale, antiurbano. Per chi viene da studi prima ruskiniani e poi sittiani, Roma è un Europa non più tale! Se riflettiamo su ciò che la capitale diventerà per gli intellettuali del dopoguerra, per registi come Pasolini o Fellini, o per architetti come Aldo Rossi e Robert Venturi[9], possiamo riconoscere una netta caratteristica, dovuta evidentemente a una mentalità diversa ma decisamente confrontabile da un punto di fenomenologico teso a ridimensionare i confini storico temporali di qualsivoglia attitudine intellettuale. Roma si configura, a nostro avviso, come una spontanea città per parti. Niente di più lontano quindi da ciò che andava cercando Le Corbusier nei primi anni venti, quando neanche l’infausta volontà dell’urbanistica fascista aveva ancora tentato di rettificare la viabilità della capitale.

Se in Vers une architecture l’acropoli ateniese è la realizzazione prettamente progettuale dell’emergenza per eccellenza, Venise est formée par son plan d’eau e trattiene una venustas e un’euritmia insita nella sua stessa natura geologica. L’incontro tra la storia progettata e la storia non progettata segna questo particolare momento dell’attività di Le Corbusier ed il mondo greco è perennemente pietra di paragone:

 

 

Si l’on sorge au Grec, on pense que le Romain avait un mauvais goût, le romain – romain, le Jules II et le Victor – Emmanuel.

               Rome antique s’écrasait dans des murs toujours trop étroits; une ville n’est pas belle qui s’entasse. Rome renaissance eut des élans pompeux, disséminé aux quatre coins de la ville. Rome Victor – Emmanuel collectionne, étiquète, conserve et installe sa vie moderne dans les corridors de le musée et se proclame « domaine » par le monument commémoratif à Victor – Emmanuel Ier, au centre de la ville, entre le Capitol et le forum …quarante ans de travail, quelque chose de plus grand que tout, et en marbre blanc!         

                Décidément, tous s’entasse trop dans Rome.[10]

 

 

            Come ha giustamente considerato Tafuri in Teoria e storia dell’architettura, comparando in modo forse un po’ forzato l’antistoricismo di Wright a quello di Le Corbusier, la rilettura dei tessuti storici da parte del maestro svizzero deve necessariamente partire da un’eliminazione di ciò che ne impedisce la chiarezza urbana e l’uso dei medesimi secondo le esigenze della vita moderna. La città storica rischia infatti di non adattarsi alle nuove modalità del vivere e di essere confinata e bloccata dalle città nuove, luoghi del mutevole, del non rappresentativo, in luoghi deputati dei valori di permanenza, di rappresentazione.[11]   In realtà Janneret intende qualcosa di ben diverso: i modelli del passato possono considerarsi ancora tali soltanto se gli si accorda un significato figurativo, certamente non riproponibile, ma che possa segnalare all’architetto e all’urbanista contemporaneo la necessità di tradurre in sistema linguistico coerente, le confuse anche se vitali indicazioni, offerte dal labile mondo di oggetti non rappresentativi e rapidamente consumabili della realtà tecnologica.[12]

 

            Continuando con la lettura di Vers une architetture, dopo la Leçon de Rome, si trova un capitolo dal significativo titolo L’illusione della pianta. Un paragrafo, accompagnato da schizzi di Villa Adriana e da scorci di Pompei, tratta degli elementi architettonici degli spazi interni:

 

 

On dispose de mur droits, d’un sol qui s’étend, de trous qui sont des passages d’homme ou de lumière, porte ou fenêtres. Le trous éclairent ou font noir, rendent gai ou triste. Les murs sont éclatants de lumière, ou en pénombre ou en ombre, rendent gai, serein ou triste.[13]      

 

 

            Risulta sconcertante leggere un descrizione di modello d’interno che presenta elementi architettonici (luce, sole, buchi) che fanno in qualche modo parte degli esterni veneziani. Che Le Corbusier legga inconsciamente Venezia come un grande spazio a metà strada tra l’interno e l’esterno? La struttura di calli e canali alternata a campi rende Venezia un spazio infinito, senza soluzioni di continuità, dove le sensazioni più fondamentali della vita umana, come la felicità o la tristezza, sono condizionate dagli scorci della città? Si desidera ora far ricorso a un interessante spunto proposto da Zevi per la città medievale in generale, assai felice per una definizione urbana di Venezia. Il critico romano sostiene che nella città gotica vige la legge non scritta dell’elenco che ha intrinseche capacità correttive nell’ambito di un impianto narrativo. La scomposizione rinascimentale richiede invece una normativa, un modulo. Zevi insiste ancora nella sua polemica anticlassicista:

 

 

Il classicismo, antico o moderno, procede per moduli e li ripete sistematicamente, contravvenendo all’invariante dell’elenco che costituisce il cardine fondamentale di un linguaggio libero. Finestre o alloggi si uniformano in un’iterazione destinata a cadere nei canoni ibernati dell’accademia; le parole, i termini architettonici perdono ogni specifica semanticità, in omaggio agli “ordini”. [14]

 

 

Il concetto di elenco presuppone la diversità, ma non è affatto scontato che un insieme di diversità diano luogo ad un elenco architettonico adeguato. Roma, appunto, non lo è e non potrà mai diventarlo, è un pastiche di stili, sui quali il Rinascimento tenta senza fortuna di mettere mano. La diversità deve essere ordinata, deve avere un chiaro scopo unitario. Chi ha visto in Le Corbusier il profeta del Razionalismo architettonico non si è mai soffermato sull’importanza invece nel suo pensiero di un concetto così conservatore come quello di ordine. Si ritorni a Vers une architecture:

 

 

Hors de Rome, ayant de l’air, ils ont fait la villa Adriana. On y médite sur la grandeur romaine. Là, ils ont ordonné. C’est la première grande ordonnance occidentale (…). L’architecture n’est pas que d’ordonnance. L’ordonnance est une des prérogatives fondamentales de l’architecture.[15]  

 

 

Villa Adriana è una rovina, ma è una rovina ordinata, dove lo spazio trova l’uomo e viceversa. L’ordine[16] non ha bisogno delle griglie o dei palazzi fiorentini per essere tale, ma deve assolutamente appartenere a chi ne fruisce, al piéton nel caso di Venezia, città elenco per antonomasia, dove tutto è diverso ma concorre alla definizione di un ordine spontaneo.      

 

 

Alberto Spinazzi


 

 


[1] F. Choay, La regola e il modello. Sulla teoria dell'architettura e dell'urbanistica, a cura di E. d'Alfonso, Roma 1986, p. 182.

[2] V. Gregotti, Venezia città della nuova modernità, Venezia 1998, p. 26.

[3] B. Zevi, Architettura e storiografia, Le matrici antiche del linguaggio moderno, Torino 1974, p. 36.

[4] La soluzione proposta dal teorico Harvey Wiley Corbett prevedeva l’attuazione di un’autentica Venezia modernizzata, dove il traffico automobilistico fosse previsto a un livello inferiore rispetto al marciapiede, in modo tale che il pedone e le macchine non si incontrassero/scontrassero mai, come avviene nella Venezia dei canali e delle fondamenta. Cfr. R. Koolhaas, Delirious New York, a cura di M. Biraghi,  Torino 2003 (prima. ed. 2001), pp. 111-113.

[5] Le Corbusier, Urbanisme, Parigi 1924, p. 5.

[6] Id., Quand les cathédrales étaient blanches, Paris, 1937, p. 8.

[7] Si veda Id, Album La Roche, con un saggio introduttivo di S. Von Moss, Milano 1996, p. 37.

[8] Le Corbusier, Vers une architecture, Paris 1958 (prima ed. 1923), p. 124.

[9] L’edizione italiana di Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi presenta infatti in copertina il prospetto di Porta Pia, assemblaggio del progetto di Michelangelo e successivi rimaneggiamenti. Ricordiamo al proposito anche la raccolta di saggi del medesimo autore dal significativo titolo Veduta dal Campidoglio.

[10] Le Corbusier, Vers …, cit. p. 123.

[11] M. Tafuri, Teoria e storia dell’architettura, Bari 1970, p. 71.

[12] Cfr. Ivi, p. 72.  Tafuri elabora questo ragionamento non tanto dall’analisi di Vers un architecture quanto dal celebre passo antirinascimentale contenuto in Quand les cathédrales étaient blanches che qui riportiamo in parte: Ces artistes (Renaissance) donnent (…) la misure du “deracinè”. Ils se posent dessus les choses, ils ne sont pas la chose. (…) Mais nous autres qui vivons intensément l’époque présent des temps modernes, nous avons brisé le cadre de cette curiosité limitée et indigente. Nous avons étendu à toute la terre et à tous les temps notre sympathie (…) nous sommes loin de ce tréteau théatral qui entend placer les événements de la qualité au-dessus et en dehors des labeurs humains. Nous sommes dans les réalités quotidiennes, face à la conscience même. Cfr. Le Corbusier, Quand les cathédrales…, cit, p. 10. Cfr. Il saggio di Von Moss in Album La Roche, cit, p. 38, 40, n. 29.

[13] Le Corbusier, Vers …, cit. p. 149.

[14] Cfr. Zevi, Architettura …, cit. p. 98, nn. 123 – 124.

[15] Le Corbusier, Vers …, cit. p. 127.

[16] Si traduce ordonnance con ordine, sulla scia di chi ci ha preceduto ma si ritiene che con questo termine Le Corbusier intendesse qualcosa di più profondo e specifico. Si ritornerà sul problema.