Giovanni Attinà

 

LA TAVOLA STROZZI

 

 

 

 

 

La Tavola Strozzi è un olio su “tavola”, di 82 x 245 cm, rinvenuta nel 1901, a palazzo Strozzi, a Firenze.
Sin dal suo ritrovamento, si svilupparono dibattiti e diverse interpretazioni. L’unica cosa certa era costituita dal fatto che la tavola rappresentava la città di Napoli.
Alcuni studiosi, tra i quali anche Benedetto Croce, la interpretarono come una rappresentazione del trionfo navale in onore di Lorenzo de’ Medici, andato a Napoli nel 1479, per stipulare un trattato di pace con il re Ferrante d’Aragona.
Secondo un’altra interpretazione, ritenuta poi storicamente più attendibile, e accolta dalla maggior parte degli studiosi (e dallo stesso Croce, che riconobbe il suo errore) si tratterebbe invece del rientro trionfale della flotta aragonese dopo la vittoria riportata contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò, avvenuta al largo dell’isola d’ Ischia il 7 luglio 1465.
In origine, la tavola, secondo gli storici dell’arte, era la spalliera di un letto disegnato da Benedetto da Maiano, toscano (1442/1497), architetto e scultore soprattutto di legno intagliato.
Il dipinto sulla tavola, invece, fu datato tra il 1472/1473, e si è ritenuto che sia giunta a Napoli in quell’anno, insieme ad altri doni di Filippo Strozzi al re Ferrante d'Aragona.
Sull’autore della tavola ci sono stati molti dubbi e diverse attribuzioni, ma ne parleremo più avanti. Ora, non guastano alcune brevi notizie sul periodo storico.
Il regno di Napoli e Sicilia, regnum utriuusque Siciliae, regno delle due Sicilie, era stato fondato nel 1130 da Ruggero II, il Normanno, con capitale Palermo e comprendeva oltre la Sicilia, tutta l’Italia meridionale fino ai confini con lo Stato pontificio.
Il regno normanno passò poi all’imperatore Federico II, nipote di Ruggero, e poi per ultimo al figlio Manfredi e quindi al nipote Corradino, sconfitto a Tagliacozzo nel 1267 da Carlo d’Angiò che diede inizio alla dinastia francese degli angioini.
La capitale fu trasferita a Napoli, nel 1282, quando i Siciliani si ribellarono – i Vespri siciliani – e chiamarono in aiuto Pietro d’Aragona, che vantava sulla Sicilia diritti di eredità, avendo sposato una figlia di Manfredi, e nell’isola si formò un regno distaccato da Napoli sotto gli spagnoli Aragona.
Nel 1441, Alfonso d’Aragona, già padrone della Sicilia, assediò Napoli, dove regnava Giovanna II d’Angiò, e, con uno stratagemma, attraversando un antico acquedotto oramai in disuso, riuscì a penetrare in città e a conquistarla, riunificando di nuovo il regno.
Il re Ferrante, figlio di Alfonso, era salito al trono nel 1458: egli non era ben visto, il suo regno fu insidiato dai nemici esterni e dal malcontento interno.
I suoi nemici interni, i baroni, si erano collegati con quelli esterni, che facevano capo a Giovanni d’Angiò, discendente della casata angioina e pretendente al trono; e lo avevano chiamato in aiuto per prendere il comando della rivolta, nel 1459.
La lotta durò più di cinque anni e malgrado i successi contro gli insorti, c’erano ancora sacche di resistenza: l’angioino si era rifugiato con i suoi seguaci nel castello dell’Isola d’Ischia.
Il regno meridionale era, all’epoca, il più grande e più potente della penisola oltre ad essere l’unico regno, dal momento che gli altri stati italiani non avevano questa qualifica: i territori più grandi dopo quello potevano essere la repubblica di Venezia e lo Stato del papa, mentre Lombardia e Toscana erano piccole realtà ducali e i Savoia erano solo una ignota famiglia di una lontana contea, in mezzo alle Alpi.
Giovanni d’Angiò si era rifugiato nell’isola d’Ischia, nel castello detto aragonese, (vedi il Castello aragonese in storia e storie blog-spot oppure su artericerca.com), l’isola fu presa d’assalto e occupata. Il pretendente angioino, abbandonato il castello, fu sconfitto in una battaglia navale proprio nei pressi dell’isola, nel 1465.
Il regno Aragonese durò poco, sessant’anni, fino al 1503, quando tutto il territorio passò sotto il dominio diretto della Spagna.

Secondo gli studiosi, è all’episodio della battaglia navale a largo di Ischia, che si ispira l’autore della tavola, illustrando il rientro della flotta nel porto di Napoli, dopo la vittoria.
La paternità della tavola è dubbia - si era fatto anche il nome di Leonardo da Vinci – ; sarebbe stata dipinta, con qualche dubbio, nel 1472, un periodo tranquillo dopo la tempesta di lotte interne e guerre esterne, per il regno e il re Ferrante.
Il dipinto è stato attribuito invece a Francesco Rosselli, (1448-1513), un modesto e semisconosciuto pittore toscano, più noto come incisore e cartografo, autore tra l’altro di altre opere analoghe come la Veduta di Firenze detta della Catena, e di Palazzo Medici, che è considerato il primo esemplare nella storia della cartografia che rappresenta una città, con tutti i suoi edifici e le strade e le piazze, a “ volo d’uccello”.
Altri, convinti che una simile opera doveva essere per forza di chi era di Napoli e, perciò, conosceva molto bene la città, hanno parlato di un tal Francesco Pagano, pittore napoletano di cui non si hanno molte notizie, o anche di Colantonio, altro pittore vissuto alla corte degli Angioini e poi degli Aragonesi.
Comunque sia, la tavola offre all’autore l’opportunità di fornire l’immagine della città, dal mare, e se veramente era un dono rivolto al re, non c’è dubbio che era stata composta per celebrarne il potere, il governo e le vittorie.
I tanti studiosi dell’opera su una cosa sono d’accordo: l’opera non ha un grande valore pittorico, ma ne ha sicuramente uno storico, in quanto mostra l’aspetto della città nel XV secolo, la definirei una fotografia della città di quell’epoca.
In primo piano si vede il lungo corteo delle navi che rientrano in porto. Si notino i particolari: le navi non sono tutte uguali, si vedono vascelli, galee e altre barche.
L’orizzonte si sta schiarendo e ciò ha fatto pensare a una immagine di un rientro in porto all'alba; si vedono anche uccelli in volo.
Napoli appare, a prima vista, con una grande presenza di strutture militari: i castelli (Castel dell’Ovo a sinistra di chi guarda, la imponente mole del Castel nuovo (più conosciuto come maschio angioino, perché costruito da Carlo d’Angiò) al centro, alle spalle, sulla collina, il castello di S. Elmo, più a destra Castel Capuano (per maggiori particolari vedi “Porta capuana” e “il Vomero” su giovanni attinà blog-spot storia e storie), la cui mole emerge sulla fitta edilizia circostante.
Il re Alfonso, padre di Ferrante, aveva dato un grande impulso alla ricostruzione di tutti i castelli, trasformandoli in vere e proprie fortificazioni, anche per le nuove armi da fuoco che proprio in quegli anni facevano le loro prime apparizioni.
In quel periodo infatti la città era messa alla prova – come detto prima - dalle ripetute rivolte baronali, che avevano fatto accantonare i progetti di riordino urbanistico, concentrando le risorse in opere difensive.
Il resto della città presenta ancora l’antica struttura della originaria “polis” greco-romana, racchiusa nella cinta delle mura con le torri di guardia, tutta situata ad oriente, nel centro, che oggi è detto antico, e si vede a destra di chi guarda la tavola, rispetto allo sviluppo successivo della odierna città. Si vedono anche edifici religiosi risalenti all’età angioina, in primo luogo S. Chiara e, in basso a destra, sulla spiaggia, vicino alle mura e a una porta, persone che parlano e altre a cavallo.
Sulla sinistra, quasi al centro della tavola, la torre di S. Vincenzo, che era una specie di scoglio poi sotterrato dalle successive modifiche del porto, anch’esso fortificato, per la maggior difesa del porto.
Il Castelnuovo che appare in primo piano, è rappresentato con minuziosa cura e sono perfettamente individuati e descritti i dettagli edilizi. Si vedono sulla parte orientale le torri di S. Giorgio e quella maestra, in primo piano, che appare più alta di come è ora, detta di ”Beverello”.
Beverello oggi è anche il nome del Molo, posto proprio davanti al castello.
Sono inoltre delineate, con la massima cura, anche gli altri edifici, civili e religiosi e perfino il Castello di S. Elmo, sulla collina.
Non si esistevano gli attuali quartieri di Chiaia e Posillipo, e le colline del Vomero, di Posillipo e di Capodimonte, appaiono verdi per gli alberi e le piante, occupate solo da poche ville di campagne e piccoli villaggi rurali, mentre oggi sono piene di palazzi e condomini. Da Castel nuovo a sinistra, verso Castel dell’Ovo si vede già un embrione di strada sulla spiaggia che doveva servire da collegamento tra le fortezze per scopi difensivi: lì oggi c’è via Partenope.
Malgrado la precisione e la cura profusa dall’autore, alcuni elementi del dipinto non mi sembrano perfetti: parlo delle proporzioni, ad esempio tra le persone, sia a piedi e ancor di più a cavallo rispetto alle mura, o anche alle navi, mi riferisco al rapporto tra il Castel nuovo e il molo e tra questo e le navi che appaiono minuscole rispetto al resto. Forse perché si tratta di una ripresa dall’alto?
Ed è quì che sono nate anche molte discussioni e ipotesi, peraltro non ancora terminate: dove si era posto l’autore, quando ha dipinto la tavola?
Gli storici dell’arte sono partiti, per tentare di spiegarsi la tecnica usata dall’autore, dalla costruzione del faro, detto la Lanterna, eseguita durante il regno di Ferrante d’Aragona, sicuramente dopo la vittoria riportata contro i ribelli, negli anni ’80 del secolo.
La Lanterna, restò in funzione per secoli: la si vede bene nel dipinto ottocentesco di Anton van Pitloo, e fu abbattuta solo nel 1932, per far posto a i nuovi lavori di ristrutturazione di tutto il porto e della Stazione marittima.
Come mai questo faro non appare nel dipinto? Non era stata ancora costruita? L’autore ha dimenticato di inserirla o c’è un altro motivo?
In base ai soli elementi disponibili, la visione dall’alto, in un epoca in cui come è noto non c’erano aerei o altri oggetti volanti, e l’assenza della lanterna dal dipinto, qualche studioso – Roberto Taito, disegnatore, pittore e scultore, sul sito: studi di R. Taito sulla realizzazione della tavola Strozzi e sulle tecniche di disegni e dipinti di autori del XV, XVI, XVII secolo - ha ipotizzato l’adozione da parte dell’autore di una difficile tecnica di disegno che prevedeva, oltre al punto di vista reale, anche un punto di vista fittizio.
La tecnica , dice, veniva utilizzata per disegnare scene con vista aerea a volo d'uccello quando non si aveva a disposizione una altura da cui osservare completamente la veduta dalla giusta distanza. In tal caso allora si sfruttava un alto edificio facente parte del panorama stesso (una torre, un tetto, un campanile, un faro etc.), e, in un secondo momento, veniva inserito artificiosamente nella veduta stessa. Così si otteneva una bella immagine a volo di uccello molto realistica che dava l'impressione di essere ripresa da un punto di vista aereo e da una posizione molto più arretrata e non meglio identificata proprio perché inesistente.
Stando a questa interpretazione, l'artista della Tavola avrebbe lavorato dall’alto della Lanterna, completando il dipinto senza inserirla nella veduta. Questo perché egli stava realizzando la ricostruzione storica di un fatto avvenuto alcuni anni prima, quando la Lanterna ancora non era stata ancora costruita. La Lanterna fu costruita tra gli anni 1481/1487, lontano quindi dagli avvenimenti dipinti nella tavola: di conseguenza anche la data della sua composizione, fissata, come si è visto al 1472/1473, sarebbe spostata di almeno 10 anni dopo.
Altri documenti e studi si possono trovare sul sito dell’Università degli studi “Federico II°”, Dipartimento di discipline storiche “E. Lepore”, e altri siti che facilmente si possono rintracciare.
Al momento, mi sembra che, in assenza di dati certi, ogni ipotesi può essere considerata fondata o infondata, ma resta comunque teoria.
Al di là di tutto questo, quel che è certo della tavola, è l’indubbio valore storico dell’immagine quattrocentesca della città di Napoli.
 

 

 

Giovanni Attinà