La carriera artistica di Mirella Schott Sbisà,

tra ceramica, pittura e incisione

 

 

Walter Abrami

 

 

 

Più di un decennio fa, nell’introduzione del secondo volume della collana, I Grandi Vecchi da lui stesso ideata e sostenuta, il professor Decio Gioseffi, così scrisse: “ Che lo stile del pittore cambi con l’età è un fatto lapalissiano; che peggiori non è affatto detto e che in certi casi migliori è pure vero talora.”

Di ciò discusse più volte, innanzi opere tarde di tanti pittori più o meno noti, il comitato scientifico di quelle mostre tematiche, ma sarà ragionamento da tenere in considerazione anche discorrendo dell’ottuagenaria (non me ne voglia!) Mirella Schott moglie di Carlo Sbisà. Il riferimento all’ormai storica ed interessante iniziativa Dipingere in tarda età nasce spontaneo per due motivi distinti: primariamente perché alcune osservazioni del Gioseffi  consentono oggi un’indagine più ragionata e puntuale sulle rispettive attività dei coniugi Sbisà che divisero per anni l’ordinato studio-laboratorio di via Ruggero Manna (pure ampliato da un intervento di Antonio Guacci), in secondo luogo perché la Schott è ancora operosa  sia nel campo dell’incisione che in quello della pittura ed è divenuta a poco a poco l’emblema giuliano “al femminile” di quel  esser mai paghi: esempio invidiabile di vitalità!

Fu dunque Gioseffi a suggerirmi un incontro  con  la pittrice: nell’abitazione-studio di via Aleardi a Trieste, dove Mirella vive.

L’artista si mostrò all’istante  concreta, dinamica ed intraprendente.

La giovane  modella che Carlo dipinse al suo fianco in tre autoritratti,  mi apparve oltremodo spigliata, decisa, affabile, ma soprattutto ricca di memorie.

Dalla morte di Carlo, avvenuta nel 1964, fu Mirella  a promulgare le sue opere, a far conoscere i vari aspetti dell’ampia attività artistica vissuta, anche se parzialmente, a contatto diretto.

Tra lei e il marito che si sposarono nel 1943, c’erano tuttavia venti anni di differenza: incolmabili, com’è ovvio, anche da un punto di vista strettamente legato ai reciproci mondi espressivi che s’incrociarono solo ai suoi esordi. Carlo, nel primo quinquennio degli anni Quaranta, viveva un’afflizione preoccupante, un momento di crisi esistenziale: l’amico Arturo Nathan al quale era molto legato  era morto miseramente nel 1940 è già questo l’aveva profondamente turbato; inoltre le commissioni pubbliche e private diminuivano in continuazione causa gli eventi incalzanti della guerra. Egli sentì forte la necessità di volgere maggior attenzione ai nuovi linguaggi espressivi e si orientò alla pittura di paesaggio. Spesso la finestra fu l’unico angolo dal quale dipinse.

Per Carlo la sposa fu una compagna serena che gli dava una ventata di gioia, e d’entusiasmo: spontanea, tenace,  pronta al sacrificio e al lavoro nei momenti più duri. Caratteristiche che l’età  non ha modificato.

Anche durante la nostra prima conversazione, in quella tiepida giornata primaverile del  1991, la pittrice si mise “dietro le quinte”: parlammo poco di lei e molto di quel periodo vissuto accanto a Carlo, ma sembrò non dare alcuna importanza al fatto di passare quasi sempre in secondo piano.

In realtà, da quando era rimasta sola con due figlie,  si era abituata a discorrere di lui e non erano certo  pochi gli amici e i conoscenti con i quali parlare: colleghi, studiosi, storici e critici d’arte, giornalisti,  committenti, collezionisti, mercanti, galleristi  ecc.

Le prime domande che mi feci allontanandomi dallo studio di via Aleardi furono quelle alla quali cercherò  di dare qui una risposta : “Quanto ha pesato, quanto ha esaltato Mirella il connubio artistico con Carlo?”

“Quale  prezzo ha pagato la ceramista-pittrice-incisore per liberarsi da giudizi troppo facili e scontati?”

Ciò che ora piace in lei, donna determinata ed energica,  non è solo la lucida e sincera riesamina del proprio e dell’altrui lavoro, ma soprattutto la  personale convinzione di poter ancora sperimentare, di migliorare ancora la sua pittura, di sondare temi nuovi, di renderli propri.  “Per anni -afferma- il mio nome non è stato disgiunto da quello di Carlo e forse è proprio la mostra del 2004 a Palazzo Costanzi è stata l’occasione per far capire al pubblico e alla critica cosa ho fatto da sola”.

Così continua: “Nel 1945 accompagnai Carlo a Milano per ritrovare alcuni amici e rivedere ambienti a lui cari,  due anni dopo fummo nella tenuta degli amici Giorgia e Mario Pitacco a Cendon sul Sile: pur disegnando da sempre, penso sia stato quello il momento che determinò le nostre comuni  scelte future e successivamente, di riflesso, alcune mie in campo pittorico. Accanto alla villa sul Sile che era frequentata tra gli altri da Carena, Cesetti, Cobianco, Martini e Carlo Scarpa, sorgeva una mattonaia: Carlo si avvicinò alla creta per caso. Qualche mese dopo a  Roma, dove incontrò Mirko ed Afro Basaldella, fu incoraggiato a lavorare la ceramica e successivamente a Firenze parlò a più riprese con Carlo Ludovico Ragghianti che dirigeva il Cadma una società italoamericana per lo sviluppo dell’artigianato che aveva sede a palazzo Strozzi. Accanto ad Afro, Campigli, Cascella, Casorati, Guttuso, De Pisis, Levi, Morandi, Pizzinato, Turcato, Santomaso, Sassu decise di partecipare alla mostra di ceramica artistica di New York.  A Trieste prese contatti con i responsabili di  una fabbrica di materiale refrattario ad uso industriale. La necessità di guadagnare lo ingegnò a costruirsi  un forno per ceramica. Realizzò alcuni vasi d’ispirazione cubista che inviò oltreoceano”.

Fu quella collaborazione, quella ditta casalinga da “bottega" il vero esordio di Mirella. Carlo si occupava della formatura e del modellato, Mirella della pittura e della smaltatura. Nacque così il nuovo marchio CMS (Carlo, Mirella Sbisà).

Il lavoro della ceramica diede i primi risultati e i due sposi trovarono commissioni a Roma e a Milano, dove pure vissero qualche mese immersi in un ambiente vivace, ricco di novità, dal quale stavano emergendo artisti dal calibro di Cantatore, Cassinari e Morlotti.. Effettuarono anche lavori per il Cadma. Mentre Carlo presentò per la prima volta una scultura alla Biennale del 1948, Mirella si entusiasmò con la ceramica che, osserva, “obbliga ad un delizioso insieme di smalti e colori e dà un senso totale di libertà.”

In verità gli spunti che arrivavano allora dal cubismo erano spruzzati da intellettualismo, confusi, torbidi,  ma un certo rigore geometrico delle forme, il ritmo compositivo, il piacere dell’accostamento dei colori, le invetriature sapienti, le giustapposizioni di colori meditate erano motivo di ricerca continua per i due coniugi.

Le loro geometrie risultano spesso istintive: le modeste superfici rotonde, quadrate, rettangolari consentono composizioni di memoria orfica che possono essere considerate da tutti i punti di vista nessuno dei quali, in realtà, ha il predominio assoluto sicchè offrono un piacere estetico puro, forme anche ritmiche talvolta, costruzioni che colpiscono i sensi:  “un serio gioco” a quattro mani che prendeva spunti  più da Mondrian e da Klee che da altri, ma che guardava pure ad alcuni soggetti del mondo animale quali un pappagallo o un galletto per esempio.

Mirella si specializzò nel preparare lo smalto: per realizzarlo doveva conoscere la temperatura di cottura, il carattere (brillante, mat , craquelè o colorato), i fondenti da usare per raggiungere la temperatura desiderata e poi analizzare i risultati stabilendo le eventuali correzioni da apportare. In ceramica, per ottenere vernici, smalti e argille colorate si aggiungono percentuali di ossidi metallici: l’ossido di cobalto per gli azzurri ed i blu, l’ossido di cromo e di rame per i verdi, l’ossido di ferro per i gialli, i bruni e rosso, l’antimonio per i gialli  e via dicendo. Questi colori possono variare di tono a seconda del tipo di atmosfera (ossidante e riducente) in fase di cottura.

 “In realtà, racconta la Schott, la ceramica fu un primo punto d’arrivo ma iniziai a disegnare da ragazza; usavo le chine e ricordo che i primi soggetti erano le valchirie figure mitologiche, divinità femminili guerriere della mitologia germanica e soggetti desunti dall’arte greca come la straordinaria vittoria alata di Samotracia. Nonostante mia madre fosse pittrice (Marina Gratzer aveva studiato privatamente e si era diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna) e avrebbe potuto capire, non volevo  mi vedesse macchiare tovaglie o  vestiti con l’inchiostro. Frequentai prima  il liceo classico Danti Alighieri dove ebbi insegnante di storia dell’arte Baccio Zigliotto poi la Scuola di Nudo di Brill: il mio sogno era quello di iscrivermi all’Accademia ed emulare mamma, ma non potei realizzarlo. La mia famiglia pagò duramente le conseguenze della guerra tuttavia, l’incontro con Carlo mi consentì di dimenticare l’Accademia”.

I lavori di ceramica s’intrecciarono dunque con i primi dipinti realizzati dalla Schott su tavolette leggere, sui cartoni e sui cartoni telati; mentre dai manufatti esala modernità, i soggetti dei primi quadri sono ritratti di donne e bambini.

E’ del 1947 il primo raro autoritratto della Schott: si tratta di un dipinto eseguito su compensato nel quale la giovane Mirella, nell’intimità della camera da letto, in piedi di trequarti davanti al cavalletto, dipinge a piedi nudi.

Luce ed indumenti lasciano presupporre lavori in una giornata estiva.

La lieve torsione del busto, la non casuale posizione del collo, la serena atmosfera, consentono di intravedere assonanze con alcuni studi eseguiti da Carlo.

Il quadro riassume le prime esperienze visive d’interni e gli studi della pittura del passato, filtrati attraverso le opere del marito, effettuati dalla giovane.

Nel dipinto di modeste dimensioni piace il tono d’insieme che l’ampia tela quadrata sullo sfondo, realizzata con colori rossastri, esalta maggiormente.

Compaiono fin da questa prima prova, elementi caratterizzanti la successiva pittura della Schott: lo studio della luce, delle prospettive, degli elementi apparentemente secondari, delle proporzioni intese come atti di coscienza, la misura interiore delle cose semplici, il desiderio di vivere interamente, anche  in una velata e non sempre leggibile solitudine, l’esperienza dell’oggetto.

In questo autoritratto la stanza è già scoperta di spazio racchiuso e di …tempo!

Ordine e disordine, messi in relazione, si contrappongono in due piani limite. Le superfici sono dipinte con colori pastello che la Schott prediligerà soprattutto in questa prima fase.

Ma generalmente i quadri della Schott, pur modificando i centri d’interesse, pur variando notevolmente nel corso degli anni, fanno percepire ai fruitori quel flusso che in lei, è sempre modulato dal sentimento.

 

 

Walter Abrami