Giovanni Attinà

 

 

Itinerari - parte terza

 

 

 

 

“La città di Napoli, da i popoli di Grecia nella più bella parte d’Italia edificata, governassi fin dal suo primiero cominciamento con quelle leggi, e con quei magistrati, che a ben ordinata Repubblica s’acconvenivano…”

Francesco Capecelatro, “Istoria della città e regno di Napoli”, libro I, 1724

 

 

Napoli.  Piantina. In evidenza, la città vecchia

 

 

Sono arrivato a piazza S. Gaetano, il centro della città vecchia, davanti a me ho ancora buona parte del decumano maggiore, via Tribunali, la via Augustale, che si dirige a oriente,  fino a Castel Capuano.

Qui, ai tempi antichi, era l’agora - agorà -, il Foro, dove convergevano tutte le strade, un grandioso spazio aperto che arrivava fino alla attuale zona del Duomo.

In tutta l’area si tenevano, a quei tempi, riunioni pubbliche e assemblee, c’erano edifici pubblici per il governo della città, templi dedicati agli dei, teatri e il mercato.

 

 

Napoli. Basilica di San Paolo, facciata

 

Napoli. Basilica di San Paolo, interni

 

Alla mia sinistra, la basilica di S. Paolo maggiore e  la statua di S. Gaetano, la strada che sale a nord verso il decumano superiore, la via detta dell’Anticaglia; sulla destra c’è la Basilica di S. Lorenzo maggiore (l’aggettivo maggiore dovrebbe indicare una chiesa più importante delle altre, perciò le due chiese vengono indicate anche come basiliche); a fianco, il cardine di età grecoromana, via S. Gregorio Armeno, forse il più famoso, per i negozi dei “pastori”, le statuine del presepe, che scende a sud e si congiunge con il decumano inferiore, meglio conosciuto  come Spaccanapoli.

I ricordi sono sfocati, ma qui o poco più avanti, prima della piazza Gerolomini, venivo in visita a parenti con la famiglia.

E’ qui che Napoli greco-romana, bizantina, normanna, angioina e spagnola,  si mescola e si rincorre, è quì la città  cresciuta, come si dice, in verticale; riempimenti, abbattimenti, depositi alluvionali, edifici costruiti l’uno sull’altro, non hanno tuttavia modificato l’antico tracciato urbano, sovrapponendosi, invece, e occupando tutti gli spazi disponibili,  assorbendo e incorporando pezzi di antiche costruzioni e, paradossalmente, conservandoli.

Districarsi in questo intreccio di storia, di epoche e di stili è veramente complicato.

Per mettere un po’ d’ordine, penso a una breve spiegazione sui decumani e cardini, anche per rispondere a qualche lettore che me ne ha chiesto il significato.

Se prendiamo una pianta topografica attuale del centro antico della città (v. le strade evidenziate in rosa sulla piantina allegata), notiamo una griglia di strade dritte che, salvo  piccole deviazioni avvenute nel corso dei secoli, si incrociano ad angolo retto: tre più larghe, in direzione est/ovest, e altre, più piccole, che vanno da nord a sud. 

La griglia è ciò che è rimasto della pianificazione del territorio, ideata da un grande architetto e urbanista greco del V sec. a.c., Ippodamo da Mileto: le strade larghe - plateiai o platus odos - (si legge plateiai o platus odòs, larga strada, da qui derivano poi platea, piazza, che sono appunto spazi larghi), seguivano il corso del Sole da est a ovest, quelle più strette - stenodoi -, (si legge stenodoi, strette strade) che scendevano da nord a sud.

Al centro della griglia, lo spazio per le adunanze dei cittadini, gli edifici pubblici e religiosi, e il mercato.  

I Romani, arrivati nel 328 a.c., per indicare genericamente le strade e anche i quartieri della loro città, usavano le parole “via” e “vicus”, ma non avevano termini adatti a definire un tracciato urbano come quello trovato a Napoli, e anche in altre città di origine greca.

Usavano, però, due parole che indicavano una linea dritta est/ovest, decumanus, e un’altra, cardo, che la incrociava in direzione nord/sud: esse servivano per tracciare i confini dei terreni agricoli.

Fu probabilmente naturale adattare questa terminologia a un assetto urbanistico di origine greca.

Da allora, la denominazione latina è quella che è rimasta nei secoli e nella cultura topografica della città.

 

“...Il Foro era frequentato da tutti quelli che venivano la mattina ad approvvigionare la città,  e le botteghe più ricche ed eleganti facevano bella mostra di sé intorno ad esso. Vi si andava in tutte le ore del giorno per comprare, per disbrigare le faccende… tra la folla numerosi e pittoreschi erano gli stranieri di ogni provenienza, romani, greci, alessandrini, asiatici abbigliati nelle fogge più diverse, venditori di carne cotta, commercianti, fiorai e fruttivendoli..”.

 

Le strade intorno erano piene di “tabernae vinariae”, per la vendita di vino e cibi cotti, “argentarie”, per piccoli prestiti a usura, “unguentariae”, per unguenti e profumi, “cauponae” e “popinae”, trattorie economiche molto frequentate, anche da uomini e donne equivoche e dove ci si poteva anche intrattenere per altri svaghi e, in qualche vicolo oscuro, non doveva mancare un lupanare.

La descrizione è di Bartolomeo Capasso, studioso di topografia antica e di storia di Napoli, e, salvo piccoli cambiamenti, potrebbe adattarsi anche alla nostra epoca.

Lungo la via Tribunali e le stradine intorno, sotto antichi portici e archi, anneriti dal tempo e dall’incuria, risalenti al periodo angioino, botteghe grandi e piccole espongono la loro merce per strada, nelle vie laterali si scorgono bassi e altre botteghe, inserite in palazzi nobiliari di una volta; le voci dei venditori decantano la loro mercanzia, una folla di residenti, commercianti, stranieri e turisti, e possono vedersi anche personaggi loschi, dai quali è meglio stare alla larga, ragazzini in sella a motorini che sfrecciano da un lato all’altro, qualcuno anche con il casco.

A pensarci bene, qui non si è conservato solo il vecchio tracciato, ma  anche le medesime funzioni, sono spariti i palazzi del potere civile, ma sono rimasti gli edifici religiosi più importanti e c’è un mercato variopinto con il contorno di personaggi di vario genere.

Qui sotto, però, c’è un altro mercato, quello più antico, ancora visibile, scendendo di pochi metri nel sottosuolo.

 

Plasticum macellum e tempio dei Dioscuri

 

Sotto la chiesa di S. Lorenzo si ritrova il ”macellum”, che indicava, non come oggi, il luogo della macellazione delle carni, ma un grande mercato coperto di ogni genere commestibile e non, che riuniva tutti i negozi e le varie attività.

Percorro, infatti, un tratto di strada – un cardine - costeggiato da botteghe, come quella del panettiere, con il suo forno a legna, la lavanderia e altre; trovo anche l’erarium, il luogo dove veniva conservato il tesoro della città.

Nell’altalena di epoche e di stili che qui esiste uno sopra l’altro, risalgo appena pochi metri e mi ritrovo ai nostri giorni, ma immediatamente ripiombo indietro di un millennio, visitando la basilica di S. Lorenzo.

Su una piccola chiesa paleocristiana – circa del 550 – dedicata già a S. Lorenzo, nel 1280, il re Carlo I d’Angiò iniziò la costruzione, per i frati francescani, di una grande chiesa, in puro stile gotico francese.

L’arte gotica, apparsa e diffusasi nella Francia settentrionale, in particolare l’architettura, si affermò presto in Europa.

A Napoli e nel sud Italia giunse proprio con i francesi Angiò, che portarono al seguito artisti francesi, ben presto seguiti e imitati da colleghi italiani.

Interrotta nel 1282,  a causa della guerra dei Vespri Siciliani, la costruzione fu ripresa molti anni dopo dal successore, Carlo II, con architetti locali che lavorarono con indirizzo tipicamente italiano.

La facciata non è quella originaria, che doveva essere molto più semplice, ma è frutto di deturpazioni avvenute nel Seicento e Settecento, in completa disarmonia con l’interno e con il campanile.

Solo il portale gotico offre ancora la possibilità di vedere gli originari battenti lignei del Trecento.

L’interno, anch’esso deturpato come accadeva all’epoca del barocco, e, riportato, per fortuna, alla semplicità originaria, è formato da una unica navata con cappelle laterali.

In queste si ritrovano dipinti d’epoca barocca di Massimo Stanzione e Mattia Preti, mentre un dipinto trecentesco di Simone Martini, rappresentante l’incoronazione del re Roberto d’Angiò, si trova ora al Museo di Capodimonte.

Fu qui che Giovanni Boccaccio, a Napoli già dal 1327 per seguire il padre rappresentante del banco dei Bardi di Firenze, durante la messa del sabato santo del 1334, a ventuno anni, incontrò Maria d’Aquino, la figlia naturale del re Roberto d’Angiò e se ne innamorò, idealizzandola poi come Fiammetta. Ed è in questa zona che egli ambientò anche alcune novelle del Decamerone.

Il campanile attuale è del XV sec., ha forma quadrata e quattro piani; annesso si trova il bel chiostro di epoca seicentesca, e il monastero dei frati che ospitò Francesco Petrarca nel 1343.

Fu lo stesso poeta a raccontare, in una lettera spedita all’amico cardinale Giovanni Colonna, che la notte del 26 novembre, mentre era nella sua cella del monastero, scoppiò un violento temporale, tuoni, lampi e pioggia, una vera bufera. Impaurito da tale violenza e rimasto al buio, egli chiamò aiuto; accorsero i frati, pure impauriti, ma armati delle uniche armi disponibili in un convento, cioè croci e reliquie, si riunirono al poeta e insieme passarono la notte in preghiera.

 

 

Napoli, Piazza San Gaetano

 

Uscito da S. Lorenzo, attraversata la piazzetta, salgo le scale che mi conducono all’altra importante basilica, quella di S. Paolo maggiore, ma più popolarmente chiamata di S. Gaetano, in ricordo di Gaetano di Tiene, che qui fondò uno dei suoi conventi, e di cui esiste la statua nel bel mezzo della piazza.

 

Napoli. Basilica di San Paolo maggiore

 

Anche qui, mi viene incontro un miscuglio di epoche e storia.

Nel I sec. d.c, su questa area c’era il tempio di Castore e Polluce. Esso doveva avere sul davanti una altissima scalinata e un frontespizio con sei o otto colonne di stile corinzio: la larghezza si aggirava sui 17/18 metri e la lunghezza era di circa 25 metri.

Le colonne rimasero in piedi fino al 1688, quando un terremoto ne fece crollare la metà.

La chiesa originaria fu costruita alle spalle del pronao (cioè il portico anteriore) del tempio, che servì da facciata, nell’VIII sec.

 Si racconta che il 29 giugno del 778, un gruppo di pirati saraceni era riuscito ad avere la meglio sui difensori della città, costringendoli ad arretrare fin sulle rovine del tempio pagano. La resistenza era ormai al limite, quando arrivarono, in soccorso, truppe dei ducati longobardi di Salerno e Benevento, che misero in fuga i nemici.

I napoletani, per festeggiare la vittoria, eressero la chiesa e la dedicarono a S. Paolo, la cui festa cristiana cade appunto, ancora oggi, il 29 giugno.

 

Napoli. San Paolo maggiore, base di colonna greca

 

La chiesa, ristrutturata da Gaetano da Tiene nel 1580, è a croce latina, a tre navate; in essa si trovavano affreschi di Massimo Stanzione, quasi tutti persi a seguito di un bombardamento nel 1943, e di Francesco Solimena.

Sulla facciata sono restate inglobate due delle antiche colonne, mentre sul piazzale antistante resistono, malgrado tutto, le basi di altre.

Uscendo dalla chiesa, proprio di fronte, una piccola pasticceria mette in mostra i famosi babà, ma di dimensioni extra large; assaggiarne uno è assolutamente doveroso.

 

Napoli sotterranea, discesa

 

Sulla destra, l’ingresso a Napoli sotterranea. E’ una passeggiata che ci porta molto al disotto, circa quaranta metri, della città greco-romana, in grotte e vecchie cave, utilizzate poi sia come cisterne sia, nell’ultima guerra, come rifugi antiaerei.

 

 

Gli studiosi dicono che i primi manufatti di scavi sotterranei effettuati risalirebbero a circa 5000 anni fa.

In effetti, tutto il sottosuolo della città, fu sfruttato per l’edilizia fin dai greci che la fondarono: la presenza del tufo giallo, di origine vulcanica, forte ma allo stesso tempo facilmente lavorabile, favorì gli scavi, e il tufo fu utilizzato per la costruzione di mura e altro, cosi come fecero i romani, che costruirono un grandioso acquedotto e gallerie viarie.

Scendere nel sottosuolo è un viaggio interessante e misterioso, che si svolge a una temperatura costante, abbastanza comodo tranne un passaggio strettissimo e buio, dove si deve passare in fila indiana strisciando sulle pareti, dove in verità, mi sono rifiutato di passare.

 

 

Napoli, mura del Teatro

Napoli

 

Continuando nell’altalena di epoche che si rincorrono in questa area, non posso rinunziare a una visita ai resti, sotterranei, del teatro.

A Napoli, all’epoca grecoromana, c’erano due teatri, uno all’aperto, di cui forse sono ancora visibili alcuni elementi verso via dell’Anticaglia, quello che può sembrare un muro di sostegno tra due palazzi: secondo alcune ricostruzioni questo teatro doveva avere un perimetro di circa 150 metri, tre ordini di archi e, all’interno, tredici file di sedili.

Il teatro coperto detto odeon - òdeon -, era molto più piccolo e sembra che fosse affiancato all’altro. Entrambi erano alle spalle del tempio dei Dioscuri.

La guida mi conduce in un locale al piano stradale, un basso, una volta abitato, e all’interno, aperta una botola sul pavimento, si scende di pochi metri e ci si ritrova in un altro mondo.

Resti del grande teatro all’aperto, pareti, muri, colonne e perfino le gradinate non risultano essere abbattute, ma incorporate negli edifici costruiti sopra e che ancora oggi esistono, nascoste nelle cantine, o semplicemente dietro stucchi e pareti imbiancate.

In questi teatri si era esibito perfino Nerone, l’imperatore romano.

Egli si reputava un grande cantante e non perdeva occasione per  esibirsi con la cetra davanti a senatori e cortigiani.

Nel 64 d.c.,“ .. aumentava di giorno in giorno in Nerone il desiderio di calcare le scene….Fino a quel momento aveva cantato soltanto in casa o nei giardini…- così Tacito, lo storico, Annali, XV, 33 - ..tuttavia non osò la prima volta esibirsi a Roma e scelse Napoli come città greca…” dove attori e cantanti – cosi si diceva - erano più apprezzati e godevano di un pubblico entusiasta. Non è cambiato molto, se è vero che ancora oggi il solito luogo comune vuole che il pubblico napoletano sia più caloroso e accogliente.

La folla, convocata apposta, accorse anche dalle città vicine, trasformando il teatro in una bolgia maleodorante.”.. Il principe si esibì - riferisce l’altro storico romano, Svetonio – spesso, per parecchi giorni…. Reclutò poi adolescenti di famiglie equestri e più di cinquemila giovani plebei, scelti tra i più robusti….voleva far loro imparare, dopo averli divisi in fazioni, diverse maniere d’applausi ..”.

Era la claque!

Nei teatri dell’epoca venivano recitate, da attori professionisti, sia le antiche tragedie greche dei classici, sia soprattutto commedie di Plauto, ma avevano grande successo le fabulae atellane, commedie farsesche e spinte, di origine osco-sannita, recitate poi in greco e in latino, con maschere e personaggi fissi, come Maccus, al quale molti autori fanno risalire Pulcinella.

Non mancavano, inoltre, aree dedicate, più seriamente all’arte e alla pittura, risalenti anche al periodo greco: doveva esserci almeno una pinacoteca ricca di quadri: ”… Ne vidi alcuni di mano di Zeusi, non ancora offesi dal tempo, e non potei toccare senza un brivido di venerazione alcuni schizzi di Protogene che gareggiavano in verità con la stessa  natura. Con egual venerazione adorai una dea di Apelle..“. Chi parla così è Encolpio, il personaggio del Satyricon, scritto da Petronio consigliere di Nerone, mentre si aggira per la “graeca urbs”, identificabile con Neapolis, in cui si svolge parte della vicenda.

Che a Napoli esistessero dipinti in pinacoteche pubbliche  e private è confermato anche da altri scrittori.

 

 Pompei, Villa dei misteri, affresco - particolare

 

Zeusi, Apelle e Protogene erano pittori greci vissuti tra il V° e IV° sec., dei loro dipinti, però, nulla è rimasto se non qualche scarsa copia di epoca romano-imperiale; sono affreschi, mosaici pavimentali e pitture parietali, che raccontano miti e storie greche, con le quali personaggi di classi elevate facevano decorare le proprie domus e le villae.

 

Cubiculum di domus romana

 

Domus romana, affresco

 

Per concludere questo itinerario non mi resta che tornare ai giorni nostri e non può mancare anche una occhiata al folklore locale, scendendo per via S. Gregorio Armeno.

 

Napoli. Cardine con portico

 

Il cardine, perché il passato mi rincorre sempre, era detto anticamente - secondo alcuni autori – Nostrano e poi S. Liguoro: secondo Gennaro Aspreno Galante, nel libro dedicato alle Chiese di Napoli, l’armeno “Chrigour” si deformò prima in Liguoro e poi in Gregorio, mentre Nostrano fu vescovo della città nella metà del V secolo.

La strada è famosa nel mondo soprattutto per la folcloristica esposizione di statuette – “ i pastori ” - per il presepio prodotti con i metodi artigianali, per gli stessi presepi in sughero; nella zona c’erano botteghe di artigiani che lavoravano il ferro e l’ottone.

Oltre ai tradizionali soggetti del classico presepe napoletano, oggi gli artigiani rappresentano non solo personaggi più moderni legati a Napoli, Totò, Eduardo, Maradona, ma anche politici attuali sia italiani sia stranieri.

La strada è sempre piena di turisti in qualsiasi periodo dell’anno, in cerca di colore locale, ma da quel che mi ricordo è durante il periodo natalizio che è impossibile transitare per la folla che si accalca.

Ci passavo da ragazzino, con mio padre, che era un appassionato costruttore di presepi e ricercatore di pastori speciali, come da antica tradizione.

Ma a metà strada, scendendo, sulla destra c’è il monastero e la chiesa di S. Gregorio Armeno.

Anche qui si ricomincia con una storia millenaria, dato che, come abbiamo visto per le altre edifici di questa zone, si racconta che la chiesa fu costruita sulle rovine del tempio pagano di Cerere. Si vedono, all’interno del chiostro, capitelli di epoca romana.

Sulla fondazione esistono, da quanto ne so, almeno due versioni. La prima, che mi sembra la più inverosimile, attribuisce la fondazione addirittura a Elena, la madre dell’imperatore Costantino, quello celebrato dalla Chiesa, perché emise il famoso editto di tolleranza per i cristiani.

L’altra versione, più probabile, parte nell’VIII sec. dall’Oriente, da Costantinopoli, con l’iconoclastia, cioè la lotta proclamata dall’imperatore al culto delle immagini sacre, che era ritenuto esagerato, e la persecuzione di coloro che rifiutarono di obbedire, compreso una parte del clero e il papa di Roma.

Un gruppo di monache greche e armene dell’ordine di S. Basilio, riuscirono a fuggire in Italia e, riparate a Napoli, fondarono il monastero e la chiesa, conservando le reliquie di S. Gregorio.

L’atrio della chiesa appare scuro e severo, le volte vengono sorrette da quattro pilastri. L’antica chiesa fu ristrutturata a partire dal 1570, in puro stile barocco.

L’interno piccolo e raccolto è tutto decorato in legno e oro e in puro stile barocco; una sola navata con quattro cappelle laterali, e una abside sormontata da una cupola decorata da Luca Giordano. Nella cappella a destra della navata sono conservate le reliquie della santa Patrizia, in un reliquiario in oro e argento.

Uscito dalla chiesa, sull’angolo della via laterale, c’è l’ingresso del monastero, un cancello arrugginito si apre elettricamente su chiamata, risalgo scale e a destra si entra in un vestibolo dove una suora mi fa accedere nel chiostro.

La cosa notevole del chiostro, con il solito porticato, è costituita dal fatto che è circondato da edifici altissimi e terrazze dalle quali probabilmente si vede ma non si è visti: sulle terrazze si affacciano gli alloggi a terrazza delle monache, sistemati così quando, dopo il Concilio di Trento e in piena controriforma, furono imposte nuove regole monastiche. Al centro alberi e piante e una grande fontana marmorea barocca.

Ritornato all’aperto, avrei voluto proseguire ma è tardi. Non mi resta che fermarmi e tornare indietro lì da dove son partito nella prima parte di questo itinerario, nella piazza Dante, pensando già comunque alla prossima volta per riprendere il percorso.

 

Continua...

 

                                  

Giovanni Attinà