Giovanni Attinà

 

 

Itinerari - parte prima

 

 

 

 

La strada, poco più che un sentiero, che si inerpica sulla collina, è ombreggiata da grandi pini marittimi e ulivi, e circondata da campi e orti.

Più lontano, verso la cinta muraria, si scorgono stazzi per animali, pozzi e depositi alimentari, ricavati nel doppio muro, che, a tratti, appare irregolare, a causa del territorio ondulato e in pendenza verso il mare.

Il sentiero sale verso l’Olimpiano, dove sorge l’acropoli con i suoi edifici civili, per l’amministrazione della nuova città, e i siti religiosi.

Lì, sul luogo più alto e assolato, in una atmosfera quasi incantata, c’è il tempio del Dio protettore della città, Febo / Apollo: una facciata di otto bianche colonne corinzie, il frontone sul quale è dipinto, con il suo carro del sole, il Dio il cui culto è caro ai Cumani, fondatori della città.

Più giù, verso l’agorà, sta sorgendo il tempio dei Dioscuri.

Da quassù si scorge anche il mare e il  porto, navi panciute da carico all’ancora, trireme ateniesi appena giunte con nuovi coloni, barche tirate a secco sulla spiaggia, e , a sinistra, il Vulcano incombe sul golfo.

Nea-polis, la nuova città, sta crescendo e si sta sviluppando, si stanno creando le strade e, crescendo gli abitanti – Cumani, Sanniti, Osci, Ateniesi … - bisogna creare spazi e nuove abitazioni dentro le mura.

Tra poco, Roma si affaccerà sulle colline circostanti e prenderà la città. 

Il sentiero, presto denominato del Sole, verrà man mano modificato e assorbito dagli edifici; poco tempo ancora e il tempio di Apollo, così come gli altri, verrà spogliato, derubato, sotterrato e inglobato da case e templi di altre fedi religiose.

 

Del vicus solis, oggi, è rimasto solo il nome della via detta appunto, del sole: una strada  assolata, senza alberi, più larga dei vicoli adiacenti, che sale dritta verso il decumano superiore.

Chi nasce qui, non può facilmente liberarsi di millenni di storia, cultura, arte e tradizioni: pur vivendo lontano, in una specie di esilio volontario di emigrante, ogni volta che vado in quella città, sento forte il bisogno del ritorno alle radici, cedo al richiamo del centro antico, e non c’è volta che non passo per la via del sole.

L’itinerario è quasi sempre lo stesso, via Tribunali, Piazza S. Gaetano, S. Gregorio Armeno, il Duomo, Porta Capuana, Spaccanapoli; il percorso, inalterato dopo migliaia di anni, è un affascinante viaggio nel tempo, imprevedibile e disordinato, per le sovrapposizioni e rimescolamenti di stili, di monumenti e di edifici e degli stessi materiali di costruzione.

Per raccapezzarsi  in questo groviglio  di elementi diversi e confusi, che fatalmente mi porteranno a un racconto superficiale, inizio il  viaggio da mio abituale e vecchio luogo di partenza: piazza Dante.

 

Piazza Dante agli inizi del XIX secolo

 

Questa piazza era ed è ancora  il luogo di passaggio tra il vecchio, la parte più antica – intra moenia - della città, e tutto ciò che è venuto dopo, le zone collinari, la via Toledo, i quartieri spagnoli.

Anche da ragazzo dovevo necessariamente passare per questo largo; una parte della famiglia abitava nella zona più antica, l’altra, invece, fuori le mura. Per andare a scuola, al liceo, passavo di qua, qui prendevo l’autobus per raggiungere casa.

Oggi, nella piazza si arriva con la metropolitana; ci sono tre uscite, una sulla strada di fronte, sotto al palazzo del Comune, le altre due ai lati della statua di Dante Alighieri.

La statua, che a me non è mai sembrata gran che, fu sistemata lì dopo l’unità, nel 1872: è opera di Tito Angelini,  scultore, nato a Napoli nel 1806. La sua attività si svolse prevalentemente nella sua città dove insegnò scultura  e fu direttore della Scuola di disegno. Per la statua di Dante, si dice che fu  scelto perché membro della società dantesca.

Il poeta aveva riempito di sé l’intera piazza: sulla destra c’era  una volta il bel ristorante “Dante e Beatrice“ mentre di fronte, all’angolo  c’era il bar “Dante“.

Alle spalle della statua – che dai napoletani viene familiarmente chiamata per nome, “alle spalle di Dante“ – si nota subito l’emiciclo, ideato e sistemato nel XVIII sec. dall‘onnipresente, per  aver messo le mani su tutti gli edifici della città e dintorni, Luigi Vanvitelli.

Nato a Napoli da Gaspar Van Wittel, modesto pittore olandese, Luigi inizia la sua attività come pittore a Roma, insieme al padre.

Egli deve la sua fama mondiale al primo Borbone di Napoli, Carlo, che lo nomina architetto di corte e gli affida tutti gli interventi edilizi e urbanistici del regno, fino a quella che poi diventa la sua opera più famosa, la reggia di Caserta.

 

L’emiciclo di piazza Dante non mi sembra una delle sue opere migliori: credo si trattò di un intervento fatto solo per sistemare il largo del suo  Re protettore.

Il largo fu chiamato Foro Carolino; sul cornicione dell’emiciclo che copre le colonne di carattere dorico, furono sistemate ventisei statue  che dovevano rappresentare  le virtù di Carlo di Borbone. Ignoravo  che le virtù fossero tante e che Carlo, pur rappresentato come un buon sovrano, le avesse tutte!

Al centro c’era una nicchia, che avrebbe dovuto ospitare la statua equestre del re, che però non fu mai realizzata; al suo posto oggi c’è l’ingresso dell‘istituto scolastico parificato  Vittorio Emanuele. Da lì, ricordo, eludendo la sorveglianza di professori, bidelli e custodi, attraverso passaggi sotterranei  che univano l’istituto al liceo di via S. Sebastiano si usciva  a volte, e si rientrava di corsa possibilmente nell’intervallo tra una lezione e l’altra per  andare da “vaco ‘e pressa“ – vado di fretta –, una rosticceria, per acquistare pizzette e panini da consumare poi nei bagni o in classe.

La piazza, nel corso dei secoli, ha ovviamente, cambiato forma, destinazione e nome.

Era denominato, fino al XVIII sec., "Largo del Mercatello", perché una volta alla settimana vi si svolgeva un mercato: venditori ambulanti provenienti dai paesi e dalle colline circostanti, bancarelle, saltimbanchi e teatranti, riempivano il largo con i carri e le loro mercanzie.

Negli altri giorni, lo spiazzo era libero e occupato solo dall'addestramento di cavalli e dalle esercitazioni di cavalieri e ufficiali della guarnigione spagnola.

Prima dell’attuale emiciclo, la murazione che costeggiava il largo, risaliva al  1537, quando il vicerè dell’epoca, Pedro di Toledo – rimasto famoso per aver tracciato la strada che ancora oggi porta il suo nome -, decise di allargare la città e quindi le vecchie mura angioine.

Per avere un‘idea di come era il largo, bisogna recarsi al Museo nazionale di S. Martino e vedere un dipinto di  Micco Spadaro .

Si chiamava Domenico Gargiulo, napoletano di nascita, nell ‘anno 1610.

Figlio di un artigiano “forgiatore di spade“, da cui prese il soprannome di “spadaro“, aveva lavorato da ragazzino nella bottega del padre, ma ben presto se ne stancò e  si dedicò alla pittura.

Descritto come “bassino, piuttosto grassottello, capelli ricci, baffi“, Micco entrò a far parte di un gruppo di artisti operanti in città, Aniello Falcone, Mattia Preti e Salvator Rosa, piuttosto vivaci e svelti  di pennello ma anche di spada.

Siamo in pieno periodo di arte barocca , che trova a Napoli un ambiente congeniale per un suo grande sviluppo; in questo ambito Micco Spadaro viene definito come un paesaggista e un cronista della attualità della sua epoca. Si ricordano infatti alcuni suoi dipinti dedicati alla rivolta di Masaniello, suo contemporaneo, e  quelli dedicati alla peste del 1656.

 

Micco Spadaro - Largo del Mercatello durante la peste, 1656

 

Proprio in questa occasione, egli ritrae il Largo del Mercatello quando è ridotto a un lazzaretto; per quel che ora mi interessa, nel dipinto si vede, oltre ai cadaveri degli appestati e delle aste di legno o di canna, probabilmente uncini adoperati da monatti, parte della antica murazione come era. Sulla sinistra del dipinto, inoltre, si scorge parte di una porta costruita appena vent'anni prima: è la prima immagine di Port’Alba.

 

Porta Alba

 

Porta Alba è una delle porte della città – insieme a Porta S. Gennaro, Porta Nolana e Porta Capuana  -  rimaste in piedi e ancora visibili; al contrario delle altre, è la più recente, del 1624, e non ha subito spostamenti, solo un allargamento alla fine del ‘700, con la sistemazione di una statua di S. Gaetano Tiene, così come la vediamo ancora oggi.

La porta ci conduce intra moenia, dentro le mura.

Il breve tratto di strada che la collega a una controporta, una specie di androne oscuro, per fortuna “zona pedonale“, è percorso ogni giorno da migliaia di persone; il passaggio è invaso da bancarelle di libri antichi e moderni, soprattutto scolastici e universitari, venduti a prezzi  di saldo.

Più avanti, proprio nell’angolo dell’androne, c’è ancora  la pizzeria  “port’alba”, con il suo banco sulla strada  per la vendita di pizze da consumare in piedi, ripiegate a libro, come facevo a volte uscendo dal vicino liceo, al prezzo, oggi irrisorio, di cinquanta lire.

Prima di port’alba, c’era un vecchio torrione di guardia, risalente alla murazione angioina del XIV sec.

Nel 1536, il vicerè Toledo lo aveva lasciato al suo posto, pur avendo modificato l’andamento delle mura. Per entrare uscire dalla città verso il Mercatello, era necessario utilizzare altre porte più lontane.

Si narra che gli abitanti della zona, stanchi di dovere allungare il tragitto per entrare e uscire, cominciarono a scavare di nascosto, alla base del torrione, “nu’ pertuso“ – pertugio, buco – per poter passare almeno una persona alla volta.

Le autorità intervenivano regolarmente per tapparlo, ma, ogni volta, i “soliti ignoti“ riprendevano a scavare.

Visti inutili ogni intervento e viste le continue petizioni della cittadinanza, nel 1624, il vicerè duca d’Alba, acconsentì alla demolizione del torrione e alla costruzione prima di un piccolo passaggio e poi alla costruzione della porta che, da lui, prese il nome.

Come tutte le altre, Port’Alba, nel 1656, fu affrescata da Mattia Preti.

L‘artista era nato a Taverna, piccolo centro calabrese, nel 1613. Si sa poco della sua infanzia; nel ’30 lo troviamo a Roma, dove  apprende le tecniche pittoriche del Caravaggio e ne resta fortemente influenzato.

Viaggia molto per l’Italia, compreso Napoli, dove conosce  e si inserisce in quel gruppo di artisti spadaccini, di cui ho prima parlato.

E fu proprio la spada, o meglio il suo uso, a condurlo a Napoli nel 1656.

Mattia si trovava a Roma, dove era stato già coinvolto in duelli più o meno cruenti, per i quali comunque era sempre riuscito a cavarsela con la giustizia papalina.

Ma l’ultimo gli fu fatale, e non fu perdonato: aveva, non si sa bene se ammazzato o ferito mortalmente un critico d’arte che aveva giudicato cattivi i suoi affreschi di S. Andrea della Valle.

Perciò abbandonò Roma in fretta e furia, dirigendosi di corsa verso Napoli, inseguito dalle guardie del Papa.

Era l’anno 1656, Napoli era circondata da un cordone sanitario a causa della peste, nessuno poteva entrare o uscire dalla città.

Arrivato davanti alla città, Mattia fu bloccato dai soldati di guardia. Messa mano alla spada, ne ammazzò uno e si introdusse in città. Inseguito, fu riconosciuto, arrestato e condannato a morte.

Ma, si salvò ancora una volta grazie alla sua arte: il tribunale della Vicaria gli commutò la pena capitale in quella di dipingere, naturalmente senza alcun compenso e sotto scorta, quadri votivi su tutte le porte della città.

 

Porta S. Gennaro

 

Oggi, l’unico di questi affreschi ancora parzialmente visibile, e bisognoso di restauro, è quello sopra porta S. Gennaro.

Oltrepassata Port’Alba, mi trovo davanti a tre strade, una a destra, via S, Sebastiano, che scende verso S.Chiara e piazza del Gesù, la strada della musica, per la presenza di tanti negozi di strumenti musicali, a destra scendendo l’ingresso del mio liceo “Vittorio Emanuele“.

A sinistra, la via Costantinopoli , che va verso il Museo, in fondo si dice ci fosse una porta; andando dritti si va in via S. Pietro a Maiella, di cui parleremo un’altra volta e a destra il Conservatorio.

Di fronte l’antica pizzeria  Bellini, con i suoi tavolini all’aperto.

Da qui, ogni passo avanti mi conduce indietro nel tempo, fino alla fondazione di Neapolis.

 

Le mura greche

 

Ora mi fermo per raccogliere le idee: sulla sinistra, nella piazza Bellini, si vedono già i resti delle mura greche.       

                                                                                

…..continua

 

 

Giovanni Attinà

 

 

    

Per chi vuole saperne di più:

 

Napoli greco-romana  di Bartolomeo Capasso, Arturo Berisio Editore

Napoli  di Cesare de Seta, Editori Laterza

Napoli entro e fuori le mura di  Massimo Rosi, Newton & Compton Editori

Storia di Napoli di Antonio Ghirelli, Einaudi Editore  

Le porte di Napoli di Giuseppe Porcaro, Edizioni del Delfino

Le piazze di Napoli di Sergio Delli, Newton & Compton Editori