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IL PANORAMA ARTISTICO DELLE VENEZIE

NEL SECONDO DOPOGUERRA

 

 

 

 

Dolores Del Giudice

 

 

 

Durante il secondo conflitto mondiale l’attività artistica veneziana non conosce arresti significativi: Venezia, quasi completamente risparmiata dalle incursione aeree nemiche, diventa il rifugio prediletto di artisti e letterati che garantiscono una continuità di ricerche nel campo artistico locale. Carlo Betocchi, Massimo Bontempelli, Aldo Palazzeschi, Umberto Saba, Neri Pozza, sono solo alcuni nomi degni di essere citati, mentre tra gli artisti un posto di rilievo occupano Filippo De Pisis, Virgilio Guidi e Arturo Martini, considerati maestri di stile dalle nuove generazioni. Nell’aprile del 1944 apre la Piccola Galleria di Roberto Nonveiller, dove si tengono mostre non solo di anziani maestri ma anche personali di artisti emergenti, quali Alberto Viani e Zoran Music[1].

Nonostante la vivacità culturale fino ad ora manifestata anche Venezia, come molte altre città italiane, avverte nell’immediato dopoguerra la necessità di riallacciare i legami culturali con il resto dell’Europa. La città soddisfa questo desiderio di aggiornamento e di informazione organizzando, a partire dall’estate del 1945, una serie di iniziative; mentre l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia già in maggio passa sotto la direzione di Giuseppe Samonà, acquistando un ruolo di primo piano in campo nazionale con la presenza di architetti e studiosi del valore di Bruno Zevi, Saverio Muratori, Ignazio Gardella e Carlo Scarpa, contribuendo in tal modo al rilancio culturale della città[2].

L’attività espositiva riprende con una certa intensità con due mostre legate al passato: la Mostra dei Primitivi, tenutasi già a fine maggio presso le Gallerie dell’Accademia e la grande mostra Cinque secoli di pittura veneta, curata da Rodolfo Palucchini a Palazzo Reale, che richiama in laguna un gran numero di critici, storici e artisti riscuotendo grande successo. Esposizioni volte a illustrare esiti pittorici più recenti si organizzano nelle molte Gallerie attive a Venezia: alla Galleria del Cavallino in luglio si tiene la mostra Maestri italiani del Novecento , seguita poi in settembre dalla Collettiva d’arte moderna organizzata presso la Galleria S. Marco (gestita dal Fronte della Gioventù), con opere di maestri come Braque, Modigliani, Rossi, Martini accanto ai giovani Birolli, Santomaso, Vedova, Viani, Bacci ed altri; mentre la Galleria Venezia e la già citata Piccola Galleria espongono opere del giovane Vedova. Interessante è anche l’attività svolta dall’Associazione e Galleria dell’Arco, inaugurata nell’autunno con una mostra di Mario Mafai ed attiva anche nei campi della musica, letteratura e teatro [3].

Nascono in questi anni numerose collezioni, tra le quali quelle di Flavio Poli, Artemio Toso, il conte Fratina, appassionato estimatore di De Pisis, Campigli, Guidi e quella di Vittorio Carrai che espone (per poi acquistarle) nel suo ristorante All’Angelo le opere dei protagonisti del futuro Fronte Nuovo delle Arti; infine la collezione di Carlo Cardazzo, che qui citiamo solamente per occuparcene in maniera più dettagliata in seguito. L’ampia presenza di collezionisti e di gallerie a Venezia, dove nel frattempo si aggiungono il Traghetto, Sandri, S. Marco, Alfieri e altre ancora, dimostrano la vitalità del mercato dell’arte e un interesse rivolto, non solo ad artisti affermati, ma anche alla produzione di artisti emergenti, soprattutto locali.

Il dibattito artistico trova spazio in alcune riviste sorte recentemente, tra le più importanti “Terraferma”, diretta da Neri Pozza e “Lettere ed arti” diretta da Roberto Nonveiller e Sergio Solmi; questo dibattito viene inoltre vivacizzato dalla presenza in città di una folta schiera di critici, dei quali ricordiamo almeno Giuseppe Marchiori, di cui parleremo più avanti, Umbro Apollonio, Berto Morucchio, Rodolfo Palucchini, che rese memorabili alcune biennali del dopoguerra, e Giuseppe Mazzariol. Quest’ultimo, noto critico d’arte e d’architettura contemporanea oltreché docente e direttore della Fondazione Querini Stampalia dal 1958, ha seguito con la sua parola il cammino artistico dei maggiori artisti veneziani del tempo, dal noto Arturo Martini ai quasi coetanei Deluigi, Santomaso e Vedova fino ai giovanissimi delle ultime generazioni[4]. Sempre nell’estate del 1945, non mancano le dispute tra i fautori del rinnovamento, aderenti al Fronte della Cultura, e gli artisti della vecchia guardia in merito all’apertura e al nuovo assetto da conferire alla Biennale. Gli artisti favorevoli ad uno svecchiamento dell’istituzione propongono Lionello Venturi[5], critico di fama mondiale, per la carica di Segretario Generale dell’Ente, ma il gruppo più conservatore non lo ritiene idoneo a ricoprire questo ruolo, accusandolo di non conoscere adeguatamente l’ambiente artistico veneziano.

Il 1946 si apre con due manifestazioni di grande interesse: il Premio Burano, vinto dal lagunare Della Zorza, che susciterà la protesta del giovane Vedova[6], e il Premio della Colomba[7] conferito a Carlo Carrà. Nel medesimo anno, non possiamo dimenticare la riapertura della Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro; per la prima volta nella sua storia le opere che acquisterà alla Biennale del 1948 coincidono con lo spirito di rinnovamento degli artisti veneziani e italiani del tempo[8]. I linguaggi più avanzati dell’arte contemporanea troveranno qui la loro sede, per merito delle donazioni da parte di artisti quali Max Ernst, Sebastian Matta e collezionisti come Peggy Guggenheim, che dona opere della figlia Pegeen. La Galleria custodisce dipinti di importanti artisti locali come Music, Tancredi, Gaspari e molti altri, protagonisti negli anni Cinquanta del rinnovamento pittorico in direzione astratta. Altro evento significativo è la nascita della Scuola libera di Arti Plastiche ad opera di Anton Giulio Ambrosini, Carlo Scarpa e Mario Deluigi, che, come si legge nel testo di presentazione, si definisce: «[…] un movimento che studi, secondo le attuali esigenze spirituali, i caratteri fondamentali della natura italiana in rapporto alla soluzione del problema plastico […]»[9]. Nel luglio del 1947 riprende l’attività espositiva la Fondazione Bevilacqua La Masa e, in occasione della 35° Collettiva Diego Valeri, allora presidente del Consiglio di vigilanza, istituisce i premi (tuttora esistenti e definiti “borse di studio”), con il proposito di incentivare i giovani artisti tramite un aiuto concreto[10].

Mentre Venezia si appresta a diventare la sede di nuove e significative ricerche artistiche, un gruppo di pittori più moderati e meno favorevoli alle novità costituisce l’Ordine della Valigia, che prende il nome da una valigia abbandonata suddivisa in riquadri e dipinta da ventisette pittori[11]. Tuttavia, i fautori di una linea più conservatrice spartiscono la scena artistica locale con un gruppo di artisti progressisti, sia veneziani che provenienti dai centri di Milano e Roma, accomunati dal bisogno di sprovincializzare l’arte italiana inserendola nel circuito delle tendenze europee più all’avanguardia.

Sono due i nuclei portanti della ricerca attivi a Venezia: il Fronte Nuovo delle Arti, formato da artisti non solo veneziani ma provenienti da diverse città d’Italia e il gruppo locale e più eterogeneo degli Spazialisti veneziani.

Il gruppo che per primo promosse queste nuove ricerche è patrocinato dal già citato Giuseppe Marchiori, lui stesso pittore, che sul finire degli anni venti si dedica esclusivamente all’attività di critico e mecenate, finanziando artisti e imprese editoriali legate all’arte. Spirito battagliero ed illuminato, Bepi, così viene chiamato affettuosamente dagli amici, è uno dei pochi sostenitori della giovane arte italiana, soprattutto astratta, al tempo osteggiata dalla critica ufficiale favorevole ad una pittura accademica ed illustrativa. Per Marchiori fare critica non significa solo cogliere l’educazione estetica degli artisti ma anche la dimensione umana, istaurando con essi un rapporto non solo lavorativo ma anche affettivo: diventare teorico e promotore di un gruppo di artisti emergenti, significa per il critico difendere e promuovere l’arte italiana contemporanea[12].

Le premesse che portano alla costituzione del Fronte Nuovo delle Arti vanno ricercate nei mesi che seguono la fine della guerra. Artisti e letterati riallacciano i contatti, si scambiano opinioni ed elaborano nuove idee, uniti dal desiderio di rinnovare l’arte italiana imprigionata nei “ritorni all’ordine”, che hanno ottenuto largo consenso durante il regime fascista[13]. Già nel 1946 in Italia circolano opere e informazioni su quanto è stato realizzato in Europa e soprattutto in Francia. Gli artisti che si trovano a Venezia tra la fine del 1945 e i primi mesi del 1946 conoscono bene la pittura contemporanea, molti hanno fatto parte di Corrente come Birolli, Santomaso, Cassinari e Vedova, adottando un linguaggio nuovo e meno provinciale[14]. Vedova e Pizzinato nell’aprile-maggio 1946 espongono dei pannelli sulla Resistenza alla Galleria dell’Arco, mentre in giugno alla mostra collettiva Pittori e scultori dell’Arco accanto ai già citati troviamo, tra coloro che daranno vita al Fronte, anche Santomaso e Viani . In luglio opere di Cassinari e Morlotti sono esposte a Venezia alla Piccola Galleria e nell’agosto Birolli tiene una personale alla Galleria del Cavallino[15]. Dagli incontri che si tengono oltre che a Venezia anche a Roma e Milano tra la primavera e l’autunno del 1946, hanno inizio le animate discussioni fra Birolli, Morlotti, Santomaso, Vedova, Pizzinato, Viani e i critici Marchiori, Apollonio, Ferrante, Cavicchioli e Alberto Rossi, che si concludono nel salone veneziano di Palazzo Volpi con la stesura di un manifesto[16]. Questo viene sottoscritto il 1° ottobre del 1946 in casa di Marchiori, alla presenza di Alberto Rossi e di Giovanni Cavicchioli, e vi aderiscono, accanto agli artisti già citati, anche Guttuso, Cassinari e Leoncillo[17]. “Nuova Secessione Artistica Italiana” è la denominazione assunta in un primo momento dal gruppo, che con il termine “secessione” sottolinea il distacco stilistico rispetto alla pittura dei maestri del “Novecento italiano”, dichiarando in tal modo di voler «tornare all’Europa, guariti dal provincialismo nazionalistico»[18]. Solamente dopo un incontro avvenuto a Roma, il 26 ottobre successivo, tra Birolli, Morlotti e Guttuso, con la partecipazione di Argan, Maltese ed altri, si deciderà di assumere il nome di “Fronte Nuovo” (Unione pittori e scultori italiani). Anche in questo caso la denominazione scelta ha una valenza simbolica, infatti ci informa che il sodalizio nasce dalla comune esigenza di un impegno sociale nella realtà e di un rinnovamento nel campo artistico, nonostante le scelte estetiche dei singoli risultino alquanto eterogenee.

In occasione della prima mostra collettiva del “Fronte”, che si tiene alla Galleria della Spiga di Stefano Cairola il 12 giugno del 1947, si notano dei cambiamenti all’interno del gruppo: Cassinari prima dell’inaugurazione si dimette e al suo posto entrano Corpora, Turcato, Franchina e Fazzini (che vi uscirà dopo la mostra milanese). Nel catalogo ogni artista è presentato da un critico diverso[19], mentre l’introduzione è opera di Marchiori che mette in luce le diversità estetiche dei partecipanti, definendo questa coalizione «un’intesa tra uomini liberi e che pensano con legittimo orgoglio di rappresentare l’arte italiana d’oggi nei suoi più contrastati indirizzi, [...]»[20]. Stando alle osservazioni critiche degli autori nelle rispettive presentazioni, questi artisti, nonostante le particolarità stilistiche individuali, sono legati da una comune matrice espressionista e cubista, che sarà presto abbandonata per approdare a esiti pittorici più nuovi e personali[21]. La mostra, eccetto isolati consensi , non ha successo, sia per lo scarso impegno di alcuni espositori, sia per l’assenza di Birolli e Morlotti, i quali, partiti per Parigi nel gennaio del 1947, non partecipano neppure all’inaugurazione.

Si dovrà attendere la Biennale del 1948 perché l’atteggiamento della critica muti radicalmente e riconosca il linguaggio del “Fronte” come uno dei più aggiornati e dirompenti del panorama artistico italiano.

Vale la pena di ricordare l’importanza che riveste questa prima Biennale del dopoguerra, riaperta dopo sei anni di interruzione e in grado di fornirci un panorama completo dell’arte contemporanea a livello internazionale, con esposizioni dedicate a Picasso, agli impressionisti, a Klee e molti altri. Grande successo ottiene l’anomalo padiglione di Peggy Guggenheim, ricco campionario di tutte le tendenze estremiste dell’arte dal Cubismo al Surrealismo.

Alla XXIV Esposizione internazionale d’Arte sarà Marchiori a presentare gli artisti del “Fronte”, al quale si deve anche l’allestimento delle sale (la XXXIX e la XL) e la decisione, non priva di conseguenze, di presentare Birolli, Santomaso e Guttuso con un numero maggiore di opere, dieci ciascuno, ritenendoli più maturi; mentre gli altri componenti del gruppo ne presentano cinque ciascuno[22]. Marchiori nella presentazione, dopo aver fatto la cronaca della costituzione del “Fronte”, conclude con queste parole:

La critica italiana salvo poche eccezioni, fu avversa al “Fronte”, senza intenderne le ragioni ideali, che si mantennero e si mantengono valide, sempre più in accordo col tempo. Oggi, infatti, l’esigenza morale è rafforzata dalle affinità che si delineano tra gli artisti più autentici, nella conferma attraverso la validità delle opere, di quella fiducia, virilmente richiesta e, di volta in volta, con ogni sorta di argomenti, negata. “Il Fronte Nuovo delle Arti” si presenta alla “Biennale” col proposito di giustificarsi storicamente, fedele all’impegno assunto nel tempo e che si riconosce nella realtà delle opere[23].

Marchiori è fiducioso nei confronti di questi artisti, i quali, nelle opere esposte, mostrano un maggior grado di maturità, pur rimanendo diversi nella scelta degli indirizzi stilistici. Birolli e Morlotti, reduci dal viaggio a Parigi, adottano uno stile picassiano di gusto europeo, mentre in Guttuso, vicino anch’esso a Picasso (anche se a quello più recente di “Antibes”), emerge una passionalità e vena realistica del tutto personale[24]. Pizzinato é sempre attento ai contenuti che comunica per mezzo di un linguaggio dinamico e geometrico, Vedova è nel pieno della sua fase cubo-futurista e Turcato si orienta verso soluzioni sempre più astratte. Corpora appare come il più vicino al gusto francese del tempo, Santomaso si accosta ad una realtà di «cose semplici ed antiche»[25] rappresentandola oramai in termini non più oggettivi, ed infine gli scultori Viani, Leoncillo e Franchina non tradiscono con le loro opere questo processo di rinnovamento e maturazione stilistica.

Nonostante la “Biennale” rappresenti il momento più alto del gruppo e il suo massimo riconoscimento a livello europeo, contemporaneamente ne sancisce il declino. Marchiori, malgrado l’ottimismo manifestato, è consapevole che l’eterogeneità stilistica e tematica dei pittori , visibile nelle opere esposte alla biennale, avrebbe dato origine a contrasti ideologici, causa dello scioglimento del gruppo, avvenuto nel marzo 1950.

Il successo ha certamente contribuito allo sgretolamento del gruppo, generando negli artisti il desiderio di una attività autonoma svincolata da ogni tipo di sodalizio, ma la causa di questa scissione va ricercata nel diverso significato che questi artisti attribuiscono al fare artistico[26]. Pizzinato e Guttuso si convertono alle teorie del “realismo socialista”, che propugna un ritorno al soggetto e alla chiara comunicabilità dei contenuti ripudiando ogni forma d’arte individualistica e fine a se stessa; Santomaso, Turcato, Vedova, Corpora, Morlotti e Birolli insieme ad Afro e Moreni rappresentano il versante astratto, seppur moderato, che sotto l’egida promozionale di Lionello Venturi, darà origine al “Gruppo degli Otto”. Questi artisti si contrappongono alla tendenza realistica insistendo sul valore stilistico dell’opera d’arte (pur senza cadere nel rigido formalismo dei concretisti) e sulla necessità di un’ apertura internazionale, ottenendo esiti affini alla coeva pittura francese[27].

Non ci soffermeremo ulteriormente riguardo agli sviluppi di queste due tendenze rischiando di andare oltre i limiti imposti dal nostro discorso, mentre ci occuperemo di due grandi protagonisti della scena artistica veneziana degli anni Cinquanta. Nell’estate del 1950 si tiene nell’Ala Napoleonica del Museo Correr la prima mostra europea di Jackson Pollock, certamente l’evento più importante dell’anno[28], nonostante al tempo non abbia ottenuto un adeguato riconoscimento critico. Questa mostra è stata organizzata da due grandi mecenati e promotori d’arte come Peggy Guggenheim e Carlo Cardazzo, sui quali è debito spendere due parole.

Peggy Guggenheim può essere considerata la patronessa della grande arte d’avanguardia del Novecento[29] che, dopo un lungo vagabondare tra l’America e l’Europa si reca a Venezia e, sedotta dalle bellezze della città lagunare, decide di stabilirvisi fino agli ultimi anni della sua vita. Già nel 1938 il suo amore per l’arte e l’immensa fortuna ereditata gli consentono di aprire una Galleria d’arte contemporanea a Londra, dove acquista quadri di Kandinskij, Tanguy, Moore ed altri, dando inizio così alla sua mitica collezione. Dopo un soggiorno a Parigi, dove viene a contatto con gli artisti più in voga del momento, nel 1942 apre a New York la sua galleria-museo Art of This Century , che non è una semplice vetrina dell’arte contemporanea ma anche luogo dove promuovere artisti emergenti. In questa galleria viene scoperto il talento di Jackson Pollock, che la collezionista farà conoscere in tutta Europa. Risale al 1948 l’arrivo di Peggy Guggenheim a Venezia, in occasione della XXIV Biennale, dove espone la sua collezione di opere cubiste, astratte e surrealiste[30], influenzando in modo particolare i giovani artisti italiani; questi erano attenti a recepire ogni nuovo stimolo, che fosse in grado di aggiornare il tessuto pittorico locale. Nel 1949 acquista a Venezia il Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande che diventa la sua casa-museo e luogo d’incontro dei volti più noti del tempo. Nella sua nuova dimora si tengono anche importanti mostre, a partire da quella organizzata nel suo giardino, nell’autunno del medesimo anno, e curata da Giuseppe Marchiori. Qui troviamo esposte sculture dei maggiori artisti del tempo come Arp, Calder, Consagra, Giacometti, nonché il provocatorio gruppo equestre dell’Angelo della città di Marino Marini, una delle ultime opere da lei acquistate, che non tarderà a diventare l’emblema della sua collezione. Peggy, sempre alla ricerca di nuovi talenti, è affascinata da alcuni artisti veneziani che lei stessa promuove ed incoraggia. Appena arrivata in laguna incontra Santomaso e Vedova e il suo interesse si rivolge in un primo momento agli artisti del Fronte Nuovo delle Arti, ma quando negli anni Cinquanta esplode il fenomeno Spazialismo anche a Venezia, le sue simpatie sono rivolte esclusivamente a questo movimento. Sono Bacci e Tancredi gli artisti che predilige e sostiene, facendo conoscere le loro opere, che lei stessa espone ed acquista, a collezionisti e direttori di musei americani[31].

L’altro grande protagonista è Carlo Cardazzo, del quale preferiamo occuparci ora, tramite un’analisi più accurata, per il ruolo decisivo da lui svolto nel promuovere l’altro nucleo portante della ricerca del tempo, il gruppo degli Spazialisti veneziani.

Cardazzo è a tutti noi noto per essere il collezionista, il mercante d’arte oltreché animatore culturale che più di tutti ha saputo mantenere vitale l’ambiente artistico veneziano a partire dagli anni Trenta. Inizia la sua attività di collezionista giovanissimo: a soli 23 anni è già in possesso di alcuni quadri di De Pisis e in poco tempo darà vita ad una collezione, che fino al 1940 è costituita da opere di Morandi, Sironi, Soffici, Carrà, De Chirico, Modigliani, senza trascurare artisti della nuova generazione come Scipione, Mafai, Sassu e i veneti Santomaso, Pizzinato, Viani e l’allora poco conosciuto Music[32]. La sua raccolta d’arte continua ad arricchirsi anche negli anni successivi, quando, da amatore d’arte si trasformerà in gallerista e mercante, dando vita nel 1942 alla già citata Galleria del Cavallino. Nei primi anni di attività della galleria le mostre più importanti riguardano artisti degli anni Trenta: a Guidi e Casorati sono dedicate due personali nel 1942, l’anno successivo è la volta di Gino Rossi, ma non vengono trascurati neppure artisti emergenti, infatti nel 1944 la galleria ospita Luciano Gaspari e Mario Deluigi[33]e nel 1945 compare anche Edmondo Bacci. Carlo Cardazzo, da instancabile promotore di nuovi talenti e mercante d’arte tra i più illuminati del tempo, decide poi di trasferirsi a Milano, centro di irradiazione delle nuove realtà artistiche del momento, dove nel 1946 apre la Galleria del Naviglio[34]. In questa galleria prende vita l’avventura Spazialista promossa da Lucio Fontana con la collaborazione di un gruppo di artisti e critici milanesi, che insieme a lui firmano il 18 marzo del 1947 il primo Manifesto dello Spazialismo[35]. Agli inizi degli anni Cinquanta queste nuove espressioni artistiche da Milano tramite Cardazzo giungono alla Galleria del Cavallino a Venezia; d’ora in poi la galleria diventa luogo di incontri e dibattiti tra il gruppo spazialista milanese e quello veneziano, del quale fanno eccezione Berto Morucchio, Vinicio Vianello e Mario Deluigi già pecedentemente entrati in contatto con questo movimento, tramite dei soggiorni a Milano[36]. Siamo propensi a ritenere che la presenza concomitante di Cardazzo a Milano e a Venezia, dove continua a seguire la Galleria del Cavallino valendosi dell’aiuto del fratello minore Renato, sia stata decisiva nello spingere alcuni artisti a intraprendere delle nuove ricerche, senza le quali la città rischiava nuovamente di arrestarsi su posizioni artistiche oramai superate ed anacronistiche. Gli artisti che hanno fatto parte del Fronte Nuovo delle Arti e che ora hanno scelto strade antitetiche, sono stati gli unici ad adottare un linguaggio all’avanguardia, ma, scioltosi questo raggruppamento, Venezia non vanta alcuna unione in grado di accogliere le personalità artistiche più illuminate e insofferenti ad un clima provinciale[37]. L’incontro con la nuova poetica spazialista permette ad artisti già noti come Virgilio Guidi e Mario Deluigi di portare a compimento le proprie sperimentazioni stilistiche, giudicate al tempo sin troppo ardite e per questo causa di scontri con i gruppi conservatori locali[38]. Sono proprio questi due artisti, insieme a Vinicio Vianello e ai critici Berto Morucchio e Anton Giulio Ambrosini, che, tra gli spazialisti veneziani, per primi aderiscono al movimento milanese capeggiato da Lucio Fontana firmando il “Manifesto dell’arte spaziale” datato 26 novembre 1951[39].

Sia Guidi che Deluigi attivi a Venezia già nell’anteguerra, hanno collocato il problema della luce e dello spazio al centro delle proprie sperimentazioni pittoriche, ancora prima di aderire al movimento spaziale. Emblematico è il caso di Guidi, il più anziano tra gli spaziali veneziani, che fin dai tempi della formazione romana manifesta uno spiccato interesse per i rapporti di luce e spazio, ai quali andrà ad aggiungersi l’importanza del colore, quando nel 1944 fa ritorno a Venezia e realizza le splendide Marine con grata. In questi dipinti degli ultimi anni Quaranta (nei quali il reticolo geometrico dimostra l’interesse di Guidi per l’ultimo Mondrian) la luce con la sua azione corrosiva riduce l’immagine a luminosi piani di colori, mentre nelle contemporanee Figure nello spazio, la forma immersa nello spazio-luce viene da quest’ultima ripulita da ogni elemento accessorio e riportata alla sua struttura primaria, pur mantenendo una propria plasticità. Queste ricerche giungono a maturazione nel 1951 con la sua adesione allo spazialismo, che permetterà a Guidi di liberarsi dell’elemento naturalistico per orientarsi verso soluzioni sempre più astratte. Guidi concepisce lo spazio come un fatto mentale, che esiste nella coscienza umana e non come dimensione esterna. Lo spazio è per lui: «un universo pieno di luce in costante movimento, accogliente forme e colore; uno spazio che si identifichi con la luce, e [in cui] la luce sia l’elemento attivo dello spazio. Qual che sia la verità fisica […] a me piace concepire la luce protagonista dello spazio, causa di tutto, veramente un atto di creazione»[40]. Appartengono alla fase spazialista la serie dei Cieli antichi, e dei Giudizi, dove la concezione guidiana dello spazio trova la sua massima realizzazione. In queste opere lo spazio è allo stesso tempo mentale ed emozionale, cosparso da una luce ideale e diafana, che non altera l’integrità del colore ora cupo e aggressivo, ora luminoso e leggero, non privo di valenze simboliche[41]. Contemporaneamente a quanto stava facendo Guidi negli anni Quaranta, Deluigi elabora l’idea di uno “spazio fisiologico”, come luogo in grado di contenere gli impulsi e le emozioni umane che, non più represse dall’uomo, si concretizzano in forme colorate e curve, dotate di una propria realtà plastica e libere da ogni costrizione fisica. Anch’egli negli anni Cinquanta, dopo una breve riflessione sul neoplasticismo di Mondrian, abbandona la pittura figurativa per ottenere esiti sempre più astratti. Rappresentativi della sua prima ricerca spaziale sono le opere Amori del 1952, dove oramai ogni traccia figurativa viene completamente abbandona, per poi trovare nella tecnica del “grattage”, che già adotta nei Motivi sui vuoti del 1954, il mezzo tramite il quale le sue ricerche sullo spazio-luce-colore trovano completa realizzazione. Il grattage consiste nel togliere il colore, precedentemente steso sullo tela, con lamette, bisturi o punte metalliche liberando così la luce imprigionata nella materia. Anche lui come Fontana agisce sulla tela ma, mentre quest’ultimo con i “tagli” cerca uno spazio “altro” non più contenuto nel piano pittorico, Deluigi scopre lo spazio rinchiuso nello strato pittorico, graffiando la tela e facendo affiorare la luce con la quale lo spazio si identifica[42]. Più giovane di Deluigi e Guidi, Vinicio Vianello é l’unico tra i veneziani ad estendere le sperimentazioni spaziali oltre il campo pittorico: dalle ceramiche, ai vetri “spaziali” fino alla progettazione di sistemi di illuminazione, avvicinandosi in tal modo alle idee fontaniane di un’arte nuova, in grado di avvalersi di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla società moderna[43]. Agli artisti sopraccitati si aggiungono poi lo scultore Bruno De Toffoli e Tancredi firmando il 17 maggio 1952 il “Manifesto del movimento spaziale per la televisione”[44]. Negli anni Cinquanta Tancredi, pur avvicinandosi all’informale americano, soprattutto di Pollock, contemporaneamente se ne discosta per una minore aggressività e gestualità pittorica, approdando ad una interpretazione dello spazialismo estremamente originale e lirica, tramite un segno istintivo e un colore di matrice veneziana[45]. Per meglio intendere la sua concezione di spazio è sufficiente riportare alcuni passi del suo diario: «Prima condizione della natura è lo spazio; l’uomo è solo una parte della natura […] Ho impiegato una “forma” molto semplice per controllare lo spazio: il puntino […] Un punto ci dà l’idea del vuoto da tutte le parti, di dietro, ai lati, davanti; […] Dal punto io parto attraverso grafie e colori istintivi per la conquista di nuove immagini di natura»[46]. Solo successivamente con la partecipazione alla grande mostra tenutasi nella Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian[47] nel settembre 1953, aderiscono anche Edmondo Bacci e Gino Morandis sottoscrivendo il manifesto “Lo spazialismo e la pittura italiana nel secolo XX”[48], redatto per l’occasione da Anton Giulio Ambrosini. Entrambi allievi di Guidi all’accademia, hanno in comune una spiccata sensibilità coloristica, ma, se nel primo il colore si fa materico e dilatandosi ora crea ora invade lo spazio, ben visibile nel ciclo degli Avvenimenti; in Morandis lo spazio viene definito tramite il movimento continuo di forme cromatiche, ove la tendenza del colore ad espandersi viene disciplinata dal segno[49].

Lo spazialismo veneziano presenta caratteristiche autonome ed originali con esiti pittorici a volte discordanti rispetto alle ricerche portate avanti dal gruppo milanese e in particolar modo dal padre di questa tendenza. Mentre in Fontana, lo sperimentalismo tecnico e l’insofferenza per i limiti imposti dal piano pittorico lo portano a lavorare su uno spazio “altro”, negli artisti veneziani l’idea di spazio viene sviluppata sulla superficie bidimensionale della tela[50], suggerendo una profondità assoluta percepibile unicamente sul piano dell’immaginazione[51]. L’altro fattore distintivo rispetto agli spaziali milanesi, che conducono ricerche pittoriche tra loro diversificate, è la comune adesione da parte della compagine veneziana ad una «astrazione basata sull’idea di spazio-luce-colore tipica della tradizione veneziana»[52]. «[…] l’opera nasce sempre legata al luogo dove è prodotta.»[53] è l’affermazione di Tancredi estendibile a tutto il gruppo veneziano che, seppur con esiti formali diversi, privilegia il momento prettamente pittorico e rinnova la tradizione del cromatismo locale, senza che lo slancio innovativo venga meno. Nei loro quadri «la caratteristica più evidente […] è proprio l’uso del solo mezzo tradizionale del colore, rivissuto però nella nuova visione spaziale che lo definisce come spazio e luce, o meglio, nell’immaginare lo spazio come energia del colore e della luce»[54]; lo spazio così concepito perde ogni connotazione scientifica per diventare spazio “lirico”, capace attraverso le potenzialità allusive del colore e della luce di evocare la sfera delle emozioni umane [55].

A Venezia lo spazialismo ha portato un’ondata di novità in grado di accendere la curiosità di artisti come Afro e Santomaso[56], che non tarderanno ad aggiornare il proprio linguaggio pittorico avvicinandosi a queste nuove soluzioni formali; infatti, nei dipinti realizzati verso la metà degli anni Cinquanta, entrambi raggiungono effetti di estrema leggerezza nell’uso del segno e del colore[57]. Vanno inoltre ricordati alcuni artisti veneziani come Bruna Gasparini e Luciano Gaspari, che, pur non entrando mai a far parte di questo movimento, svolgono le proprie ricerche nell’ambito di problematiche per molti aspetti similari. Entrambi applicano la propria indagine sullo spazio-luce-colore all’interno del mondo naturale: la prima, trasformando le figure della vita organica in metafore dei propri stati d’animo, il secondo riproducendo in termini astratti il processo generativo della materia vegetale[58].

Le ricerche finora condotte dagli spazialisti locali e dai gruppi prima citati hanno permesso all’arte veneziana di ricoprire un ruolo, per nulla marginale, nello scenario artistico nazionale.

La pittura veneziana si presenta alquanto articolata, infatti accanto alle ricerche più ardite e innovative finora citate, lascia spazio, anche a linguaggi pittorici non condizionati dalle mode del momento. Nel dopoguerra sono ancora attivi artisti indiscussi come Guido Cadorin, l’anziano Felice Carena, che approda a Venezia nel 1945 e l’ormai celebre Filippo de Pisis, stabilitosi in città nel 1943 e protagonista di una felice stagione creativa[59].

Non trascurabile è l’opera di Leone Minassian che, senza uniformarsi ad un linguaggio collettivo, negli anni Cinquanta aggiorna la propria pittura (finora figurativa) sviluppando soluzioni formali prossime al surrealismo “organico” di Arp e Brancusi, con risultati del tutto originali[60]. Diversamente Zoran Music, giunto a Venezia dopo la tragica esperienza del campo di concentramento, mediante uno stile ancora figurativo ottiene effetti di grande lirismo nella serie degli Acquarelli veneziani, dei Cavallini e dei Motivi dalmati. Il ricordo della propria terra, presente ora in modo ingenuo e più tardi in termini astratti nei suoi dipinti, rimane il protagonista indiscusso della sua pittura.

Sempre negli anni Cinquanta si nota poi un ritorno ai moduli figurativi ad opera di Bepi Longo, Toni Fulgenzi, Albino Lucatello e Cesco Magnolato, promosso dagli stimoli provenienti dalla presenza dei muralisti messicani alla Biennale del medesimo anno e alla svolta in tal senso di Pizzinato e Guttuso.

Nel contempo, per merito di Boldrini, Barbaro, Borsato, Giorgio Dario Paolucci e Carlo Hollesch, ha luogo inoltre la riscoperta di Gino Rossi[61] e dei suoi modi postimpressionisti e nabis, come reazione all’ormai stagnante maniera neocubista.

Nel 1951 fanno infine la loro comparsa alla Bevilacqua La Masa con delle personali i nuovi volti dell’astrattismo, che, seppure non immuni dagli influssi provenienti dalle ricerche spazialiste locali, approdano ad esiti più liberi ed individuali. Emergono per l’occasione il linguaggio prevalentemente segnico ed aperto ad analogie musicali di Licata, la pittura densa, materica orientata verso un espressionismo astratto di Saverio Rampin e per concludere, la dinamica gestualità accompagnata ad un colore violento e trasgressivo di Ennio Finzi[62].

Il fervore artistico veneziano ha innescato nuovi sviluppi e ricerche anche nelle città del triveneto, dove le diverse condizioni culturali e territoriali hanno dato origine ad esiti artistici difformi con una forte connotazione locale.

Dopo il 1945, a causa delle condizioni storiche che si trova a vivere dopo la guerra, la città di Trieste rimane estranea agli aggiornamenti che vanno diffondendosi nel resto del paese. La presenza in città agli inizi del 1946 di Giuseppe Marchiori per organizzare la Mostra di pittura contemporanea, con la collaborazione del critico triestino Umbro Apollonio, ha certamente un ruolo decisivo nel rimettere in moto la stagnante situazione culturale locale. La mostra viene inaugurata il 1° marzo ed è la prima in Italia, fra quelle realizzate nel dopoguerra, a esibire un quadro pittorico completo di quanto è stato realizzato nella prima metà del secolo, con la presenza non solo di maestri riconosciuti, ma anche di giovani artisti[63]. Frattanto nelle arti figurative due protagonisti della vecchia generazione tentano un rinnovamento per mezzo di un nuovo linguaggio: Guido Marussig con i suoi esiti astratti e Carlo Sbisà, indirizzato verso forme plastiche neocubiste. Notevole anche il contributo di Augusto Cernigoj, esponente delle avanguardie degli anni Venti, che, dopo le esperienze costruttiviste, seppe alternare stili diversi, dal postcubismo, all’astrazione geometrica fino al gestualismo materico. Nei medesimi anni Romeo Daneo, diversamente dal fratello Renato impegnato nel versante informale, realizza ambienti urbani di impianto neorealista arricchendoli con immagini favolose e misteriose. Mentre Dino Predonzani avvalendosi di uno stile in bilico tra metafisica e surrealismo, manifesta nelle sue opere la conoscenza del francese Tanguy e del barocco Dalì[64].

Per quanto riguarda le ricerche astratte triestine, grande è l’influenza della concezione di “spazio” come viene intesa dal gruppo spaziale veneziano, con la peculiarità che qui il segno mantiene sempre, anche dopo l’abbandono della figurazione, una incombente preminenza[65]. Questo è visibile in Edoardo Devetta e Renato Daneo accomunati da un forte legame per il territorio che ha dato loro i natali. Nei quadri di Devetta la realtà naturale resa con una sintassi gestuale e segnica, oramai libera dalla gabbia figurale, è ancora riconoscibile, e analogamente Daneo tramite un linguaggio materico ed un uso lirico del colore, proietta sulla tela il fascino delle isole dalmate. E ancora Luigi Spacal, artefice di una pittura-scultura, non imita, ma evoca la fisicità e la cultura popolare del territorio carsico nella trasfigurazione delle cose rappresentate in segni e strutture tramite un colore ruvido e materico[66].

Appare legata alla realtà locale anche l’area isontina, che vedrà i maggiori rappresentanti del versante artistico, Music e Spazzapan emigrare ben presto, il primo tra Venezia e Parigi e il secondo a Torino, entrambi senza mai cancellare il ricordo della propria terra. Del primo abbiamo già parlato precedentemente, anche se in modo sommario, nell’ambito della pittura veneziana del dopoguerra e avremo modo di occuparcene in forma più approfondita in seguito. Per quanto riguarda Spazzapan, questi nel 1928 abbandona Gorizia per Torino, dove entrerà a far parte del Gruppo dei sei, praticando una pittura che risente, inizialmente del postimpressionismo francese, per approdare poi, con la svolta informale del 1952, a composizioni astratte dove il gesto e il segno si fondono con la matericità del colore[67].

L’apertura dell’area friulana, a partire dall’immediato dopoguerra, verso le nuove ricerche artistiche è favorita sia dalla vicinanza con un centro vitale come Venezia, dove abbiamo visto attivo il friulano Pizzinato, sia in seguito dai soggiorni americani di Afro e, a partire dagli anni Sessanta, dalla militanza di Getulio Alviani nell’ambiente milanese dell’arte cinetica e programmata.

Il centro del rinnovamento è la città di Udine, dove, subito dopo la liberazione, sorgono numerose aggregazioni di artisti: Il Circolo Artistico Friulano di impronta conservatrice, il cattolico Circolo giovani artisti, il Fronte della cultura e il Circolo culturale Rinascita, entrambi di sinistra. I diversi orientamenti pittorici e politici non precludono frequentazioni e dibattiti, seppur a volte animati, tra gli stessi artisti. Particolarmente importante è l’Unione sindacale artisti friulani istituita nel 1950 in Vicolo Florio, luogo di incontro dei maggiori esponenti del realismo friulano[68]; di fatto in questi anni la scena artistica locale è dominata principalmente dal realismo, ora narrativo ora didascalico, che non è solo una scelta estetico politica, ma è volontà di continuare, in forma rinnovata, un genere che in Friuli ha radici profonde. Il neorealismo friulano può essere diviso in “due gruppi linguistici”: il primo si richiama a Zigaina e si avvale di un lessico cubo-futurista contraddistinto da una linea netta e incisiva che racchiude il colore e dà origine ad una figurazione sintetica; il secondo va identificato nell’opera di Anzil Toffolo basata sul nesso volume-colore e su immagini di impianto monumentale e vigoroso, che testimoniano la conoscenza dei muralisti messicani e dei maestri del Quattrocento italiano[69].

Ci sono inoltre degli artisti che del realismo ci propongono delle “interpretazioni personali”: le nature morte legate alle vite dei contadini e minatori di Enrico Cillia, il realismo privo di risvolti polemici e critici di Federico De Rocco e quello popolaresco ma espressivo dell’autodidatta Ugo Canci Magnano.

Il neorealismo in Friuli conosce il momento di massima fioritura all’inizio degli anni Cinquanta, per poi, nel 1954, allontanarsi da ogni finalità politica ed evolvere verso una pittura in grado di riscoprire l’essenza profonda della tradizione figurativa friulana.

Accanto alla tendenza realistica, nella seconda metà del 1950, alcuni artisti aderiscono al versante astratto riconducibile ad uno “stile internazionale” privo di specifici connotati locali. Il più internazionale dei pittori friulani è certamente Afro, che, dopo alcuni soggiorni negli Stati Uniti, abbandona il neocubismo giovanile per uno stile astratto, ricco di risvolti lirici ed emotivi. Fondamentale è stata per Afro la conoscenza dell’opera di Arshile Gorky, tra i primi esponenti dell’espressionismo astratto americano, i cui echi si avvertono nelle soluzioni formali che caratterizzano le opere degli anni Cinquanta. In questi quadri: la gamma cromatica estremamente delicata, non esente da influssi veneti, e le macchie di colore mutate in sagome favolose che lievitano in uno spazio di memoria, richiamano la pittura astratto-informale intrisa di reminiscenze oniriche dell’artista americano[70].

A conclusione di questa carrellata di apporti diversi ad opera dei centri più attivi del momento nelle Venezie, menzioniamo brevemente anche Verona e Trento. Nuove sperimentazioni artistiche hanno luogo nella prima città, con le figurazioni visionarie di Ada Zanon, le indagini pittoriche e grafiche di Francesco Arduini e, a partire dagli anni Sessanta, con le ricerche altrettanto innovative di Pierluigi Rampinelli, Federico Chicchi e Giorgio Olivieri. Invece nell’ambiente trentino la chiusura iniziale, rispetto alla situazione dell’arte italiana, sarà presto superata dal fiorire di nuove analisi pittoriche ad opera di Cesarina Seppi, Bruno Colorio e Ines Fedrizzi.

 

 

Dolores Del Giudice

 



[1] L’introduzione alla monografia edita per l’occasione è stata scritta da Filippo De Pisis.

[2] Guido Zucconi, L’Istituto Universitario di Architettura (I. U. A. V.), in Mario Isnenghi e Stuart Woolf (a cura di), L’Ottocento e il Novecento, in Storia di Venezia., [9.1-3], vol. 3, Collana, Istituto della enciclopedia italiana Treccani, Roma, Marchesi Grafiche, 2002, pp. 1913.

[3] L’Arco era l’Associazione dei giovani di sinistra, dove nel 1946 si tiene l’esposizione Omaggio alla Letteratura Russa, che vedrà artisti di ogni età e orientamento stilistico come Bacci, Guidi, Santomaso, Vedova, Deluigi, De Pisis ed altri, ispirarsi alle opere dei maggiori scrittori russi. Si veda sull’Arco la tesi La stagione dell’Arco, di Antonella Clara dell’a.a. 1993-94, Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Udine, relatore prof. Maria Mimita Lamberti.

[4] Al suo nome sono intitolati una sala e una collezione di opere d’arte della Fondazione Querini Stampalia e il Dipartimento di storia e critica delle arti dell’Università di Venezia. Le notizie su Giuseppe Mazzariol sono ricavate da manlio brusantin e altri (a cura di), Per Giuseppe Mazzariol, in Quaderni di Venezia arti, vol.1, Roma, Viella,1992; chiara bertola (a cura di), Giuseppe Mazzariol, 50 artisti a Venezia, catalogo della mostra, (Venezia, Palazzo Querini Stampalia, 4 settembre-18 ottobre 1992), Milano, Electa, 1992; Fondazione Querini Stampalia. Fondo Giuseppe Mazzariol, http://www.querinistampalia.it/museo/fondi/mazzariol.html.

[5] Lionello Venturi terrà a Venezia una conferenza sulle “Origini dell’arte contemporanea” all’Ateneo Veneto,  destando l’attenzione di tutti coloro che aspiravano ad un’apertura europea dell’arte italiana. Per la disputa sulla nomina del segretario generale si veda Giuseppe Marchiori, L’arte a Venezia dopo il 1945, in Giuseppe  Marchiori (a cura di), Il Fronte Nuovo delle Arti, Vercelli, Tacchini, 1978, p. 18.

[6] L’attegiamento conservatrice della giuria che premia un pittore di tradizione, ossia un vedutista lagunare come Della Zorza, scatenerà l’indignazione di Emilio Vedova che getterà il suo dipinto in laguna, dove sarà raccolto da Romano Barbaro.

[7] Il premio era finanziato da Arturo Deana, proprietario dell’omonimo ristorante oltrechè mecenate e collezionista, ma ideato e organizzato dal pittore Giuseppe Cesetti.

[8] Le opere di Deluigi, Pizzinato, Vedova, Santomaso, Birolli, Guidi, acquistate alla Biennale del 1948 e le acquisizioni degli anni Cinquanta confermano questa direzione, con opere di Rouault, Matisse, Nolde, e la tela di Kandinsky, Zig zag bianchi, Flavia Scotton, Cà Pesaro.Cento anni di arte europea, in Flavia Scotton (a cura di), Cà Pesaro Galleria internazionale d’Arte Moderna, Venezia, Marsilio, 2002, p.24.

[9] Dino Marangon, Cronaca veneziana 1948-59. Eventi e protagonisti, in Maria Grazia Messina (a cura di), Venezia 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo della mostra, (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 26 settembre 1999-9 gennaio 2000), Ferrara, Ferrara Arte, 1999, p. 162.

[10] Per le collettive tenutesi nel dopoguerra si veda Enzo Di Martino (a cura di), Bevilacqua La Masa1908-1993. Una fondazione per giovani artisti, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 70-88; Luca Massimo Barbero (a cura di), Emblemi d’Arte: da Boccioni a Tancredi. Cent’anni della Fondazione Bevilacqua La Masa 1899-1999, catalogo della mostra (Venezia, Galleria Bevilacqua La Masa, 6 marzo-2 maggio 1999), Milano, Electa, 1999, pp. 176-91.

[11] D. Marangon, Cronaca veneziana 1948-59. Eventi e protagonisti, in M. G. Messina, Venezia 1950-59.   Il rinnovamento…, p. 163.

[12] Le notizie su Giuseppe Marchiori sono ricavate da Sileno Salvagnini (a cura di), Giuseppe Marchiori e il suo tempo. Mezzo secolo di cultura artistica e letteraria europea visto da un critico d’arte, catalogo della mostra, (Rovigo, Palazzo Roncale, 5 novembre-28 novembre 1993), Padova, Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, 1993; Sileno Salvagnini (a cura di), Da Rossi a Morandi, da Viani ad Arp. Giuseppe Marchiori critico d’arte, catalogo della mostra, (Venezia, Galleria Bevilacqua La Masa, 10 novembre 2001-14 gennaio 2002),Venezia, Cicero, 2001; Luca Massimo Barbero, Giuseppe Marchiori, in Luca Massimo Barbero (a cura di), Venezia ’50-’60: l’officina del contemporaneo, catalogo della mostra, (Venezia, Palazzo Fortuny, 15 giugno-9 novembre 1997), Milano, Charta, 1997, pp. 206-10.

[13] Il Fronte voleva restaurare un dialogo con l’Europa che il Fascismo aveva ostacolato. Si veda Carlo Munari, Significato del Fronte, in G. Marchiori, Il Fronte Nuovo…, pp. 8-9.

[14] Corrente nasce e prende il nome dalla rivista “Corrente di Vita Giovanile” fondata nel 1938 da Ernesto Treccani. Alla prima mostra di Corrente, che si tiene presso la Permanente di Milano troviamo, tra gli esponenti del futuro Fronte Nuovo delle Arti, Birolli e Cassinari. In occasione della seconda mostra del gruppo tenutasi nel dicembre del medesimo anno alla Galleria Grande di Milano si affiancano inoltre Guttuso, Santomaso, Fazzini e Franchina. Nel 1940 la rivista viene soppressa e l’attività di questi artisti continua nelle Edizioni di Corrente e nella “Bottega”: la galleria in via Spiga a Milano di Duilio Morosini. L’anno successivo la Bottega fu chiusa e l’attività espositiva dei partecipanti al movimento avrà luogo dal 1942 nella Galleria della Spiga e Corrente sempre a Milano. Solo in questa fase finale si avvicinano a Corrente anche Morlotti e Vedova, ma la militanza dei due artisti nel movimento sarà breve: nel 1943 la Galleria deve chiudere e con lei avrà fine anche l’avventura politica e pittorica del gruppo. Questi artisti si opponevano al regime fascista tramite un’arte “antinovecentista”, con la quale affrontare tematiche socialmente impegnate avvalendosi di moduli espressivi tipici dell’espressionismo e del post-cubismo picassiano.

[15] Giorgio Nonveiller, Giuseppe Marchiori e il “Fronte Nuovo delle Arti”, in S. Salvagnini (a cura di), Giuseppe Marchiori e il suo tempo…, p. 75.

[16] Manifesto della “Nuova Seccessione Artistica Italiana” (ottobre 1946), in Tristan Sauvage (a cura di), Pittura italiana del dopoguerra, 1945-1957, Milano, Schwarz, 1957, p. 234.

[17] Aderiscono al “manifesto” anche Mafai, Marini e Levi, non del tutto convinti dell’iniziativa, infatti i loro nomi non compaiono quando il testo viene pubblicato. Sulla stesura del manifesto si veda G. Marchiori, Il Fronte Nuovo…, pp. 34, 42, 49; Luciano Caramel, Nuova Secessione Artistica Italiana e Fronte Nuovo delle Arti, in Luciano Caramel (a cura di), Arte in Italia, 1945-1960, Milano, Vita e Pensiero, 1994,         pp. 27-30.

[18] G. Marchiori, Eclissi del Fronte Nuovo delle Arti, in G. Marchiori, Il Fronte Nuovo… cit., p. 42.

[19] Birolli era presentato da Argan, Fazzini da Lucchese, Franchina e Turcato da Maltese, Guttuso da Lionello Venturi, Leoncillo da Moravia, Morlotti da De Michelis, Pizzinato e Vedova da Marchiori, Santomaso da Valsecchi, Viani da Bettini, mentre Corpora da Guttuso.

[20] Il catalogo della mostra si trova all’interno di G. Marchiori, Il Fronte Nuovo…, (senza paginazione).

[21] Giuseppina Dal Canton, Arte a Venezia: 1946-1956, in David Rosand (a cura di), Interpretazioni veneziane: studi di storia dell’arte in onore di Michelangelo Muraro, Collana, Quaderni di materiali veneti. Itinerari di storia e arte n. 5, Venezia, Arsenale, 1984, p. 468.

[22] G. Nonveiller, Giuseppe Marchiori e il “Fronte Nuovo delle Arti”, in S. Salvagnini, Giuseppe Marchiori…, p. 79.

[23] G. Marchiori, Il Fronte Nuovo delle Arti, catalogo della XXIV Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, cit., p. 163.

[24] G. Marchiori, Il Fronte Nuovo delle Arti, in G. Marchiori, Il Fronte Nuovo…, pag. 56.

[25] Ibidem.

[26] Ufficialmente il gruppo resisterà fino alla Biennale del 1950, ma le premesse di questa spaccatura erano già visibili alla mostra d’arte organizzata a Bologna nell’ottobre del 1948 dall’Alleanza della Cultura (fondata in febbraio dal P.C.I.), alla quale parteciparono tutti i componenti del Fronte. Il P.C.I. assumeva una linea culturale più intransigente, allineandosi alle posizioni sovietiche favorevoli ad una responsabilizzazione dell’arte. Il leader dei comunisti italiani Palmiro Togliatti su “Rinascita” definisce la mostra «una raccolta di cose mostruose» condannando ogni tipo di formalismo e deformazione artistica. Non tardano a rispondere con una lettera, pubblicata nella medesima rivista, i critici e artisti italiani militanti nel Partito comunista per difendere il proprio operato, ma nello stesso numero di “Rinascita” compare anche una “postilla”dello stesso Togliatti, che ribadisce la critica negativa ai quadri astratti della mostra incomprensibili alle masse. Un tale episodio ha sicuramente acuito le tensioni insite negli artisti del Fronte e preannunciato quella divisione tra arte astratta e arte realista, che caratterizzerà per alcuni anni il panorama artistico italiano. A riguardo si veda L. Caramel, Nuova Secessione Artistica Italiana e Fronte Nuovo delle Arti, in L. Caramel, Arte in Italia…, pp. 32-37 e pp. 50-56 dove sono riportate le due lettere e la “postilla” pubblicate su “Rinascita”.

[27] G. Dal Canton, Arte a Venezia: 1946-1956, in D. Rosand, Interpretazioni veneziane…, p. 474.

[28] La mostra veneziana e quella milanese tenutasi alla Galleria del Naviglio sono estremamente importanti: si tratta delle prime mostre di opere di Pollock in Europa, che includevano anche i grandi dipinti eseguiti a “dripping”.

[29] Ivo Prandin, Peggy Guggenheim, in Giovanni Distefano e Leopoldo Pietragnoli (a cura di), Profili veneziani del Novecento, Venezia Lido, Supernova, 1999, cit., p. 32.

[30] La collezione comprendeva le prime opere di celebrità, allora sconosciute, come Baziotes, Gorky, Motherwell, Rothko, Still e lo stesso Pollock. I dipinti di Pollock esposti erano di natura “cubista-figurativa”, i “dripping” saranno esposti solo più tardi, nella mostra del 1950.

[31] Le notizie su Peggy Guggenheim sono ricavate da Philip Rylands, Peggy Guggenheim a Venezia, in Luca Massimo Barbero (a cura di), Spazialismo: Arte astratta. Venezia 1950-1960, catalogo della mostra, (Vicenza, Basilica Palladiana, 12 ottobre 1996-19 gennaio 1997), Venezia, Il Cardo, 1996, pp. 108-15; I. Prandin, Peggy Guggenheim, in G. Distefano e L. Pietragnoli, Profili veneziani…, pp. 31-59; L. M. Barbero, Peggy Guggenheim, in L. M. Barbero, Venezia ’50-’60…, pp. 136-45.

[32] Per la storia della collezione Cardazzo e degli inizi della Galleria del Cavallino si veda: A. Fantoni, Il gioco del Paradiso, Venezia, Cavallino, 1996.

[33] Deluigi faceva parte, insieme a Santomaso, Viani, Gaspari e Scarpa di quel gruppo di artisti che, a partire dagli anni Trenta, frequentano la casa Cardazzo: vero salotto letterario ed artistico dove stare insieme, scambiarsi opinioni e leggere i libri d’arte e letteratura delle edizioni del Cavallino. Ivi, p. 33.

[34] D. Marangon, Cronoca veneziana 1948-59. Eventi e protagonisti, in M. G. Messina, Venezia 1950-59. Il rinnovamento…, pp. 166-68.

[35] Lo Spazialismo nacque a Buenos Aires nel 1946, quando Lucio Fontana compilò il “Manifesto Blanco” firmato anche da un gruppo di artisti argentini, le cui premesse iniziali dovevano costituire la base del programma dello Spazialismo italiano. Rientrato in Italia nel 1947, Fontana incontrò alla Galleria del Naviglio coloro che furono i suoi principali collaboratori nell’elaborazione dei sei manifesti dello Spazialismo, pubblicati tra il 1947 e 1952. Dai Manifesti emerge l’interesse del gruppo per i fattori tecnologici e tecnici oltreché una nuova fiducia nella scienza, non più avulsa dall’arte. Da tali istanze nasce l’esigenza, manifestata soprattutto da Fontana, di liberarsi della superfice piatta e bidimensionale della tela per realizzare un’arte totale, non più fittizia estesa nel tempo e nello spazio. Queste dichiarazioni saranno sviluppate solo da Fontana, mentre gli altri spazialisti, eccetto Crippa e Scanavino (tra i più validi esponenti del gruppo), rimangono legati all’atto pittorico, in sintonia con le tendenze informali del tempo. Questo movimento raggruppava artisti di diversa provenienza e formazione come Baj, Peverelli, Dova e più tardi gli spazialisti veneziani; le proposizioni teoriche del movimento infatti non prevedevano uno stile comune da adottare, ma un libero uso dei mezzi con esiti a volte dissonanti. I Manifesti sono stati pubblicati in vari volumi, ma noi ci atteniamo alla edizione di Gian Piero Giani, Spazialismo, Milano, 1957.

[36] Nel dopoguerra soggiornano a Milano Berto Morucchio e Vinicio Vianello, mentre Mario Deluigi nel marzo 1947 è presente alla Galleria del Naviglio con una personale, presentata dallo stesso Morucchio. L. M. Barbero, Gli artisti e lo «spazialismo» a Venezia negli anni Cinquanta, in L. M. Barbero, Spazialismo: Arte astratta…, p. 45.

[37] Ibidem.

[38] Guidi fu chiamato ad insegnare a Venezia nel 1927, ma l’ostilità dell’ambiente accademico, che avvertiva le sue lezioni come una minaccia per le tendenze artistiche locali, lo costringerà nel 1935 a lasciare la città lagunare e a trasferirsi a Bologna. Ritornerà a Venezia solo nel 1944 per rimanervi tutta la vita.

[39] Il V Manifesto è inoltre sottoscritto da: A. G. Ambrosiani, Morucchio, Fontana, Crippa, Dova, Joppolo, Milena Milani, Carozzi e Peverelli.

[40] G. D. Canton, Arte a Venezia: 1946-1956, in D. Rosand, Interpretazioni veneziane…, cit., pp. 477-78.

[41] Le notizie su Virgilio Guidi sono tratte da Dino Marangon, Spazialismo a Venezia, in Spazialismo a Venezia, catalogo della mostra, (Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, 10 luglio-15 settembre 1987), Milano, Mazzotta, 1987, (La mostra è stata curata dalla Fondazione Bevilacqua La Masa in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Venezia), pp. 33-36; L. M.Barbero, Gli artisti e lo «spazialismo» a Venezia negli anni Cinquanta, in L. M. Barbero, Spazialismo: Arte astratta…, pp. 50-52; Toni Toniato, Virgilio Guidi e la pittura veneziana del suo tempo, in Toni Toniato (a cura di), Modernità allo specchio. Arte a Venezia (1860-1960), Venezia, Supernova, 1995, pp. 117-47.

[42] Le notizie su Deluigi sono ricavate da D.Marangon, Spazialismo a Venezia, in Spazialismo a Venezia…, pp. 37-38; L. M.Barbero, Gli artisti e lo spazialismo a Venezia negli anni Cinquanta, in L. M. Barbero, Spazialismo: Arte astratta…, pp. 53-55; Giorgio Cortenova, Mario Deluigi e lo spazialismo veneziano, in T. Toniato, Modernità allo specchio…, pp. 211-23.

[43] Dino Marangon, Venezia, in L. Caramel, Arte in Italia…, p. 229.

[44] Si tratta del VI Manifesto sottoscritto anche da Ambrosiani, Burri, Crippa, Deluigi, Dova, Donati, Fontana, Giancarozzi, Guidi, Joppolo, La Regina, M. Dilani, Morucchio, Peverelli, e Vianello.

[45] Pietro Zampetti, in Tancredi, mostra retrospettiva organizzata dal comune di Venezia, Assessorato alle Belle Arti e dal Casinò Municipale, catalogo della mostra, (Venezia, Ca’ Vendramin Calergi, 25 novembre 1967-18 gennaio 1968), Venezia, Fantoni Artegrafica, 1967, (senza paginazione).

[46] Ivi, Pagine di diario.

[47] Secondo Luca Massimo Barbaro la mostra non si tiene, come spesso viene erroneamente indicato, nel Ridotto della Fenice.

[48] Questo manifesto viene considerato da Giani come il “VII Manifesto dell’Arte Spaziale” e alla mostra veneziana parteciparono: Bacci, Capogrossi, Crippa, Deluigi, De Toffoli, Dova, Donati, Fontana, Guidi, Matta, Morandi, Peverelli, Serpan, Tancredi, Vinicio Vianello.

[49] Le notizie su Bacci e Morandis sono ricavate da D. Marangon, Spazialismo a Venezia, in Spazialismo a Venezia…, pp. 39-40; L. M. Barbero, Gli artisti e lo spazialismo veneziano a Venezia negli anni Cinquanta e Chiara Bertola, La Fondazione Bevilacqua La Masa negli anni Cinquanta, in L. M. Barbero, Spazialismo: Arte astratta…, pp. 56-63 e pp. 118-19.

[50]Toni Toniato, Introduzione, in Spazialismo a Venezia…, p. 12.

[51] «Sembra, comunque, che l’idea di spazio che prevale in questi artisti veneziani sia quella preferita da Joppolo piuttosto che da Fontana, quella cioè di una teoria dello spazio più legata ad un senso del magico e del malioso, piuttosto che a temi specificatamente scientifici.» in Paola Sega Serra Zanetti (a cura di), Arte astratta e informale in Italia (1946-1963), Bologna, Clueb, 1995, cit., p. 139.

[52] Giovanni Bianchi, Mario Deluigi: un maestro nella Venezia degli anni Cinquanta, in Giovanni Granzotto e altri (a cura di), Da Venezia alla Venezia Giulia. Gli anni dello spazialismo veneziano e della ricerca friulana e giuliana, catalogo della mostra, (Pordenone, Villa Galvani, 23 settembre-21 novembre 2004), Dosson di Casier (TV), Matteo, 2004, cit., p. 16.

[53] M. G. Messina, Venezia anni cinquanta: il turbamento della pittura, in M. G. Messina, Venezia 1950-59. Il rinnovamento…, cit., p. 19.

[54] C. Bertola, La fondazione Bevilacqua La Masa negli anni Cinquanta, in L. M. Barbero, Spazialismo: Arte astratta…, cit., p. 119.

[55] Lucio Scardino, Spazialismo veneziano, in Andrea Fabbri (a cura di), Spazialismo e dintorni. Venezia 1950-1960: “Gli anni del cambiamento”, catalogo della mostra, (Ferrara, Galleria Arte Più), Ferrara, Arte Più, 1999, (senza paginazione).

[56] Un episodio molto curioso ha come protagonista il noto De Pisis, che un giorno, con fare scherzoso, si reca da Cardazzo con un piccolo dipinto “spaziale”, D. Marangon, Spazialismo a Venezia, in Spazialismo a Venezia…, p. 44. 

[57] G. Granzotto, Spazio veneziano, atmosfere friulane e luci giuliane, in G. Granzotto e altri, Da Venezia alla Venezia Giulia…, p. 26.

[58] T. Toniato, Ricerche parallele, in Spazialismo a Venezia…, pp. 51-52.

[59] Dino Marangon, Le Venezie, in Carlo Pirovano (a cura di), La pittura in Italia. Il Novecento/2: 1945-1990, tomo I, Milano, Electa, 1993, p. 442.

[60] Antonello Negri e Carlo Pirovano, Esperienze, tendenze e proposte del dopoguerra, in C. Pirovano, La pittura in Italia…, p. 43.

[61] La mostra commemorativa dedicata a Gino Rossi alla Biennale del 1948, ha certamente contribuito ad alimentare l’interesse per l’opera di questo pittore.

[62] Dino Marangon, Modernità, tradizione, libertà oltre l’astrattismo e l’informale: lo spazialismo a Venezia, in G. Granzotto e altri, Da Venezia alla Venezia Giulia…, pp. 44-45.

[63] G. Marchiori, L’arte a Venezia dopo il 1945, in G. Marchiori, Il Fronte Nuovo…, p. 22.

[64] Licio Damiani, Trieste-straniamento di confine, in Licio Damiani (a cura di), Friuli Venezia Giulia. L’arte del Novecento, Pordenone, Biblioteca dell’immagine, 2001, pp. 161-65.

[65] G. Grazotto, Spazio veneziano, atmosfere friulane e luci giuliane, in G. Granzotto e altri, Da Venezia alla Venezia Giulia…, pp. 26-27.

[66] Antonello Negri, Lojze Spacal, in Antonello Negri (a cura di), Pittori del Novecento in Friuli Venezia Giulia, Udine, Magnus, 2000, p. 278.

[67] Ivi, pp. 132-33.

[68] Ivi, p. 200.

[69] L. Damiani, Nel clima del Neorealismo, in L. Damiani, Friuli Venezia Giulia…, p. 143.

[70] Ivi, p. 132.