I cavalli nei 
		ritratti di George Stubbs
		 
		
		Alessandra Doratti
		
		 
		 
		
		
		
		Dicono che gli inglesi si dividono in due categorie: quelli che 
		considerano i cavalli alla stregua di creature semidivine e quelli che 
		li vedono, invece, come banalissime bestie con la coda lunga. Forse le 
		cose non stanno proprio così, ma una parte. di vero ci deve essere se, 
		ancora oggi, circolano tanti aneddoti al riguardo.
		Quando George Stubbs, insigne pittore settecentesco e grande ritrattista 
		di bellezze equine, si ritirò in una fattoria solitaria del Lincolnshire 
		per dedicarsi, anima e corpo, allo studio dell'anatomia del cavallo.
		In quella circostanza la gente del posto lo accolse con una certa 
		perplessità. Di più, risultò strano che un pittore potesse sprecar il 
		proprio talento con soggetti tanto insignificanti. Pare che Stubbs, 
		allora trentenne, dotato di un fisico possente e di una forza 
		leggendaria, un giorno avesse attraversato il villaggio curvo sotto il 
		peso di una gigantesca carcassa di cavallo, confermando ai suoi semplici 
		compaesani quello che già sospettavano: il povero giovane era un po' 
		matto. Stubbs, in realtà, era soltanto innamorato dei cavalli e, 
		superiore alle incomprensioni e alle derisioni, se ne rimaneva chiuso 
		nel suo studio a disegnare minuziosamente muscoli, ossatura e interiora 
		degli animali prediletti. Stava creando un'opera meravigliosa — nulla a 
		che vedere con un freddo tratto di anatomia - un lavoro ponderoso nel 
		quale si mescolavano lo scrupolo scientifico, lo splendore dell'arte e 
		l'ispirazione di un poeta della natura.
		L'opera era illustrata con decine di minuziosi disegni nei quali ogni 
		particolare della struttura equina era indagata con lucida curiosità e 
		riprodotto con autentico afflato artistico e creativo.
		Dopo la pubblicazione della sua monumentale "Anatomia del cavallo", 
		Stubbs divenne una celebrità e cominciò a lavorare per i rappresentanti 
		della nobiltà inglese che gli commissionavano i ritratti dei loro 
		purosangue.
		Questo genere artistico, così tipicamente anglosassone, conobbe con lui 
		(nato a Liverpool nel 1724 e morto a Londra nel 1806) il suo massimo 
		splendore. Stubbs, però, non ne fu soltanto il più alto interprete, ma 
		anche colui che ne rivoluzionò lo stile.
		Fino ad allora, gli amati cavalli erano stati rappresentati come animali 
		rigidi, vagamente impettiti, dallo sguardo affannato, poco diversi da 
		eleganti manichini, con Stubbs, invece, si trasformano in creature da 
		fiaba e da tragedia, ciascuna con un proprio carattere, uniche e 
		irripetibili. Lanciate in corse sfrenate, il mantello lucido, le vene 
		pulsanti sotto la pelle, hanno lo sguardo balenante, come dominato da 
		demoni misteriosi.
		Si racconta che Stubbs, durante un viaggio in Africa, in una calma notte 
		di luna, abbia assistito a una silenziosa lotta tra un bianco cavallo 
		berbero e un leone, sbucato improvvisamente dalla foresta per saltargli 
		alla gola. Questa scena, che gli si presentò davanti agli occhi con lo 
		splendore di un'apparizione, colpi profondamente la sua fantasia e 
		divenne il tema ricorrente di alcuni dipinti. Le sue opere più celebrate 
		sono però quelle di gruppo, con i cavalli riuniti in mandrie, 
		placidamente dimenticati del mondo degli uomini, intenti a strani 
		consessi all'ombra delle querce in un paesaggio arioso e remoto. Dopo il 
		soggiorno nel Lincolnshire, l'artista abbandonò le brughiere del proprio 
		paese e scese in Italia, ma il classicismo non lo commosse più di tanto. 
		Al ritorno, dichiarò di avere imparato ben poco, dal momento che la 
		natura era superiore a tutte le arti umane. Coerentemente con questa 
		filosofia, i suoi superbi purosangue, qualche volta sono ritratti con 
		stallieri e fantini, più raramente con nobili e nobildonne, ma non 
		offrono mai occasioni di mondanità, perché Stubbs li vede sempre come 
		l'espressione più alta della perfezione della libertà della natura.
		Il suo desiderio si incrociò con quello di Eclipse, il più 
		celebrato destriero del Settecento, che la "Summerhay's Encyclopaedia 
		for horsemen" definiva con adorazione "incontestabilmente il più grande 
		cavallo di razza del suo secolo e, prendendo in considerazione la 
		predominante influenza della sua progenia, il più grande di tutti i 
		tempi; oltre cento dei suoi discendenti, infatti, hanno vinto il Derby".
		Il favoloso purosangue, partorito durante l'eclissi del 1 aprile 1764, 
		(e da quell'evento prese il nome) venne allevato da William August, Duca 
		di Cumberland, a Windsor e, alla morte del proprietario, passò per 75 
		ghinee a William Wildman.
		Stubbs lo ritrasse più volte e, per quanto possa sembrare paradossale, 
		l'importanza del cavallo riflette l'importanza del pittore.
		Qualche anno fa la Tate Gallery di Londra ha dedicato ai cavalli di 
		Stubbs una grandissima mostra, vera gioia per gli appassionati, che 
		hanno potuto ammirare circa duecento opere. 
		Naturalmente, anche se parlando del cavallo in pittura è impossibile non 
		cominciare da Stubbs, moltissimi furono gli artisti che, come lui, 
		tentarono di esprimere il fascino: da John Ferneley a Ben Marshall ai 
		due Herring, padre e figlio. Uno dei più rappresentativi e 
		l'ottocentesco John Frederick Herring senior, autore di scenografici 
		dipinti di soggetto equestre che incarnarono un'anima profondamente 
		diversa da quella di Stubbs. Con lui, infatti, cambiano i colori, 
		l'atmosfera, il mondo stesso dei cavalli. Herring è il minuzioso, 
		appassionato pittore delle grandi corse ippiche anglo-sassoni, in 
		particolare quella di Doncaster, di cui ritrasse parecchie edizioni. Lo 
		stile è inconfondibile: le sagome dei purosangue sono enormi, 
		lunghissime, tese nello spasimo della corsa, mentre i fantini, per 
		contrasto, sembrano ancora più piccoli e stretti nei loro giubbetti dai 
		colori sgargianti. Sullo sfondo, il pubblico (tante figurette minuscole 
		dipinte con pazienza certosina) si assiepa lungo il percorso di gara, e 
		sembra straripare dall'alto dei palchi.
		Herring dipinse con James Pollard la "Doncaster Gold Cup", disputata nel 
		1838 e vinta da Don John, un purosangue di tre anni, di proprietà del 
		conte di Chesterfield. I due artisti si divisero i compiti: Herring 
		ritrasse i cavalli, Pollard si occupo' delle tribune gremite. Un popolare 
		giornalista sportivo del secolo scorso scrisse che le loro scene 
		sembravano preparate su un blocco di schizzi di cavalli ideali, con 
		qualche rapido studio dal vivo.
		In effetti, dalle opere di Herring, dove cavalli e fantini sono 
		impegnati allo spasimo, emana uno strano senso di irrealtà, un silenzio 
		fuori dal tempo, non privo di suggestioni metafisiche.
		
		
		 
		
		
		
		Alessandra Doratti