I BENI CULTURALI:

RICOGNIZIONE NEL CAMPO LEGISLATIVO E CONSEGUENTI RIFLESSIONI

 

 

Simona Fuscà

 

 

 

 

 

I. Un campo vastissimo

Voler parlare di beni culturali significa implicitamente immettersi in un campo di ricerca vastissimo di cui a stento si intravedono i confini. Non solo, infatti, è possibile trattare l’argomento da diversi punti di vista dal momento che esso si colloca all’incrocio di diverse direttrici – s’interseca, infatti, con la storia dell’arte, con la storia dell’economia, con la storia sociale ecc. –, non solo delle questioni inerenti i beni culturali si è occupato un numero immenso di studiosi. A ciò si aggiunga il fatto che ormai l’arte ha cambiato tante volte aspetto ed ha incluso, al suo interno, oggetti tanto enigmatici ed inusuali – basti qui il riferimento a Fountain di Duchamp, oppure a A real Work of Art di Wallinger – da spingere molti a domandarsi quale sia, a questo punto, il confine con ciò che arte non è. Come afferma Nigel Warburton (2003, pp. IX-X)

 

la questione dell’arte consiste nella domanda «che cos’è l’arte? », che è stata rilevante sia nell’estetica  sia nella pratica artistica del XX secolo. [...] Mentre sto scrivendo questo libro l’artista belga Francis Alis ha deciso di mandare alla Biennale di Venezia un pavone vivo anziché presentarsi di persona. L’attività del pavone è presentata come un’opera d’arte intitolata The Ambassador. [...] Gli artisti [...] vedono nel lavoro dei loro predecessori una teoria dell’arte implicita, che confutano con decisione grazie a un contro-esempio ben scelto. Col tempo questi stessi contro-esempi vengono assorbiti nel mainstream e perdono il loro potere di scioccare, diventando infine il bersaglio di una nuova avanguardia. E così l’arte evolve in direzioni strane e imprevedibili.

 

 

II. Alcuni punti fissi

II.1. Indagine legislativa

Tutto ciò mostra come sia quindi possibile estendere veramente all’infinito la definizione dei beni culturali. Per evitare dunque di perdersi in questo infinito campo d’indagine è importante stabilire alcuni punti fissi in modo da comprendere meglio cosa siano i beni culturali; la legislazione vigente in merito sembra prestarsi bene a questo tentativo.

Il sistema normativo relativo ai beni culturali ha ottenuto solo recentemente la necessaria attenzione scientifica, anche se ha una lunga storia dietro di sé. Innanzitutto è opportuno chiarire che il Codice Civile attua una chiara distinzione tra “cosa” e “bene”. Una “cosa” dal punto di vista giuridico è una parte della materia determinata dalla sua consistenza fisica e percepibile con i sensi o con strumentazioni apposite, mentre il “bene” (art. 810) è tale nella misura in cui è oggetto di diritto, cioè può essere suscettibile di utilizzo o sfruttamento economico e capace di soddisfare bisogni singoli o collettivi. Importante per comprendere cosa si intenda per beni culturali è la distinzione, attuata sempre dal Codice Civile, tra beni mobili e immobili, fungibili e infungibili e, infine, tra beni pubblici e privati.

         Beni mobili e immobili. Sono immobili (art. 818) i beni direttamente infissi al suolo e quindi il suolo stesso, sono mobili tutti gli altri beni.

         Beni fungibili e infungibili. Nel Codice si fa spesso menzione al concetto di fungibilià ed infungibilità. Sono beni fungibili tutti quelli che senza danno possono essere scambiati con altri della stessa specie, sono infungibili i beni insostituibili, quindi i beni culturali sono intrinsecamente infungibili

        Beni pubblici e privati. I beni pubblici (art.822) si distinguono da quelli privati poiché appartengono allo Stato, alle sue articolazioni territoriali e agli altri Enti Pubblici.

Fornite queste iniziali nozioni preliminari, è possibile procedere e puntualizzare quindi il fatto che la locuzione “bene culturale” è relativamente recente. Volendo stabilire l’esatta origine del termine, si viene a conoscenza che esso risale agli anni Cinquanta, quando è stato utilizzato nel corso di una conferenza UNESCO, più precisamente Girolamo Sciullo (2003, p. 1) ricorda che ci si deve in questo caso riferire alla “Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto” (L’Aia, 1954) ratificata con la l. 7 febbraio 1958 n. 279.

Successivamente la locuzione “entra in circolo con i lavori della Commissione Franceschini, istituita nel 1964 e diviene di ufficiale utilizzo [...] con il d.l. 14 dicembre 1974, n.675, conv. nella l. 29 gennaio 1975, n. 5, istitutivo del ministero per i Beni culturali e ambientali” (Sciullo, 2003, p. 1).

Attualmente, infine, la nozione di “bene culturale” risulta “desumibile dagli artt. 10 e 11 del d. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e succ. mod., recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’art. 10 della l. 6 luglio 2002, n. 137” (Sciullo, 2003, p. 2).

Si riportano di seguito gli artt. 10 e 11 del Codice in modo da chiarire in maniera esaustiva e precisa che idea ci si debba fare quando oggi, ai sensi della legge, si parla di “beni culturali”.

 

 

Articolo 10
Beni culturali

 

1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.

2. Sono inoltre beni culturali:
a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico.

 

3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall'articolo 13:
a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1;
b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante;
c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale;
d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose;
e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico.

 

4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a):
a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà;
b) le cose di interesse numismatico;
c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio;
d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio;
e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio;
f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico;
g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico;
h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico;
i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico;
l) le tipologie di architettura rurale aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell'economia rurale tradizionale.

 

5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente Titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni.

 

 

Articolo 11
Beni oggetto di specifiche disposizioni di tutela

 

1. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 10, qualora ne ricorrano presupposti e condizioni, sono beni culturali, in quanto oggetto di specifiche disposizioni del presente Titolo:
a) gli affreschi, gli stemmi, i graffiti, le lapidi, le iscrizioni, i tabernacoli e gli altri ornamenti di edifici, esposti o non alla pubblica vista, di cui all'articolo 50, comma 1;
b) gli studi d'artista, di cui all'articolo 51;
c) le aree pubbliche di cui all'articolo 52;
d) le opere di pittura, di scultura, di grafica e qualsiasi oggetto d'arte di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, di cui agli articoli 64 e 65;
e) le opere dell'architettura contemporanea di particolare valore artistico, di cui all'articolo 37;
f) le fotografie, con relativi negativi e matrici, gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, le documentazioni di manifestazioni, sonore o verbali, comunque realizzate, la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni, di cui all'articolo 65;
g) i mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni, di cui agli articoli 65 e 67, comma 2;
h) i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di cinquanta anni, di cui all'articolo 65;
i) le vestigia individuate dalla vigente normativa in materia di tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale, di cui all'articolo 50, comma 2.

 

Come si può osservare, gli articoli non forniscono una definizione, per così dire, legale dell’oggetto della propria materia, nel senso che il legislatore in questo caso tende di più a ribadire che ogni singolo bene culturale debba avere interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico senza pretendere di tracciare un netto confine di separazione tra ciò che certamente è un bene culturale e ciò che non lo è. Infatti, tracciare il suddetto confine, ovvero decidere quale bene possieda effettivamente i quattro interessi fondamentali, non spetta al giurista né al legislatore bensì agli specialisti della materia (art.12 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio), come i Soprintendenti, e, tra l’altro, non è detto che anche questi ultimi siano totalmente privi di dubbi nello svolgere tale compito nel momento in cui si trovino di fronte a casi limite, ad oggetti rivoluzionari della storia dell’arte che oggi capita sempre più spesso di vedere.

Come abbiamo notato, la nozione di bene culturale per molti aspetti è chiarita nonché ben enucleata dal Codice dei Beni Culturali. Avvalora ancor di più l’affermazione precedente il fatto che è possibile sottolineare (Sciullo, 2003, pp. 20) la presenza di alcuni elementi unificanti la categoria dei beni culturali, essi sono:

         Il valore culturale. Questo elemento è fondamentale in quanto “capace di perimetrare la categoria, nonostante la molteplicità tipologica delle cose che la compongono” (ibidem).

         L’immaterialità. Infatti “il bene culturale è bene immateriale, perché immateriale è il valore culturale che opera da elemento di qualificazione della categoria” (ibidem).

         La pubblicità. Anche nel momento in cui ci si trovi davanti ad un bene culturale appartenente a privati, il bene culturale è bene pubblico “nel senso della necessaria fruibilità da parte della collettività del valore culturale” (ibidem).

Al momento stesso però non bisogna assolutamente dimenticare che la nozione di bene culturale, per ragioni intrinseche, resta materia aperta e, soprattutto, come ricorda il già citato Warburton (2003, p. X), nel tempo si evolve in direzioni strane e imprevedibili.

 

II.2. Relative riflessioni

Questa breve panoramica della situazione legislativa in materia di beni culturali è fondamentale non solo perché consente di chiarire un poco il nostro oggetto di indagine ma anche in quanto genera alcune importanti riflessioni.

Innanzitutto, purtroppo in nessuna parte della normativa viene fatta esplicita menzione ai beni culturali immateriali, lo conferma anche Sciullo (2003, p. 20). Ci si sta riferendo qui a tutti “quegli aspetti delle culture umane che non si esprimono attraverso oggetti, manufatti o edifici, ma che rinviano a forme e comportamenti, saperi e pratiche, rappresentazioni simboliche, orizzonti mitico-rituali in varia misura connessi con le produzioni materiali, oppure da esse del tutto slegate” (Ricci, Tucci, 2006, p. 39).

Da prendere in considerazione è anche il fatto che, come si è visto, dal punto di vista legislativo in linea generale è un bene culturale qualsiasi cosa mobile e immobile che rivesta almeno uno dei quattro ambiti fondamentali di interesse (si parla infatti di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico). Eppure, spesso si tende a pensare ai cosidetti beni-demo-etno-antropologici come a qualcosa di distinto dai beni culturali, come se ci fosse una linea di confine ben precisa tra i primi e le opere d’arte, quasi un rapporto di fratellanza che prevede però che i beni demo-etno-antropologici siano i “fratelli minori”. Basti prendere in considerazione le affermazioni di James Clifford (1993, pp. 261-262), secondo il quale

 

in linea di massima [...] il museo etnografico e il museo o la collezione d’arte privata hanno sviluppato modalità di classificazione distinte e complementari. Nel primo un lavoro di «scultura» è esposto insieme ad altri oggetti di funzione analoga o in prossimità di oggetti appartenenti al medesimo gruppo culturale, compresi gli artefatti utilitari come cucchiai, ciotole o lance. Una maschera o una statua possono essere raggruppate con oggetti fondamentalmente dissimili e spiegate come parte di un complesso rituale o istituzionale. I nomi dei singoli scultori sono ignorati o soppressi. Nei musei d’arte una scultura è identificata come creazione di un individuo: Rodin, Giacometti, Barbara Hepwort. Il suo posto nelle pratiche quotidiane (comprese il mercato) è irrilevante ai fini del suo significato essenziale. Laddove nel museo etnografico l’oggetto è «interessante» dal punto di vista culturale o umano, nel museo d’arte è innanzitutto «bello» o «originale».  

 

Clifford è autore di un importante testo che approfondisce questioni fondamentali per impostare la ricerca che in questa sede ci si propone di intraprendere. Egli prende prima di tutto in considerazione la mostra dal titolo “Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern organizzata al Museum of Modern Art nel 1984. Vi si espongono famose opere d’arte di maestri del calibro di Picasso accanto ai loro diretti ispiratori: gli oggetti tribali. Come è noto, nel primo decennio del XX secolo, Picasso e la sua cerchia iniziano a subire il fascino di oggetti che all’epoca sfuggivano al normale sistema di classificazione della produzione materiale e danno il via ad una rivoluzione determinante per gli sviluppi dell’arte. Ora che gli oggetti tribali suscitano interesse anche dal punto di vista estetico, diviene sempre più pressante la necessità di dare loro una nuova collocazione nel sistema occidentale delle arti, non ci si può più limitare a liquidarli come “oggetti primitivi”. La mostra organizzata al MOMA tenta di trovare una risposta a questa problematica segnalando l’esistenza di “una sfumata allegoria di relazione imperniata sulla parola affinità” (Clifford, 1993, p. 222) la quale legherebbe oggetti occidentali e non. In realtà, l’esistenza di una famiglia d’arte globale è più costruita che dimostrata al MOMA. Si tenta di mettere in luce, a riprova del legame tra le due categorie di oggetti, il loro concettualismo e la loro astrazione ma affermare che gli oggetti tribali “condividono con il modernismo un rifiuto di certi schemi naturalistici non significa dimostrare qualcosa come un’affinità” (Clifford, 1993, p. 224). Non è un caso che le sculture ife e benin, estremamente aderenti alla ricerca naturalistica, siano escluse dalla mostra e, inoltre, come afferma lo stesso Clifford (ibidem), sarebbe semplice allestire una rassegna altrettanto suggestiva per dimostrare nette dissomiglianze tra oggetti tribali e oggetti moderni, basta solo presentarli nel giusto modo. Clifford smaschera questa mistificazione segnalando, ad esempio, la giustapposizione della “Donna allo specchio” di Picasso ad una mezza maschera kwakiutl e facendo notare come in realtà questo tipo di artefatto sia di rarissima diffusione tra i popoli della Costa nordoccidentale. Lo studioso, a proposito di questa affinità, afferma che

 

la sua funzione è, qui, semplicemente di produrre un effetto di somiglianza (effetto, per la verità, dovuto all’angolatura della macchina fotografica). In questa mostra si produce un messaggio universale, «Affinità del tribale e del moderno», mediante l’accurata scelta e conservazione di uno specifico angolo visuale (Clifford, 1993, p. 226). 

 

In definitiva è evidente come in questo caso gli oggetti non occidentali siano stati sottoposti, in buona, o, molto più probabilmente, in cattiva fede, a una interpretazione basandosi esclusivamente su parametri facenti parte non della cultura africana bensì di quella occidentale. Osservare oggetti non occidentali dal punto di vista del sistema culturale occidentale equivale ad un’operazione di decontestualizzazione totale, al tentativo di fagocitare tutti i prodotti delle culture altre nell’impossibilità o nella non-volontà di comprenderli per quello che sono veramente.

 

Da nessuna parte, comunque, la mostra o il catalogo sottolineano una più inquietante caratteristica del modernismo: la sua inclinazione ad appropriarsi dell’alterità o riscattarla, a costituire a propria immagine le arti non-occidentali, a scoprire capacità «umane» universali, astoriche (Clifford, 1993, p. 225). 

 

La conclusione a cui si arriva è che “dobbiamo diffidare da una tendenza quasi automatica a relegare i popoli e gli oggetti non-occidentali nei passati di un’umanità sempre più omogenea” (Clifford, 1993, p. 282) perché la realtà è ben diversa: “vi sono altri contesti, altre storie, altri futuri a cui gli oggetti e le testimonianze culturali possono «appartenere»” (ibidem).

Sulla base di quanto finora detto, appare molto più chiara la direzione che qui si tenta di dare all’indagine di beni culturali e oggetti materiali. Senza mai dimenticare la natura immateriale degli oggetti di cui si intende parlare, da un punto di vista antropologico non è assolutamente pensabile tracciare una netta cesura tra le due categorie nel tentativo di creare un catalogo delle “vere” opere d’arte da tenere separate da tutti gli altri oggetti. Né, al contrario, è possibile leggere le produzioni materiali peculiari di una determinata cultura senza prima tentare di comprendere il sistema di valori che vige in quest’ultima, altrimenti si rischia di cadere in errori di interpretazione simili a quelli compiuti al MOMA. In altre parole i beni culturali sono oggetti materiali e, come tali, vanno contestualizzati nel sistema culturale da cui provengono. E non è assolutamente detto che i persino i moderni ed indiscussi templi della conservazione, i musei, siano completamente immuni da cattive interpretazioni e, quindi, dal rischio di decontestualizzazione e mistificazione. In effetti, Clifford (1993, pp. 284-285) ricorda come

 

il «giusto» posto di molti oggetti nei musei è oggi contestato. Gli zuñi che impedirono il prestito del loro dio della guerra al Museum of Modern Art sfidavano il sistema arte-cultura vigente, poiché le immagini del dio della guerra, secondo la loro credenza ancestrale, sono sacre e pericolose. [...] Gli sviluppi attuali mettono in questione lo status stesso dei musei come teatri storico-culturali della memoria. La memoria di chi?  

 

 

 

Simona Fuscà

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

-          C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, 2003, Il diritto dei beni culturali, Bologna, il Mulino.

-          J. Clifford, 1993, I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura, arte nel secolo  XX, Torino, Bollati Boringhieri.

-          Codice Civile, 2010.

-          Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, 2004.

-          A. Ricci, R. Tucci, 2006, “Immateriale”, in Antropologia Museale, 14, pp. 39-41.

-          N. Warburton, 2004, La questione dell’arte, Torino, Einaudi.