Guglielmo Ciardi,  poeta di luci e di silenzi

(Venezia 1842 – Venezia 1917)

 

Walter Abrami

 

 

 

Le vicende umane ed artistiche di Guglielmo Ciardi non hanno aspetti rilevanti da “offrire” agli storici e nemmeno accenti straordinari che consentano alla critica odierna elementi nuovi di studio, intuizioni motivate da eventi, da esperienze europee documentate, da connubi artistici o da forti legami d’amicizia oltre a quelli noti stretti con Federico Zandomeneghi,  Luigi Cima e Giacomo Favretto; purtroppo si sa ben poco anche del suo viaggio a Parigi effettuato nel 1878 (unico appunto inconsueto!), in compagnia del giovane Favretto.

Dovette essere un episodio esaltante per i due pittori veneti: la solenne inaugurazione dell’Esposizione Internazionale fu avvenimento esaltante e la città li stupì senz’altro!

Discorrendo di Favretto ebbi già modo di parlarne in queste pagine anche se non esistono dipinti là eseguiti che ci consentano argomentazioni specifiche.

 In questi giorni di settembre in cui ricorre l’anniversario della  nascita di Ciardi avvenuta a Venezia il 13 settembre 1842 quando la città fu da poco illuminata  a gas e in un periodo in cui nell’Italia centrale si manifestarono tendenze libere e nazionali per opera degli scrittori toscani Giusti, Guerrazzi, Nicolini e dei piemontesi Gioberti, Balbo e D’Azeglio, piace ricordarlo seduto ai tavolini del caffè Michelangelo di Firenze con notes e matite appresso. Caffè famoso che aveva ospitato nel decennio 1880-1890 anche Zandomeneghi:  fu ritrovo d’artisti e  Guglielmo non vi capitò a caso.

Dove son finiti quei disegni, quelli schizzi?

Probabilmente all’uomo Ciardi (ebbe un fisico atletico, spalle larghe,  capelli castani, una barba bionda ben curata,  una calda  voce suadente, fu discreto, malinconico e apprezzato in vita), soprannominato “il duca di San Barnaba” poiché sempre vestito  elegantemente e imperioso nell'aspetto  (viveva con la moglie Linda Locatello in un Palazzo in Fondamenta Alberti),  piacerebbe  più essere ricordato in uno dei suoi momenti contemplativi presso un’ansa del Sile, vicino un ruscello montano o in piena solitudine nella luce iridescente di un tramonto in laguna.

Di lui parecchio si è detto e si è scritto nonostante la sua bibliografia risulti piuttosto modesta rispetto l’importanza che ebbe il pittore nel suo tempo; esiste una  monografia dei Pospisil scritta a quattro mani da due mercanti che possedevano un numero cospicuo di sue opere. Lo spessore scientifico di tale volume è irrilevante, ma sono invece importanti sia la documentazione fotografica che la bibliografia riportata.

Nell’anno accademico 2000/2001 presso il dipartimento di Storia e critica delle arti “G. Mazzariol” di Venezia, il docente Nico Stringa ha condotto un corso dal titolo La pittura di paesaggio nell’Ottocento italiano e l’opera di Guglielmo Ciardi;  prima di tale approfondimento altre pagine brillanti (e pure discordanti opinioni sulla sua opera) hanno destato curiosità.

Nel 1909 così scrisse V. Pica: “Il bisogno di piacere (…) non ha mai rappresentato per il Ciardi un calcolo per conquistare più facilmente il favore del pubblico, e si manifesta come ingenuo ed istintivo.  (…) Alcuni anni fa, più di un critico si sentì mosso ad esprimere il timore che il Ciardi si lasciasse vincere dal desiderio morboso di correggere e d’illeggiadrire la realtà e che, allontanandosi, senza rendersene conto esatto dall’osservazione schietta della natura, scivolasse in quel manierismo che congela le più belle attitudini di un artista.”

Se l’ultimo periodo d’attività del vedutista fu assai meno brillante degli anni che segnarono il suo successo ed egli ricerca la piacevolezza che esalta i ricchi committenti e la leggiadria raggiunta un tempo poi mai superata, non ha in ogni caso inficiato le capacità tecniche raggiunte nella maturità.

Devono essere ricordate perlomeno le osservazioni e le note critiche di Boito, Molmenti, Pica, Sapori, Comanducci, Barbantini, Ojetti, Perrocco, Menegazzi (autore nel 1991 di una monografia per le edizioni dei Soncino) Scotton e Pavanello.

Mai, tuttavia (esclusi gli studiosi ai quali  le pagine inevitabilmente sono dirette), esse hanno  procurato l’interesse d’alcuni straordinari esiti di vendita d’importanti case d’aste, sicché l’attenzione rivolta dai collezionisti e dagli appassionati ai dipinti di Ciardi è progressivamente aumentata fino ai giorni nostri.

Mi è capitato di vedere dipinti firmati Ciardi a Trieste, a Treviso, a Cortina, a Glasgow, a Monaco e recentemente a Buenos Aires (niente di strano si obbietterà) e alcune copie coeve di suoi noti soggetti; ma dipinti del veneziano sono pure conservati a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a Udine, Torino e Genova Nervi (nelle rispettive  Gallerie d’Arte Moderna), nel Museo Civico di Bassano, a Novara nella Galleria Civica Giannoni, a Milano nella Pinacoteca di Brera, a Venezia  in Ca’ Pesaro, nella raccolta Gaetano Marzotto di Valdagno e in tanti altri posti pubblici e privati non solo in Italia. Analizzando attentamente alcune opere minori acquistate negli anni Trenta talvolta sono emersi  sospetti, ma ciò è inevitabile. Ciardi fu pittore più d’altro fortunato: figlio di Giuseppe, agiato segretario della Contabilità di Stato arrivato a Venezia  dal polesine, a differenza di molti  illustri colleghi, giovane esordiente o artista affermato, non ebbe  l’assillo di dover vendere  le sue opere per sopravvivere. Vantaggio indubbio per un artista, circostanza favorevole si dirà!

Ma nel corso della sua vita tale situazione  gli impedì di cautelare la sua produzione pittorica ed egli commise ingenuità imperdonabili. Il perché è presto spiegato: qualsiasi pittore professionista o dilettante che sia, dovrebbe far molta attenzione alla gestione personale delle proprie opere, regalare poco (chi non acquista un dipinto spesso si vanta di averlo ricevuto in regalo e danneggia sia i galleristi che  espongono le opere dell’autore, sia  il “mercato” personale che ogni artista riesce a sviluppare e ad incrementare con gli anni), ricordare nel tempo quanto realizzato e venduto (e possibilmente anche a chi), insegnare pure, se necessario, ma, per così dire…rimanere sempre… alto sulla pedana. Questo Ciardi non fece e  spesso ripeté con l’abilità del  mestierante consumato, le marine  a lui più richieste. Quando nel 1894, pittore ormai famoso ottenne la cattedra all’Accademia delle Belle Arti e prese il posto che era stato del suo maestro Bresolin, fu entusiasta, dinamico, generosissimo, ma  soprattutto prodigo di consigli con tutti coloro che nutrivano la sua stessa passione. Tra i suoi allievi si devono menzionare Baldessari, Maria Vinca, Lina Rosso, Umberto Moggioli, Luigi Cobianco e  i figli Beppe ed Emma pure noti artisti.

Il suo insegnamento, diviso in tre corsi annuali, prevedeva la copia dei suoi disegni da parte degli allievi, la conseguente realizzazione di un dipinto partendo dagli appunti grafici ed infine la ripetizione di altri lavori sulla tela. Come spesso notato diverse opere  di Ciardi ritenute false, non sono che diligenti copie effettuate dagli allievi più bravi con il suo avvallo o il suo intervento diretto in alcune parti e talvolta…persino, da lui stesso firmate!!

La storia dell’arte è ricca di succosi aneddoti sulle copie d’autore e per “fortuna” dei proprietari, i quadri beffa-Ciardi non hanno la valenza delle sculture-beffa Modigliani!

 

 

Il Sile non è l’Arno!

 

Ciardi disegnò parecchio eppure poco resta di tale esercizio; due le principali raccolte: quella della Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro (25 pezzi donati in parte dal figlio Beppe) e quella, già Pasinetti, acquisita dalla Cassa di Risparmio di Venezia formata da una settantina di fogli.

La prima è caratterizzata dal colore azzurro di parecchie  carte e il blocco mostra spesso  il suo animo di verista intransigente. Lo scorcio del Mercato a Badoere (di cui esistono anche dipinti ad olio) sembra realizzato  all'aperto ieri l’altro in uno dei più classici mercatini domenicali veneti, Laguna pare  la prima fonte d’ispirazione di varie opere eseguite agli inizi del secolo successivo dai triestini Giuseppe Barison, Guido Grimani, Ugo Flumiani, Giuseppe Zangrando e Gianni Brumatti; eppure i dipinti dei giuliani furono eseguiti nelle scomparse  saline di Zaule o in quelle  visitabili di Sicciole  (ora Croazia).

Analogie solo apparentemente strane.

Parecchi dipinti di Flumiani hanno affinità con il disegno Case in Montagna ma anche altri artisti giuliani guardarono al pittore.  Alcuni disegni di Ciardi si trovano nel Gabinetto Disegni e Stampe agli Uffizi di Firenze e qualche schizzo esiste presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano.

Tutti i disegni ci testimoniano la sua innata vena poetica; egli fu  sicuro nel tratto, osservatore deciso e persino meticoloso “fotografo” ne La biancheria al sole.

Amò sempre i paesaggi e trovò spunti felici ovunque si recasse.

Talora colse in un sottoportico un Contadino che dorme con il capo chino su un tavolo di legno quasi “sorvegliato”, “custodito”, da un’immagine sacra posta sulla muro, tal altra una lavandaia con il suo cesto di panni presso l’acqua corrente o una contadina con gli animali al pascolo; ad Ariccia, ad Ospitaletto o a Venezia dipinse  scene quiete,  sempre  rasserenanti e sentite nei suoi prediletti formati orizzontali e spazi grandangolari vigilati nelle possibili distorsioni fotografiche di linee verticali.

Spazi panoramici, ma al contempo intimi.  Talora il richiamo al Canaletto e al Guardi ha …fondamento ottico. Nel secolo di Canaletto la camera portatile da disegnare fu universalmente conosciuta e largamente prodotta tanto nella forma a portantina (ermetica ma ingombrante) quanto nella forma ridotta “a tendine”. Nel corso del Settecento, in Italia e fuori, videro la luce numerose pubblicazioni a stampa dove s’insegnava l’uso della camera per il disegno e la pittura: basterà richiamarci all’Algarotti, che, senza menzionare  il ricalco, esplicitamente accenna allo specchio, alla lente e al foglio bianco che funge da schermo. Nessun dubbio pertanto che possa trattarsi d’apparecchio con osservatore interno. Malgrado la lente (o le lenti), la camera richiedeva molta luce naturale.

In un’incisione riportata dal Watson è chiaro che si operasse in pieno sole.

L’operatore si fa riparare con l’ombrello sia per il caldo, sia per smorzare un po’ l’intensità dei raggi che inevitabilmente filtravano oltre le cortine dell’apparecchio. E si pensi, come osserva Ettore Camesasca, al “bello costante” della meteorologia bellottiana.

Ma, come disse Ciardi ad Ojetti, “la miglior tecnica è quella più semplice” e se pure è un caso che Guglielmo dipingesse spesso sotto un ombrellone bianco divenuto familiare ai contadini di Quinto di Treviso dov’egli si recò spesso durante l’estate, niente male. Nella seconda metà del secolo non fu l’unico a servirsi di  lastre fotografiche per ricordare particolari o studiare dettagli in studio.

Un esempio di tale azione potrebbe essere la Marina a Capri dove tutti i personaggi sistemati in posa scenografica sono pressoché immobili e le loro ombre ci aiutano a capire che il fotografo ha evitato il mosso e non ha scattato  in controluce e Canal Grande che ha consonanze con il modo di inquadrare di Ettore Tito; il dipinto, assai spettacolare, fu ripetuto più volte specialmente per committenti stranieri in cerca dei soggetti tipici veneziani.

E se Nino Costa  suggerì a Ciardi di partire dal bozzetto plein air  per basare su di esso la ricerca successiva e Filippo Palizzi lo incoraggiò ad abbandonare le esercitazioni accademiche per la ricerca del vero è da Federico Rossano che egli desume quella sintesi costruttiva che la fotografia già possedeva. A rendere suadenti molte tele del pittore sono tuttavia gli equilibri tonali, i colori sobri, le finezze cromatiche, l’aria di solitudine che si respira e soprattutto il silenzio attraverso il quale l’opera sembra “avvolgere” lo spettatore. E l’impressione che si avverte, è che la tela  misurata ed equilibrata sia nei soggetti montani che di mare, trattenga il rumore dell’acqua di un ruscello che scorre o il fruscio dei gabbiani nei loro voli radenti sul mare lasciando ai lati le barche dei pescatori o la risacca delle onde lievi. Ciardi è  pittore del silenzio arioso e del mare immobile, sereno.

Barbantini che osservò i suoi paesaggi, lo definì “il pittore ottimista della campagna trevigiana”, Somarè scrisse che dipingeva facilmente bene, Bassi rilevò come con lui e Fragiacomo si concluda il vedutismo veneto.

Ciardi dunque non dipinse soltanto le distese lagunari, le barene illuminate dal sole, i bragozzi, le Vele al tramonto, le gondole, la Laguna di San Giorgio e squillanti luminose vedute de Il Canale della Giudecca che risulta uno dei suoi soggetti preferiti. Rappresentativo in tal senso è  Mattino alla Giudecca, uno delle opere più incantevoli conservate nel Museo Revoltella di Trieste.

Queste marine venete sono senz’ombra di dubbio le più apprezzate, ma egli dipinse pure il mare in Italia meridionale, osservò la campagna circostante Napoli, lavorò a Capri, a Salerno a Sorrento, ai laghi d’Averno e di Licola. Nel 1868, a ventisei anni, su consiglio di Zandomeneghi lasciò infatti Venezia per un viaggio d’istruzione che lo portò a Firenze (dove lavorò con Telemaco Signorini, frequentò Diego Martelli e si accostò alla pittura dei macchiaioli), a Roma e a Napoli.

Nella città partenopea conobbe Domenico Morelli al quale fu indirizzato da Pompeo Molmenti, il Rossano di cui si è fatto cenno, Filippo Palizzi e venne a contatto con i pittori delle scuole di Posillipo e di Resina. Non va dimenticata la sua passione la montagna che frequentò e conobbe assai bene.

Nel 1885 fu nell’Agordino, l’anno seguente a Fiera di Primiero, tra l’’87 e l’89 andò a San Martino di Castrozza…forse sbigottito dai primi scioperi dei gondolieri!

Dipinse sul Grappa, ad Asiago, in Carnia, in Cadore a Sappada, in Val di Primiero, in Val Visdende, ad Alagna, a Canove dove acquistò una casa, ma anche a Schilpario in Lombardia.

Ebbe un’attività intensissima anche nella campagna trevigiana poiché soggiornò più volte in una villa del  padre  a Quinto di Treviso dalle cui finestre vedeva il Montello  e ad Ospitaletto di Istrana.

A Quinto il Sile si allarga a formare quasi un lago. L’importante sequenza dei mulini che formano il nucleo centrale del paese sta a testimonianza dell’importante “industria” molinaria del corso d’acqua poiché non va dimenticato che Treviso e dintorni erano considerati “il granaio della Repubblica” e da qui arrivava a Venezia gran parte della farina. Una delle prime opere eseguite in terraferma è  la gran tela,  ora proprietà della Cassamarca, Una giornata di novembre dove Ciardi esalta le terre, i gialli e le ocre  che gli consentono  di magnificare la morbida, delicata, soffusa  atmosfera  della pianura veneta in un quieto momento della giornata autunnale.  Così il pittore scopre di volta in volta  gli incantevoli paesaggi sul fiume dove l’acqua nasce dal greto come per magia silenziosa e al suo tempo limpida, i piccoli sentieri prospicienti che caratterizzano  le sue basse sponde, i riflessi sulle sue acque, il lavoro dei contadini, le trasparenze dei cieli o il biancore del vago orizzonte.

Il Mulino sul Sile o Il Sile a Quinto fu tra i soggetti più amati; esistono diversi disegni preparatori di questo tranquillo angolo di campagna; il barcaiolo accosta con abilità la sua piccola imbarcazione e la posizione del corpo ricorda gesti antichi consumati persino sulle sponde del  lago Inle dove i pescatori si destreggiano tra le isole galleggianti con riti eterni. La luce diventa  anche in questo quadro elemento fondamentale e imprescindibile del suo sentire e vivere il paesaggio prima di dipingerlo. La campagna si dilata piatta,  lontana in una panoramica cinematografica e i colori sono squillanti. Generalmente Ciardi predilesse le difficili gamme dei verdi e la variabile stesura degli azzurri; fu abile nel cogliere le sottili assonanze di colori nel corso della giornata preferendo quelli assolati che studiò a lungo con ricognizioni frequenti finalizzate ai suoi scopi nei luoghi di lavoro.

“Regista” di spazi ampi amò questa natura del suolo incerta tra la terra e l’acqua, i fontanassi del fiume, i mulini, le leggende tramandate dai contadini che talora ascoltava curioso; lavorò sulle rive frondose e tra i modesti canneti e i canali, ma sul finir del secolo,  a Venezia, fu pure affascinato dal treno che vi giungeva veloce e dai primi insediamenti industriali.

Nel corso della sua vita modificò la tecnica e la critica indica come si accostasse alle lontane esperienze toscane accolte tramite Adriano Cecioni. Durante il  suo soggiorno in Italia meridionale, il pittore approfondì la conoscenza della pittura partenopea che capì e interpretò con gran sensibilità e per sua stessa ammissione, fu grato a Federico Rossano e a Filippo Palizzi che gli diedero modo  di apprendere e perfezionare molti espedienti tecnici. Guardò soprattutto ai dipinti della Scuola di Resina. Nelle tele  realizzate in Campania i soggetti sono essenziali ed egli esaltò con la sua pittura  la profonda quiete di quegli ambienti mediterranei. Ma li tradì: il suo mondo intimo fu quello lagunare, piatto della terra natia dove trascorse gran parte della sua vita. Ciardi dipinse uomini e pure animali (eseguì piccole tavolette con mucche, tacchini, oche ecc.) ma  non gli furono congeniali.

Le monocordi lagune o quelle in cui  cielo o mare dividono equamente gli spazi orizzontali in una fulgida giornata di sole, furono i soggetti  che gli diedero notorietà e fama. Il suo periodo migliore fu il decennio 1870 – 1880 e nel 1882, anno in cui fu inaugurata a   Milano l’Esposizione italiana industriale, realizzò Messi d’oro (Roma – Galleria d’Arte Moderna) considerato uno dei suoi capolavori, quasi a rafforzare lo spirito agreste. Assieme a Napoleone Nani, Zandomeneghi, Favretto e Nono fu uno degli esponenti di quella rivoluzione pittorica che rinnovò la pittura veneziana nella seconda metà del secolo XIX improntandola ad un inedito realismo sia nella scelta dei soggetti che nella ricerca delle soluzioni tecniche, quali la luce, più adatte a tradurlo in pittura.

Con il passar degli anni, come spesso avviene, il suo fare s’indebolì e la vena dei tempi passati si smorzò male. Obbiettivamente avrebbe dovuto  smettere, ma cos’altro avrebbe fatto? L’unica sua passione furono i pennelli, i colori e le tele! Nel 1910 si recò a Nimes, a Basilea e a Londra dove realizzò modeste impressioni. Il suo tempo d’artista sinceramente acclamato, era ormai un ricordo sebbene continuasse a ricevere riconoscimenti.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Ciardi si ammalò gravemente e fu costretto all’immobilità da una paralisi. Si rifugiò stanco, distrutto fisicamente,  al Lido per poter abbracciare ancora il suo mare sempre più silenzioso e opaco.

La morte arrivò nel 1917 mentre si trovava nel Palazzo De Blaas alle Zattere.

Ciardi fu uomo di grande personalità, meticoloso, severo nello studio  e artista rigoroso. Il suo debutto di pittore avvenne all’Esposizione di Belle Arti di Verona nel 1865; da quell’ anno espose in importanti rassegne in molte città italiane tra le quali Venezia, Livorno, Firenze, Milano, Genova, Torino. Nel 1884 fu all’Esposizione Internazionale di Monaco e a  Nizza. Nel 1888 espose a Londra.

Dal 1895 al 1917 partecipò a XI Biennali veneziane, ma anche dopo la sua scomparsa numerosi  suoi quadri furono esposti a Venezia (XVIII, XIX, XXI, XXIV Biennale), a Parigi, Ginevra, Treviso, Sacile, Cuneo, Monza ecc. e ancora il suo lirico silenzio echeggia di tanto in tanto.

 

 

 

Walter Abrami