GRANDE GUERRA (1915-1918)

 

 

(Le origini remote)

 

 

 

 

VI
 

DALLA MORTE DI CAVOUR ALL'ALLEANZA COLLA PRUSSIA


 

 

Bettino Ricasoli — Parole di Napoleone III — Garibaldi e le terre dell'Adriatico — Il dono nuziale a Maria Pia — Una lagrima di Vittorio Emanuele — Un processo inumano — Il martirologio  degli irredenti — L'Unità d'Italia in Parlamento — I propositi di La Marmora — Bismarck — I memoriali degli irredenti al Re e ai ministri. 


 

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Il 1° luglio del 1861, alla Camera di Torino, Bettino  Ricasoli, Presidente del Consiglio, pronunciava queste  memorande parole:  « Noi ci armiamo per la difesa non solo del territorio  nazionale, quale è attualmente, ma eziandio per  completarlo, per restituirlo ai suoi naturali e legittimi  confini. Su questo punto, la politica del Governo è il  diritto della Nazione. Non conosce il Governo altro limite;  non si arresterà ad altri confini, che a quelli che il diritto  stesso ha segnati— »  Pochi giorni dopo, lo stesso Ricasoli mandava agli  inviati italiani all'estero questo dispaccio ancor più esplicito:  « L'Italia è fatta, malgrado che una parte d'Italia rimanga  ancora in altrui balìa; perché abbiamo fede che  l'Europa, quando ci vedrà ben ordinati e armati e forti,  si persuaderà del nostro diritto a possedere intero il nostro  territorio, e vedrà una guarentigia della sua quiete  e della sua pace nel favorirne la restituzione... L'Italia  deve compiersi e nessun sacrificio parrà grave agli italiani  per arrivare alla meta. »  Napoleone condivideva pienamente queste idee; il giornale Diritto riferiva le parole seguenti, pronunciate  dall'imperatore dei francesi:  « M'hanno accusato di aver mancato al mio programma:  l'Italia libera dalle Alpi all'Adriatico; ma io  lo servo questo programma, oggi come due anni sono, e  lo servirò fino a che non sia diventato una realtà; io voglio  che l'Italia abbia Venezia, Trieste ed Istria: oggi mi  è impossibile ricominciare la guerra, in vista sopratutto  dell'umile attitudine dell'Austria; ma le occasioni non  mancheranno, ed appena un momento favorevole si presenti,  vedrete come io sappia tenere la mia parola. »  Gli irredenti aspettavano il gran giorno: e lo preparavano  in ogni guisa. Avendo saputo che Garibaldi  desiderava le carte idrografiche e geografiche dell'Adriatico,  gliele inviarono, richiamando la loro causa alla  sua memoria. E Garibaldi rispondeva:  « So che l'Istria e Trieste anelano frangere le catene  con cui le avvince l'odiata signoria straniera, e che  affrettano col desiderio il compimento del voto di essere  restituite a madre Italia. Quantunque la tristizia di tempi  e di uomini sembra voglia impedire il compimento di  quel voto, io ho fede che non sia lontano il giorno delle  ultime battaglie e delle ultime vittorie, da cui sarà  suggellato il completo nazionale riscatto. »  Alberto Cavalletto scriveva in quello stesso anno  1862:  «Le idee precedono sempre i fatti: facciamo popolare  la idea che la Venezia vera abbraccia tutto il territorio  compreso fra il Mincio, il Po, l'Adriatico e le Alpi  Retiche, Carsiche e Giulie dal Brennero al Quarnaro. Senza  guerra non sposteremo dall'Italia l'Austria; fissiamo  quindi sin d'ora le idee sul territorio da riacquistare alla  patria. »  Poco stante. Maria Pia, la figlia di Vittorio Emanuele,  andava sposa al Re di Portogallo. Le donne venete, trentine e istriane le vollero offrire un dono nuziale.  La consegna ebbe luogo alla reggia di Torino. Si  trattava d'uno splendido albo, con le firme delle donne  irredente: e fu portato a Vittorio Emanuele da una commissione di emigranti. Tomaso Luciani, che di essa faceva  parte, così ricordava quell'episodio:  «Quel giorno Re Vittorio apparve ammirabile quanto  mai anche come cittadino e padre. Il Re, evidentemente  lieto dell'omaggio che i paesi rappresentati dalla  Commissione facevano alla sua amatissima figlia, parlando  e di essa e dei paesi stessi adoperò tali modi e  tale linguaggio da far conoscere che il suo cuore era tutt'altro  che sordo alle parole della Commissione e delle  donne: e nell'occhio calmo insieme e fulmineo del politico e del soldato luccicava già una lagrima, la lagrima del  cittadino e del padre.  « Preso quindi in mano l'albo, lo aperse, ne guardò  i disegni, li lodò, e, visti alcuni nomi, domandò in suono  famigliare spiegazioni di persone e di cose, e volle particolarmente  sapere se l'albo potrà poi essere esposto liberamente  a Torino e a Lisbona, liberamente, cioè « senza  che ne possa derivare danno o malanno a qualcuno,  perché la polizia di Stato non conosce misura o confini  ed ha un occhio, un occhio che passa le alpi ed i mari  e tenta il chiuso delle reggie perfino».  «Un Re, che dall'alto del soglio, per moto spontaneo  del cuore, scende a questi particolari e se ne preoccupa,  non per sé, ma per quelli che soffrono, è la fenice dei Re e merita davvero di passare nella storia coi titoli  che l'istinto popolare gli decretò nei giorni del più giusto  entusiasmo. »  I tempi maturavano. La situazione italo-austriaca  diventava sempre più tesa, e le ripercussioni si sentivano  nelle provincie irredente.  Furono duramente provati quei patriotti trentini, che  il 23 e il 24 agosto del 1864 avevano tentato una sollevazione  e che, tradotti ad Innsbruck davanti alla Corte  speciale come rei d'alto tradimento, furono oggetto di  illegalità e di violenze incredibili.  Jacopo Baisini denunciava, la condizione inumana in  cui furono tenuti gli imputati al processo e la gravità  delle pene loro inflitte: e citava il caso del Collegio  d'Appello di Innsbruck, che osò correggere la mitezza dei giudici, aggravando la pena. E conchiudeva: « Se  verrà un giorno che l' Italia canterà e festeggerà i suoi  martiri, anche i poveri trentini condannati nel 1865 avranno  la loro palma! »  Se qualcuno volesse scrivere la storia di tutti i processi  politici coi quali l'Austria tentò di fiaccare lo spirito  d'italianità delle terre irredente, avrebbe da riempire  non un volume ma un'intera biblioteca.  A Gorizia, nel carnevale del 1863, una mascherata  aveva vestito la camicia rossa. Erano sedici uomini e sette  donne. Si fece il processo: e nell'atto d'accusa si constatava  che « Giuseppe Garibaldi rappresenta il principio  della rivoluzione e del distacco di provinciale d'italiana  favella dal nesso dell'impero austriaco e che il menare  vanto col suo costume e il far pompa del medesimo  in luogo pubblico, come un veglione, equivale a magnificare  il principio da Garibaldi rappresentato, e quindi  all'eccitare ad odio e disprezzo contro il nesso politico  dell'impero austriaco ».  I principali colpevoli della mascherata ebbero soltanto  alcuni mesi di carcere duro: e poterono chiamarsi  fortunati...  Nel gennaio del 1865, per una discussione che a  Vienna apparve, — ed era, — assai poco ortodossa, il  Consiglio comunale di Trieste subì uno dei suoi innumerevoli  scioglimenti.  La Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, nel riferire  il fatto, trovava modo di dichiarare Trieste « benemerita  della causa italiana ».  Nel maggio di quell'anno, alla celebrazione del centenario  dantesco parteciparono con entusiastiche manifestazioni  tutte le terre irredente, attirandosi le inevitabili  rappresaglie austriache...  Inaugurando il primo Parlamento italiano, Vittorio  Emanuele II aveva detto essere l'Italia a libera ed unita  quasi tutta ». Nell'aprire la nuova sessione, il Gran Re  dichiarava ai deputati e senatori: « Voi affermaste i diritti  della nazione alla completa sua unità; questi diritti  saprò mantenerli inviolati ».  Dei grandi fattori del Risorgimento, Cavour era morto;  Mazzini, come un faro ardente, illuminava la propaganda  unitaria di quell'ora, imperniata su Roma e Venezia;  Garibaldi affilava la sua spada.  La Marmora, ch'era alla testa del Governo, si sentiva  spinto irresistibilmente dalla volontà nazionale. Ottenere  Venezia: era questo il primo obiettivo, che in un  modo o nell'altro doveva essere raggiunto.  La Marmora accarezzava il sogno di aver Venezia  a mezzo di trattative col governo austriaco. Era infatti  un sogno: la missione segreta del conte Malaguzzi-Valeri  a Vienna ebbe completo insuccesso.  Restava aperta la via delle armi: ma bisognava trovare  un alleato.  Cavour non aveva lasciato all'Italia un erede immediato  del suo genio politico. La Prussia aveva Bismarck.  Qual meraviglia se l'alleanza tra l'Italia e la Prussia fu  stretta in modo che il manico del coltello restasse nelle  mani di quest'ultima?  Quale fu la parte di Napoleone III in tutta quella oscura  pagina di storia? Fu un ambiguo lavorio di sottile  diplomazia, stracciato brutalmente dalla clamorosa vittoria prussiana, ch'egli non prevedeva.  Certo è che il tenebroso armeggio dell'imperatore  francese seminò di diffidenze e di sospetti i rapporti italo-prussiani.  Al principio del 1866, mentre Bismarck voleva giuocare  la carta decisiva dell'avvenire sull'alleanza con l'Italia,  il ministro Roon diffidava dei nostri legami con Napoleone,  e Usedom, il rappresentante della Prussia a  Firenze, teneva vivi i suoi sospetti.  Anche Bismarck diffidava profondamente di noi; ma  si sentiva forte e non temeva di restar sopraffatto. Nella  sua diffidenza, del resto, era pienamente ricambiato da  La Marmora. Comunque, le cose procedevano. Il general  Covone andò a Berlino; poi Bismarck concretò le sue  proposte. L'otto aprile si firmò il trattato.  L'alleanza era basata sul dovere dell'Italia di seguir  l'esempio della Prussia, qualora questa avesse dichiarato guerra all'Austria entro tre mesi. Scoppiata la guerra,  nessuna pace o armistizio dovevano concludere Italia  o Prussia senza il consenso dell'altra potenza; ma tale  consenso non poteva venir negato quando l'Italia avesse  ottenuto i territori dell'antico Regno lombardo-veneto e  la Prussia territori equivalenti.  Non è il caso di riandar qui le polemiche sorte intorno  alle maggiori o minori pretese territoriali, che l'uno o  l'altro dei nostri uomini politici volevano accampare,  specialmente nei riguardi del Trentino. Il trattato era  quello che era: cioè il patto d'un forte e d'un avveduto  con chi lo era meno...  E neppure ricorderemo gli intrighi che s'intrecciarono  e che per un momento parvero dover sostituire alla  guerra un Congresso, sotto gli auspici dell'imperatore francese.  Comunque, nonostante le deficienze diplomatiche,  militari, navali, che dovevano poi costare tanti dolori e  tante umiliazioni alla nazione, lo spirito pubblico in Italia  era alto; altissimo nelle terre che dalla guerra imminente  s'attendevano la redenzione.  Il giorno 18 giugno, con le firme di numerosi triestini,  istriani, trentini, veneti e romani, fu presentato a Vittorio  Emanuele II il seguente memoriale:  « Sire! Alle mille voci di plauso che si levano da  tutte le parti della penisola sull'annunzio della prossima partenza del Primo Soldato d'Italia pel campo, permettete,  o Sire, che si uniscano anche quelle dei devotissimi  sottoscritti, rappresentanti le popolazioni italiane d'oltre  Isonzo, le quali Vi invocano liberatore e Vi salutano loro  Re.  «Esse erompono dal cuore di Italiani oppressi da  quello stesso straniero che Vi accingete a combattere; dal  cuore d'Italiani che vissero sempre della vita nazionale.  Essi saranno i guardiani dell'Alpe Giulia, di quell'Alpe  che, violata troppe volte dallo straniero, è complemento  necessario e sicurezza del territorio nazionale; essi sono  i discendenti di quegli arditi marinari istriani che  combatterono e vinsero sotto il glorioso vessillo di San Marco. Essi Vi daranno in mano quella Pola che, fin  dall'epoca romana porto militare italiano, l'Austria ha  ormai convertito in minaccia di tutta la nostra costa adriatica;  essi Vi daranno quella Trieste che l'Austria vorrebbe  malamente far credere pertinenza germanica.  « La grande nazione germanica ha i suoi fiumi reali,  i suoi mari aperti al commercio, le sue molte e fiorenti  città; essa non può, non deve aspirare a dominii di  qua dalle Alpi, ma vorrà piuttosto stringersi in fratellanza sincera cogli Italiani e cogli Stati vicini, e Trieste,  appunto perché città eminentemente commerciale, è il  nodo che deve unire i tre popoli.  «Sire! Giacché il Cielo fece sorgere i nuovi cimenti,  non arrestate più il corso della vittoria, che animata dal  valore dell'esercito e dall'entusiasmo dei volontari, seguirà  i Vostri passi. Assai avete avuto la virtù dello aspettare e fu vera forza; ripigliato ora il vostro naturale  ardimento, seguite fino all'ultimo la Vostra stella che è  la stella d'Italia. Perché si possa dire l'Italia costituita  nella sua unità naturale e veramente degli italiani, perché  si possano dire inviolati il suo diritto e il suo onore e  compiute le sue sorti, perché l'Italia divenga all'Europa  guarentigia di ordine e di pace e ritorni efficace istromento della civiltà universale, infine perché si possa dirla  libera dall'Alpi all'Adriatico, è necessario piantare col  tricolore italiano la croce sabauda sulla punta Fianona,  là dove il primo sprone dell'Alpe Giulia scende a tuffarsi  nel proverbiale Quarnaro. Quella punta si noma da antico  Pax-tecum. È là soltanto che si può stringere un  patto duraturo di pace quale Europa la vuole.  « Seguite il presago e accettate l'invito, o Sire. È. voce  di popolo che Vi chiama in quelle parti, è grido di  dolore e di speranza che erompe dal cuore di italiani  che Vi invocano liberatore e Vi salutano loro Re. »  Quando Vittorio Emanuele già si trovava al campo,  una deputazione di trentini si recò a presentargli un indirizzo  che diceva:  «Adesso che a fianco del generoso vostro alleato, l'imperatore dei Francesi, per una via seminata ad ogni  passo di vittorie e benedizioni, vi inoltrate trionfalmente  per le provincie italiane redente nel vostro nome, permettete,  o Sire, che anche gli Italiani della provincia di  Trento vengano per mezzo nostro innanzi a voi a ripetere che la croce di Savoia non è meno invocata tra i  loro monti di quello che lo sia nelle altre parti dell'alta Italia; che colà pure siete aspettato e sospirato liberatore e re.  «Noi non ci nascondiamo, o Sire, la gravità delle  circostanze eccezionali in cui versa il nostro paese di  fronte alla gloriosa vostra impresa; ma appunto perché  infeudati mostruosamente a Germania, sentiamo con più  calore d'essere italiani, e strettamente legati alla causa  dei nostri fratelli, da voi con tanta lealtà e valore propugnata.  « Il cielo, o Sire, non cessi un istante di prosperare  le vostre armi; e possano l'esultanza e la gloria che, compita  la grande opera, circonderanno il vostro trono, non  essere contristate dal pianto di Italiani curvi ancora sotto  il peso della straniera oppressione. »  Dagli irredenti fu pure presentato al generale La  Marmora, mentre s'apprestava a partire per il campo,  quest'altra memoria, che in origine doveva essergli  consegnata quando si fosse recato a rappresentare l'Italia al Congresso divisato da Napoleone:  «Eccellenza! Gli unici stranieri che fermarono stanza  entro il nostro confine sono gli slavi, venuti prima dell'800,  poi a varie riprese nei secoli XVI e XVII-: Ma i primi,  slavi del nord, condotti dai franchi in condizione di  servi, sebbene avversati a principio dalla stirpe latina,  ebbero poco appresso lavoro e libertà sopra suolo istriano;  e i secondi, slavi del sud, scampati alla scimitarra del  turco, furono accolti come ospiti coi quali si divide la  casa e la mensa.  «Agli slavi delle Alpi Giulie è commisto anzitutto  il sangue dei veterani latini che stettero a guardia di  quell'importante confine, poi sono frammiste famiglie  italiane immigrate da varie parti e a varie riprese, mentre l'Istria al mare, passata dal dominio romano-bizantino  al dominio veneto per dedizione spontanea, durata  in questo fino al 1797, e caduta insieme con Venezia soltanto  per la pace fatale di Campoformio, l'Istria al mare,  diciamo, è coi territori da Aquileia, Grado, Monfalcone,  Trieste, una vera continuazione della Venezia marittima,  e quasi si direbbe un avamposto dell'antico dogado.  Più tardi, dal 1805 al 1810, fece parte del regno  d'Italia, sotto il preciso nome di Dipartimento dell'Istria.  «Ma chi domanda ai Pedemontani, ai Valtellinesi,  ai Tridentini, od ai Siculi il certificato d'origine? Quanti  vedevano nella penisola italica un'accozzaglia di razze  diverse, pronte a distruggersi tra di loro, ben hanno dovuto  ricredersi. Tale sarà, non è a dubitarsi, dell'Istria.  E se è paese italiano; chi tenta dividere le sue popolazioni  fa opera peggio che vana; e nessuno osi dire che  alla concordia di sentimenti e di volontà abbiano fatto  o facciano eccezione Trieste o Gorizia. Le rivalità di  Trieste e Venezia son cose viete, da mettersi a fascio  con quelle di Firenze e Pisa, di Venezia e Genova, e  di cento altre italiane città. Qualche fatto dell'antica  aristocrazia goriziana che or più non esiste, o di mercatanti  senza patria attendati temporaneamente a Trieste,  non potrebbe aver peso nei destini del paese. Il  paese tutto è italiano da antico e fu sempre riconosciuto  per tale: si ricerchino le storie, ma le storie sincere.  Già nel terzo decennio del secolo XVII contro le finzioni  dell'arciduca Ferdinando II si levarono concordi la corte  di Roma, i capitoli della Germania e l'ordine di Malta  a proclamare i Goriziani di nazione italiana, E nel secolo  XVIII gl'Imperatori Carlo VI, Giuseppe II e Leopoldo  II, dopo iterati e pertinaci tentativi, dovettero smettere  affatto l'idea di introdurre l'uso della lingua tedesca  nei paesi italiani di confine, cioè a Gorizia, Gradisca e  Trieste. Così nell'ordinanza imperiale 21 dicembre 1732  e nei decreti aulici 26 marzo 1787 e 29 aprile 1790.  « Generale-Ministro! La fortuna d'Italia vi creò una  posizione nella quale potete rendervi benemerito dell'Europa. Voi sedete oggi, in Parigi stessa, al posto  dell'immortale Cavour. Seguitene il grande esempio: osate!  Dite dunque che la Venezia vera non s'arresta là  dove hanno posto il confine amministrativo del Regno  lombardo-veneto, ma si stende all'Alpi ed all'Adriatico,  e per togliere finalmente ogni dubbio, a quel seno dell'Adriatico  che si dice Quarnaro. Dite che l'Italia, stesa  su due mari, ha ben diritto di poterli navigare liberamente;  ma uno di questi, l'Adriatico, è costituito così  che non si può arrischiarsi di correrlo senza pericolo  d'essere portati sotto il cannone di Pola, e dite che a  Venezia non si arriva senza rasentare le coste dell'Istria.  Tirate sulla carta una linea da Ancona alla punta  Fianona, ove cala a mare il primo sprone dell'Alpe  Giulia, e mostrate che il tratto d'acqua che resta al  nord-ovest della linea non è propriamente un mare, ma  è tutto un golfo chiuso intorno da terre italiane, quasi  continuazione di queste e indispensabile ad esse. Dite  che la costa italiana da capo d'Otranto alle paludi d'Aquileia,  quasi priva di porti, bassa, argillosa, piena di  dune, di scanni, ha bisogno dei porti dell'Istria, e dite  poi che senza il possesso dei versanti meridionali ed occidentali  dell'Alpe Giulia l'Italia resta aperta nella parte  appunto ov'è più vulnerabile. Dite che le tre grandi  vie che si dirigono a noi dalle valli della Drava, della  Sava e della Culpa, per i viarchi del Predil, di Lubiana  e di Fiume, hanno troppe volte e troppo a lungo servito  al trasporto di armi e d'armati a danno d'Italia; è tempo  che restino sgombre a servigio del commercio pacifico,  che giovino all'affratellamento dei popoli slavi, tedeschi  ed italiani, i quali e per ragione di vicinanza e per la  stessa diversità d'origini, d'inclinazioni, d'interessi, di fini,  hanno mille motivi di favorirsi e d'amarsi. »  La Marmora, naturalmente, non potè dir nulla di tutto  ciò perché il Congresso non ebbe luogo. Il mancato plenipotenziario  diplomatico prese il comando d'una armata,  E cominciò la guerra infelice...  Alle fidenti speranze degli irredenti rispose un infausto  nome: Custoza. Tutte le maggiori speranze, nel Regno e nelle terre  oppresse dall'Austria, si volsero alla flotta. E gli irredenti  mandarono questo appello ad Agostino Depretis, ministro  della marina:  « Eccellenza! L'Istria è un posto avanzato rimpetto  alla Laguna alla quale si attacca mediante gli isolotti  e le paludi di Grado, di Marano, di Aquileia; è un pezzo  di terreno staccatosi dalle nostre Alpi e scivolato sul  nostro mare; è a noi quasi un molo d'approdo, e un luogo  di necessaria poggiata. Le flotte romane e le venete  svernavano a Pola che, secondo il mutare dei secoli,  fu succursale di Aquileia, di Ravenna, di Venezia: le  triremi venete si armavano nel porto Quieto; le navi,  grandi e piccole, che su per l'Adriatico si dirigono a Venezia,  hanno bisogno di far poggiata al Quieto, a Umago,  a Pirano. A Venezia non si va senza rasentare le coste  dell'Istria, e nessuna flottiglia, sia pure a vapore,  potrebbe avventurarsi in certe stagioni nell'alto Adriatico,  senza pericolo d'essere portata sotto il cannone di  Pola.  «L'Istria d'altronde è italiana per origini, veneta per  dedizione spontanea. Caduta con Venezia nel 1797, in  forza della malaugurata pace di Campoformio, è giusto,  è necessario che con Venezia risorga: altrimenti  non ne soffrirebbe la sola Istria, ma Venezia con essa.  L'Istria formò parte del primo Regno d'Italia dal 1805  al 1810 e, quando ritornò in mano dell'Austria, questa  le promise di accomunarla alle altre Provincie venete,  promessa che more austriaco non fu mantenuta. Nel  1840 e nel 1859, a clamore di popolo, e mediante i suoi  municipi, l'Istria domandò e ridomandò d'essere unita  alla Venezia, ma sempre indarno, perché l'Austria rimase  padrona della situazione. Nel 1797 gl'italiani si commossero  pel distacco dell'Istria dalle Provincie di terraferma  come ne fanno fede varie (pubblicazioni di quell'epoca.  Una di queste, stampata per ordine del Governo  centrale del Padovano, Polesine di Rovigo e d'Adria  negli Annali della Libertà Padovana, termina con  queste significanti parole: — « a Patriotti Lombardi, la liberta dell'Italia sarà sempre contingente sinché l'Istria  rimane soggetta alla corte di Vienna... L'Istria è una  provincia italiana che vi appartiene per natura; è una  «parte integrante dell'ex Stato Veneto che vi appartiene per convenzione... Gl'Istriani sono vostri fratelli...  «Essi vi furono compagni indivisibili nella comune  schiavitù, essi reclamano il vostro soccorso ora che  «siete liberi ed indipendenti. Prima che un trattato tribuisca all'invasore austriaco la proprietà della provincia, prima che giunga il tempo in cui sarà inutile ogni  sforzo, Italiani, scuotetevi, e se non l'amore dei vostri fratelli, non l'oggetto del loro benessere, vi muova almeno il vostro proprio interesse, la causa della  «vostra libertà sempre contingente e compromesse finché sarete disgiunti dall'Istria... Non permettete che si disgiunga da voi una parte preziosa di voi medesimi; non permettete che periscano in questa separazione le speranze della vostra prosperità. Armatevi, se  d'uopo, e accorrete a strappare dalle mani dell'invasore  ciò che è pur vostro, e i vostri fratelli benediranno  per sempre la mano che avrà spezzate le loro catene.»  «Così pensavano gli italiani del 1797, riguardo all'Istria!  Potrebbero diversamente quelli del 1866? »...  Pochi giorni più tardi veniva dal mare un terribile  annunzio: Lissa!  Un'altra memoria fu presentata dagli istriani e triestini  il 14 luglio ad Emilio Visconti-Venosta, Ministro  degli Esteri. Eccola:  «Eccellenza! Nessuno in questo momento sa meglio  di V. E. quale periodo difficile attraversi la questione  dei Confini d'Italia fra il vario cozzo degli interessi  europei. Non nuovo nella lotta nella quale anzi avete  colto altri allori, oggi sono rivolti sopra di Voi, più che  mai attenti, gli sguardi della Nazione. Essa è fidente  nel senno e nella lealtà vostra e dei vostri colleghi, presieduti  da tale la cui proverbiale fermezza è di lietissimo  augurio all'Italia.  « Nullostante il paese non è senza trepidazione, perché  se badiamo alla storia, la diplomazia troppe volte  si è lasciata sedurre dal desiderio di conservare il vecchio.  Essa tardi s'induce a far ragione all'inevitabile  svolgimento e progresso delle idee e dei fatti. Spesso ha  creduto di assicurare paci e non ha concluso che tregue,  dopo le quali, più presto che non lo s'immaginasse,  scoppiarono di nuovo e più che mai accanite le guerre  alle quali aveva preteso impor fine anzi tempo. Noi  vi scongiuriamo, Eccellenza, a fare in modo che ciò nel  presente caso non si rinnovi.  « Nativi di Trieste e dell'Istria, provincie per ogni  rispetto italiane, ma non ancora confessate tali da tutta  la diplomazia, noi trepidiamo al pensiero d'una pace  prematura, e trepidiamo non solo come Istriani, ma  come Italiani; che la doppia qualità ne costituisce in  noi una sola. Noi non sappiamo concepire un interesse  italiano, che non possa essere nello stesso tempo europeo.  «Presentemente dunque non resta a noi che accennare  ai principali argomenti d'ordine più elevato e universale,  in forza dei quali deve risultare: essere l'annessione  di Trieste all'Italia vero interesse europeo, e condizione  inevitabile di quella pace sola e finale che sta  giustamente nel desiderio di tutti.  «Come il Trentino è la chiave del Quadrilatero e  dei piani lombardi, così le tre provincie unite di Gorizia,  Trieste ed Istria colle alture del Carso e il porto fortificato  di Pola, sono la porta del Veneto e di tutto il nostro versante adriatico per terra e per mare. Pola è stata  creata dall'Austria con intendimento non di difesa ma  di aggressione.  «Se l'Austria dunque vuol essere leale, deve con la  Venezia amministrativa rinunziare francamente tutti i  territori cisalpini: chi desidera che ella abbia ancora  vita fra gli stati europei, deve consigliarglielo; ed essa,  se conosce il suo interesse, deve oggi non solo rassegnarvisi,  ma affrettarsi a farlo. I territorii già detti sono necessari a noi. A lei all'incontro, cedute o pendute che  abbia le otto Provincie del Veneto, riescono indifferenti  ed inutili; peggio ancora, le riuscirebbero di peso, le sarebbero,  siccome eterogenei ed avversi, un pericolo,  permanente. Mentre a noi sono uniti per continuità di  valli, di fiumi, di pianure, di monti, di mare, da lei sono  staccati e divisi per una cerchia non interrotta di alpi.  Ne si dica che rinunziando a noi queste alpi, ella resti  esposta da parte nostra agli attacchi, o che cedendo l'Istria,  perda ogni ingerenza, ogni sbocco sull'Adriatico.  Questi sono assurdi sofismi ch'essa ha ripetuto fino alla  noia e al ridicolo: essi ormai non possono illudere alcuno.  Noi non domandiamo già tutto il grosso delle Alpi,  ma il solo versante che tributa le acque all'Adriatico.  Padrona del versante opposto, il quale non scende  precipite come il nostro, ma si svolge in altipiani e in  vallate alpine lentamente digradanti, essa ha sempre il  vantaggio sopra di noi, che la sua discesa sul nostro  territorio è stata e sarà sempre più facile che non la  nostra salita sul suo. Essa ha inoltre per propria difesa  la linea di molti fiumi, di molte riviere; essa ha finalmente  altri monti, altre alpi, quelle della Stiria, della  Carinzia, del Salisburgo che ne rinterzano le difese.  Perdonate, Eccellenza, se vi ripetiamo cose notissime,  cose che vi saranno venute cento volte sotto la  penna. Non le ripetiamo per smania di dottrinare ma  perché in momenti supremi (per l'onore e le sorti della  nazione, nessuna verità è inutile a ripetersi e ogni cittadino onesto deve stringersi meglio che può al suo Governo.  Se le nostre idee combinano con le vostre, tanto  meglio: fatelo constare alla Diplomazia; dite che gli  argomenti dell'Austria sono ormai svelati e giudicati sulla  piazza; che il Popolo d'Italia è un popolo che pensa  e non si acqueta se non gli viene fatta giustizia, se non  gli viene accordato il suo, tutto il suo territorio fino alle  Alpi, fino all'Adriatico, che nell'estremo punto nordest  prende il nome di Quarnaro.  « Voi potete farvi mallevadore che l'Italia costituita  così nella sua unità naturale sarà all'Europa raro esempio di pace, di giustizia, di moderazione, e ritornerà  davvero, ma allora soltanto, efficace strumento di civiltà  universale.  « Quanto diciamo è di tale evidenza, che una Diplomazia  imparziale non potrebbe negarlo.  « In nome adunque delle popolazioni delle nostre  Provincie vessate in modo crudele dall'Austria, e per amore  degl'interessi e della dignità nazionale, noi vi preghiamo,  Eccellenza, e insieme a Voi preghiamo l'intero  Consiglio dei Ministri e il suo Capo: — date alla  questione di Trieste e dell'Istria, che è a dire del Confine  orientale, tutta la importanza che merita; portatela  sul terreno vasto dell'interesse europeo, e vincerete  di lunga mano ogni resistenza; che la stessa gravità ed  urgenza della cosa, suggeriranno i mezzi sicuri di vincere.  Col nuovo assetto che va necessariamente a prendere  l'Europa, è interesse della civiltà che ci sia un'Italia  soddisfatta e forte; ma tale non sarà mai senza la  frontiera delle Alpi Retiche, Carniche e Giulie, e senza  i porti che la natura le offre sulle coste dell'Istria, a compenso  di quelli che le ha negato sulla restante costa adriatica  che corre da Otranto a Grado.  «La nazione tiene gli occhi rivolti all'esercito ed alla  flotta; pensa che una mossa sollecita, ardita, dandoci  il possesso di quelle terre, renderebbe più agevole il  compito della diplomazia e offrirebbe alle popolazioni  la bramata occasione di smentire co' fatti i dubbi che  alcuno ancora si ostina di muovere sul loro conto.  «Nel ripetervi adunque l'alta fiducia che abbiamo  in voi, nell'intero Consiglio dei Ministri e nell'illustre  suo Capo, non vi taceremo la speranza che la memoria  del grande Cavour ispiri e al Governo e al Comando dell'armata  di terra e di mare, deliberazioni pronte, concordi  ed energiche, quali sono richieste dall'interesse  e dall'onore dell'Italia che aspetta, ma sente in ogni  sua parte piena la vita, e vuole essere intera, per esistere  non solo, ma per occupare il posto che ormai le  compete in Europa. » 

Il più importante di questi appelli, che i figli delle  terre irredente volgevano al loro Re e ai suoi ministri,  fu dettato da Carlo Combi, l'infaticabile campione dell'italianità  della sua Istria e di Trieste.  È un documento forte e commovente, dal quale  traspare la profondità d'un sentimento indomabile, mentre  dalla più sicura dottrina trae nerbo e potenza di suggestione  il ragionamento.  Ecco questa memoria, che sarà letta sempre come  una magnifica sintesi delle ragioni degli istriani e degli  interessi dell' Italia; fu presentata il giorno 11 agosto di  quell'anno 1866 a Bettino Ricasoli, allora Presidente  del Consiglio:  «Perché l'Italia sia guarentigia di pace all'Europa,  conviene ricomporla a famiglia politica in tutta la sua  unità tipica. Monca e quindi scontenta e bramosa di  altri eventi, ella avrebbe in se la ragione, la necessità  di nuovi dissidi e conflitti. Ogni signoria cisalpina, non  italiana, sarebbe offesa e pericolo a lei, e peggio ancora  la schiavitù della sua politica, impedita nel più largo e  più fruttuoso e più nobile sviluppo, e nominatamente  nella libera scelta delle alleanze, dal bisogno precipuo  d'integrare lo Stato.  «Ora, le Alpi che formano l'eterno confine della  penisola italiana, girano a tergo dell'Istria non meno  che nel Piemonte, nella Lombardia e nella Venezia più  propriamente detta. Anzi quel tratto che inchiude nell'Italia  queste Provincie, dette fino da Roma la Venezia  Superiore, pigliò bene a ragione il nome di Alpi Venate,  mantenutosi assieme a quello di Giulie, ch'è non meno  italiano e glorioso, attraverso a tutti i tempi. 

«Dal Tricorno, il gigante alpino che si alza sopra le  scaturigini dell'Isonzo, corrono esse tra le regioni della  Drava, della Sava e della Culpa e quelle dell'Adriatico;  fra contrade che mandano il tributo delle loro acque  ai piani del Danubio e quindi al mar Nero, e le terre  che s'inchinano sullo stesso continente italiano e i cui  fiumi si confondono nello stesso mare con quelli della  vallata padana. La natura adunque non fu incerta nemmeno  sui termini orientali d'Italia, elevando sì notevole barriera a separare paesi che in tutto il loro aspetto recisamente  si differenziano, sì che anche l'occhio (profano  scorge tosto, allo stesso calore dell'aria, alla temperatura,  alla vegetazione, quanto va disgiunto od unito per  legge inalterabile.  «L'Isonzo, l'aulico confine dell'Italia, impostole da Vienna, è fiumicello che rimarrebbesi pressoché ignorato,  ove all'Austria, che è astuta nelle sue previsioni, non  fosse caduto in mente di formare, poc'oltre alla sua sponda destra, una distinta amministrazione per la luogotenenza  imperiale di Venezia. Allora pure che su quel  fiume imperavano i conti di Gorizia e poi gli arciducali  d'Austria di faccia alla Veneta Repubblica, non era già  tutto il suo corso il confine dei due domini, ma altre  acque ancor minori, e fossati e segni di privati poderi  più addentro nella pianura e nei monti del Friuli. Quelli  adunque che appresero in confuso ad arrestare la Venezia  al suo oriente in sui margini di un rigagnolo, dovrebbero,  per mostrarsi conseguenti alle loro reminiscenze  storiche, cedere all'Austria anche la riva destra dell'Isonzo,  già accordatale, per la fretta degli ordinamenti  non definiti nella formazione del napoleonico Regno  d'Italia, quando pure, a fronte di ciò, si annetteva al  Regno stesso il dipartimento dell'Istria.  «Cessino quindi alla fine tali nozioni di geografia  d'Italia, le quali non abbiano altro fondamento che nelle  insidiose mire delle cancellerie austriache. La geografia  della nostra patria va per noi imparata dalla natura  che ce l'ha fatta e non da quanto vorrebbe l'Austria per  serbarsi le sue lusinghe di rivincita. E conoscere e volere  casa nostra è il primo nostro dovere, ne le civili  nazioni potrebbero non ammettere ch'esso è pure un  diritto nostro.  «E quali popolazioni stanziano su questa estrema  regione d'Italia? Si prendano ad esame le stesse statistiche  austriache, e si vedrà come, all' infuori di alcune  rustiche tribù di slavi sparseci sui monti dal turbine degli  eventi, tutto sia qui italiano. Prima ancora che Roma  portasse sulle vette dell'Alpe Giulia le sue aquile vittoriose,  un fiorente popolo italico di cui v'hanno memorie non poche, abitava queste contrade: popolo italico  della cui lingua si hanno ancora preziosi avanzi nel dialetto  di alcune parti dell'Istria, e che fuso da prima col  popolo latino e poi col veneto, si mantenne così saldo  nel suo genio nazionale, da durare incorrotto tra i più  gravi pericoli, e in sulla porta dei barbari, e con razze  straniere propriamente a ridosso, e nell'oblio sciagurato  degli stessi fratelli, in quel lungo periodo di schiavitù  austriaca che decorse dai trattati di Vienna.  «L'Istria, che è una parte distinta della regione italiana  d'oltre Isonzo ne va confusa coll'Istria amministrativa  a cui furono aggregate anche popolazioni transalpine,  l'Istria nella sua unità naturale e storica e colla  sua capitale Trieste, conta di popolazione italiana ben  oltre i due terzi, sì che per la stessa ragione del numero  pretende a buon diritto d'essere annoverata fra le famiglie  etniche d'Italia.  «Ma che sono poi gli Slavi che troviamo sugli ultimi  lembi del nostro confine, come ne troviamo nel Friuli  occidentale e troviamo Francesi nella Valle d'Aosta  e Albanesi nelle terre napoletane?  «Sono Slavi di venti e più stirpi, non già scesivi a  mano armata, ma pacificamente importativi dai dominatori  di queste Provincie per popolare le terre disertate  dalle guerre e dalle pesti. Avvenne appena nell'ottocento  il primo trasporto di siffatta gente, e poi man mano  fino al secolo XVII a più di cento riprese, le cui epoche  sono segnate con esattezza dalla patria storiografia:  opera infelice a cui fu intesa particolarmente la repubblica  di Venezia, che in luogo di permettere si facessero  fitti gli Slavi nella Dalmazia, qui nell'Istria li traduceva,  dove tutto era pronto a togliere loro la nativa fierezza  e italianarli. Stranieri fra loro fino a non intendersi  e stranieri agli Slavi d'oltre Alpe, essi sono foglie staccate  dall'albero di loro nazione, e nessuno per fermo  avrà potenza di rinverdirle sul ramo da cui furono scosse.  Essi vissero e vivono senza storia, senza memorie,  senza istituzioni, tutt'altro che lieti di loro origine e desiderosi  di essere equiparati a noi. Veneratori del leone  di San Marco e memori di quel mite reggimento, imprecano all'Austria che li ridusse all'indigenza, ne mancherebbero  per sicuro, tolta che fosse loro la paura del  carnefice, di votare tutti e di grand'animo, non meno degli  Italiani, l'unione al Regno d'Italia.  «Non sorge invece un villaggio in cui si agiti un  po' di vita civile, il quale non sia prettamente italiano.  Il carattere nazionale è spiccatissimo in ogni sua esteriore  manifestazione. Il vestito, gli usi, le tradizioni, le leggende,  i canti, i proverbi sono italiani; italiana l'architettura  dall'umile casolare al palazzo pretorio, alla cattedrale;  italiani il pennello e lo scalpello che decorano  i tempii e i pubblici edifizii; italiane le istituzioni tutte di  beneficenza, di istruzione, di chiesa; italiane non meno  le fraglie del popolo che le accademie degli studiosi;  italiano il pulpito e italiano il teatro; italiane infine le  leggi, di cui si hanno luminosi documenti fino dal milleduecento  in quegli statuti municipali foggiati alla romana,  che regolavano la vita civile di questi paesi, mentre  in non poche illustri parti della rimanente Italia non  vi aveva che signori feudatarii e plebe inconscia di sé,  del suo passato e del suo avvenire. E bellissimi nomi  vanta l'Istria tra i migliori ingegni d'Italia. Chi non conosce il Vergerio e il Piaccio, tanto celebri nella  storia della Riforma, il Sartorio, caposcuola delle scienze  mediche, il Muzio, emulo del Davanzati, l'economista  Carli, il Carpaccio e le sue tele, le musiche del Tartini,  a non dire di cento altri che di qui partirono ai seggi  più onorati nelle università di Padova, di Pisa, di Bologna  e di Roma?  «La civiltà dunque è tutta nostra, nostro tutto che  costituisce la vita di un popolo, il suo decoro, il suo diritto  a corrispondenza di affezioni e di cure presso i  fratelli; e ciò dai più lontani tempi fino a noi, dai tempi  in cui sorsero qui i grandi monumenti di Roma fino a  questi giorni nei quali, se la povertà fu retaggio di noi  Istriani, non c'è venuto meno il sentimento per ogni  italiana grandezza, come lo attestano le costanti nostre  aspirazioni, associate con fatti ad ogni opera patriottica  che sia stata prodotta per affermare l'Italia, e punite  dallo straniero colle carceri, coi bandi, con ogni maniera  di tirannie; aspirazioni di cui certo non sono ultima prova  gli iterati scioglimenti delle nostre Diete e dei nostri  Consigli municipali, con esempio superiore ad ogni altro  nell'impero austriaco, anche solo in ragione di numero  e di confronto a provincie cento volte più popolose e  alle stesse provincie italiane compagne nel servaggio:  aspirazioni infine largamente tradotte nel più bell'atto  nazionale da quella numerosa schiera di giovani nostri,  che accorse presta sotto le armi d'Italia, e che già ebbe  a suggellare con la vita l'amore della patria comune.  « In che dunque saremmo da meno degli altri, per  subire l'indicibile sciagura di vederci sacrificati all'Austria,  di portare ancora le catene del secolare nostro nemico,  mentre ogni altra famiglia italica avrebbe trovato  pietà e giustizia?  «Con Roma, queste nostre provincie furono sempre  regione d'Italia, e fuori di dubbio la più gelosa, come  lo provano i monumenti militari di cui ammiriamo  ancora i numerosi avanzi, e che lungo tutta questa frontiera  aveva eretto il genio romano di contro alle nazioni  d'oltralpe. E quando queste, fiaccata la potenza dell'impero,  irruppero di qui a depredare ed asservire l'Italia,  furono le genti della Venezia marina e dell'Istria, che  meglio d'ogni altra ne salvarono il nome costituendosi a  reggimento di liberi comuni (i primi comuni italiani dell'evo  medio) sotto la nominale signoria di Bisanzio. Continuò  poscia sempre generosa la lotta contro gli stranieri,  Longobardi, Slavi, Avari, Unni, Saraceni, sì che sappiamo  fino da allora affidato l'onore del veneto vessillo o,  come dicevasi in quei tempi, l'onore del beato Marco,  alle galee e alle armi alleate degli Istriani. Ne il feudalismo  della campagna, imposto da Carlo Magno, franse i  tradizionali propositi di questa provincia, che, sebbene  italiana fosse la corona a cui ne veniva ascritto il territorio  rustico, i municipii preferirono Venezia e pugnarono,  per lungo volgere d'anni, con tanta tenacità e concordia  di voleri contro la signoria dei marchesi e contro il succedutovi  patriarcato di Aquileia che fino dal millequattrocento  si trovò anche l'Istria marchesale sotto il diretto  dominio della Repubblica. «Che se Trieste seguì per fatale necessità di tempi  altro destino, costretta a dedicarsi al protettorato degli  arciduchi d'Austria, quale libero comune che continuò  a dominarsi da se e ad esercitare perfino i diritti internazionali,  ciò nulla toglie all'indirizzo storico della parte  principale di questa regione ch'è l'Istria e che restò sempre,  senza interruzione qualsiasi, legata alla fortuna della  più italiana potenza d'Italia.  «I nipoti dei prodi che militarono a Legnano e a  Salvore (le più splendide battaglie della storia degli italiani)  vanno pur essi superbi della più bella e legittima  nobiltà, ne questa dovrebbe essere disconosciuta  da alcuno dei fratelli, i quali, a dire senz'ira il vero, non  hanno tutti intieramente pure le memorie dei loro avi,  per quella maledizione delle guerre civili e degli invocati  stranieri, di cui la piccola Istria non si macchiò mai,  e senza la quale vergogna essa poté lunghi secoli brandire  armi repubblicane per glorie italiane, mentre altrove  in Italia si faceva corteggio a francesi, spagnoli  e tedeschi dominatori.  Tanta è la nostra fiducia che siffatto ordine di considerazioni  basti di per se solo a rendere piena ragione  del nostro assunto, che di null'altro facciamo richiesta  agli uomini di Stato, che non sia lo studio dell'importanza  strategica della frontiera orientale d'Italia; lo studio  della necessità in cui versiamo, di prendere le nostre  posizioni sull'Adriatico, per riparare la lunghissima costa  della penisola, che corre dalle venete lagune a Santa  Maria di Leuca. Possiamo noi italiani pretendere meno  dagli italiani?  «Dalla sella di Saifnitz sopra Tarvisio (la precipua  fortezza che Napoleone I proponevasi di edificare allo  schermo d'Italia) sino al promontorio di Fianona, apronsi  tre varchi nel grembo dell'Alpe Giulia, cioè quelli  del Predil e di Ciana-Fiume ai due lati e il centrale di  Nauporto o di Adelsberga, ed è attraverso a quest'ultimo  che fila la via maestra dell'Austria verso il mezzogiorno,  è di qui che sull'unica strada ferrata la quale  tragittasi oltre la intiera cinta delle Alpi nostre, si versa propriamente dal mezzo della monarchia austriaca, come  avvenne pure da ultimo, il nerbo delle sue forze contro  l'Italia.  «Ora la linea dell'Isonzo non copre alcuno di questi  passi, e nettamente lo disse il gran capitano che schiuse  gli eventi dell'età nostra. Se l'Italia non vuole le più  gelose chiavi del regno nelle mani dell'Austria, se non  vuole insediata questa sul nostro suolo al più esposto  suo fianco, signora delle alture che dominano l'Isonzo e  della pianura del Frigido ossia del Vipaco che è una continuazione  naturale di quella del Friuli, è mestieri che  sull'Alpe Giulia, ch' è quanto a dire sul proprio confine  geografico, pianti pure il proprio confine strategico, come  suggeriva e pressava si facesse il maresciallo Marmont  già governatore di queste provincie. E a tale officio di  difesa si presta mirabilmente l'Istria, posta com'è di fronte  allo sbocco del varco principale, e di fianco così alla  vallata del Frigido come all'altro passo di Ciana o di Lippa.  Campo naturalmente asserragliato dai monti della  Vena e del Caldera, essa ci permette di impiegare un corpo  del doppio minore del nemico per sbarrargli l'ingresso  del regno; essa può realizzare il progetto di un quadrilatero  italiano sugli ultimi nostri confini d'oriente, in  quella avventurosa posizione, che, mentre comprende  tutto ch'è nostro, è ad un tempo l'unica per tutta coprire  l'Italia dal suo lato orientale. Bene a ragione dunque il  primo Napoleone la segnalava siccome il complemento  del regno italiano dopo averla già fino dal 1797 chiamata  provincia importantissima della Venezia.  « Ne basta la necessità del sistema difensivo terrestre,  che l'altra della tutela delle nostre coste è di uguale  e forse maggiore momento.  «Da Aquileia a Lecce, quale costa, confine marittimo  non abbiamo noi a difendere! Sarebbe dunque sommo  difetto di non possedere una flotta nell'Adriatico, e  sommo errore crederci regno solidamente costituito senza  che la nostra flotta in quelle acque superasse di forze  l'austriaca...  «Poco giusto potrebbe sembrare a taluno quanto  viene affermato intorno ai rapporti germanici del commercio di Trieste. L'erroneo asserto messo innanzi nel  Parlamento italiano da illustre generale e ministro, s'ebbe  già contro le proteste dei Triestini, e le proteste furono  lasciate sussistere in tutto il loro valore dalla stessa  Dieta di quella città quando, ammonita dal Governo a  disdirle, coraggiosa vi si rifiutava e però veniva sciolta. E  noi pensiamo innanzi tutto che saranno bene i Triestini  i giudici più competenti dei loro interessi.  «Ormai il gran fatto, su cui è vano chiudere gli occhi,  sta in ciò che la Germania commerciale va tutta a  settentrione. Ivi i suoi porti naturali di Amburgo, Brema  e Lubecca; ivi le relazioni con la Francia, coll'Inghilterra,  col Belgio, con l'Olanda, colla Scandinavia, colla Russia  e coi paesi transatlantici dove ha diretti rapporti quasi  unicamente per mezzo di quelli emporii; ivi una triplice  linea di strade ferrate che fanno pendere i suoi mercantili  interessi verso il Baltico e particolarmente verso il  mar del Nord, a tutta ragione detto germanico; ivi la defluenza  delle principali vie fluviali della patria alemanna;  ivi gli aiuti di fianco, che già vanno ed andranno meglio  in appresso, degli stessi porti di Marsiglia e Genova; ivi  lo sfogo della corrente centrale dei commerci italiani, appena  siano aperte alla locomotiva le Alpi della Svizzera  e del Tirolo sull'antica strada veneziana di Norimberga;  ivi infine la Prussia, che terrà l'egemonia politica ed  economica della nazione germanica.  « Quale necessaria connessione invece del porto triestino  con quei paesi, se perfino a Lubiana, a brevissimo  tratto dall'Adriatico, giungono da Amburgo i coloniali;  se i manifattori di Boemia e Moravia reclamano quella  città come il loro principale stabilimento; se gli stessi  centralisti di Vienna, instando per la soppressione del  portofranco di Trieste, fanno palese il loro interesse di  piegare a un solo versante commerciale anche la Germania  austriaca; se infine non è già la Germania a tergo  di Trieste, ma sì la Slavia con la Carniola e con parte  della Carinzia e di Stiria?  « E dopo ciò, sarà necessario a Trieste di rimanersi  congiunta a uno Stato che ha sì poco interesse economico  di tenerla, e sì poca voglia e forza di giovarla?  E di tal modo se la Slavia, la quale è sveglia anch'essa  e balda di giovanili spiriti, va incontro all' avvenire,  farà tutto suo nell'Adriatico, che potrà o vorrà allora  l'Italia? Sostare è prudenza se ciò che non tocchiamo in  presente non ci può mai sfuggire in appresso; ma non  così quando urge il pericolo di non conseguirlo mai più.  «Difatti l'Italia troverebbe qui oltre alle già discorse  difese della sua frontiera, spertissimi marinai, ricchi boschi  per le costruzioni navali, carbon fossile. E vedemmo  quindi l'Istria anche per questo formare parte del primo  Regno d'Italia allora pure che Gorizia e Trieste n'erano  escluse, e una strada militare esservi stipulata nei  trattati internazionali, condottavi con molto interessamento  da quel Governo. E quando si formarono sotto il diretto  dominio di Francia le provvisorie provincie illiriche,  mostruosa amalgama di genti e di cose disformi, lo stesso  Governo italiano appoggiava insistentemente i voti e le  proteste dell'Istria a non essergli sottratta, e otteneva per  allora gli fossero mantenute almeno le leve dei marinai  e le amministrazioni delle saline e dei boschi...  « Se in noi parla assieme alla ragione l'affetto, non ci  crediamo men giusti argomentatori di chi impone silenzio  al cuore, e a questo prezzo, ma non senza offendere in  uno la logica dell'onore nazionale, si dà pregio di riposato  ingegno e di saggezza. Ma tra la cieca passione che  esige l'impossibile purché ne venga arma di partito, e  la singolare saggezza di chi pregusta, come pure udimmo  in questi giorni, la buona amistà d'Italia con l'Austria  signora di provincie e di frontiere italiane, e i cordiali  nostri rapporti coi fucilatori dei naufraghi di Lissa,  ancor padroni del già sempre nostro Adriatico, vi è una  saggezza ben diversa, la saggezza di chi si rispetta e  rispetta meglio la nazione, confortandola a non mostrarsi  al disotto del suo nome e della sua fortuna, a non abdicare  ai suoi più vitali interessi, solo perché men facile  dell'addormirsi nell'ingloriosa quiete ne sia il conseguimento.» 

Alte e virili parole, che non valsero tuttavia a far  mutar corso agli eventi. L'ora delle terre irredente non  era matura... 

 

 

 

 

(Storia della Grande Guerra d'Italia, Milano 1920 ca. - Isidoro Reggio)