Elisabetta Sirani 
		(1638-1665)
		 
		 
		
		
		Alessandra Doratti
		
		 
		 
		
		
		 
		
		
		La bella Porzia estrae il pugnale e sta per ferirsi, abbigliata in un 
		sontuoso costume rinascimentale rosso e oro; nel vano della porta alle 
		sue spalle, in contrasto con quanto accade in primo piano, si intravede 
		una scena casalinga di cucito, ricamo e pizzo al tombolo, quasi eco di 
		sommessa quotidiana che si svolge in una stanza accanto.
		L'autore è una pittrice del Seicento, Elisabetta Sirani (1638-1665), 
		bolognese. Un nome che non dice molto ai non addetti ai lavori: 
		senz'altro meno noto delle più illustri Sofonisba Anguissola 
		(1531-1625), Artemisia Gentileschi (1593-1652) e Rosalba Carriera 
		(1675-1775). Elisabetta fu decisamente meno longeva di queste sue 
		"colleghe": morì a 27 anni, forse per una grave ulcera, tuttavia in modo 
		da lasciare dubbi visto che fu aperto un processo.
		Anche Marietta Robusti (1560-1590), figlia del Tintoretto, era stata 
		famosa: come pittrice (e come musicista) fu invitata assieme al padre 
		alle corti di Spagna e Austria, ma non si era mossa da Venezia, e lì era 
		morta di parto a trent'anni. In qualche modo il destino di Elisabetta si 
		avvicina a quello della figlia del Tintoretto; anche la Sirani era 
		figlia di un pittore, Giovanni Andrea, emulo di Guido Reni e comunque 
		artista di successo che fu chiamato a completare le opere del maestro 
		alla di lui morte, nel 1642.
		A 16 anni Elisabetta già stupiva i suoi concittadini. Imparò presto a 
		dipingere, e bene, su committenza; imparò presto anche a provvedere alla 
		famiglia. «Sembrava giocare piuttosto che dipingere», lasciarono scritto 
		i suoi contemporanei, ammirati dalla velocità e dalla facilità con cui 
		Elisabetta creava quelle belle immagini sulla tela. Una volta fu spinta 
		persino a una prova pubblica per sfatare le voci che vedevano il padre 
		furbo "sfruttatore" di una inesistente capacità o abilità della figlia.
		
		Grazie appunto alla 
		sua straordinaria destrezza, Elisabetta riuscì a "produrre" una quantità 
		incredibile di quadri e, per soprammercato, a insegnare alle sue sorelle 
		minori, Anna Maria e Barbara. «Lavorava dall'alba al tramonto, tutti i 
		giorni eccetto la domenica, e trovava anche il tempo per intrattenere 
		gli ospiti o i committenti con conversazioni spiritose e buona musica. 
		Apriva il suo studio ad altre donne desiderose di imparare, tanto che 
		finì per fondare una scuola» così scrive Germaine McGreer in "Le tele di 
		Penelope", tradotto da Bompiani nel 1970. A soli 18 anni fece un 
		ritratto a Ginevra Cantofoli, una signora di vent'anni maggiore di lei, 
		nota miniaturista. In quest'occasione fu la giovanissima Elisabetta a 
		incoraggiare la più matura Ginevra a passare alla pittura a grandi 
		dimensioni, e con successo.
		A 19 anni, Elisabetta aveva già raggiunto il massimo della notorietà: 
		era stata invitata, assieme ad artisti di fama, come suo padre, il 
		Canuti, il Bibbiena e il Rosso Napoletano, a progettare alcuni dipinti 
		per la chiesa di San Gerolamo nella nuova Certosa di Bologna.
		Forse l'eccesso di operosità, unito all'aiuto prestato dalle sorelle 
		Anna Maria e Barbara, nonché dalle allieve Vicenza Fabbri, Veronica 
		Franchi, Lucrezia Scarfaglia, contribuirono a provocare, nell'arco della 
		sua "produzione", qualche caduta di tensione: non tutti i dipinti 
		attribuiti ad Elisabetta e sparsi un po' dovunque, ma specialmente nelle 
		chiese e nei monasteri di Bologna e di vari centri emiliani, sono dello 
		stesso livello creativo ed esecutivo. E non senza motivo. Se dobbiamo 
		credere a un ammiratore bolognese, il conto della Sirani e ci lasciò 
		l'elenco delle opere (Elisabetta stessa aveva provveduto a tenere una 
		lista, nella migliore tradizione dei grandi maestri), nella "bottega" la 
		pittrice accoglieva anche ragazzine, o addirittura bambine, per esempio 
		la figlia del Bibbiena, che alla morte del padre, nel 1664, aveva 
		soltanto nove anni. Alla morte di Elisabetta risultavano apprendiste 
		nell'atelier una Camilla Lanteri di sei anni e una piccolissima Teresa 
		di anni tre.
		Cosa poteva diventare se fosse vissuta più a lungo?
		Nelle tale di Elisabetta (molte delle quali sono conservate presso la 
		Pinacoteca Nazionale di Bologna) abbondano gentilezza, grazia e un certo 
		tocco affettuoso, specialmente quando la composizione ha per tema una 
		madre e un bambino ("Il bambino Gesù in piedi sul mondo", "La sacra 
		famiglia", "La madonna della tortora"). Di colpo, tuttavia, la 
		promettente carriera della Sirani ebbe termine, in modo del tutto 
		imprevisto, tanto da lasciare una serie di sospetti mai più diradati.
		Durante la primavera del 1665 si lamentò di forti dolori allo stomaco. 
		In agosto si sentì male di nuovo, e morì improvvisamente il giorno 28 
		dello stesso mese. «Suo padre», racconta Eleanor Tuft in "Cinque secoli 
		di donne artiste", New York, 1974, messo in sospetto, ordinò 
		un'autopsia, che non rivelò nessuna causa specifica del decesso. Non 
		soddisfatto del responso e convinto che una domestica invidiosa, in 
		litigio con la famiglia Sirani, avesse avvelenato Elisabetta per 
		vendicarsi, il vecchio portò il caso in tribunale.
		Sebbene il processo a carico della ragazza, Lucia Tolomelli, si 
		risolvesse con un verdetto di non colpevolezza, il conte Malvasia, 
		l'amico di famiglia che era stato testimone della carriera di 
		Elisabetta, non si fece convincere dalla sentenza.
		Più tardi Malvasia scrisse che i medici non erano affatto d'accordo fra 
		loro, e che probabilmente c'era stata, sì una forma di lento 
		avvelenamento; aggiunse anche che Elisabetta era una donna di 
		temperamento assai vivace e che doveva esserle costato molto nascondere 
		in modo drastico la sua propensione al matrimonio (pare che un candidato 
		fosse stato rifiutato dal padre). In realtà, Elisabetta aveva troppo 
		lavorato, non si era risparmiata nessuna fatica, non aveva avuto per sé 
		alcun riguardo. Quasi impossibile, comunque, rispondere a "cosa mai 
		sarebbe diventata" se fosse vissuta più a lungo: domanda senza via 
		d'uscita. Certamente come testimoniano alcuni dei suoi dipinti (uno dei 
		quali il "San Girolamo nel deserto" esposto presso la Pinacoteca 
		Nazionale di Bologna), la Sirani aveva raggiunto nelle sue opere un già 
		straordinario livello di intensità. Tre mesi dopo la sua morte in San 
		Domenico a Bologna, si tenne una sontuosa cerimonia: ma, dice 
		giustamente Germaine McGreer, «mentre la città si felicitava di aver 
		dato i natali a una donna prodigio, non si levò voce alcuna per 
		lamentare che nessuno fosse riuscito a tenerla in vita, così da 
		permetterle un pieno sviluppo della maturità artistica».
		
		
		
		 
		
		
		
		Alessandra Doratti