DOPO  CAPORETTO

 

Roma 1919

 

 

Giuseppe Prezzolini

 

 

 

 

8 luglio 1919.

Queste pagine furono scritte nei primi giorni del novembre 1917 e terminate il giorno 10. Tali e quali, salvo piccoli mutamenti di parola, oggi le pubblico perche prima la censura non le avrebbe permesse, ne io stesso forse avrei consentito a pubblicarle così, e perche ritengo che sul fatto di Caporetto l'Italia debba ancora molto meditare. Prego, per giudicare queste a pieno, attendere le pagine che seguiranno, sopra Vittorio Veneto.

 

Giuseppe Prezzolini.

 

 

 

 

Siamo ancora così vicini alla catastrofe e ancora così lontani dall'avere le testimonianze principali che ci  possono guidare a formarci un'idea del suo svolgimento,  che sembra assurdo volerci fissare sopra il pensiero e tentare di capire come « ciò » sia accaduto.

Eppure, non se ne può fare a meno.  È una esigenza della nostra vita cercar di  comprendere e lo è sopratutto in un momento come questo. Né so concepire  una mente di italiano,  che in questi giorni possa pensare ad altro, rifletta su altro, si sforzi di vedere altro. E poi, se le testimonianze  sono certamente necessarie per sapere « come si  sono svolti i fatti », non lo  sono altrettanto per formarci un' idea del « come furono possibili ».

Durante questi anni di guerra, ci giunsero troppe voci di osservatori e troppo  abbiamo osservato noi stessi, per non renderci conto degli avvenimenti che si  sono preparati.

La ricerca delle cause va inoltre molto più in là dello scoppio della guerra: risale alle qualità primigenie del nostro popolo e allo stato reale del paese negli anni  che la precedettero. Non ci sentiamo di seguire coloro che vanno in cerca del colpevole, uomo o sistema, e si  appagano d'un cambiamento di testa. Cadorna pagherà per sé. Ma pagherà molto di più per tutta l'Italia. E questo è grave:  che il  suo errore serva a coprire gli errori di tanti. La storia non  ammette, come la teologia pagana, i capri espiatorii e si vendica inesorabilmente delle colpe nascoste. Catastrofi come la presente non si esauriscono in una causa occasionale, ma  sono il risultato di fattori complessi, molteplici, remoti. Esse rivelano  una realtà  che i più ignoravano, cosicché i problemi  che fanno sorgere sono sempre  due: uno del come nacquero, l'altro del come rimase occulta la loro preparazione.

Senza entrare nei particolari  che ancora a nessuno é dato raccogliere con sufficiente cura per istruirne il processo storico, questo é certo e fondamentale: che non si tratta di una catastrofe militare, derivante soltanto da errate disposizioni d'un generale o di uno stato maggiore, o unicamente da un tradimento, o principalmente da inferiorità d'armi e di uomini; bensì da un disgregamento morale, repentinamente rivelatosi, in un momento critico e sopra una così larga parte dell'esercito, da far perdere a questo, in  un periodo di pochi giorni,  due terzi della sua efficienza bellica, quasi tutto il  suo materiale di guerra, posizioni conquistate in  due anni e mezzo di dura lotta.

Come mai ciò è potuto avvenire, senza  che le classi dirigenti del paese ne avessero il minimo sentore, senza che il Comando dell'esercito ne comprendesse la vastità, l'importanza, l'irreparabile gravità?

Son questi i problemi più interessanti.

 

 

 

 

 

L'impreparazione dell'esercito.

 

 

Il 1915.

 

 

L'esercito italiano scese in guerra nel  maggio del '15 assolutamente impreparato: militarmente e moralmente. Non soltanto gli  uomini di truppa da mesi sotto le armi, non erano stati istruiti, nel periodo invernale, con i nuovi sistemi  che la guerra europea  aveva rivelato, ma mancava di quel materiale che il nuovo carattere assunto da questa, specialmente dopo la battaglia della Marna,  imponeva ad ogni esercito che non volesse essere sconfitto prima di poter vedere il nemico.

Entrammo in guerra con  un armamento « preistorico». Non avevamo grosse artiglierie.  Nessuno, del nostro Stato Maggiore,  aveva mai creduto alle grosse artiglierie, salvo forse il generale Dall'Olio. Nessuno s'era corretto in dieci mesi di guerra europea. L'immaginazione popolare, con i suoi miti rivestenti profonde verità,  aveva inventato una favola significativa: che si sarebbe dichiarata la guerra appena avessimo finito il pezzo da 520, capace di sopraffare i tedeschi. Ciò  che il buon senso del popolo  aveva grossamente capito,  che la guerra poteva vincersi soltanto per mezzo di una  preponderanza d'artiglierie, non capirono i nostri generali. La dotazione dei pezzi minori era la metà di quella  che si consumava in Francia nell'inverno1914. I reggimenti non  avevano mitragliatrici scarse. Alcuni battaglioni passarono la frontiera muniti di mitragliatrici di legno per esercitazione.  Le bombe a mano erano sconosciute, e tutti coloro che sopravvivono dalle  prime avanzate  posson testimoniare del terrore  che gettarono nelle nostre truppe. Gli ufficiali parteciparono ai primi  combattimenti con la sciabola e vestiti in modo da essere subito colpiti. L'aviazione non funzionava.  Nessuno dei capi vi  aveva creduto. Era per loro un gioco. Fra l'artiglieria e le fanterie  nessun serio collegamento,  nessun segnale: l'artiglieria nostra finiva per sparare sui nostri fanti. Si pretendeva tagliare i reticolati  con le pinze a mano e  con i tubi di gelatina. In questo impossibile compito furon sacrificati i migliori elementi della fanteria e del genio. I superiori,  che stavano nelle terze linee, non si arrendevano mai alla realtà e mandavano al macello, contro reticolati intatti, masse di uomini. La morte era sicura ed inutile. L'eroismo del basso si  mescolava all'imbecillità dell'alto e devon datare da quel tempo le cartoline austriache lanciate fra le nostre truppe,  dove si vedevano i nostri soldati con la testa di leone guidati da generali con la testa d'asino. Crudele, ma vera caricatura.

Si concepiva la guerra come nei vecchi manuali formati sulle esperienze del 1870. La coltura militare degli ufficiali era scarsissima: basta prendere le riviste militari degli ultimi anni per accorgersene. Il Regolameuto del servizio in guerra è  semplicemente ridicolo. L'attacco  frontale del Cadorna è fondato sulla guerra delle Fiandre e inapplicabile sul nostro fronte. Ciò che c'è di vero è cosa di buon senso; ciò che non è di buon senso non è vero ed è pericoloso. Ma pure in questo lavoro si naviga nelle altezze. Bisogna, per immaginare la mentalità degli ufficiali superiori, pensare a gente che, non dico rapporti segreti o riviste militari, ma  neppure i giornali pareva aver letto, salvo forse l'appendice, la tabella del R. Lotto e la rubrica dello sport. Da maggiore in su, sembravano quasi tutti ignorare ciò  che era accaduto dall'agosto 1914. Il soldato  vedeva il  nemico fornito di tutti i sistemi più perfezionati: riflettori, razzi, periscopi; si  vedeva spiato, sorvegliato,  bombardato dagli aviatori nemici, senza  che le artiglierie aviatori nostri li buttassero giù; si trovava di fronte a linee naturali  ben scelte per la difesa,  che aveva veduto munire sotto i suoi occhi  mentre si temporeggiava, con ripari forniti di mitragliatrici, comodi per stare e sicuri per difendersi; si sentiva bersagliato da un'artiglieria superiore alla nostra e, nei suoi effetti, forse più efficace  moralmente che materialmente, ma sempre spettacolosa. Cosicché in  poco tempo  aveva finito per avere sfiducia nei propri sistemi, nei propri capi, nelle proprie artiglierie. Alla fine del 1915 le fanterie erano già demoralizzate. L'offensiva del novembre  aveva dato loro un colpo tremendo, per l'inutile spreco di vittime e per l'assoluta mancanza di risultati. L'anno 1915 resterà, per  chiunque sia stato allora al fronte, disastroso e deprimente. In esso l'esercito fu impoverito dei migliori elementi  che si sacrificarono senza frutto, stancando e sfacendo il fiore delle truppe e il meglio degli ufficiali e dei volontari.

 

 

Mancanza di un concetto strategico.

Fin dal  primo anno mancò un concetto strategico. Le offensive furono molteplici, senza collegamento, senza previsione di mezzi, senza scopi lontani, senza sfruttamento dei risultati locali. La mancanza di rincalzi o la mancanza di munizioni, l'indecisione negli ordini, ritornavano continuamente con accento di  rammarico nei racconti degli ufficiali e dei soldati, come le cause di azioni iniziate  bene e finite male. Si lasciavano rinforzare le posizioni austriache dopo averle bombardate,senza subito attaccarle; si abbandonavano reparti senza sostegno quando  avevano occupato qualche posizione importante. Nel Trentino da troppe testimonianze è certo che una maggiore rapidità avrebbe sorpreso forti smuniti e posizioni importanti abbandonate. Tutta la guerra è stata così rosa, fin dal principio, dalla mancanza di obbiettivi guerreschi. Quelli sentimentali, come Trento e Trieste, non furono raggiunti. Le azioni  tendevano alla conquista d'una cima, d'una quota, d'una punta. Colli senz'altro nome che quello della loro altezza sul livello del mare,  sono costati migliaia di vittime. La storia della nostra guerra ne è piena.

 

Un assurdo dominava tutto.  Mentre si dichiarava indifendibile il confine  che avevamo e si muoveva guerra per la conquista d'un confine migliore, non si sapeva fare altro  che su  quell'immenso confine indifendibile stendere in  magra linea tutto l'esercito, non riuscendo a costringere l'Austria  neppure ad immobilizzarvi, nei primi tempi, mezzo milione di uomini. Soltanto col tempo, imitando tardivamente gli stranieri, si cercò di  rompere il fronte in un  punto determinato ma sempre con mezzi inadeguati. La nostra specialità furono sempre le offensive a spizzico. In esse si sacrificò molto maggior numero di  uomini e sopratutto si stancò un molto maggior numero d'uomini,  che non  adoprando vigorosamente masse formidabili  con deciso disegno contro un solo  punto nemico. Per lo più le offensive a spizzico erano volute da capi  che se ne aspettavano una promozione, che null'altro  curavano nella guerra,  che la propria carriera. Il soldato sapeva e capiva benissimo tutto questo e si batteva  mal volentieri perché un colonnello diventasse brigadiere, o un brigadiere comandante di divisione.

Troppo tardi si capì  che nel nostro fronte una sola offensiva poteva riuscire, ed era quella fatta in comune con tutti gli alleati. Ma  neppure allora si rinunciò alle offensive parziali.

 

 

 

Il fattore morale trascurato. Il trattamento dei volontari e degli irredenti.

Il fattore morale fu  sempre trascuratissimo. Era, del resto, vecchia tradizione del nostro esercito e d'uno Stato maggiore contrario alla disciplina di persuasione. Mai si cercò di spiegare ai soldati il perché della guerra, i dati fondamentali di essa, la sua necessità ed i vantaggi che ne potevano sperare le masse. Mai si rappresentò loro che cosa fosse il nemico... Mai si cercò di legare il soldato con interessi, con premi, con provvidenze sociali, con onori speciali dovuti a chi faceva davvero la guerra. La stessa medaglia al valore venne distribuita senza equità. Troppo poche al soldato, troppe agli ufficiali addetti ai comandi.

Pessima poi la concessione di medaglie con motivazioni leggerissime ad  uomini parlamentari e a giornalisti  che vivevano vicino al Comando Supremo. Non già che non abbiano essi dimostrato coraggio e valore, ma perché troppo di più dovevano dimostrarne quasi giornalmente ufficiali e soldati combattenti, che se ne trovavano invece privi. L'ingiustizia offendeva. C'erano tante sorta e varietà di croci, che la medaglia al valore avrebbe dovuto essere salvata. Soltanto negli ultimi tempi si cercò di dare qualche conforto di  propaganda alle truppe. Ma troppo tardi. Erano già stanche e diffidenti. Né la truppa può tollerare  propaganda di elementi  che non  combattono e  che essa non  veda affrontare i suoi disagi e i suoi rischi. Soltanto ai feriti, ai mutilati  dovrebbe essere  permesso di parlare ai soldati: gli altri, sopratutto i borghesi, producono l'effetto contrario.

Gli elementi che avrebbero potuto  compiere un'assidua opera di propaganda, erano quelli provenienti da partiti popolari, convertiti alla causa della guerra. In essi la capacità, di conoscere lo spirito popolare, di sorprendere le obiezioni, di ribatterle. Ma invece furono tenuti d'occhio come soggetti pericolosi. Anzi spesso le loro convinzioni interventiste erano ragione di maltrattamenti, di antipatie, di odii, di soprusi da parte di superiori, neutralisti per germanofilia o più spesso semplicemente per noia della guerra.

Una voce unanime salirà a guerra finita dalle file dei volontari e degli irredenti, arruolatisi come soldati semplici o come sottotenenti, ai quali non fu concesso di formare un corpo speciale: e la voce dirà il barbaro trattamento fatto ad essi perché avevano voluto o, come si diceva per gli irredenti, erano stati la causa della guerra. Quanti drammi per ora ignorati dal gran pubblico! Giovani pieni di fede e d'un grande avvenire hanno trovato la morte  non già nel compimento di un dovere uguale per tutti ma nell'arbitraria e imposta esposizione al pericolo voluta da superiori; infiniti animi furono rattristati e sfiduciati. Chi parla di  propaganda non sa  che essa trovava i più gravi ostacoli negli alti gradi. Gli elementi migliori per fede, per convinzione, per cognizioni, si trovarono all'inizio della campagna nei gradi subalterni. Soldati e ufficiali superiori si potevano spesso paragonare gli uni agli altri, per inerzia mentale di fronte ai problemi generali ed anche di fronte ai problemi tecnici della guerra. E così gli elementi che avrebbero potuto rinnovare l'esercito, si trovavano spesso a combattere contro l'ignoranza delle masse senza avere l'appoggio dei superiori e contro il malanimo dei superiori senza avere l'appoggio delle masse.

 

 

 

Effettivi, di  complemento e territoriali.

Un disagio morale si manifestò nell'esercito per le relazioni fra ufficiali effettivi e ufficiali di complemento o della territoriale. I primi guardavano dall'alto in basso i secondi,  che ritenevano poco istruiti. I secondi sentivano questa antipatia e la ricambiavano, lamentandosi che, con la complicità degli ufficiali superiori, i primi si riserbassero i posti più sicuri nel paese  od al fronte, in un reggimento  che io conosco, di cinque subalterni effettivi  che partirono per il confine,  durante il viaggio quattro si collocarono nelle retrovi e si  ammalarono, il quinto fu destinato al carreggio. In generale si notava questa contraddizione: che proprio gli ufficiali effettivi, che avevano scelta la carriera delle armi come un mestiere e per i quali la guerra doveva essere se non una ragione di gioia, come nei migliori, almeno un rischio preveduto, cercavano di sfuggire alle sue  conseguenze e mandavano avanti gli ufficiali di complemento e della territoriale, per i quali la guerra non era  che un incidente della vita.

La ragione addotta per questo  imboscamento, cioè le  conoscenze tecniche degli ufficiali effettivi, cadeva di fronte al fatto  che nulla in questa guerra si applicava e rassomigliava a quello  che essi avevano imparato e si insegnava nei loro manuali. Tutto era da impiantare a nuovo e tutto da imparare. La mente dei giovani ufficiali di  complemento e della territoriale, venuti dalle carriere libere, più freschi e non interessati all'avanzamento, era assai più adatta  che non la mentalità adagiata in sistemi fissi e  comodi per l'umana pigrizia, degli ufficiali effettivi.

Lo stesso dualismo si manifestava fra la Sanità militare e i suoi elementi medici venuti dalle Università, dalle Cliniche, dagli Ospedali, dalle Condotte.

 

 

L'Ufficiale italiano. L'impreparazione.

L'ufficiale proviene, in generale, dalla borghesia. Ne ha tutte le qualità; le cattive come le buone, tradotte militarmente. Quello  che l'ufficiale ha fatto nell'esercito, durante la guerra, è quello che la borghesia  ha fatto nel paese, dopo il Risorgimento.

Né potrebbe essere diversamente.

Il nostro paese manca di una vera classe dirigente; poche regioni hanno una « borghesia » degna di questo nome francese del secolo XIX; la nostra borghesia,  mentre usa dei propri privilegi, non sente il peso dei suoi doveri e della responsabilità che importa il posto che occupa. Parafrasate queste constatazioni in lingua militare, ed avrete un giudizio esatto del corpo degli ufficiali.  È una classe dirigente improvvisata ed insufficiente per istruzione; nella quale il senso del dovere non è molto diffuso, la serietà della vita non  ha forti radici e  dove si è più proclivi a far valere i propri privilegi che non a sentire il pesi della propria posizione. Nella parte giovane si può notare un veramente poco ordinario disprezzo del pericolo e della morte.
La borghesia italiana in cinquant'anni di unità non ha saputo creare un corpo e una tradizione militare. Non ha mai avuto stima per il mestiere delle armi. Vi ha inviato i figli più scadenti. Ha
lasciato che la vita dell'esercito si svolgesse separata dalla vita della Nazione, senza mai occuparsi di ciò che in essa accadeva e del come si spendevano i miliardi che sempre venivano concessi, forse con riluttanza e con disprezzo, ma sempre concessi. Molti borghesi che potevano non avevano fatto i corsi d'ufficiale di complemento. I quadri erano poverissimi. Fra effettivi e complemento avevamo appena quindicimila ufficiali all'inizio della guerra. Tanto vale a dire che nove decimi degli ufficiali si sono dovuti improvvisare, con corsi di due o di tre mesi, e che sull'inizio sono stati mandati al fronte persino senza nessuna istruzione.
Se l'ufficiale italiano così improvvisato ha dato frutti abbastanza buoni, è stato per il fatto sopra
accennato della novità completa della guerra, per la quale i tecnici, che avevano una quantità di
idee e di abitudini cristallizzate, han dovuto romper con quelle prima di adottare le nuove rispondenti alla realtà, mentre gli altri han dovuto soltanto imparare dalla pratica; e poi perché noi riusciamo meglio quando lo stimolo della necessita ci costringe a lavorar con la mente, anziché quando dobbiamo mettere in opera il pensiero per una preveggenza che sul nostro spirito non ha mai grande peso.
Gli ufficiali improvvisati hanno imparato rapidamente, ma l'assestamento non è stato possibile senza perdite gravi e senza disordine. Ora tutto il peso della impreparazione materiale e morale, dell' improvvisazione degli ufficiali, dei dissidi fra questi, della mancanza di un concetto e di un coordinamento strategico delle azioni, è venuto a cadere, come sempre avviene per ogni disordine militare, sulle spalle del soldato. Il soldato è quello che più ne ha sofferto.
 

 

Il soldato italiano
Il soldato è il punto fondamentale sul quale bisogna fermarsi perché è stato l'agente principale della catastrofe.
Che cos'è questo soldato italiano che, secondo i giornalisti, sarebbe stato eroico e patriota fervente per due anni e mezzo, senza esitazioni, e senza eccezioni, e che dopo due anni e mezzo sarebbe d'un tratto talmente cambiato da produrre un rovescio come il presente?

La pratica degli avvenimenti umani ci comincia ad insegnare che non può esserci stato un cambiamento così rapido; che qualche cosa di ciò che si è rivelato doveva esserci fin dall' inizio; che altro si sarà aggiunto per via. Quanto al velo che nascondeva tutto questo, vedremo chi, l'ha messo. Il soldato italiano non è mai stato, né poteva essere, l'eroe continuo che raccontano i giornalisti; non poteva esserlo perché non lo è in nessun paese del mondo e tanto meno nel nostro che non ha avuto una tradizione militare. Le guerre del nostro Risorgimento oggi ci fanno sorridere. La Cernaja costò diciotto morti all'esercito piemontese. Tutte le battaglie insieme del Risorgimento danno una cifra di perdite non maggiore di quella di un grosso combattimento di oggi: 6000 morti. L'unità d'Italia è stata definita un terno al lotto. Non è costata né molte fatiche né grandi sacrifici. Non avemmo capi militari e non formammo una tradizione militare. Le guerre coloniali d'Eritrea e di Libia han riconfermato queste esperienze. Oltre al mancare di disciplina militare, l'italiano manca di quella disciplina civile che, come in Inghilterra, si é potuta trasformare in disciplina militare, appena se ne é sentito il bisogno.
Se l'ufficiale è lo specchio della borghesia, il soldato è lo specchio del popolo: ed ambedue non differiscono molto perché un popolo ha la classe dirigente che sa esprimere dal suo sangue, e la classe dirigente ha il popolo che sa educare e dirigere. Ogni popolo ha i padroni che si merita, e ogni padrone ha i servitori che sa scegliere. Il soldato italiano non ha molte qualità militari, salvo lo slancio nell'attacco, purché abbia capi che paghino di persona e inspirino fiducia. Allora lo si porta dove si vuole. Manca però di voglia di lavorare, non ha molta precisione, né amor patrio, poca disciplina, debole senso del dovere. Vedete come preferisce restare sotto il pericolo delle pallottole, anzi che scavarsi la sua buca più profonda e fare il suo muretto più alto; non gli importa correre il rischio d'essere scannato da una baionettata pur di non vegliare la notte; e chiacchiera e fuma anche se questo lo scopre e lo rivela al nemico. In compenso di questi difetti, gravi per una guerra come la presente, ha in dose enorme una qualità grandissima, ed è la capacità di soffrire e di sopportare, fino ad un grado che rasenta l'inverosimile. Perché un soldato italiano si rivolti, occorre che ogni limite umano sia sorpassato. Il suo sfogo é piuttosto la parola che l'atto. E anche nella recente catastrofe è stato piuttosto con la passività che ha dimostrato fino a qual punto era stanco e scontento. Ma se il popolo italiano ha sempre avuto, da secoli, questa enorme qualità del sopportare, non mai, credo, come in questa guerra ne ha dato prova; in essa difatti, senza sapere il perché, ha combattuto contro un nemico che non odiava perché non lo conosceva, con un clima ostilissimo, in condizioni disagiate e, negli ultimi mesi, con vitto insufficiente, sotto capi che troppo spesso non si curavano di lui altro che per ordinargli d'andare incontro a nuove sofferenze e a nuovi rischi, sopra i quali non vedeva nemmeno fiammeggiare la corona della vittoria: di quella vittoria vera, tangibile, efficace, che per il popolo è la fuga del nemico, la conquista delle sue città, delle sue terre, delle sue capitali; di quella vittoria che al popolo, (più idealista di quanto si pensi) basta spesso per far tacere ogni dolore ed ogni stimolo, per tenere luogo di pane e di famiglia, di riposo e di agio. Il soldato italiano non è dunque l'eroe a getto continuo dei corrispondenti di giornale, che chiede di restare in trincea quando viene il cambio; non è l'eroe attivo che questa gente ha dipinto su fattura, ma è un grande eroe vittima, passivo, enorme, se si pensa agli strazi, ai pericoli, ai disagi inutili ed incompresi. Non è una qualità di prim'ordine ma è evidente che se ne poteva cavare assai più di quello che se n'è cavato.

 

Si poteva bene arrivare a non spezzare una corda così elastica, e che aveva dato prove insuperabili di bontà, che aveva anche avvertito, da molto tempo, che la sua resistenza era agli estremi.
Non si è tenuto conto delle grida contro la guerra; delle fucilerie di protesta aperte da interi reparti dai treni e nei campi: dei reati crescenti di insubordinazione: dei fenomeni di ammutinamento collettivo, in giorni di offensiva; del numero impressionante di disertori, sia datisi al nemico volontariamente, sia latitanti in paese con la connivenza della popolazione e indiscutibilmente con la tacita acquiescenza delle autorità di pubblica sicurezza e dei carabinieri; dei prigionieri, troppo numerosi in confronto delle perdite che si avevano nei reparti e che testimoniavano scarso spirito combattivo. Si conducevano allo sbaraglio i reggimenti che si portavano bene e si tenevano lontani dal pericolo quelli di spirito fiacco; scontentando giustamente i primi e rafforzando negli altri il concetto che il portarsi male era il miglior modo per salvar la pelle e che soltanto i « fessi dovevano fare la guerra ».
Non si è, insomma, capito nulla del soldato; non si è saputo nulla del soldato: se l'elemento materiale, col quale si partì in guerra nel maggio 1915 venne migliorandosi, e giunse nel 1917 ad essere all'incirca contemporaneo, l'elemento uomo andò sempre più decadendo e l'elemento morale venne sempre più trascurato. Le chiamate di categorie non istruite, dei riformati, il passaggio delle classi territoriali alla milizia mobile, l'affrettata promozione di elementi di scarsa coltura e di dubbia fedeltà, i corsi affrettati di Modena, di Parma, di Caserta, dettero un personale di soldati e di ufficiali sempre peggiore fisicamente e sempre meno ben disposto moralmente. Fu pessima l' idea di obbligare coloro che avendo titoli si erano imboscati quali attendenti, piantoni, scritturali, a diventare ufficiali per forza: furono un elemento deleterio, andarono al fronte con rancore e col desiderio della disfatta. Si può paragonare tale errore a quello di inviare sul fronte, e pare sul settore dove i tedeschi poi attaccarono, gli operai di Torino, ai quali per fatti quivi avvenuti, era stato tolto l'esonero: agirono da propagandisti e divennero centri di panico. Ma il crollo finale alla resistenza morale del soldato, fu dato, secondo chi scrive, dalla riduzione del vitto. Negli ultimi sei mesi gli uomini di truppa mangiavano abbastanza soltanto se i loro ufficiali si quotavano per migliorare il rancio. Nei reparti dove ciò non avveniva (ed erano, si capisce, la maggioranza) si pativa la fame. Questa è la verità; e non quella, dei medici e degli ufficiali superiori che asserivano che tutto andava per il meglio e che il soldato aveva acconsentito con patriottismo alla riduzione dei viveri, riduzione tanto più impolitica in quanto veniva a pesare sopra truppe stanche di due anni e mezzo di guerra e che nel primo anno avevano goduto di un' inverosimile abbondanza, fino allo spreco.
 

 

 

Gli imboscati.
Si è detto, con ragione, che una delle cause di malcontento delle truppe di linea risiedeva negli imboscati. E difatti contro gli imboscati le proteste del soldato e degli ufficiali al fronte, erano vivissime: si giunse persino alle fucilate contro i ferrovieri. L'ultimo fatto però, denota già come questo risentimento, giustissimo in apparenza, rivelasse un fondo di ignoranza e di grettezza personale. L'odio generale delle truppe e del paese contro gli imboscati, nasceva forse da un sentimento vivo di giustizia offesa e di amor per il paese, al quale venivano sottratte forze per la difesa, oppure da un egoistico desiderio che i rischi e disagi della guerra fossero distribuiti in misura eguale su tutti? Secondo chi scrive, il sentimento che dominava era quest'ultimo e molti di coloro che più gridavano contro gli imboscati erano prontissimi ad imboscarsi purché se ne presentasse l'occasione. Era, in fine, un pregiudizio democratico e non un desiderio di vera giustizia che animava molti pubblicisti nell'appoggiare la campagna popolare contro gli imboscati. Era pure per il terrore dell'opinione pubblica, e non per l'interesse del paese, che i ministri cercavano di dare soddisfazione, prendendo provvedimenti contro gli imboscati.
Il criterio curioso che ha regolato il diboscamento è stato, in generale, questo: gli abili al fronte, gli inabili negli uffici. Quasi che gli uffici non avessero, in una guerra come questa, spesso maggiore importanza del fronte; quasi che il buon andamento di un servizio non avesse spesso maggiore importanza per il fronte e per il paese, della buona condotta di un reparto! Il diboscamento andava fatto in base ad un solo, ma rigido criterio: -quello della utilità e speditezza dei servizi: quello della utilizzazione delle competenze: quello della cacciata dei veri incapaci dai posti dove si trovavano, al fronte o nel paese. Invece si è cercata l'equa distribuzione dei rischi e dei disagi di guerra sulle teste dei vari ufficiali e soldati. La mentalità democratica era tale che, se avesse potuto, avrebbe mandato per sei mesi in fanteria gli automobilisti, gli artiglieri e gli operai delle munizioni. Non per vincere prima, ma per contentare i più.
Se, per esempio, alle Pensioni, fosse stato necessario un certo numero di abili, perché il servizio fosse fatto bene, chi non avrebbe concesso quanti ne occorrevano, anche a costo di creare così dei privilegiati, pensando alla utilità per il paese della speditezza di quell'Ufficio? Il male non è stato che giovani abili fossero tenuti in uffici, in comandi, in posti sicuri; e che meno giovani e meno abili stessero in prima linea: il male è che si lasciarono negli uffici degli incapaci e che talora, per ossequio alle leggi diboscatrici che volevano certe classi soltanto o certe inabilità, si scompigliarono dei servizi che andavano bene.
L'imboscamento è una vecchia malattia italiana, che la guerra ha reso più grave e rivelato in forme più antipatiche, ma che inquina la vita nostra: è il desiderio di non assumere responsabilità, è la paura di offendere l'opinione pubblica generale. Imboscarsi è semplicemente: non fare il proprio dovere. Il vero imboscato non era l'ufficiale di classe giovane messo in un comando; era bensì quello stesso che, messo in un comando non faceva bene quello che doveva fare.
Nel generale malcontento contro gli imboscati troppo parlava l'invidia e poco l'interesse per il paese. Altrimenti non si sarebbero chieste formalità così ridicole come la necessità d'appartenere a classi anziane o d'essere inabili, per restare a compiere dati servizi. Si sarebbe chiesta l'abilità a quei dati servizi. Purtroppo, nonostante le leggi, l'imboscamento è restato: dico l'imboscamento vero e proprio, quale il mutare di professione o di mestiere per mettersi fra coloro che corrono meno rischio. Le leggi, i regolamenti, le circolari non potevano cacciare gli avvocati diventati automobilisti e i benestanti improvvisati tornitori o direttori di officine per il munizionamento o esattori comunali agenti d'assicurazioni. Tutte le volte che l'opinione pubblica chiede qualche legge contro una immoralità dilagante, si può essere sicuri che la legge sarà aggirata o applicata fiaccamente. La vera moralità agisce senza leggi. Un paese sano reprime l'imboscamento con meno leggi.

 

 

 

Sabotaggio militare e civile.
Nell'interno del paese, le autorità sabotavano la guerra. Anche le militari.
Fosse necessità derivante da mancanza di ufficiali, fosse debolezza verso pezzi grossi, certo è che non si poteva avere idea peggiore di quella di inviare generali e colonnelli silurati ai comandi territoriali, dove si doveva compiere la preparazione degli uomini per la guerra. Quando non lo erano prima, diventavano subito neutralisti, per il semplice fatto d'essere stati umiliati. La psicologia dell'ufficiale di carriera, come è sempre l'ufficiale superiore, è questa: che tutto sta nella carriera. All'infuori di quello, non vede altro. Non è un uomo: è un militare di carriera. Per la carriera può commettere qualunque azione. Erano incapaci a far davvero la guerra, e non si capisce come potessero preparare gli uomini che dovevano combattere: erano irritati, e non si sa perché si affidassero loro incarichi così delicati, nei quali bisognava portare soprattutto un animo pieno di entusiasmo ed una volontà decisa a vincere tutte le difficoltà. Quanto meglio di loro avrebbero fatto bravi ufficiali, anche di grado inferiore, che ferite o malattie trattenevano lontani dal fronte!
Sono questi generali che nelle sedi territoriali angustiavano gli ufficiali e i soldati con le formalità, con le piccinerie, con le punizioni per cose che non riguardavano affatto il fondamento morale del combattente, ma la sua tenuta o i suoi capelli, le sue ore di passeggio. Sono questi generali che viceversa ostacolavano o non animavano mai gli ufficiali che avrebbero voluto comunicare alle truppe il loro entusiasmo e la loro fede.
Certamente nulla era più triste di quei depositi dove si doveva formare l'anima del soldato e la prima istruzione dell'ufficiale novellino: nulla di più disordinato, confusionario, pesante e inutile per la guerra. Il formalismo, gli specchi, le carte, le pedanterie, che non erano nemmeno coordinate fra loro ma fonte infinita di contraddizioni, stancavano e facevano perdere il tempo. L'istruzione delle reclute fu migliorata soltanto nei reggimenti di nuova formazione, perché a questi concorsero ufficiali e graduati inviati dal fronte, fra i migliori. Ma anche qui, che mancanza di realismo, quante inutili parate di piazza d'armi, quale lontananza dalla guerra vera! Non si facevano o troppo di rado, marcie notturne, per sentieri: non tiri di notte: poco lavoro di zappa: e si aveva una insufficiente specializzazione dei reparti. Si pensi a quel che leggiamo della realistica istruzione inglese, fatta in campi che riproducono i vari accidenti del teatro della guerra dove deve combattere il soldato inglese: con tale istruzione si giunge persino a offrire alla baionetta l'obiettivo d'un fantoccio di paglia e a chi esce di trincea per l'assalto la sorpresa dello scoppio di bombette che non offendono ma danno l' illusione di quelle vere.
Non parliamo del primo anno di guerra: ma anche dopo, quante volte è accaduto che reparti interi andassero in prima linea senza avere mai lanciato una modestissima bomba Sipe! Dall'altra parte, la burocrazia civile sabotava il paese. Per quattro quinti gli alti funzionari dovevano la loro carriera, non sempre legale, a Giolitti. Non tanto la capacità tecnica li aveva spinti in alto, quanto l'inchinevolezza a prestare servizi politici, soprattutto elettorali. Direttori generali di Ministeri, Corte dei Conti, Corte di Cassazione, si trovavano in queste condizioni. Quale meraviglia che fossero fiacchi di spirito, neutralisti e desiderassero che la guerra andasse male per poter dire che aveva ragione Giolitti? Tuttavia molti di essi avrebbero agito con minore impudicizia se una mano forte dall'alto li avesse vigilati e avesse fatto sentire l'autorità dello Stato. Ma non trovarono che indulgenza e connivenza. Mentre il Comando Supremo licenziava a dozzine i generali, non un prefetto, non un direttore generale, non un segretario fu ammonito, o traslocato, o rimosso dal grado.
La burocrazia romana poi, non si mosse d'un centimetro, non si trasformò, non mutò un suo orario, non semplificò un suo servizio Ingigantì. le funzioni, moltiplicò gli avventizi, trattenne più impiegati che potè quali indisponibili, impedì alle libere forze di manifestarsi, escluse i competenti, allagò il paese di malessere e di malumore. Qualche volta fece apposta. Il più delle volte incosciente, con la forza bestiale delle macchine che vanno con un loro ritmo meccanico senza nulla capire dell'ambiente in cui lavorano. Per essa la guerra non esisteva. Le vessazioni di cui furono oggetto i contadini, che davano il maggior numero d'uomini alla guerra, e ciò per favorire nelle città la vita degli operai esonerati e bene pagati, avevano un'eco nelle lettere delle donne ai loro mariti al fronte, con l'effetto che ci si può immaginare. Metodi e personale delle requisizioni furon spesso quanto di più impratico e bestiale ci potesse essere: le storie del grano messo in locali dove germogliava, trasportato ai capoluoghi per esser di nuovo trasportato dove era stato prodotto, distribuito ai mulini in modo non equo; dei foraggi lasciati a marcire e a fermentare ecc., sono infinite. Lo spreco si aggiunse alla violenza. Soltanto la disonestà e la solita anarchia del basso, che è il rimedio tradizionale all'anarchia dell'alto, gli accomodamenti per i quali le persone di buon senso chiudevano un occhio e lasciavano che ci si « arrangiasse », resero la condizione delle campagne, meno disperata.
Le licenze furono l'occasione di sfoghi e segreti complotti fra fronte e paese. Uno eccitava l'altro. Da una parte i soldati raccontavano le durezze senza gloria del fronte, dall'altra le contadine i pesi senza compensi morali dell'interno. Chi accusava il paese di scoraggiare l'esercito: chi accusava l'esercito di scoraggiare il paese. Come spesso accade, nessuno dei due aveva torto, in quanto paese ed esercito si scoraggiavano a vicenda; tutti e due sbagliavano, in quanto non si accorgevano che l'uno e l'altro portavano in se le ragioni del proprio malcontento.

 

 

 

Il Comando Supremo e il Governo» - I loro metodi con le truppe e col paese.

Il Comando Supremo e il Governo, quando si accorgevano di questo stato di cose, si mettevano appunto nella situazione che ho descritto, di un reciproco accusarsi, vedendo ciascuno i mali prodotti dall'altro e non volendo riconoscere i mali di cui ciascuno era causa. Il Comando Supremo accusava la politica interna fiacca di guastare il fronte; il Ministero accusava il fronte di guastare il paese. L'errore consisteva nel non capire che la colpa era reciproca: la guerra fatta male stancava il paese e il paese non sostenuto stancava i soldati. Qui e là mancava la disciplina. Non che il Comando Supremo non ci insistesse. Anzi. Ma bisognava vedere come questa disciplina veniva applicata. La borghesia diventata ufficialità ha molto più spesso esercitato il suo potere come un mezzo di coercizione per i comodi privati che non per l'utilità comune. La disciplina in Italia si intende come obbligo verso il superiore e non anche come tutela dell'inferiore. Di qui tutta una serie di massime militari scherzose, che nascondono sotto il sorriso la verità triste (per es. : il grado è fatto per abusarne); di qui tutta una serie di abitudini e di consuetudini tendenti a sfuggire alla responsabilità e ad evitare gli obblighi disciplinari senza romperli formalmente. Nell'esercito gran parte delle forze umane va dispersa nel nascondere la realtà. Il sommo dell'abilità d'un militare di carriera - dal vecchio sergente al vecchio generale — consiste nel far sì che il superiore non si accorga del come stanno le cose. Questo si chiama « esser in gamba ». Il giorno della rivista ci devono essere tutti i fucili. Se mancano, un comandante di compagnia in gamba « si arrangia», cioè li porta via a una compagnia meno furba, e figura bene. Come con i fucili, accade così con tutto e per tutti i gradi. E ciò spiega come ciò che sapeva qualunque sottotenente fornito di occhi e di orecchie, fosse ignoto al Comando Supremo. La truppa non vede, troppo spesso, altra faccia della disciplina che quella rivolta a premere su di lei. Non vede i superiori sacrificarsi per il dovere, mostrarsi giusti con tutti. La vecchia mancanza di giustizia che da secoli avvelena la vita italiana ed ha reso il popolo, in specie quello delle campagne, diffidente verso chiunque gli sia superiore e cerchi di fare il suo bene, si ritrova nella vita militare tale e quale, ma con effetti assai più profondi e più gravi, quanto più profondo è il solco che in essa lascia l'iniziativa e il potere che sta in alto, quanto più duri sono i rapporti fra superiori e inferiori, quanto più gravi
i patimenti e le umiliazioni che la punizione militare può infliggere senza appello, senza riscossa. Tale mancanza di giustizia trovava una tradizione già fondata nel dominio dello Stato Maggiore accaparratore di carriere e di posti, ed una base nella formazione militare stessa che non ammette la discussione degli ordini e Terrore dei capi. Così è accaduto che il popolo ha continuato a sentire, sotto le armi, le stesse ingiustizie e a soffrire il peso delle stesse camorre (furerie, ecc.) contro le quali l'autorità dello Stato non si è mai fatta valere; e mentre per aria volavano le parole di solidarietà e di concordia patria, in pratica la Patria, come era stata assente nella sua esistenza civile, continuava ad essere assente nella sua esistenza militare. Erano cresciuti i pericoli, i disagi, le fatiche: era lontana la famiglia; ma dal padrone e dall'esattore di un tempo, dal carabiniere e dal bottegaio della vita civile passare all'ufficiale, al furiere e al cantiniere, la differenza non era grande: vi ritrovava gli stessi sistemi e la stessa oppressione.
Nel paese le cose non potevano andar meglio, visto che la classe borghese, impadronitasi dell'Italia col vangelo del liberalismo, di questo non aveva conservato proprio altro che la parte meno adatta per vincere una guerra: cioè la libertà politica.
Il liberalismo economico, il liberalismo educatore nazionale erano stati completamente dimenticati. Lo Stato non era più l'organo vivo ed energico, la coscienza etica e religiosa concepita dalla vecchia Destra. I funzionari potevano benissimo tradire la guerra voluta dallo Stato, che non erano puniti. Ai nemici era data libertà, non soltanto di soggiorno, ma di propaganda. Tedeschi piccoli e grossi si industriavano a spargere il malcontento, le notizie false, gli elogi del loro paese. Ai neutralisti venivano affidate e lasciate importanti cariche. Essi entravano persino negli organi ufficiali della propaganda interna ed estera! Il governo, che nei primi mesi di guerra, per l'entusiasmo popolare avrebbe potuto chiedere al paese qualunque sacrificio e avrebbe potuto sbarazzare la nazione di tutti gli elementi infidi, volle che il paese andasse avanti come se la guerra non fosse esistita e non ci fossero avversari della guerra che non cessavano le ostilità.
Mentre centinaia di generali, a torto o a ragione, ma certo con grande energia, venivano rimandati dal fronte, per due anni di guerra nessun prefetto neutralista, nessun direttore generale incapace, nessun pezzo grosso di tiepida fede, veniva cacciato o diminuito. E pure pochi solenni esempi sarebbero bastati per mettere in corpo ai recalcitranti la voglia, ai mal disposti l'inclinazione. Per i consumi si conduceva una politica collettivista, che sconvolgeva tutte le vie naturali del commercio e disgustava e impressionava tutti i produttori, rendendo le condizioni del vivere assai più difficili di quel che sarebbero state se il Governo non si fosse occupato di nulla. La farsa delle uova si mescolava alla tragedia delle navi fatte nascondere dai calmieri, che la bestialità nazionale si ostinava a voler applicare, ancorché bestemmiasse questo o quel calmiere, come male applicato, non giungendo a capire il danno d'ogni calmiere in generale.

 

 

La propaganda socialista e papale.
Chi accusa i socialisti, chi accusa il Papa, chi accusa ambedue, quali cause essenziali della catastrofe.
Ma si dimentica che nessuna propaganda può attaccare dove il terreno non sia preparato: e chi ha preparato il terreno è almeno tanto responsabile quanto chi getta il seme. Il grave per una nazione non è già che gli elementi disorganizzatori possano andare esercitando la loro opera di disgregazione e di infiacchimento, quanto che essi trovino subito la gente pronta ad ascoltarli. E altrettanto si dica dei tradimenti, dello spionaggio, degli inganni nemici, i quali sono stati tentati e sono adoprati contro inglesi e francesi, ma non hanno avuto il risultato che s'è visto da noi, perché colà la compagine nazionale è più salda e compatta.
Un paese come il nostro offre il terribile spettacolo di parti di popolazione che inneggiano al nemico: di parte di popolazione che dichiara esserle indifferente vivere sotto lo straniero; di parte di popolazione che rifornisce i sottomarini nemici e fa da spia al nemico. Il fatto veramente grave è questo e non la sobillazione socialista e papale, che acquistano valore soltanto in forza di quella mancanza di coesione, d'amor patrio, di fiducia nelle classi dirigenti, di qualsiasi coltura e sentimento di indipendenza.

C'è troppa disposizione alla schiavitù in Italia !
Certo che la propaganda papale e socialista si svolse con la massima libertà. Quella papale ebbe connivente inconsciamente il Comando Supremo per via dei Cappellani militari. Essa fu, senza dubbio, efficace sul fronte. Negli ultimi mesi i soldati manifestavano apertamente la loro volontà di farla finita con la guerra prima dell' inverno. Fu simbolico il rifiuto d'una intera brigata di prendere i cappotti d'inverno. Nel paese e sopratutto nelle campagne di certe regioni, come Piemonte, Emilia, Toscana, si sentiva ripetere lo stesso concetto. Da per tutto la preparazione psicologica per la rivoluzione si compieva con quel tacito consenso di debolezza degli organi superiori, delle classi dirigenti e del personale incaricato di reprimere e di sorvegliare, che è il caratteristico abbandono in cui si gettano certi corpi sociali nel momento in cui una crisi sta per scoppiare.
Si sentiva ogni forza di reazione cessare nelle classi che avevano voluto la guerra. Esse ascoltavano nei pubblici luoghi e nelle case private la promessa di rivolta, il malcontento generale esprimersi, senza pensare a dominarlo o a soffocarlo. Spesso vi si univano per debolezza. Ma mentre tutti si aspettavano la rivoluzione nel paese dopo la guerra, e gettavano gli occhi da questa parte, uno sciopero generale scoppiava in un posto ben più pericoloso, in un momento ben più critico, con conseguenze ben più pericolose: era lo sciopero generale dei combattenti che avveniva al fronte nel punto dove i tedeschi attaccavano. La catastrofe non è che lo sciopero generale di quasi tutta la seconda armata, composta di settecentomila soldati, un terzo dell'esercito di prima linea.
 

 

 

Che cosa sapeva il Comando Supremo.
Come mai il Comando Supremo non si accorse di questa preparazione che non doveva neppure sfuggire ad un osservatore non mediocre che avesse fatto in quei giorni una visita al fronte, purché non vestito da generale? Al Comando Supremo in parte era noto il malessere ma, poiché non si rendeva conto che esso nasceva in gran parte dalla direttiva data dalla guerra, e non era possibile riparare che trasformando la condotta di questa, l'attribuiva alla politica interna e su questa vanamente si sforzava di influire. Ma non tutto era noto al Comando Supremo, intorno a questo il terrore delle punizioni era tale che la debole coscienza di molti capi preferiva tacere e nascondere le magagne al rivelarle incorrendo nel solito  "siluramento". il Comando Supremo non si rendeva mai conto degli inconvenienti che nascevano dai suoi stessi ordini, dalla condotta generale della guerra, dal carattere del popolo: e rendeva responsabili anche per essi gli uomini preposti ai comandi. Con ciò favoriva la terribile inclinazione dello spirito militare di carriera, per il quale ciò che occorre non è già riparare a un disordine, ma nasconderlo al superiore. Quando si ottiene questo, tutto va bene. Così generali e colonnelli hanno taciuto al Comando Supremo di rivolte, di ammutinamenti, di disordini, di malessere. E la rivolta, il panico e lo sbandamento si son potuti preparare all'insaputa del Comando Supremo.
 

 

 

Il giornalismo» - I corrispondenti di guerra»
Un velo fra ciò che avveniva sul fronte e il paese lo andavano tessendo i giornali. L'Italia è stata da secoli tenuta su a menzogne, ma raramente le menzogne furono prodigate come durante questi anni. Aiutarono i comunicati, la censura, la neutralità interventista. Non si sono mai viste così bene le conseguenze del sistema della bugia, come durante questa guerra. L'effetto della bugia, che è immediato, attira sempre le piccole mentalità politiche, che non vedono e non mirano lungi. Esse non si accorgono dei danni profondi che la bugia reca, appena ci si affida ad essa per scopi un poco superiori alla vita dell'oggi.
I comunicati non erano bugiardi. Erano reticenti. Non furono più creduti dopo pochi mesi.
Ciò che tacevano finiva per arrivare alle orecchie di tutti, naturalmente moltiplicato dalla fantasia. Il primo dubbio nasceva dal fatto che non era permesso sentire l'opposta campana. La censura, di cui non toccheremo le corbellerie politiche, prese a curarsi soltanto delle notizie false per pessimismo, ma lasciò passare, senza capire assolutamente il pericolo, tutta la retorica, le gonfiature, le esagerazioni, le pallonate cui si abbandonava il giornalismo. La rigida regola per la quale le sole notizie vere erano quelle dei comunicati ufficiali, fu applicata per le notizie cattive: per le buone no. Così si potè stancare il pubblico tenendolo per un anno alle porte di Gorizia che stava per cadere da un momento all'altro e farlo camminare per due anni sulla via di Trieste e di Trento. Una parte del paese ha preso per vittorie le sconfitte e si è abituato ad una tale atmosfera di crogiolo che quando è dovuto tornare alla temperatura normale, costrettovi dalla realtà, ha sentito una doccia fredda; e quando è venuta la doccia fredda, non si è avuto il coraggio di somministrargliela e si è pensato di censurare lo stesso comunicato ufficiale che si leggeva intanto in tutta Europa: cosicché tutti erano ritenuti degni di sapere la verità sulle sue vergogne, salvo il popolo italiano. Un'altra parte del paese, poi, non ha creduto nemmeno a ciò che gli si diceva di vero.
I compratori di giornali, specie i soldati al fronte, dicevano prendendo il foglio: — dammi un soldo di bugie. I corrispondenti di giornali, in generale, sono stati particolarmente bugiardi. I soldati li hanno presto odiati. Quella rappresentazione stereotipa dell'eroe, fatta al tavolino del Dorta ad Udine, e quell'osannare a tutti i capi più incapaci che si siano mostrati sui campi di battaglia europei, disgustava chi vedeva da vicino la guerra, e metteva il paese, che non la vedeva, in uno stato di vanagloria e di donchisciottismo che si ripercoteva sui movimenti della pubblica opinione nei rispetti della politica estera. Montata dai giornalisti, l'Italia sembrava diventata il primo paese del mondo e la guerra italiana il centro di quella europea. Tutti si arrabbiavano e si accanivano contro gli stranieri quando essi, che sentivano tutte le campane, e non soltanto quelle di casa nostra, non parevano dare alla nostra guerra tutta l'importanza che doveva avere secondo gli strateghi delle redazioni. E tutti si pavoneggiavano tutte le volte che un quodlibettario qualsiasi, pagato o coccolato da qualche nostro agente, faceva uscire in riviste o in giornali di terzo ordine le stesse scempiaggini che qui avevano corso come moneta di buon conio. Le campagne più assurde, che finivano per far passare all'estero l'Italia come un paese di aggressori e di avidi, dai denti aguzzi e dall'appetito formidabile, venivano sostenute da tutta la stampa, anche da quella che avrebbe voluto non sostenerle, ma che, per la cattiva sua organizzazione e per la debolezza degli elementi direttivi, lasciava passare nella terza pagina ciò che contraddiceva la prima. I paesi, che come la Grecia e la Serbia, l'Inghilterra stessa accarezzava, venivano ricoperti dì improperi e pareva che fosse spiritoso e patriottico, mentre Cadorna faceva la guerra agli austriaci con le armi, condurre un'altra guerra di penna contro gli alleati!
L'interventismo, col suo metodico e borioso spregio del nemico, col suo parolaio e vuoto nazionalismo, dava modo al neutralismo di riabilitarsi e, illudendo il popolo sulla verità della guerra e delle condizioni della politica estera, preparava il ritorno di Giolitti o dei giolittiani.
 

 

 

L'errore della guerra nostra»
Bisogna qui riportarsi al modo più generale col quale è stata concepita la guerra da noi. Ecco, legata con la nostra boria, l'idea che si dovesse fare una « guerra nostra » : ecco impiantare per il popolo la necessità della guerra sulle aspirazioni  nazionali a Trento e Trieste, facendo centro del grandioso conflitto un fatto secondario, che deve trovare la sua soluzione in quella equilibrata di tutti gli altri problemi mondiali. L'Italia non sapeva staccarsi dalla concezione casalinga e i suoi uomini di Stato pareva volessero restare eternamente i provinciali d'Europa. Non parliamo poi di quelle correnti che arrivavano persino a mettere in rischio la nostra alleanza ed amicizia con l'Inghilterra, per ragioni di campanile, per lotte comunali, per incidenti di villaggio! Così abbiamo cominciato a dichiarare guerra all'Austria e non alla Germania, e con questa abbiamo sempre mantenuto un filo di relazione, che soltanto in questi giorni si è davvero spezzato o è stato finalmente tagliato. Si sono spesso denunciati i particolarismi che hanno guastato sempre l'unità dell'Intesa, e ve ne furono senza dubbio da parte di ogni nazione, ma non mancarono certo da parte dell'Italia. Si voleva arrivare a Trieste con le « forze nostre ». Tutta la politica estera fu condotta in base ad una sopravalutazione delle nostre forze, ad una chimerica rappresentazione di quello che noi eravamo e di quello che poteva valere la nostra guerra in relazione con tutte le altre. Il turgido spirito italiano non si era mai tanto gonfiato come dopo l'avanzata sulla Bainsizza, che veniva vantata come la vittoria su tutte le forze dell'Austria e non era, dal punto di vista strategico generale, che il trasporto più avanti di una linea di difesa. L'uomo geniale che la guidò non compì, o non poté compiere forse tutto il suo disegno.
Militarmente si riproduceva il fenomeno diplomatico: la grettezza mentale era siffatta da non concepire la guerra nostra connessa con quella degli alleati se non per lo scambio di qualche prodotto bellico. La guerra era lasciata ai militari, senza comprendere che essendo questa soltanto uno degli strumenti della politica, doveva venire guidata non nelle azioni, ma nelle direzioni, da menti politiche. Ma mentre gli elementi politici responsabili si guardavano bene dall'intromettersi nelle questioni militari, lasciavano invece gli elementi militari fare della politica, persino estera, sostenendo con le loro missioni certi programmi annessionistici, che certamente non giovavano a mantenerci in buoni rapporti con gli alleati.
Leggerezza ed incoscienza regnavano. Se il paese, che non leggeva altro che le bugie dei giornali, ed era d'altra parte testimonio dei sacrifici che si facevano senza conoscere come male venivano utilizzati, poteva perciò esser scusato quando si gonfiava e si illudeva, a chi era in alto, dove la verità poteva essere conosciuta almeno per quello che riguardava lo sforzo militare non si può perdonare la continuazione di un sistema rovinoso. E c'era chi poteva fermarlo, se non altro con lo scindere la propria responsabilità da esso. Ma la soverchia bontà e la maledetta abitudine italiana di non lasciare un posto quando il programma per il quale vi si sale non è mantenuto, spiegano la tacita adesione e la complicità silenziosa di uomini di governo cui la fede interventista e le cognizioni del modo col quale l'esercito si veniva sgretolando moralmente, non mancavano.
 

 

 

 

Il popolo italiano.
Comandi militari e Governo provenivano dalla classe dirigente italiana, e l'impressione unanime che ho colto nei migliori fra gli ufficiali è l'assoluta inferiorità di chi stava in alto rispetto a chi stava in basso. Eppure la classe dirigente italiana nasce e proviene dalla grande massa che chiamiamo popolo. Non è separata casta. Basta risalire due o tre generazioni d'uno dei nostri borghesi e troveremo sempre l'artigiano, il contadino, insomma il popolo. Vi deve essere dunque una certa responsabilità anche del popolo in generale, sebbene sia indiscutibile che il popolo è male rappresentato e che, dai generali ai deputati e ai burocratici, i dirigenti sono, presi nel loro insieme, inferiori come mente, volontà e moralità, al popolo stesso. Tale responsabilità può fermarsi in alcuni concetti, che rompono un poco le nostre credenze più comuni. Forse il popolo italiano non è così intelligente come si crede o lo è in un modo diverso da quello che si crede. Esso abbonda forse più di furbizia e di buon senso, che di intelligenza nel significato più preciso della parola (nel qual caso, però, ben pochi popoli meriterebbero di venirne contraddistinti). La furbizia giova piuttosto al nostro popolo per risolvere i casi personali della sua vita, e il buon senso, accompagnato da un certo scetticismo, gli serve di freno alle irruzioni che la sua furbizia e la sua intelligenza, con le quali giudica dello scarso valore morale e intellettuale dei suoi capi, gli suggerirebbero. Perché il nostro popolo non si rivolta più spesso, anzi perché non si è rivoltato prima di Caporetto? Ecco la domanda insistente che doveva rivolgersi l'osservatore del nostro soldato.
Si notavano i miracoli di abilità e di improvvisazione, le sue straordinarie doti nel trasformare gli ambienti più penosi e più brutti, con qualche segno di arte, proprio della nostra stirpe, ed anche la sua acutezza nel notare e qualificare i difetti dei dirigenti, nell'apprezzarne le buone qualità, nello scoprire le vie e i modi della vittoria (quanto spesso un sergente la sapeva più lunga dei generali!). Ma perché mai ciò non riusciva a passare nell'atto concreto e collettivo? Osserveremo anche qui che l'uso di tante qualità intellettuali comincia e finisce nell'individuo stesso, non sbocca in un pensiero generale di azione. La critica sembra subito calmarsi appena l'individuo che la fa, passa dalla classe oppressa in quella degli oppressori, e può prendere parte, sia pure minore, al banchetto generale. Allora molto spesso quelle doti si rovesciano, per esercitarsi sopra i colleghi sofferenti di ieri; l'imboscato di recente, che fino al suo imboscamento si notava fra i più convinti protestanti contro i favori, oggi sghignazza sui suoi compagni lasciati al fronte: « la guerra la fanno i fessi » è una frase nata evidentemente da uno di quei tipi, che ha il suo perfetto corrispondente in quei deputati di opposizione pronti a far tacere le loro opposizioni pur di essere chiamati al Ministero. I peggiori aguzzini e sfruttatori dei soldati sono stati quei sergenti o altri tipi « di contabilità » che hanno lucrato sempre sui loro fratelli un po' minori di grado e di furbizia, sui loro vizi come sulle loro virtù, sui loro diritti come sui loro doveri, facendosi pagare per le tolleranze e facendosi ricompensare per la loro autorità abusivamente usata. Vi è forse in noi italiani troppa ammirazione per l'intelligenza furba, che vede l'oggi e non il domani: ci si lagna di questa furbizia quando è a nostro danno, ma la si adopra a danno altrui, appena è in gioco il nostro interesse. A forza di essere furbi, si finisce per venire giocati da popoli meno intelligenti ma più tenaci nella loro intelligenza; e ci si disgrega, a forza di capire troppo l'interesse individuale, di fronte a popoli che sentono più di noi che l'interesse individuale è legato a quello collettivo. Perciò il problema di un rinnovamento generale della classe dirigente (rivoluzione) non sembra avere mai occupato seriamente il nostro popolo, e il rinnovamento della classe dirigente si è fatto per rinnovamenti parziali e quasi sempre in base a prevalenza di interessi individuali e per via di scaltrezza. Ciò spiega il fatto, indiscutibile, che in Italia i governanti siano peggiori dei governati. L'esercizio di questa furbizia e scaltrezza ha portato in alto anche l'uso della retorica, con la quale si cerca di impaniare le masse. Certo che è deplorevole la scarsa autorità che gli uomini di ragionamento e di cifre hanno sopra il nostro popolo, in confronto con i parolai. Dalle piccole società tino al Parlamento la prevalenza degli uomini dotati soltanto di parola, fa pena; ci sono troppi avvocati e troppi oratori nei posti direttivi. E questo si riflette anche nell'arte, che dura e nuda spiritualmente non ci manca, che nel popolo ha sempre vive alcune polle genuine, ma che nella ammirazione generale del pubblico colto, nella modellistica delle scuole, nella tradizione ha pur troppo ancora troppi drappeggi ed esteriorità, troppo gonfiore e falsità. Di qui nascono infiniti veli, buttati sulla realtà, che impediscono poi a tutti di dirigersi e di guidare. Da questa retorica infinite propaggini si spargono nella vita politica, nella scolastica e nell'educazione. Ecco, per esempio, gli errori della propaganda di guerra, fondata sulla conquista e non sulla difesa, senza mai parlare di pace! Si è preteso dal popolo italiano, con tutt'altro carattere e senza il potente sentimento patrio e l'intelligenza collettiva del popolo tedesco, quello che nemmeno a questo chiedeva il suo governo: lottare per conquistare chilometri quadrati e per la grandezza di un passato, che era ignota. Tale propaganda era in sé la più infelice e disastrosa, ignorava poi quella degli avversari che faceva larga breccia negli animi, e sembrava fatta apposta per togliere ogni valore ai sentimenti ed alle ragioni che più avevano persuaso il popolo italiano alla guerra.
 

 

 

L'ignoranza del popolo.
A questi mali si aggiunge l'ignoranza. Mentre in alto abbiamo una sembianza di vita superiore,
una esteriorità di grande nazione, come vita scientifica e artistica, in organismi di studio, di stato e di industrie, si passa d'un tratto, senza transizione, a traverso un abisso, ad una massa che non è neppure arrivata al livello del cristianesimo, che vive ancora con una mentalità trogloditica, barbara non soltanto di mente ma di cuore, chiusa in se stessa o tutt'al più allargata al solo cerchio della famiglia ma concepita anche questa in un modo piuttosto bestiale, per quanto alle volte assai ricco d'istintiva dolcezza: cioè quale comodità e proprietà, piuttosto che quale espansione di vita umana. Tutta la vita italiana si svolge da secoli sopra questa massa, non facendovi mai giungere un raggio che illumini, una carezza che stringa legami, una costrinzione che innalzi, non foss'altro col suscitare reazione.
Il popolo italiano, quando lo si avvicina, dà l'idea d'un popolo abbandonato non da una o due generazioni ma da secoli. Si sente un popolo che non è mai stato trattato con verità, che non ha
mai avuto la giustizia. I suoi rapporti con la classe superiore sono caratterizzati dalla diffidenza. Interrogando persone intelligenti che in questi anni hanno partecipato ad opere di assistenza o sono venute a contatto col popolo per il comando delle truppe, si sente da per tutto la stessa osservazione che il popolo diffida del ricco, del borghese, di chi veste meglio, di chi parla meglio, di chi sa più di lui: di chiunque gli è superiore. Ciò è troppo comune, generale, profondo perché non abbia una causa permanente da secoli; ed è appunto da secoli che le classi dirigenti si son succedute nel paese ricordandosi del popolo soltanto per cavarne sangue e quattrini.

La responsabilità delle classi dirigenti è enorme.
Ma non dobbiamo però dimenticare che un popolo che fosse dotato di un'altra intelligenza avrebbe conosciuto il valore della istruzione e se la sarebbe conquistata; ed avrebbe saputo esprimere dal proprio sangue un'aristocrazia migliore delle presenti, capace di espropriar queste del potere e della proprietà, per condurre il proprio popolo ad altri destini.
Invece non si vede nulla di questo. La catastrofe del fronte non è una rivoluzione. Non è stata neppure una rivolta: è stato uno sciopero; cioè, in guerra, un suicidio.
 

 

La guerra e le idee.
E da chi poteva partire questa propaganda? Non parliamo del mondo intellettuale. Chi scorra
la produzione giornalistica e libraria del periodo della neutralità, in cui tutti ebbero libertà di parola (per non parlare del periodo seguente nel quale la censura, permettendo ai soli interventisti di parlare, permise l'uscita delle sole sciocchezze interventiste) rimane impressionato della povertà della produzione e della banalità e retorica da ambe le parti.
La cosidetta guerra di idee si è rivelata in Italia una guerra alle idee.
Cominciamo dai precedenti. Un movimento come quello irredentista non ha dato all'Italia né un gran libro né un libro popolare. Siamo stati più di trenta anni alleati dell'Austria per non esserle nemici, e non abbiamo mai avuto su questo paese e sui suoi problemi un libro ben fatto. Se un giovane italiano avesse voluto studiare l'Austria e i problemi balcanici, avrebbe dovuto ricorrere a libri francesi, inglesi, tedeschi. Soltanto negli ultimi tempi abbiamo avuto un'opera discreta, ma d'occasione, e un buon volume storico, ma contrario all'irredentismo. Quando si confronta la produzione dal '48 al '70 con il Valussi, il Tommaseo, il Balbo, il Cattaneo, e quella dei recenti anni non faccio nomi, non si può definire l'impressione che ne riceviamo che con una sola parola: decadenza. Ciò che colpisce in tutta la produzione di carattere positivo, è la povertà di idee, di senso storico e di onestà scientifica, mentre dove si trattano questioni di principio e di idee si rimane spaventati dalla banalità e leggerezza di queste.
La letteratura di guerra è dello stesso genere e dello stesso livello: retorica, bolsa, fabbricata per scopi commerciali. Vi sono poche pagine che valgano; e quelle poche, di gente che non era scrittore per mestiere. Poche anime si sono rivelate sincere: pochissime, semplici davanti alla morte.
Si resta atterriti al vedere come la malattia letteraria sia penetrata nelle vene della nostra nazione, ritrovando nelle lettere di combattenti, che pur assistevano al quotidiano spettacolo di morti atroci, gli accenti d'accatto e le posizioni teatrali e false dell'eroe da commedia e da farsa. Il soldato che detestava il corrispondente di giornali (— se trovo Barzino gli sparo! —) lo ricopiava inconsciamente quando scriveva a casa. La bugia fioriva sul terreno dell'ultima verità, con una tenacia che mette veramente spavento, perché sembra impossibile che l'abito della retorica possa ancora vestirsi quando si è ad un centimetro dalla morte e la trincea dalla quale si scrive può diventare da un momento all'altro la fossa dove si è sepolti per sempre.
Pare impossibile: ma è questa la realtà italiana.
 

 

 

Speranze che paiono impossibili.
Eppure non tutta l'Italia è stata così. Non tutta l'Italia è rappresentata dalle canaglie dell'alto e
dagli incoscienti del basso. Quando si pensa allo sforzo non mediocre occorso per decidere questo popolo alla guerra; quando si pensa alla creazione, che sembra miracolo, d'un esercito di quattro milioni e mezzo con masse e con classi dirigenti siffatte, che ha retto per due anni e mezzo ad una guerra alla quale non era allenato fisicamente né preparato moralmente: quando si pensa a tutto ciò che nell'ingranaggio mostruoso è riuscito ad andare avanti, a dispetto di pigrizie, di sabotaggi e di ignoranze: quando si pensa ai sacrifici volontari, agli esempi premiati, ai nascosti eroismi, alle umili devozioni, alle obbedienze infinite: bisogna dire che c'è qualche cosa di meglio nel paese, che c'è qualcuno che manda avanti la baracca, che soffre, che lavora, che spera, che crede, che è capace di morire. E allora si rivela agli occhi dell'osservatore quella classe, più numerosa di quanto si creda, di italiani seri, probi, onesti, semplici, capaci, che stanno tutti o quasi in posti secondari, che lavorano per chi non lavora, che mantengono per chi manca, che pagano per chi vive di debiti, che muoiono per chi si imbosca, per chi fugge e per chi tradisce. Tali italiani ci sono. Non sono moltissimi. Sono più numerosi di quello che sembri. Se ne trovano negli affari, negli uffici, nelle scuole, nelle fattorie. Se ne trovano persino nelle redazioni dei giornali. Ma non sono uniti e non sono organizzati. La guerra ne ha rivelati molti. La guerra non si è retta sui capi o sulle masse ma su costoro, che erano i migliori ma non erano a capo, che erano i sani ma non erano il numero. Essi han fatto da capi al numero e han dato il numero ai capi. Non potendo comandare, non pensando nemmeno che ad essi sarebbe spettato il comando, politico e militare, hanno servito con fedeltà. Sono stati il tessuto connettivo dell'esercito e del paese ed han retto fino a che, come in una rete un coltello, un tradimento non ha spezzato le loro maglie.
Abbiamo conosciuto queste anime religiose.
Non c'è altro modo di indicarle, anche se non erano di qualche religione. Sentivano la serietà della vita, obbedivano al dovere con semplicità, lavoravano nell'ombra discreta. Il loro eroismo ha coperto la vigliaccheria dei più: la loro fatica ha creato il merito dei meno. Intorno a sé ciascuna di queste anime, nelle loro famiglie, fra gli allievi, fra i compagni d'ufficio di scuola di vita, ha diffuso, come una aureola, questo senso d'una vita più seria e più elevata, che quando uno straniero, di quelle veramente nazioni che hanno una vita propria ben sviluppata, v'entrava dentro come in un raggio di sole che rompa l'aria fredda d'una strada chiusa, concepiva un'altra stima e sentiva nascere speranza per l'Italia.
Non sono rimasti tanto pochi. Non saranno tanto pochi, alla fine della guerra. C'è qualcuno che manca, ma ha trovato nella morte il modo di poter parlare da un'altezza che gli era stata prima contesa dalla miserabilità del paese volto alle false glorie. Mancano, ma sono più alti. Quelli che si troveranno alla fine non saranno abbastanza per fare la rivoluzione, quella vera, di caratteri, di competenze, di volontà. Non la rivoluzione che ci minacciano, nata da rancori e da avidità, la rivoluzione delle repubbliche romagnole con i polli a cinquanta centesimi per una settimana o la rivoluzione delle cooperative emiliane con le banche messe a disposizione dei proletari organizzati. Ma non sono neppure tanto pochi perché l'Italia possa addirittura farne a meno, e cancellarli dalla sua vita nazionale, perché  possano tutti esiliarsi, levarsi di qui, emigrare e dire che almeno ai propri figlioli vogliono toglier questo peso, questo gravame di portare in tutto il mondo la faccia di « italiano », di quel popolo che — secondo gli stranieri — dopo aver fatto una politica doppia, ha finito per scappare e ha dovuto chiamar gli stranieri per difendere la casa propria.
Certamente alla fine di questa guerra l'Italia sarà abbandonata, sfuggita, lasciata come una terra
odiosa, da molti suoi cittadini. Le turbe delle officine e dei campi andranno a cercarsi salari migliori. E questo non sarà che un vecchio fenomeno, ingrandito. Non leggi, non lusinghe, li tratterranno. Ma ci sarà un fenomeno nuovo. Se l'Italia non cambia, emigreranno i giovani della classe istruita, le intelligenze, i caratteri, i cittadini: le anime religiose. Emigreranno con dispetto e con disgusto, con la bocca amara, senza fede nell'avvenire del proprio paese, con il volontario e cosciente abbandono di chi si separa da una famiglia con la quale si è convinto, dopo qualche atroce esperienza, d'avere il sangue ma non l'animo in comune. Fin da ora si sentono propositi di questo genere nascere dalla disillusione e dalla impotenza in cui son gettate le più sane energie; e se tale emigrazione dovesse davvero estendersi, non resterebbe all'Italia nessun avvenire.
 

 

 

Come anderà?
È curioso che chi scrive queste pagine abbia per l'Italia maggiori speranze di quel che aveva prima, perché prima di questa catastrofe poteva capitare all'Italia di raggiungere i suoi intenti capitali per forza non propria e senza che si rivelassero le bacature del suo corpo. Posta allora in una situazione superiore alle sue capacità e gonfiata dalla ventura, sarebbe stato un paese di impossibile orgoglio e di pronta irreparabile caduta. Oggi il male è palese, evidente, innegabile. Non c'è persona di buon senso che in questi giorni non sia stata costretta dagli eventi a riflettere, a guardare in taccia la realtà.
Vorrà il nostro paese approfittare della lezione?
Se noi usciremo dalla guerra con i nostri confini naturali e finalmente consci della nostra realtà di popolo che ancora è da fare, di nazione inferiore alle grandi che si contendono la direzione del mondo; se saremo capaci del modesto e serio programma di prendere questa « piccola Italia » e cominciarne l'educazione e il dirozzamento, se potremo cacciare dal governo gli elementi malsani e incoscienti, iniziando da l'alto un regime di giustizia e di severità generale; se l'abisso fra chi comanda e il popolo sarà colmato e correrà dall'uno all'altro un ricambio di energie e di fiducia; allora questa catastrofe non sarà stata invano e fra venti anni gli stranieri dovranno rispettarci assai più di quello che farebbero se avessimo carpito, con immeritata fortuna, il posto che nel mondo non ci spettava né per forza né per maturità di animo.