Dario Succi - Annalia Delneri

 

  

TERRAFERMA, LAGUNA E PAESAGGI NELLA PITTURA VENETA DEL SETTECENTO

 

 

Francesco Guardi, Veduta lagunare, olio su tela 32,8 x 53,6 cm. Collezione privata

 

Porzione dell'antica Europa, che in ogni sua terra riflette millenni di storia, il paesaggio della Repubblica di Venezia si era venuto modellando attraverso una lenta e faticosa sedimentazione e una stratificazione del territorio che dalle lontane età paleovenete avevano formato nell'età moderna l'espressione visibile dell'anima di una civiltà singolarissima.

Nei paesaggi collinari costellati di mura merlate e di città turrite, visibili sullo sfondo dei dipinti dei pittori veneziani verso la fine del Quattrocento (Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Vittore Carpaccio) si specchiava un sistema di potere politico basato essenzialmente sull'uso della forza come strumento di dominio sociale del signore feudale e come mezzo di difesa del territorio dalle scorrerie dei nemici. I contadini, rinserrati in misere abitazioni quasi prive di aperture, esercitavano una rudimentale imprenditorialità che consentiva loro di vivere adempiendo con naturalezza l'obbligo di pagare le gabelle al feudatario.

Con l'Umanesimo nasce una entità nuova che si contrappone al mondo del signore e del contadino. L'intellettuale educato ai principi umanistici, «ponendosi — come egli ostentatamente fa — in una residenza indifesa, aperta, in un territorio aggressivo, intende testimoniare la sua indipendenza. Gli archi a tutto sesto che si aprono su quella residenza — e che il feudatario dalla sua torre e il contadino dalla sua casa con il coperto di paglia guardano con identico stupore — mettono in contatto, per la prima volta, l'interno e l'esterno, l'individuo e il territorio.

Essi presuppongono implicitamente una nuova e diversa naturalezza. Esibiscono una debolezza — in termini fisici — che attesta l'esistenza di un diverso ordine di valori, in cui la forza — antico emblema del potere — ha perduto il ruolo egemone che aveva detenuto per secoli» (Foscari 1984, p. 98).

La nascita della villa come costruzione "aperta" fu agevolata dall'esistenza di un forte potere centrale che seppe ridurre i signori feudali a cittadini la cui ricchezza trovava espressione emblematica in forme architettoniche che si aprivano al paesaggio circostante e ai visitatori.

La civiltà di villa si sviluppa nel momento in cui l'aristocrazia veneziana riversa le enormi ricchezze acquisite sui mari nei secoli precedenti nel "mondo nuovo" della proprietà terriera, coinvolgendo la nobiltà della terraferma in una gara di costruzione di residenze "da gentiluomo" per gli ozi del corpo e dello spirito, e di complessi edilizi destinati a fungere da centri aziendali, muniti di barchesse per ospitare gli attrezzi agricoli e i prodotti della terra. Accanto alle capanne dai tetti di paglia e ai castelli che dominavano i borghi rurali sorsero ariose ed eleganti dimore padronali nei cui parchi riviveva il sogno utopistico di una rinnovata Arcadia. Le nuove tendenze trovarono in Palladio, Sansovino, Sanmicheli e Falconetto gli artefici geniali che diedero un indirizzo architettonico unitario alla straordinaria fioritura di ville armoniosamente inserite sulle pendici dei colli Berici, sulle alture veronesi, nei territori trevigiani e vicentini, nella pianura friulana, privilegiando le riviere del Brenta e del Sile che costituivano le vie naturali di comunicazione tra Venezia e la campagna.

È in questo contesto politico e culturale che dal XVI al XVIII secolo si attua una grandiosa rivoluzione che trasforma profondamente il territorio introducendo, con le sementi importate dalle Americhe, nuove colture che favorirono l'aumento della manodopera agricola e un generale accrescimento del benessere nelle zone rurali.

Relegato sugli sfondi nei dipinti quattrocenteschi che glorificavano la divinità, la Vergine e i santi del Paradiso, il paesaggio diventa per opera dei grandi maestri del Cinquecento, da Giorgione a Tiziano, da Veronese a Tintoretto, una realtà viva che acquista profondità, luce e colore aprendo la via a un nuovo sentimento della natura nell'arte.

Nel Seicento è soprattutto a Roma che la storia del paesaggismo italiano trova i punti di riferimento essenziali con le opere di Nicolas Poussin, Claude Lorrain, Gaspard Dughet che seppero qualificare, con l'inserimento di brani mitologici, un genere pittorico prima scarsamente reputato, aprendo la via per l'elevazione del paesaggio al rango di pari dignità con la pittura di storia. Contributi importanti vennero anche dal realismo espressivo dei neerlandesi attivi a Roma e dalla predilezione per una bellezza naturale aspra e selvaggia di Salvator Rosa.

In questo processo evolutivo occorre dare atto che la città di Venezia occupa inizialmente una posizione del tutto marginale. Nella seconda metà del Seicento si va rapidamente affermando nei territori della Repubblica, in contrapposizione alla maniera aulica in cui si impegnavano gli artisti locali, una pittura di genere quasi totalmente monopolizzata da pittori stranieri poco conosciuti, arrivati in Veneto in cerca di fortuna. Furono soprattutto le richieste dei nuovi collezionisti appartenenti ai ceti mercantili e borghesi a determinare, con le loro scelte figurative anticonformiste, un'ampia produzione di paesaggi, capricci rovinistici, burrasche, battaglie, nature morte, composizioni floreali, la cui presenza nelle quadrerie inventariate negli ultimi decenni del Seicento e nei primi del Settecento risulta ampiamente documentata. Tra questi piccoli maestri spicca, con le sue opere, Ernesto Daret, un bambocciante originario di Bruxelles, autore di gustosi paesaggi che documentano un repertorio iconografico legato alla tradizione tematica neerlandese in voga nell'entroterra veneziano verso la fine del Seicento.

Un artista di notevole rilievo fu il salisburghese Johann Anton Eismann, le cui opere, collocate in apertura di questa rassegna, rivelano un'interpretazione in chiave fiamminga dei paesaggi di Salvator Rosa mentre il ricco repertorio macchiettistico precorre i tipi di Luca Carlevarijs. La vivacissima resa atmosferica, la brillantezza dei pigmenti, la trasposizione a capriccio di monumenti architettonici classici sulla riva del mare, sono gli elementi caratterizzanti di una produzione pittorica che, insieme a quella del Cavalier Tempesta, presente in laguna dal 1687 al 1690, e di Christian Reder, che ivi soggiornò fino al 1686, svolse un ruolo notevolissimo nel rinnovamento della pittura di paesaggio a Venezia, aprendo la via ai porti di mare di Carlevarijs e al più immediato accostamento alla natura di Marco Ricci.

Importanti in tal senso furono pure i contributi del padovano Antonio Marini e dell'anconetano Francesco Peruzzini. Il primo, dotato di una vena fantasiosa sostanzialmente ancorata al gusto barocco, seppe esprimersi in maniera originale nell'impiego di una pennellata guizzante e vorticosa preannunciante il linguaggio espressivo dei Guardi.

Il secondo si profuse con grande originalità nella raffigurazione di una natura selvaggia e poeticamente immaginaria, ponendosi alla testa di un processo innovativo da cui prenderà le mosse Marco Ricci. L'alunnato del bellunese presso l'anconetano, ricordato da Tommaso Temenza fin dal 1738, risulta stilisticamente confermato da alcuni splendidi, inediti paesaggi giovanili presentati in questa rassegna, nei quali il fantasioso discorso peruzziniano viene sviluppato con accenti assolutamente personali. Non è senza significato che questa svolta avvenisse alle soglie del Settecento, il secolo che avrebbe visto il tramonto definitivo di una potenza che per secoli era stata fondata sui traffici e sul dominio dei mari. La ricchezza ormai si costruiva sempre meno in città e anche se questa restava il luogo migliore per esibirla, la campagna era da tempo diventata il rifugio economico delle famiglie nobili. L'aprirsi di iniziative di investimento sulla terraferma comportò una sostanziale modifica della visione che della natura avevano i veneziani: perdendo le caratteristiche dell'immaginario, la campagna diventava una realtà concreta, una fonte di ricchezza e di serenità.

Con Marco Ricci nasce nella città lagunare una maniera nuova di esprimere la natura che diventa, insieme all'uomo, protagonista della storia ideale e quotidiana: il susseguirsi delle stagioni si condensa in luoghi senza nome e tuttavia familiari perché riconoscibili per la pluralità del linguaggio architettonico che rimanda alla stratificazione del paesaggio veneto. Nella quiete delle colline e delle valli del Piave, il pittore ritrovava la realtà di una natura intesa non come Arcadia ma come meraviglia e stupore di fronte allo spettacolo dei monti, delle valli, dei fiumi, degli alberi dalle chiome opulente esaltate dalla qualità particolare, transeunte della luce.

 

Marco Ricci, Paesaggio con mercanti a cavallo e mendicante, olio su tela, 57 x 57 cm. Collezione privata

 

Marco Ricci, Paesaggio con plenilunio, olio su tela, 57 x 57 cm. Collezione privata

 

 

Nel superbo e inedito Grande paesaggio con fiume, lago e figure varie, databile verso la metà del terzo decennio, Ricci costruisce una visione modulata su ritmi e tempi che elidono le punte acute del sentimento e dell'immagine. La nota dominante è la dolce pacatezza del tono, il sapiente equilibrio delle parti, la forza di una composizione che bandisce ogni eccesso. La natura non è abitata da pastori arcadici e non c'è ombra di malizia nelle donne intente a sciacquare i panni. La rinuncia a ogni finzione culmina, al centro della tela, nella pausa di riposo degli attori che indossano ancora il costume di scena.

L'artista riesce a conseguire effetti di incantato lirismo raffigurando i personaggi più comuni nelle attitudini quotidiane, mentre la visione panica della natura si accompagna alla classica essenzialità del tratto pittorico, caratterizzando in maniera emblematica i suoi "paesaggi eroici".

Temperamento lunatico e saturnino, il maestro bellunese fu costantemente teso nello sforzo del rinnovamento in senso luministico e atmosferico del linguaggio pittorico, sulla base di una ispirazione fondamentalmente limpida, meditata, di grande respiro. A lui guardarono tutti i migliori vedutisti e paesisti del Settecento veneziano, Canaletto, Zuccarelli, Marieschi, Zais, Guardi, che furono i continuatori più attenti della natura di una bellezza senza tempo sognata da Marco. L'artista era morto da solo tre anni quando venne con lucidissima intuizione definito da Zanetti come «valente nelle architetture, e nÈ paesi spezialmente, che formò in ogni modo, a tal segno, che dopo Tiziano sino ad ora non si vide, chi l'uguagliasse» (1733).

Insieme a Ricci, l'udinese Luca Carlevarijs, giunto a Venezia in giovane età, fu con i suoi porti di mare l'iniziatore della grande stagione del paesismo settecentesco. In modo quasi parallelo i due artisti elaborarono un modello di paesaggio che vedeva nelle opere dei "foresti" non uno stile da imitare ma un esempio per esprimere un nuovo genere pittorico, portando avanti una fiera alternativa — tipicamente veneta — al paesaggio ideale dei classicisti, al realismo pungente dei nordici italianizzanti e alla bellezza "romantica" dei rosiani.

Nelle opere di Carlevarijs l'utilizzo delle precedenti fonti figurative (Rosa, Tempesta, Reder, Eismann) viene piegato a un sentimento dell'ambiente che non coincide con il dato oggettivo ma con una sensibilità peculiare e un modo di vedere più mentale che visivo, ritornando alle radici del paesismo veneto, al colorismo cinquecentesco e a quella "pittura aperta" che investe di luce abbagliante il repertorio barocco allora circolante in Italia.

Formatosi sotto l'influenza della concezione classicheggiante di Lorrain, Locatelli, Orizzonte, Monaldi — dalla quale non riuscirà mai a separarsi completamente — Francesco Zuccarelli, che si era trasferito a Venezia nel 1732, andò affinando la propria arte in una duplice direzione: nelle squisite tonalità di un colorismo luminoso e dorato, caratterizzato da un'accorta fusione di delicati pigmenti, e nell'apertura verso l'interpretazione veneta del paesaggio operata da Marco Ricci. Nella città lagunare l'artista ebbe modo di entrare in relazione con committenti importanti come Anton Maria Zanetti e il feldmaresciallo Mathias von der Schulenburg che tra il 1737 e il 1738 acquistò ben nove paesi per la sua prestigiosa galleria.

Tra i dipinti inediti di Zuccarelli già presentati durante la mostra Il paesaggio veneto del Settecento, tenutasi a Villa Manin nel 2003, il Paesaggio fluviale con figure varie e mendicante presso un'edicola presenta uno straordinario interesse scientifico perchè, essendo firmato e datato 1737, è l'unico finora conosciuto che documenta con certezza le caratteristiche dello stile zuccarelliano negli anni trenta.

Con il passare degli anni cominciò a prevalere nella produzione del fiorentino la raffigurazione di una natura popolata di pescatori, pastorelli, cavalieri piumati, lavandaie: una società bucolica in linea con il raffinato gusto internazionale, immersa in un'atmosfera di perenne festa campestre e talora indulgente al soggetto mitologico. Luminosità soffuse, ombre leggere, orizzonti vaporosi, boschetti balsamici, acque smeraldine e tenere verzure furono gli ingredienti di una poetica distillata in cui l'emozionante scoperta della natura lasciò il passo alle ricercatezze di un abbandono arcadico e agli spunti bucolici di una pittura spensierata, esaltante il mito della felicità agreste: un genere destinato a incontrare grande favore presso la società veneziana e le corti europee dell'epoca. L'affermarsi di questa visione paesistica ricevette impulso dall'incontro con Joseph Smith, il fine conoscitore che annoverava nella sua raccolta almeno trenta dipinti di Zuccarelli, da lui molto apprezzato ed entusiasticamente patrocinato a livello internazionale. Durante il primo (1752-1761) e il secondo (1765-1771) soggiorno a Londra l'artista fiorentino accentuò le sottigliezze del fraseggio narrativo, la stesura levigata della pennellata e le raffinatezze della tavolozza, facendo più largo impiego degli azzurri opalescenti e dei violetti nei monti lontani, dei rosa tenui sulle nuvole, dei verdi smeraldini nel fogliame, in una sinfonia di tinte sfumate e di effetti vaporosi. Anche le figurette acquistarono una politezza formale che allentava la freschezza e la grazia civettuola delle scenette bucoliche e idilliche degli anni quaranta, nelle quali la vitalità festosa del paesaggio interagiva con la palpitante e ridente malizia di ninfe e giovinette di stupenda bellezza, danzanti in compagnia di fauni spensierati sopra tenere radure.

La straordinaria interpretazione della poesia arcadica del Settecento offerta da Zuccarelli esprime a un livello altissimo il sogno di un modo svincolato da ogni freno perché riscattato dall'audacia quasi immateriale di un melico virtuosismo pittorico.

Una felicità espressiva che realizza pienamente la concezione della pittura quale canto libero, al di fuori della storia e della morale, diretto solo a suscitare piacere, a meravigliare con la dolcezza delle lusinghe di invenzione, di colore e di tono.

Affini nella tematica idillica e arcadica ma sostanzialmente diverse nell'interpretazione, le vigorose inscenature paesistiche di Giuseppe Zais si distinguono per la natura meno idealizzata, più genuina, espressa con pennellate dense e toni caldi, fortemente chiaroscurati. Formatosi sotto l'influenza del conterraneo Marco Ricci, come dimostra la serie di dodici piccole tele, provenienti dalla collezione Agosti, esposte nel 1954 alla mostra Pittura del Settecento nel Bellunese curata da Valcanover, l'artista si aprì nel corso del quinto decennio agli stimoli dell'elegante Arcadia zuccarelliana, pur conservando quella gustosa rusticità che costituisce la nota fondamentale della sua feconda produzione.

 

Giuseppe Zais, Paesaggio con grande cascata.  Padova, Musei Civici

 

Esemplare in questo senso è il grandioso ciclo proveniente da palazzo Mussato, ora ai Musei Civici di Padova, di cui il Paesaggio con grande cascata, probabilmente commissionato intorno al 1745, quando il pittore era ancora alla ricerca di una definizione più precisa della propria personalità. Secondo Zava Boccazzi (1997, p. 305) il livello qualitativo e la perizia esecutiva del complesso padovano «indicano un traguardo piuttosto che un esordio, ponendosi, a evidenza, come un raggiungimento al vertice della giovanile, fondamentale esperienza sugli esempi di Marco Ricci». La studiosa sottolineava la circostanza che questo apparato pittorico, risolventesi in una specie di "tappezzeria" paesaggistica, costituiva una novità nella storia della decorazione murale nei palazzi padovani che trovava riscontro solo nella serie di grandi tele con Storie di Giacobbe eseguite, secondo la ricostruzione proposta da George Knox (1996, pp. 32-38), nel 1743 da Zuccarelli per la bella villa di Joseph Smith nel territorio di Mogliano.

Tra il 1755 e il 1765 Zais aveva raggiunto la piena maturità stilistica, evidenziata da opere sul tipo del Paesaggio fluviale con armenti delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, il cui largo equilibrio compositivo e la raffinata armonia tonale denotano una salda professionalità e una franchezza espressiva notevolissima. La conferma dell'esistenza di un momento favorevole, con una notorietà peraltro circoscritta all'ambito locale, risulta dal fatto che dal 1758 fino al 1768 l'artista – il cui nome compare nei registri della Fraglia dei pittori veneziani dal 1748 al 1768 – cercò di dare una dignità "ufficiale" alla propria attività prendendo parte ad alcune riunioni del Collegio dei Pittori e chiedendo, nel 1765, di essere ammesso all'Accademia veneziana. Nella circostanza offrì in dono il Paesaggio con fontana conservato alle Gallerie dell'Accademia, ma la domanda venne accolta solo nel 1774 dopo una lunga e umiliante anticamera. Tra il 1760 e il 1765, secondo Muraro (1960, pp. 195-218) , Zais eseguì per villa Pisani a Stra alcuni paesaggi a secco e animò con il consueto gustoso repertorio macchiettistico gli ingenui fondali architettonici dovuti alla mano di un dilettante, forse quell'Almorò Pisani che nel 1763 aveva fondato l'effimera Accademia di Disegno e d'Intaglio.

 

Giuseppe Zais, Paesaggio fluviale con lavandaie e armenti, olio su tela 82 x 101 cm. Collezione privata

 

Giuseppe Zais, Grande marina con città fortificata, olio su tela, 222 x 320 cm. Collezione privata

 

Alcuni dei temi svolti nelle decorazioni di Stra si ritrovano nella superba coppia di dipinti di misure spettacolari – 222 x 320 cm. – che viene qui presentata per la prima volta. Delle due tele, raffiguranti un Paesaggio fluviale con lavandaie e armenti all'abbeverata e una Marina con città fortificata, la seconda, firmata «I. ZAIS/ F.», presenta notevole interesse iconografico per la particolare interpretazione del tema dei porti di mare che Luca Carlevarijs aveva introdotto all'inizio del secolo quale filone specifico nella pittura di paesaggio.

 

Giuseppe Zais, Ritrovo nel parco di villa con gioco dell'altalena, olio su tela, 113,5 x 147,5 cm. Collezione privata

 

Nel settimo decennio si colloca probabilmente una serie di piacevoli tele raffiguranti Scene di vita galante in villa di cui gli esempi più noti, derivati da incisioni da dipinti di Watteau, sono conservati alle Gallerie dell'Accademia e alla National Gallery di Londra; ad essi si aggiunge l'inedito Ritrovo nel parco di villa con il gioco dell'altalena. Alla fase finale appartiene un gruppo di dipinti particolarmente felici nei quali la resa del paesaggio si avvale di una stesura magra e sintetica che nulla toglie alla nitidezza espressiva, caratterizzata da stupendi risalti luministici e da tasselli cromatici puri preludenti all'ultimo periodo di Francesco Guardi. È la vena creativa riscontrabile nella coppia Paesaggio con Agar e l'angelo e nel Paesaggio con Tobiolo e l'angelo delle Gallerie dell'Accademia, la cui autografia venne rifiutata da De Logu (1930, p. 135) e Buscaroli (1935, p. 418) per la chiarità dei fondi e l'uso di pigmenti verdini, grigi, bruni, ritenuti — a torto — estranei alla paletta dell'agordino. Una sorte che tocca non di rado a quei dipinti — si pensi ai paesaggi lagunari di Francesco Guardi — che si staccano dai moduli abusati di un maestro e che per tal motivo gli vengono negati mentre rappresentano spesso il fiore raro di una illuminata avventura sperimentale.

Non è questo il caso dei due deliziosi, tipici dipinti di Giambattista Tiepolo raffiguranti Armida incorona di fiori Rinaldo dormiente e Armida e Rinaldo allo specchio che suscitarono l'ammirazione di Antonio Morassi quando poté vederli negli anni cinquanta nella collezione Wrightsman di New York. Collocata da Anna Pallucchini nella seconda metà del sesto decennio del Settecento, all'epoca dei grandi cicli di villa Valmarana a Monte Berico di Vicenza (1757-1758), la coppia di scene tassesche di gusto neoveronesiano si impone per lo splendido cromatismo e la fragrante freschezza timbrica. I teneri atteggiamenti dei protagonisti, i sontuosi panneggi e la delicatezza degli inserti fioriti evocano un'atmosfera di eterna bellezza e la nostalgia di un antico mondo perduto.

Altri paesisti meno conosciuti ma ugualmente meritevoli di attenzione furono attivi a Venezia nel XVIII secolo e ad essi la mostra di Villa Manin riservò uno spazio adeguato, analizzando panoramicamente la produzione di Bartolomeo Pedon, Antonio Stom, Giovanni Battista Cimaroli, Gianfrancesco Costa (cui vennero restituite quattro bellissime vedute della riviera del Brenta, le uniche finora conosciute di questo artista), di Antonio Diziani e del cosiddetto Maestro della Fondazione Langmatt, da identificarsi in Apollonio Domenichini, nato a Venezia nel 1715 e morto intorno al 1770. Del bellunese Gaspare Diziani, presente con alcune bellissime e inedite scene di brigantaggio ambientate nel paesaggio delle Prealpi bellunesi, venne approfondita l'indagine sulla produzione vedutistica di cui l'unico esempio finora conosciuto era costituito dalla grande tela con La sagra notturna di Santa Marta del Museo di Ca' Rezzonico. A Diziani vennero inoltre restituiti alcuni capricci, caratterizzati da un'atmosfera mutevole e da tonalità rugginose, che anche in tempi recenti sono stati reputati opere giovanili di Canaletto. Quando Antonio Canal cominciò a «stordir universalmente ognuno che vede le sue opere», perché «si vede lucer dentro il Sole» — così scriveva Alessandro Marchesini a Stefano Conti in una famosa lettera del 14 luglio 1725 — la tipicità della veduta veneziana aveva da non molto tempo iniziato a profilarsi grazie all'opera di Carlevarijs, al cui repertorio iconografico il giovane artista seppe talvolta attingere. Ma se il grande merito del friulano era stato quello di concentrare l'attenzione su alcuni aspetti della città elevandoli a luoghi simbolici — il bacino di San Marco, la piazza San Marco, la Piazzetta, il palazzo Ducale, l'imbocco del Canal Grande — Canaletto si servì di quegli esempi, e di altre fonti, per costituire un proprio repertorio di siti organizzato con una coerenza ed una poesia non commensurabili ai prototipi. Il suo modo di esibire lo spazio e di formularlo in superficie colorata non deve nulla ai precedenti e la sua immagine di Venezia è tutt'altro che oggettiva.

Come ha evidenziato André Corboz nel suo rivoluzionario studio sull'artista (1985), le vedute canalettiane non hanno nulla da spartire con la banalità della "ripresa fotografica". Vedute esatte e vedute ideate sono variazioni del reale accomunate dalle continue interferenze tra la realtà visiva e l'immaginario. La mostra propose sette capricci di Canaletto mai esposti in Italia, uno del periodo giovanile, due — splendidi — della maturità e quattro della fase estrema, eseguiti con la inusuale tecnica a tempera. Con questa selezione mirata si era inteso aderire alla tesi di Corboz che assegna al capriccio la funzione di elemento fondamentale della poetica canalettiana. Per Antonio Canal la trasgressione alla realtà topografica costituisce infatti la norma, non l'eccezione: le sue vedute e i suoi capricci si muovono su piani contigui che si intersecano e si sovrappongono.

Lo spazio secondo ragione della Venezia di Canaletto è quello di una città che — come affermava Francesco Algarotti nel 1744 — «fabbricar potrebbesi»: il mito dell'età dei Lumi di cui l'artista fu l'interprete più alto. Mettendo a fuoco con precisione lenticolare la sua Venezia, descritta appassionatamente come struttura urbana e microcosmo formicolante, Antonio Canal esprimeva il suo orgoglio di cittadino della Repubblica Serenissima, assunta a modello emblematico di una comunità cristallina che aveva saputo sostituire con un ordine mirabile di significato universale il magma informe della natura primitiva: «Costruire in modo solido, duraturo e splendido, significa battere la natura e Canaletto è essenzialmente razionale non avendo, in apparenza, dubbi o rimpianti per questa sconfitta. In effetti, Venezia potrebbe difficilmente essere uguagliata come simbolo di ciò a cui l'arte, nel significato più completo della parola, può arrivare: la conquista di una terra in condizioni naturali disperate, la creazione da una palude di una città che rapidamente conquista il diritto all'ammirazione del mondo. Si comincia a capire, adesso, perché Canaletto scelse di essere un pittore della scena urbana, di vedute — non di paesaggi o di genere [...]» (Levey 1996, p. 33).

Le scoperte e le conquiste di Antonio Canal nel quarto decennio del Settecento furono normative per il nipote Bernardo Bellotto, entrato nella bottega dello zio intorno al 1735-1736. Questa situazione lo pose in una condizione privilegiata perché il giovane apprendista venne immediatamente a contatto con i segreti della veduta canalettiana, risparmiandosi un faticoso itinerario formativo: un vantaggio formidabile che gli consentì di bruciare le tappe di una carriera fulminea che lo portò, appena venticinquenne, a Dresda al servizio della più illuminata corte europea, quella di Augusto III, principe elettore di Sassonia e re di Polonia. In tutta la produzione pittorica di Bellotto il tema del paesaggio lagunare ritorna solo nel Capriccio lagunare con una casa della Galleria Nazionale di Parma e nei due Capricci lagunari del Museo Civico di Asolo. Questa coppia eseguita intorno al 1743, esposta in mostra Manin, è un capolavoro in cui la saldezza dell'impianto prospettico e la plasticità degli elementi architettonici campiti contro l'azzurro del cielo si fondono con straordinario equilibrio compositivo nella magia dei paesaggi lagunari stupendamente evocati.

Bellotto fu anche autore, a partire dal 1744, di una piccola serie di stupende vedute della campagna lombarda raffiguranti i paesi di Vaprio d'Adda e di Gazzada in cui l'artista manifesta la sua prepotente personalità nella forza incisiva della descrizione e nella stesura materica cromaticamente controllata che imprimono agli elementi naturali e alle fabbriche dell'uomo una intonazione lucida, quasi surreale, molto diversa dalle atmosfere immobili dei cieli eternamente sereni di Canaletto.

Accanto ai capricci lagunari di Bernardo venne esposto nella mostra un Paesaggio lagunare con città murata che rappresenta un raro esempio della produzione pittorica di Pietro Bellotto (o Bellotti), un artista molto poco studiato. Fratello di Bernardo, Pietro Bellotti si trasferì intorno al 1745 in Francia, a Tolosa e a Nantes, dove operò a lungo eseguendo vedute di Venezia e di altre città europee basate per lo più su traduzioni incisorie. Di lui viene anche pubblicata l'unica opera firmata finora conosciuta che raffigura Le porte del Dolo, e che venne derivata dalla corrispondente splendida acquaforte di Canaletto.

Tra gli artisti minori del Settecento anche la figura di Bernardo Canal, padre del famosissimo Antonio, riveste un interesse particolare perché, pur essendo tecnicamente dotato, preferì nel corso della sua lunga vita ispirarsi ai modelli altrui (Richter, Carlevarijs, Canaletto) dandone un'interpretazione personale non priva di poesia e di verità atmosferica. Non sorprende quindi la circostanza che, anche in tempi recentissimi, alcuni suoi dipinti siano stati direttamente attribuiti a quei maestri. Ne sono sorprendente esempio le due vedute di Roma dello Szépmuvészeti Mùzeum di Budapest, l'una raffigurante Santa Maria d'Aracoeli con il Campidoglio, l'altra Il tempio di Antonino e Faustina, che hanno avuto l'onore di essere esposte come opere giovanili di Antonio Canal alla mostra nell'isola di San Giorgio Canaletto, prima maniera (2001).

Negli anni trenta operava nella città lagunare un altro grande vedutista, Michele Marieschi, i cui dipinti venivano acquistati, per il tramite del raffinato collezionista veneziano Anton Maria Zanetti, dagli amatori inglesi durante il Grand Tour e da blasonati collezionisti come il feldmaresciallo Matthias von Schulenburg e Henry Howard, IV Earl of Carlisle. Quest'ultimo riunì, tra la fine degli anni trenta e l'inizio del decennio successivo, nella sontuosa country house di Castle Howard nello Yorkshire, una straordinaria raccolta di quaranta vedute di Venezia, di cui cinque di Canaletto, quindici di Bellotto (acquistate però come "Canaletto"), due di Cimaroli e diciotto di Marieschi. L'eccezionale serie di vedute di Michele Marieschi, andata dispersa con le vendite effettuate a partire dalla fine dell'Ottocento, venne ricostruita nella sua interezza per la prima volta con la mostra di Villa Manin. La precisa collocazione temporale — verso il 1738 — di un così cospicuo numero di vedute di un pittore di cui non esiste neanche un'opera datata costituisce un elemento di fondamentale importanza per la ricostruzione della cronologia di un artista finora per lo più basata su considerazioni soggettive.

Seguendo un itinerario già percorso da Antonio Canal, Marieschi fino alla metà del quarto decennio affiancò l'attività di scenografo con quella di autore di estrosi capricci, presenti in mostra con sei bellissimi esemplari, di cui quattro inediti, che documentano lo sviluppo dello stile dell'artista in questo particolare genere. Mentre nei capricci di Marco Ricci le imponenti rovine levigate dai secoli e le figure cristallizzate in gesti composti vengono esaltate in una dimensione densa di risvolti intellettuali, nelle fantasie di Marieschi le rovine e le architetture sono innestate in un contesto carico di richiami al pittoresco mondo della laguna veneziana. Ritagli desunti dal vero si coordinano con torri medievali servite da scalinate che portano verso improbabili dimore, o con umili deliziose casupole delicatamente toccate nell'evanescente panorama di una favola incantatrice.

Solo in seguito l'artista si dedicò al vedutismo, probabilmente influenzato dalla grande fama acquisita da Canaletto. Nel corso della seconda metà degli anni trenta la produzione di vedute prevalse nettamente su quella di capricci inducendo l'artista ad allontanarsi gradualmente dai limpidi e traslucidi modelli canalettiani per esprimere la vena più genuina del proprio estro: quella che si rivela nell'interesse per una forma urbis vista con occhio vivacissimo e ricreata sulla tela con grande trasporto emotivo.

In evidente aderenza con l'atmosfera di incertezza e di declino politico ed economico di una città che ormai viveva dei ricordi del suo glorioso passato, la lunga vicenda artistica di Francesco Guardi si concluse nell'espressione pittorica di una Venezia quasi fantomatica, vista in dissolvenza tra bagliori luminosi, indistinti aloni di colore, isolate macchiette pervase da un'indefinibile malinconia. La fase finale di Guardi fu molto diversa da quella di Canaletto che, dopo le smaglianti vedute degli anni trenta e quaranta, al rientro del lungo soggiorno a Londra (1756) cristallizzò la ricerca in una stesura cromatica vieppiù estenuata. L'ultimo Guardi operò invece in un crescendo di luci crepitanti, di bagliori e di trascoloramenti. La stringata dialettica luministica delle vedute del periodo iniziale e della maturità tese a risolversi, con l'avvicinarsi del nono decennio, in una resa prospettica allargata a dismisura, mentre gli elementi architettonici lontani venivano modulati con campiture cromatiche sottili e nette, colpite da una luce abbagliante. L'artista accentuava l'ampiezza della visione panoramica con l'indefinito prolungarsi della città sull'orizzonte, esaltando la distesa liquida sovrastata da un cielo immenso: l'incantesimo delle giovanili vedute lagunari — in cui gli elementi paesistici venivano delineati con una smagliante nitidezza — si disarticola nei fumi di uno spazio scenico sfaldato in cui circolano apparizioni fantomatiche.

Si può fondatamente ritenere che Francesco Guardi trasfonda, nella sua variegata esperienza artistica, le proprie meditazioni sulle sorti di un genere famoso — il vedutismo — e di una tradizione figurativa di cui sente lucidamente di essere l'ultimo interprete. Se le sue prime vedute della metà degli anni cinquanta dimostrano l'influenza di Canaletto, l'adesione alla lezione del maestro non è totale perché l'allievo trascura un dato fondamentale della ricerca di Antonio Canal mirante a una resa trasparente dell'atmosfera entro la quale i volumi degli edifici si inseriscono con evidenza cristallina. Questa resa particolare non interessa Francesco che, sfumando i profili del paesaggio e delle figure, sposta l'accento sull'atmosfera, sul quid che, in un'epoca ormai dominata dall'incertezza, fa leva sull'immediatezza psicologica.

Muovendosi entro tale linea Francesco Guardi, coerentemente insoddisfatto delle opere contemporanee di Canaletto, prosegue nella ricerca elaborando una propria cultura d'immagine basata sulle precedenti esperienze dei grandi maestri. Ne deriva una rivisitazione sistematica dei vedutisti e dei paesisti veneziani della prima metà del Settecento, non solo Canaletto ma anche Carlevarijs, Ricci, Marieschi, che sovente connotano le tele guardesche con brevi citazioni o con ampie riprese, a riprova che l'intimo significato dell'arte guardesca è il ripensamento: un ritorno figurativo in cui il pensiero pittorico si evolve nella cosciente ricerca delle proprie origini, fino al ritrovamento dell'identità.

La mostra Il paesaggio veneto del Settecento, si concluse con una serie di brillanti tempere inedite di Giuseppe Bernardino Bison, che fu uno degli artisti più rappresentativi nel passaggio tra Sette e Ottocento. Pittore dall'occhio felicissimo, egli fece rivivere in una fertile produzione la tradizione lagunare del grande secolo, rivisitando in maniera originale le opere di Marco Ricci, Zuccarelli, Zais, Canaletto, Marieschi, Tiepolo con una pennellata liquida, un colorismo luminoso e fresco, un naturalismo vivace e spontaneo.

La pittura di paesaggio come genere autonomo si è affermata nei territori della Repubblica Serenissima solo sul finire del Seicento ma grazie alla presenza di alcuni grandi e grandissimi maestri garantisce, fin dai primi anni del nuovo secolo, una produzione dallo splendore abbagliante che incanta l'Europa intera. Eppure questa pittura, amata fin dal suo sorgere dal grande pubblico, da raffinati conoscitori e dai critici più severi, e oggi considerata come una delle espressioni più significative dell'arte del Settecento europeo, non è mai stata — a differenza del paesismo olandese o di quello inglese — oggetto di una specifica rassegna, in Italia o altrove. La mostra ha colmato questa lacuna, presentando un'ampia selezione di dipinti — con molti capolavori, per la maggior parte inediti — nell'ambito di un percorso espositivo che, dipanandosi lungo l'intero arco del secolo, rappresenta la smagliante varietà e la sorridente gaiezza del paesaggio veneto, dalle aspre montagne del bellunese alle romantiche lagune. Un paesaggio che solo di rado venne inteso dagli artisti come visione dell'ambiente circostante, rispondendo piuttosto a un sentimento della natura fondato sulle sottili suggestioni di prospettive interne che riflettevano le tensioni e le aspirazioni culturali di un'epoca alla costante ricerca del punto di equilibrio in cui si celebrava l'armonia dell'uomo e della natura.

Nei tempi antichi il locus amoenus, lo spazio immaginario immerso in una natura eternamente verde, fertile e serena, aveva evocato simbolicamente l'aspirazione umana a una condizione esistenziale di pieno godimento dello spirito e dei sensi senza l'umiliazione del dolore e della fatica. Mentre in quell'angolo recondito della terra la natura si trasfigurava spontaneamente in uno spazio amico per l'uomo, nel giardino era l'uomo stesso che costruiva artificialmente un luogo sereno, un ambito sacro dedicato alle divinità. Al giardino si riallacciava sostanzialmente l' hortus clausus dell'epoca medievale, lo spazio in cui l'uomo viveva e lavorava serenamente, protetto dai pericoli dell'ambiente selvaggio e ostile che lo circondava.

Nel Rinascimento la situazione si capovolse: l'uomo affermò la volontà di dominio sulla natura, trasformandola in un territorio agricolo ricco e ordinato, fonte di benessere per tutta la comunità.

I secoli successivi hanno visto la natura ritrarsi in luoghi sempre più reconditi, così che essa ha finito con l'essere considerata ai giorni nostri come una rarità, un oggetto di valutazione estetica tutelato e protetto nei suoi più pregevoli frammenti.

Negli ultimi decenni del Novecento la esasperata diffusione dei segni urbani sul territorio ha reso difficoltoso il riconoscimento della identità formale di gran parte della campagna veneta, determinando — con la crisi del mondo contadino — un grave impoverimento culturale. Il paesaggio è l'essenza, il quid visibile dell'anima di un Paese e ogni cambiamento si riverbera su quell'anima, rendendola più gentile o avvilendola. Armoniosamente immersa come un ricamo latteo nel verde tessuto della pianura friulana che è stata lambita dalle forme devastanti della crescita urbana, villa Manin di Passariano appare all'improvviso con la sua fastosa architettura come un miraggio al viaggiatore solitario che giunga da mezzogiorno per una rettilinea strada di campagna. Il complesso di rara bellezza, voluto dalla famiglia Manin che con Ludovico diede a Venezia l'ultimo Doge, si sviluppa dal maestoso prospetto del corpo principale e dalle barchesse laterali fino ai bracci dell'esedra — desinenti in due torrioni — che racchiudono il cortile d'onore e due peschiere a mezzaluna. Posteriormente la facciata si apre su un ampio parco che nei tempi di massimo splendore «con i cupi recessi ombrosi, con i vasti spiazzi verdi, coll'incantevole presenza delle linfe naturali o artificiali e con tutta la sua vivace popolazione mitologica, doveva costituire un meraviglioso "teatro", dove era più facile rivivere la bella favola del mondo arcadico, lontano dalla realtà e quasi fuori del tempo» (Rizzi 1972, p. 26). Dopo il lento declino ottocentesco e i danni causati dalle ingiurie del tempo e delle varie occupazioni belliche che l'avevano ridotta in grave degrado, la villa è stata oggetto di un programma di recupero e di riqualificazione per essere adibita a centro culturale ed espositivo.

Inaugurato con la indimenticabile Mostra del Tiepolo del 1971, curata da Aldo Rizzi, il complesso monumentale ha definitivamente assunto il nuovo ruolo di strumento impareggiabile di vita culturale.

Quando è sbocciata l'idea di questa rassegna, villa Manin si è naturalmente imposta come luogo ideale per far rivivere, proponendola all'attenzione universale, la grande epopea della pittura veneta di paesaggio. Ammirando la lunga sequenza di dipinti illustranti il mondo bucolico e rurale dei grandi maestri del Settecento veneziano, il visitatore potrà contemporaneamente affacciarsi alle luminose finestre per gettare uno sguardo sulla pianura circostante, ricca di risorgive ai piedi dell'anfiteatro morenico, dove sembra ancora sopravvivere la memoria del dono della terra affidata al dominio responsabile dell'uomo perché, con la sua fatica, cogliendo il senso dei suoi misteri, la renda felice.

Forse allora potrebbero riaffiorare alla memoria le parole incantate di un famoso passo dei Discorsi intorno alla Vita sobria (1558) di Alvise Cornaro.

Questo principe dell'umanesimo cinquecentesco, osservando ancora una volta, a ottantasei anni, dalla residenza sui colli Euganei, i campi fertili e ben coltivati e la villa «piena di belle strade, le quali concorrono tutte in una bella piazza, in mezzo alla quale è la sua chiesa», esprimeva tutta la sua gioia per le opere di bonifica da lui attuate per liberare quelle terre paludose, rendendole prospere e popolate: «Questi monti, veduta questa miracolosa liberazione sua, sono tanto allegri che in ogni loro parte ridono veramente. Ora questa è la stanzia della alegrezza e del riso: ridono li loro prati pieni di vaghi e diversi fiori e di odori colmi; ridono li boschi rivestiti di uno novo e molto alegro verde; rideno li arbori pieni di fruti de tante e si diverse sorte e tanto delicati; rideno le viti e rendono un soavissimo odore in questo suo fiorire; rideno le acque delle loro fontane più chiare che mai fossero e perché se retrovano in maggior quantità discendono con maggior mormorio; cantano li tanti uccellini di diverse sorte tirati a forza dal chiaro e novo aere. [...] Cantano, rideno, salteno, balano, e sonano li pastori vedendo le loro armente pascere tante e tante così notrite erbe, le quali producono un late tanto dolce e grasso che essi per notrirsi non hanno bisogno di altro pane in tante carestie».

 

 

Dario Succi - Annalia Delneri