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Giuliano Confalonieri

 

 

CONQUISTADORES

 

LA SCOPERTA DELLE AMERICHE

 

 

 

 

 

 

“Le religioni e le mitologie, come la poesia, sono un tentativo dell’umanità di esprimere in immagini l’indicibile che voi tentate invano di tradurre in ragione” (Hermann Hesse 1).


“Se con le mie mani volessi scuotere questo albero, non potrei. Ma il vento che noi non vediamo, lo tormenta e lo piega nel senso che vuole. Più duramente ci piegano e tormentano le mani che restano invisibili. Avviene dell’uomo come dell’albero. Quanto più vuol protendersi verso l’alto e la luce, tanto più le radici lo tirano giù nel suolo, verso le tenebre e la profondità” (F. W. Nietzsche
2).


“Le nostre città sono incubi, tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruire templi, palazzi o tombe, piazze trionfali o anfiteatri ... Allora rivedremo ciò che videro i Conquistatori del Nuovo Mondo dove, al loro avvicinarsi, intere tribù si gettavano dalla cima della montagna ... Prevedo l’annientamento del mondo da un polo all’altro ... Le cento e più città morte che abbiamo risuscitato da un capo all’altro dell’universo moriranno una seconda volta ... Elevo un canto di morte e saluto il caos che sale dall’abisso e il terrore antico riemerso dal profondo dei tempi!”  (Albert Caraco
3).

 

 

 

INDICE:

 

 

 

Introduzione

 

Colombo
Aztechi
Incas
Maya


Cronologia
Personaggi
Filmografia
Bibliografia
 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE
 

 

Il crimine è ininterrotto, da quello individuale a quello generalizzato, dallo stupro ai campi di sterminio, dal terrorismo alla repressione: Sudan, Corea, Libano, Cambogia, Cile, Afghanistan, Tibet, Kurdistan, Vietnam, El Salvador, Etiopia, Srì Lanka, Cina, Irak, Iran, Birmania. Tra il XVII/XIX secolo l’espansione della colonizzazione decimò intere tribù indiane del Nord America (Apache, Arapaho, Cheyenne, Comanche, Sioux, Huroni, Iowa, Irochesi, Seminole). Il dispotismo di Josif Vissarionovich Stalin4 ha riempito sterminati cimiteri: i processi di Mosca, gli esili siberiani, le esecuzioni sommarie, i gulag ideati dal capo della polizia politica Lavrentij Berija5. Adolf Hitler6 è stato l’artefice del massacro indiscriminato della seconda guerra mondiale; con la complicità di fanatici è stata attuata la ‘soluzione finale ebraica’. I lager nazisti hanno restituito montagne di cadaveri ed i sopravvissuti portano ancora nello spirito e nella carne la miseria del loro percorso. Alla lettera del 1933 di Albert Einstein (fisico tedesco 1879/1855) “Perchè la guerra?”, Sigmund Freud (fondatore della psicoanalisi, Austria 1856/1939) rispose: “Ci siamo convinti che essa è all’opera nell’interno di ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato di materia inanimata. Le si addice il nome di pulsione di morte mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva quando con l’aiuto di certi organi si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte tuttavia rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre: il processo diretto è malsano. Invece il volgersi di queste pulsioni alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quel che lo sia la resistenza con cui noi li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare la spiegazione ... Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione, l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi fra gli uomini deve agire contro la guerra”.
 

    Le brame territoriali di Attila7, Gengis Khan8 e Napoleone9 hanno portato distruzione e morte. Le strade consolari romane, le piramidi egizie e la muraglia cinese, sono grandiosi sacrari fatti con il sangue delle masse. Se l’assurdo al quale religione e filosofia hanno tentato nei secoli di dare una risposta fosse percepibile oltre i sensi, probabilmente si potrebbe dare un senso a tutte le cose. Fedor Dostoevskij10 nel suo lavoro letterario scruta il sottosuolo delle coscienze portando a galla la considerazione che “Se ciascuno di noi fosse obbligato a rivelare i lati più nascosti di se stesso, nel mondo si spargerebbe una tale puzza da soffocare tutti quanti”. Il contemporaneo Ivan S. Turgenev11 in “Padri e figli” appoggia l’analisi dei comportamenti sul nichilismo che nega la realtà. William Shakespeare12 propende in molte sue tragedie al pessimismo con il quale conferma a modo suo l’irrazionale. L’anticonformismo sulla mostruosa quotidianità di Charles Bukowski13 è un altro modo di negare l’esistenza. Blaise Pascal14 completa il sintetico “So solo che non so nulla” di Socrate con la riflessione: “Io non so chi mi abbia messo al mondo né che cosa siano il mondo o me stesso. Sono in una terribile ignoranza di tutte le cose. Non so cosa siano il mio corpo e i miei sensi, la mia anima e quella parte stessa di me che pensa ciò che io dico, che riflette su tutto e su se stessa e non si conosce più che le altre cose. Non vedo intorno a me che infiniti, che mi imprigionano come un atomo e come un'ombra destinata a durare un attimo senza ritorno.
Ciò solo io conosco: che presto dovrò morire; ma quel che più mi è ignoto è questa morte appunto cui non posso sfuggire
”. Nei discorsi del Buddha affiora la convinzione che la rettitudine dell’agire porti alla liberazione delle rinascite, per affermare che la vita è vacuità e sofferenza. In molti grandi pensatori, collegati strettamente al caleidoscopio della ‘Commedia umana
15, persiste un fondo di nostalgia per ‘Il Paradiso perduto16.
 

Il colonialismo è una delle tante conseguenze della prevaricazione in nome del potere e della ricchezza, tendenze molto spesso mascherate da fini religiosi. La politica di dominio perseguita dalle potenze europee su ampi territori dell’America, dell’Africa e dell’Asia, si è affermata in seguito alle esplorazioni geografiche. Giustificata sul piano morale come funzione civilizzatrice, apportò tremende sofferenze e stragi indifferenziate. La storia dei Conquistadores si ripercosse sull’intera Europa tanto che fu lo stesso Papa ad autorizzare con la Bolla Inter Caetera il tracciamento sulle carte della linea di demarcazione (raya) ad ovest dell’arcipelago delle Azzorre. Ciò suddivideva l’influenza sulle terre da assoggettare alla Spagna ed al Portogallo, con la raccomandazione che gli indigeni “dovevano essere trattati amorevolmente”. Nonostante questa paterna preoccupazione, i gruppi di frati che si trasferirono nel Nuovo Mondo per convertire gli indigeni innescarono una serie di coercizioni sovrapponendo le loro crudeltà a quelle dei compatrioti andati per razziare. Costretti al lavoro per costruire conventi, gli indios dovettero trascurare le coltivazioni: molti di loro morirono per le malattie importate, per le fatiche eccessive e per le punizioni spesso crudeli di chi li voleva evangelizzare: “la storia delle ‘sottane nereha una qualità omerica. I missionari furono gli avventurieri del XVII-XVIII sec., gli eredi dei conquistadores dei primi tempi. Percorrevano grandi distanze, trionfavano dell’aspra natura e dell’infido selvaggio, compivano imprese stupefacenti, non si lasciavano fermare né dalle montagne né dai fiumi né dalla fame, dal freddo, dalla sete”.
 

     

Colombo, Vespucci, Cortes, Pizarro

 

 

   Tra il XVI e il XVII sec. la Spagna controllava l’America meridionale e centrale, con l’eccezione del Brasile. Oltre ai metalli preziosi, importò in Europa le piante, in particolare le piantagioni di zucchero, tabacco, caffé, tè e cotone. Iniziò anche il commercio degli schiavi e l’espansione del fenomeno corsaro che influì negativamente sui possedimenti depredati: una serie di circostanze che contribuì ad alterare definitivamente l’intero continente. Naturalmente i nativi erano esclusi da qualunque partecipazione amministrativa o commerciale nella gestione delle grandi concessioni di terra ai bianchi privilegiati. Le enormi novità apportate dallo sfruttamento delle Americhe ribaltò il sistema finanziario anche in Europa, tanto da spingere molte altre nazioni ad accorrere oltre Oceano per spartirsi il bottino. In seguito a questo stravolgimento, si affermeranno la Compagnia delle Indie17, pirati e corsari. Con l’intensificarsi dei traffici marittimi si attestarono gruppi di bucanieri (dal francese ‘boucanier’, cacciatore di buoi selvatici nelle Antille, derivazione dal caribico ‘boucan’ ossia carne affumicata). Filibustieri (dallo spagnolo ‘filibustero’, con probabile derivazione dai vocaboli olandesi ‘libero’ e ‘far bottino’): avventurieri europei (francesi, inglesi, olandesi) che nel XVII sec. praticavano la guerra corsara nelle Antille; erano piantatori e cacciatori che, dopo la distruzione nel 1630 dei loro insediamenti da parte degli spagnoli, si dedicarono al contrabbando ed agli arrembaggi con una flotta mercenaria, appoggiati dalle nazioni di origine contro la Spagna. Giamaica, l’isola delle Grandi Antille conquistata nel 1665, fu per molti anni base delle scorrerie dei filibustieri mentre all’interno si succedevano tentativi di rivolta degli schiavi: da lì saccheggiarono Panamà nel 1671 e ‘corsero’ l’Oceano Pacifico fino al 1785; depredarono anche le città costiere dell’America Centrale e del Venezuela (il trattato di Utrecht del 1713/15 concluse la loro movimentata storia favorendo l’insediamento di possedimenti europei). Corsari (dal latino medioevale ‘cursarium’, derivazione da ‘cursus’ o viaggio per mare e da ‘currere’, correre): equipaggi di navi private autorizzati dal monarca a condurre la ‘guerra di corsa’ contro il traffico mercantile e saccheggiare sistematicamente le colonie nemiche. Dal XII sec. le grandi potenze usarono i corsari per sopperire alla mancanza di una flotta militare operativa. Anche noti marinai ed esploratori come Drake, Raleigh, Bart e Surcouf avevano una ‘patente’ ufficiale per questo tipo di attività.
 

   Pirateria (dal latino ‘piratam’, dal greco ‘peirates’, derivazione di ‘peiran’, assalire): azione di rapina compiuta dall’equipaggio di una nave ai danni di un’altra. La pirateria risale all’epoca dei fenici coinvolgendo – secondo le zone e gli interessi contingenti – gli Illirici, i Liguri e gli Etruschi. Roma li contrastò con energia fino all’epoca di Augusto ma fu solo nel 67 che Pompeo riuscì a rendere sicura la navigazione entro i confini dell’Impero. Barbareschi (pirati della Barberia, regione musulmana dell’Africa Settentrionale, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia: “Vittorie delle galere toscane sopra i barbareschi”, Carducci). Attivi saccheggiatori delle comunità rivierasche mediterranee, con una propria organizzazione statale autonoma dal XVI sec. fino alla espansione coloniale francese del XIX sec. (occupazione dell’Algeria dal 1830 e della Tunisia dal 1881).
Malgrado agli occidentali la loro attività predatrice apparisse come un atto di pirateria, è probabilmente il concetto giuridico religioso della ‘jihad’ islamica che contiene la chiave di lettura di un precetto che, in altri modi, perdura nel tempo: la ‘jihad’ è la guerra santa che ogni musulmano deve condurre contro gli ‘infedeli’ per la difesa e la diffusione dell’Islam perché “la miscredenza è un’unica nazione” (frase attribuita a Maometto).
Già egiziani, greci e romani contrastarono la pirateria che diventò nel medioevo la principale risorsa di intere popolazioni rivierasche, principalmente dai pirati musulmani stanziati negli stati barbareschi. Il trattato di Utrecht del 1713/15 avrebbe dovuto scrivere la parola fine su questo triste fenomeno ma, purtroppo ancora all’alba del terzo millennio è cronaca giornaliera degli attacchi alle navi mercantili con ruberie, sparatorie ed ostaggi per ottenere un congruo riscatto.

 

Uno tra i maggiori esponenti della comunità divenne il corsaro inglese Sir Henry Morgan (1635/1688) che condusse spedizioni contro le colonie spagnole del Centro America. Carlo II d’Inghilterra lo nominò vice governatore della Giamaica nel 1674, carica che mantenne per dieci anni. Rapito molto giovane a Bristol, fu venduto come schiavo a Barbados. Si unì ai bucanieri della Giamaica partecipando a varie spedizioni contro gli Spagnoli nelle Antille. Eletto ammiraglio dai corsari nel 1668, espugnò Portobello (Panama), sconfisse gli Spagnoli a Maracaibo e fu nominato comandante della flotta inglese operante nella Giamaica. Arrestato e imprigionato in Inghilterra per abuso di potere, fu riabilitato ed insignito del titolo di Lord Vaughan con la funzione di vice governatore della Giamaica, carica che mantenne per dieci anni.
Sir Francis Drake – Navigatore e condottiero nato nel Devonshire (1540/1595). Imbarcato giovanissimo, diventò esperto della guerra di corsa e per decenni combatté gli Spagnoli assalendo le colonie e disturbando i commerci. Partito nel 1577 con cinque navi e 166 uomini per l’America Meridionale, malgrado le burrasche avessero risparmiato un unico vascello (“Golden Hind”) riuscì a razziare alcuni insediamenti di Cile, Perù e California, ricavandone un enorme bottino. Nel 1580 rientrò a Plymouth dopo avere compiuto, primo tra gli inglesi, il giro del mondo. Attaccò ancora gli Spagnoli presso le Isole di Capo Verde e nell’America Centrale, disturbando notevolmente la formazione della Grande Armada. Nel 1594 tornò nelle Indie Occidentali dove, colpito da una violenta febbre, morì sulle coste del Panama.
Sir Walter Raleigh (1552/1618) – Ebbe dalla regina Elisabetta, della quale fu amante, cariche e lucrosi appalti; organizzò spedizioni per la ‘colonizzazione’ dell’America. Ottenuta una ‘patente’ con ampi diritti sulle terre, nel 1595 occupò Trinidad esplorando poi l’Orinoco per 300 miglia. Dopo essere stato imprigionato nella Torre di Londra per sospetta congiura contro Giacomo I, condusse una spedizione armata nella Guaiana alla ricerca di giacimenti auriferi. Tra i protagonisti dell’epoca elisabettiana, finì impiccato per intrighi politici (introdusse in Europa l’uso del tabacco e la coltivazione della patata). Jean-David Nau detto l’Olonnais (1630/1671) – Pirata francese espulso dagli spagnoli da S. Domingo. Rifugiatosi nell’Isola Tortuga, iniziò una serie di saccheggi contro i beni spagnoli: depredò Maracaibo ed altre località. Fu ucciso dagli indiani dopo un naufragio nel Golfo di Darsén.
Jean Bart (1650/1702) – Ammiraglio francese che lottò contro i pirati nel Mediterraneo e nelle Antille. Fuggito da una prigione inglese, nel 1691 riuscì a catturare un convoglio di navi olandesi. Luigi XIV gli concesse qualifiche di nobiltà.
Kidd William – Nato intorno al 1645 in Scozia, uomo violento e attaccabrighe, fu capitano di una nave corsara nei Caraibi. Alla fine dl XVII sec. si associò con politici inglesi ottenendo una licenza di corsa per dare la caccia ai pirati ed alle navi francesi (lo stesso Guglielmo III autorizzò i soci a trattenere il bottino di guerra). Probabilmente Kidd travalicò le regole del contratto e quindi il governo inglese ne ordinò l’arresto. Il tribunale di Londra lo processò per numerosi capi d’accusa, malgrado notevoli connivenze in alto loco, condannandolo infine a morte.
Roberts Batholomew – Il pirata morì nella battaglia con le navi inglesi. Nel 1722 il suo equipaggio fu catturato e processato: 52 uomini impiccati, 37 imprigionati, 77 schiavi neri assolti.
Anne Bonny e Mary Read furono due donne pirata che seguirono il destino dei loro uomini sul mare. Abbigliate in modo maschile partecipavano agli abbordaggi ed alla spartizione del bottino. Quando furono catturate il tribunale le condannò a morte. La pena fu sospesa perché si dichiararono incinte: la prima scomparve nel nulla, la seconda morì in prigione nel 1721.
Cheng I Sao oppure Ching Yih Saou o Ching Shih – Donna la cui flotta di giunche dominò il Mare Cinese con migliaia di uomini che depredavano i mercantili e tutto quanto poteva offrire un bottino. Quando il marito morì nel 1807, fu lei a prendere il comando della potente flotta fino al 1810: inseguita da una coalizione di navi da guerra cinesi, portoghesi e britanniche, patteggiò la resa riuscendo a consolidare la propria posizione sociale a terra aprendo una casa da gioco: morì a 69 anni.
Teach (Thache) Edward – Nel 1718 fu emanato un proclama dal governatore della Virginia per la cattura o l’uccisione del pirata soprannominato ‘Barbanera’ che, comunque, era deciso di fare esplodere la propria nave pur di non arrendersi. La terribile reputazione di feroce assassino, diventata quasi leggenda, ebbe un epilogo tragico: il pirata ebbe la testa mozzata da un poderoso fendente, gli accoliti furono uccisi o feriti gravemente.
Robert Surcouf (1773/1827) – Corsaro francese al comando della nave “La Créole” adibita alla tratta dei negri. Nel 1795, con i vascelli “Emilie”, “Clarisse” e “Confiance” razziò soprattutto nell’Oceano Indiano arrecando considerevoli perdite al commercio britannico. Nel 1800 arrembò il “Kent” malgrado fosse armato con 38 cannoni ed un equipaggio di 400 uomini. Declinò l’offerta di Napoleone Bonaparte di assumere un alto grado nella marina militare. Con navi proprie condusse una guerra spietata agli inglesi; diventò uno dei principali armatori e lo rimase anche dopo l’esilio dell’Imperatore.
Khair addìn detto Barbarossa (1465 ca/1546) – Pirata ed ammiraglio turco, attivo con tre fratelli nell’Egeo e sulle coste dell’Africa Settentrionale. Nel 1518 conquistò Algeri, nel 1533 occupò Tunisi poi, come comandante della flotta ottomana, fronteggiò Andrea Doria e collaborò alla presa di Nizza. Per merito suo la marina ottomana fu preponderante a quella cristiana fino alla rivincita di Lepanto (1571).
Ulûg Alì detto Uccialì (1507/1587) – Corsaro ottomano originario della Calabria, si distinse nella conquista di Tripoli, nella battaglia delle Gerbe, nell’assedio di Malta, nella battaglia di Lepanto, nella presa della Goletta e di Tunisi. Dragùt – Originario dell’Asia Minore si dedicò alle imprese di corsa contro il naviglio veneziano. Catturato da Giannettino Doria per ordine di Carlo V nelle acque della Corsica, fu condotto a Genova nel 1540. Liberato, dopo pochi anni riprese a ‘correre’ i mari in alleanza segreta con Enrico II di Francia. Agli ordini di Solimano prese parte alla conquista turca di Tripoli, saccheggiò per diverse anni le coste del Mediterraneo e dal 1556 al 1565 fu governatore di Tripoli pur continuando le scorrerie. Morì nel 1565 durante l’assedio turco di Malta.
I sacrifici umani a Moloch
18 come collante etnico, la ghigliottina delle pubbliche esecuzioni del Terrore francese, gli spettacoli circensi romani, gli assembramenti negli stadi dove vige l’isteria, il plagio costante dei mass-media; offensive e controffensive, rivoluzioni e controrivoluzioni, riforme e controriforme perché “Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza” (Cesare Pavese19 ). Le filosofie orientali abituano a piegarsi come rami di salice di fronte all’avversità, l’animale si rintana, l’onda rinnova la battigia. La natura è attesa e impassibilità perché non contempla né passato né futuro: l’amor proprio graffiato e le motivazioni castrate sono caratteristiche dell’umano malinteso. Non potendo esimersi dalla polivalenza bene-male, la partita doppia della vita si gestisce nel riproporsi della nascita e della morte che sembrano cancellare pregi e difetti. Il mistero al quale non siamo ammessi assolve equamente santi e assassini: “Non c’è belva tanto feroce che non abbia un senso di pietà. Ma io non ne ho alcuno, perciò non sono una belva” (Riccardo III, William Shakespeare). Una riflessione di Albert Einstein20 ritiene eterne soltanto due cose, l’infinito e la stupidità umana “ma della prima non sono tanto sicuro”. Ogni società esprime prima o poi la parte peggiore: bisognerebbe purificarsi e ricominciare un’altra volta poiché tutto ciò che è stato fatto non compensa tutto ciò che è stato distrutto. Invece si vive come se tutto fosse dovuto e si usa il nome di Dio per giustificare ogni empietà. L’organizzazione umana primitiva operava nel territorio che ospitava il gruppo: agivano nell’ambito locale consumando le risorse disponibili e barattando con i vicini merci ed averi. Anche le migrazioni e le scorrerie erano comprese per lo più in aree limitate.
L’uomo del terzo millennio dovrà invece pensare ed agire tenendo presenti le esigenze di chi vive a latitudini diverse: la sociologia addebita i pesanti scompensi alla mancanza di valori, di ideali, di famiglie sgretolate, alla pazzia delle aree urbane senza verde e senza quiete, alla solitudine di un’età bisognosa di conforto e guida; giovani rampanti inconsapevoli della propria abulia morale incastrati dal motto ‘tutto e subito’, neonati contagiati dall’Aids o tossicomani a sette anni, bambini usati per gli organi da trapiantare, prostituzione adolescenziale e commercio di piccoli schiavi a vita, costrizione alla mendicità ed al furto, analfabetismo e manovalanza a basso costo per la criminalità. Un antico proverbio cinese dice che quelli che stanno al di qua della Grande Muraglia giudicano quelli che stanno al di là come pazzi, quelli che stanno al di là giudicano pazzi quelli che stanno al di qua: il saggio sta sul muro, similitudine dell’aurea mediocritas di Orazio
21.
Scongiuri, incantesimi, sortilegi, pratiche magiche per evocare lo sconosciuto e mutare gli eventi naturali: stregoni e sciamani con le loro supposte capacità divinatorie hanno costituito fin dall’antichità un intrico di ritualità oscure, spesso intrecciate con il filone religioso. L’occultista Cagliostro
22 esercitò l’alchimia, il matematico Cardano23 mescolò medicina e filosofia con la magia, Bacone24 identificava negli idoli gli errori ed i pregiudizi che falsano la visione della realtà. Fate e streghe, maghi e gnomi, folletti e fattucchiere, fanno parte di una superstizione profondamente radicata nel subconscio primordiale: il vaticinio (profezia); l’aruspicina (predizione mediante l’esame delle viscere della vittima); la cabala (tecnica popolare basata sull’interpretazione di lettere, numeri e figure); l’auspicio (rito dei Romani per conoscere l’esito delle imprese con l’esame del volo degli uccelli); l’iniziazione (per accogliere i neofiti in culti esoterici); l’astrologia (prevedere il destino degli uomini mediante lo studio degli astri). Alcune culture accettano la pazzia come sacralità, la pulsione sessuale come rito e l’allucinogeno come cibo esaltante. Ciò che altera la ‘normalità’ è visto e sentito come un collegamento con l’inafferrabile: il folle è diverso perché tocca corde ‘anormali’, il ‘delirio’ modifica il ritmo vitale fino allo stato febbrile, chi usa droga svanisce nella dimensione extracorporea. Moby Dick25 la balena bianca è l’incarnazione del male metafisico, Alice26 entra nel Paese delle meraviglie e nel mondo dello specchio superando le barriere sensoriali. I personaggi della mitologia greco-romana e di quella egiziana (Libro dei morti), Babilonia con Marduk (Dio dell’acqua e costruttore dell’universo), i Fenici che identificavano la pioggia e la vegetazione con Baal, i Persiani che vedevano  nel contrasto luce-tenebra un motivo di stupita adorazione, i popoli scandinavi che adoravano miti dai caratteri animistici e magici (Crepuscolo degli dèi). I testi vedici dell’India antica distinguono tra divinità che è possibile dominare (Agni, il fuoco) e divinità astratte, tra il creatore Brahma, il conservatore Visnù ed il distruttore Shiva. In Cina la cosmogonia venerava ogni forza della natura, in Giappone predominavano i riti dello shintoismo (Via degli dèi)27. Il mito agisce da specchio deformante sui rapporti dell’essere umano con il mondo: agiamo sul metro di ciò che comprendiamo ma siamo consapevoli che malgrado la camaleontica mutazione delle superfici la sostanza rimane quella della preistoria. In questo senso non siamo cresciuti perché non abbiamo scoperto le possibilità latenti nelle tremila galassie visibili. La prolificazione delle leggende vuole scongiurare il mistero rendendo tangibili i ‘perché’ del mondo. È l’incapacità o l’impossibilità di svincolarsi dallo stato di dipendenza nel tempo terreno, che fa preferire più gli anni contati alle ricompense eterne: “Errare humanum est, perseverare diabolicum”.
Gli antichi dal nome glorioso hanno calpestato la dignità umana con le medesime torture alle quali siamo adusi oggi. Pur nella reciproca dipendenza, il progresso non sempre significa civiltà: l’abbinamento ideale sarebbe Civiltà e Morale ma sembra che ciò non sia possibile se non nell’inesistente Isola di Utopia ipotizzata da Tommaso Moro
28 nel 1516.


Dal ponderoso studio “Anatomia della distruttività umana” di Erich Fromm
29, si possono trarre alcune considerazioni: “Soltanto l’uomo ha il gusto di distruggere la vita senza alcun motivo o obiettivo. Soltanto l’uomo sembra essere distruttivo senza avere la necessità di difendersi o di raggiungere un determinato scopo ... La storia civilizzata offre la più ampia e atroce documentazione di forme di distruttività apparentemente spontanee. La storia di una guerra è il resoconto di uccisioni e torture spietate e indiscriminate, le cui vittime sono uomini, donne e bambini. Spesso questi eventi danno l’impressione di orge distruttive, in cui né i fattori convenzionali né quelli genuinamente morali hanno avuto un effetto inibitorio. Uccidere è stata la manifestazione distruttiva più mite. Le orge non si sono però arrestate su questa soglia: si sono castrati uomini, sventrate donne, prigionieri sono stati crocifissi o dati in pasto ai leoni. Non c’è praticamente atto distruttivo concepito dalla mente umana che non sia stato ripetuto all’infinito. Durante la scissione, in India, abbiamo assistito ai massacri frenetici, reciproci, di centinaia di migliaia di Indù e Musulmani; durante la purga anti-comunista del 1965 in Indonesia, secondo varie fonti, sono stati massacrati da quattrocentomila a un milione di Comunisti veri o presunti, insieme a parecchi Cinesi … Ma queste esplosioni distruttive non sono spontanee nel senso che esplodono senza ragione. In primo luogo, sono sempre stimolate da condizioni esterne, come guerre, conflitti politici o religiosi, povertà, noia estrema e svalutazione dell’individuo. In secondo luogo, esistono ragioni soggettive: estremo narcisismodi gruppo in termini religiosi o nazionali, come in India; una certa propensione a cadere in stati di trance, come in alcune parti dell’Indonesia. Non è la natura umana a fare un’improvvisa comparsa; è il potenziale distruttivo che viene incoraggiato da certe condizioni permanenti e mobilitato da improvvisi eventi traumatici”.

 

Il sole come simbolo di vita è presente in varie civiltà. Credere nell’astro che nasce e muore ogni giorno sull’orizzonte è stato probabilmente il primo segno che la razza umanaha intuito come fonte di vita (“le stelle della notte impallidiscono al cospetto del sole...”). Il faraone Akhenaton (nome assunto da Amenofi IV – 1367/50 a.C.) introdusse in Egitto il culto monoteista del dio solare Aton. La località di Amarna, a nord di Tebe, diventò la nuova capitale Ahet Aton: le ricerche archeologiche hanno scoperto papiri diplomatici, resti di pitture e materiale statuario. Ci è pervenuto un inno, una preghiera, un’esortazione: “Com’è bella la tua aurora all’orizzonte del cielo, o Aton vivente, iniziatore della vita! Quando sorgi a Oriente riempi l’universo della tua bellezza. Sei bello, grande, splendente, alto sopra la terra; i tuoi raggi abbracciano la terra e tutto ciò che hai Creato”. Meandro, spirale e labirinto: il simbolo della svastica si ritrova presso molte popolazioni dalla preistoria. La croce uncinata dovrebbe indicare il movimento del sole: in India (apparsa intorno al 500 a.C.) si considerava positiva quando posizionata in sintonia con la rotazione dell’astro, negativa invece quando gli uncini sono in senso opposto; allora il simbolo diventa infausto perché contrario all’ordine cosmico. Il segno allegorico sembra abbia origini molto antiche perché appare in reperti ritrovati in Grecia, Creta, Troia, Cipro, nel Tibet, nelle regioni danubiane e nella civiltà villanoviana in Italia. La sopravvivenza di questo simbolo nel corso di molti secoli è documentata anche dall’arte funeraria cristiana dal II secolo in poi: l’ultimo uso dell’emblema in maniera assai tragica è stato quello del nazionalsocialismo di Hitler.
Nella loro fase più arcaica i greci avevano concepito divinità derivate dalle manifestazioni naturali (mare, terra, sole, luna), più tardi mutatisi in una serie di caratteri antropomorfici. Helios (il Sol dei romani) è il dio solare figlio del titano Iperiore e di Theia. La tradizione lo rappresenta alla guida di una grandiosa quadriga (al Museo Nazionale di Napoli esiste una pittura del IV secolo a.C.) percorrente da est ad ovest la volta celeste. Il figlio Fetonte ebbe il permesso di guidare il carro nel cielo ma non riuscendo a dominare i cavalli si avvicinò così tanto alla terra da rischiare di incendiarla: il padre lo punì fulminandolo e facendolo precipitare nel fiume Eridano. Il culto di Elios – confluito poi in quello di Apollo – fiorì particolarmente a Rodi, storicamente ricordato nella statua del “Colosso”. Nell’induismo il carro del Dio vedico Sole rappresenta il Tempo finito e infinito, ovvero mutamento e perfezione. Anche Aztechi, Inca e Maya si riferivano al Sole come simbolo dell’assoluto, spesso identificandolo con il capo supremo della dinastia al potere, offrendo sacrifici e mescolando questa devozione con feticci colmi di tabù (la convinzione che l’astro perdesse forza nel viaggio notturno, per ridargli vigore gli officianti versavano il sangue delle vittime sugli altari delle enormi piramidi-tempio). Nelle popolazioni sudamericane la palla, nel gioco della Pelota, simboleggiava l’astro e il suo volo sopra il campo indicava il passaggio del giorno fino al buio della sera; sembra che questa attività – divenuta poi ‘pelota basca’ perché importata in Europa – abbia avuto un importante significato esistenziale. Il ritrovamento dei campi da gioco e di molti bassorilievi evidenziano l’importanza di uno svago nel quale confluivano simbologie religiose. I “Conquistadores” furono gli avventurieri prevalentemente spagnoli che, dopo la scoperta dell’America, si impossessarono – con spedizioni sovvenzionate da privati e dalla Corona – delle terre dal Messico al Perù, violentando le antiche civiltà. Spesso acquisivano onorificenze per meriti nella conquista e nell’amministrazione dei territori sottoposti. Colombo ed i suoi committenti hanno invaso il Nuovo Mondo con le migliori intenzioni. Erano tutti molto cattolici e quindi il loro primo pensiero era quello di salvaguardare le popolazioni locali anche se fortemente intenzionati a convertirli al cattolicesimo. Purtroppo – come nelle Crociate – le spedizioni erano composte anche da gente il cui unico scopo era quello di arricchirsi velocemente e di ritornare in patria riveriti e rispettati: la degenerazione della Conquista dell’Eldorado
30 è da imputare alla bramosia di questi uomini e dal sigillo che, da lontano, veniva dato dal potere politico poiché l’interesse economico sovrastò quasi sempre il principio del bene operare. “Tutte le religioni sono belle. Religione è anima; non ha importanza se si prende parte ad una funzione cristiana o se si va alla Mecca” (Hermann Hesse31): l’ordine perentorio e primario della Corte spagnola era quello di mettere la Croce al posto degli idoli ma il fanatismo dell’inquisizione spagnola diretta dal domenicano confessore dei Reali (Tomàs de Torquemada32) fu inevitabilmente esportato nelle terre vergini33.

 

   Montesquieu34 la considerò “una delle più grandi ferite mai sofferte dal genere umano”, il testo ‘Chilam Balam’ di Chumayel35 riporta la tragedia con toni poetici: “Ciò che hanno fatto i signori bianchi quando sono arrivati qui, hanno insegnato la paura e sono venuti a fare appassire i fiori. Allora tutto era buono, vivevano sani, in loro c’era saggezza, non c’era peccato ma i loro dèi vennero abbattuti. La vita è avvizzita e il cuore dei fiori è morto. Ci dite che i nostri dèi non sono veri e ora dovremmo distruggere l’antica norma di vita?”. Giordano Bruno36 fu arso vivo nel 1600 per eresia, Galileo Galilei37 fu costretto ad abiurare, Martin Lutero38 fu scomunicato nel 1520 con Bolla pontificia. “In nome di Dio” si commettono nefandezze che sembrano inimmaginabili per un essere dotato di pensiero raziocinante, eppure – malgrado la presenza e la parola di Bartolomé de Las Casas, il missionario domenicano che denunciò l’inumanità dei connazionali nei confronti degli indios in America Latina difendendone i diritti – l’istinto di prevaricazione portò alla schiavitù ed all’estinzione di etnie che, nel bene e nel male, erano sovrane dei territori nelle quali vivevano: “Il dibattito fra colonizzatori e umanitari, fra preti e amministratori, imperversò furiosamente durante il XVI secolo.
Nel frattempo gli indiani del Messico e del Perù erano oggetto di caccia e di sfruttamento senza misericordia, in nome di Dio e dell’oro
”. Un testimone particolare merita di essere citato per avere relazionato i suoi viaggi nel libro “La historia del Mondo Nuovo”: Gerolamo Benzoni, nato a Milano nel 1519, fu commerciante in Germania e Spagna. Nel 1542 si imbarcò unendosi poi a varie spedizioni di ricognizione e conquista: Antille, Perù, Quito, Cuzco, Cuba. Tornò in Europa dopo 14 anni dedicandosi a scrivere la sua esperienza. Ciò che lascia perplessi leggendo le relazioni delle varie spedizioni è la notevolissima discrepanza tra il numero relativamente limitato dei primi conquistadores approdati sul nuovo territorio a fronte delle centinaia di migliaia di indios accreditati in Europa di montagne d’oro e argento
39. Eppure in pochi anni la Spagna si impossessò di immense ricchezze e di intere regioni. Il cavallo era un animale sconosciuto agli indigeni e quindi motivo di soggezione e meraviglia; le armi da fuoco – archibugi e falconetti – falcidiavano le masse creando terrore; le lucenti armature, le alabarde e le spade degli uomini barbuti colmavano il divario di forze tra aggrediti e aggressori; le antiche leggende che avevano previsto l’arrivo della divinità completano il quadro di uno sparuto manipolo di bianchi alla conquista di interi popoli. Il perdurare dei conflitti creò poi alleanze e tradimenti: tribù che portavano un odio atavico contro i vicini si allearono con i capitani spagnoli, l’incremento di questi ultimi richiamati dall’eco di strade lastricate d’oro produsse inevitabilmente dissidi e spargimento di sangue tra gli stessi invasori. Le difficoltà climatiche e orografiche non fermarono gli invasati attratti dal gusto dell’avventura e della ricchezza: tutto ciò costò fiumi di sangue coinvolgendo altri infelici deportati dall’Africa. Il fenomeno della schiavitù si perde nella notte dei tempi, presente in tutte le società del mondo. Gli schiavi sono individui o gruppi assoggettati ad altri individui e gruppi prevalenti. Una piaga che si trascina per l’innata volontà di coercizione e di guadagno anche nel terzo millennio. Lo sfruttamento della mano d’opera poco costosa e quindi redditizia come e più delle macchine utensili, ha da sempre consentito un commercio di esseri umani destinati ad un triste destino. Stranamente, i fautori dei loro diritti e della loro libertà (Abraham Lincoln, 1809/1865, il presidente americano assassinato da un fanatico attore; Malcom X ovvero Malcom Little, 1925/1965, il politico che difese i popoli di colore, ucciso a sua volta; Martin Luther King jr, 1929/1968, il pastore battista statunitense che assunse i diritti dei neri: Nobel per la pace, assassinato a Menphis) non hanno ottenuto molto per gli afroamericani. Anche quando nel 1822 fu fondato da un gruppo di filantropi lo Stato della Liberia (incastonato tra Sierra Leone, Guinea, Costa d’Avorio e Oceano Atlantico) la libertà sperata fu solamente un’illusione per l’endemica guerra civile tra le varie etnie tribali e dittatori spietati. Con la scoperta del Nuovo Mondo, ci si rese conto che gli indiani non erano adatti per i lavori manuali mentre i negri potevano essere usati come instancabili bestie da soma. Dall’Africa Occidentale al continente americano – mentre le etnie locali dal nord al sud, venivano sistematicamente sterminate – furono trasportati, come merci alla rinfusa, milioni di esseri umani40. Dal 1510 i negri sopportarono il lavoro coatto, importati per le esigenze dei colonizzatori ai quali erano stati assegnati dalla Corona vasti territori vergini; donne e uomini venduti dagli stessi capi tribù o con cruente razzie nei villaggi dell’interno incentivate dalla legge sempiterna della domanda e dell’offerta: “Cortez portò 300 schiavi alla conquista del Messico dove, nel 1530, i negri erano già tanti da poter organizzare una ribellione. Quando Pizarro fu ucciso dai suoi stessi uomini in Perù, il corpo fu portato alla cattedrale dai suoi negri. E c’erano negri con Alvarado quando arrivò a Quito, capitale dell’Ecuador, nel 1534. In Brasile i primi schiavi arrivarono nel 1538” (da ‘Carico nero’ di Mannix & Cowley). Il film “Amistad” di Steven Spielberg ricostruisce un episodio storico: nel 1839, cinquantatre negri trasportati dalla nave omonima verso Cuba, riescono a liberarsi uccidendo l’equipaggio; bloccati da un brigantino statunitense, furono processati per azioni di ‘pirateria’. I rivoltosi – in base alla Costituzione redatta a Filadelfia nel 1787 e aggiornata con vari emendamenti – in questo caso vennero considerati uomini liberi e quindi padroni di difendersi. L’episodio coinvolse l’opinione pubblica favorendo l’affrancamento degli schiavi anche nel sud del Paese. Il cammino sarebbe stato ancora lungo poiché – malgrado tale commercio fosse ormai ritenuto fuori legge dalle nazioni occidentali – un rapporto riportava cifre spaventose: centocinquantamila negri africani e cinquantamila del mondo arabo furono deportati nelle Americhe nel 1839, con il tacito o il palese beneplacito delle autorità, senza contare i cadaveri gettati fuoribordo dopo orride agonie. Per immaginare il clima violento imposto dalle vicende che hanno portato al sovvertimento sociale e religioso del Nuovo Mondo, la figura del basco Lope de Aguirre – avventuriero infame e perverso – è emblematica per stigmatizzare il comportamento di molti suoi connazionali. Conosciuto come ‘Aguirre il pazzo’, è ricordato nel manoscritto di Francisco Vàsquez conservato nella Biblioteca Nazionale di Madrid: “Aguirre alla ricerca dell’Eldorado – Relazione veridica di tutto ciò che accadde durante la spedizione nella giungla amazzonica del 1560/1561”41. Pedro de Orsùa comandò l’esplorazione del Gran Rio Marañon o de las Amazonas dopo avere notevolmente faticato ad organizzare il manipolo di uomini, raccogliere fondi, costruire barche. Una iniziativa nata tra contrasti e defezioni, scontri con le tribù locali, mancanza di cibo, poca disciplina e rancori diffusi, una situazione precaria che culminò con l’assassinio di Orsùa, del successore Don Fernando de Guzmàn e di tutti coloro che facevano parte della congrega; più che una spedizione agli ordini della Corona, era una banda di mentecatti mercenari che si colpivano vicendevolmente a tradimento e facevano strage degli indigeni che incontravano lungo il fiume. Ognuno proponeva una meta diversa – tra le altre, la ribellione verso le istituzioni spagnole – anche se in comune avevano l’unico obiettivo della ricchezza. Malgrado la presenza nelle nuove terre di vescovi e magistrati, la feccia della società spagnola predominava e l’anarchia sarebbe diventata la bandiera sostenuta a spada tratta dal nuovo capo della spedizione Lope de Aguirre e di ottanta congiurati. La mattanza nella regione continuò con l’approvazione del tiranno: vecchi screzi tra commilitoni venivano conclusi con un colpo di picca nella schiena o con la garrota, pacifici nativi venivano uccisi per depredarli del cibo sempre carente. Il gruppo arrivò all’isola di La Margarita il 20 luglio 1561, fece prigioniero il governatore Don Juan, occupò il forte, disarmò i soldati, saccheggiò il tesoro reale, proclamò la pena di morte al grido di “Libertà, viva Lope de Aguirre”. Il terrore si accentuò sotto la guida dello psicopatico che ordinò l’uccisione del rappresentante reale nell’isola; personalmente aveva già compiuto una serie di delitti contro antichi e nuovi compagni per semplici sospetti o congetture di tradimento. Fece bruciare molte fattorie di isolani che si erano nascosti nei boschi, inviò sicari ad ammazzarli, appese alla forca alcuni monaci che avevano osato criticarlo però – tra una bestemmia e l’altra – portò gli stendardi in chiesa per farli benedire. Alla fine di agosto, il tiranno lasciò l’isola devastata e terrorizzata con l’intenzione di raggiungere, con quattro battelli stracarichi di bottino e cavalli, la Colombia ed il Perù per fare guerra ai vassalli del Re spagnolo. Il cammino di questi disperati fu contrassegnato da nuove infamie: toccata terra, incendiò i battelli per impedire qualunque diserzione, distrusse i villaggi che incontrava, fece decapitare e squartare. Ciononostante, scrisse una lunga lettera al Re millantando in positivo le proprie azioni ed accusando i rappresentanti ufficiali di presunte scelleratezze. Intanto, mentre la sua truppa diminuiva di numero, un drappello di soldati reali a cavallo lo incrociò. Seguirono scaramucce e scontri, una promessa di perdono e la fuga in massa dei complici: rimasto solo, Aguirre pugnalò la figlia – l’unico essere verso il quale nutrisse un amorevole sentimento – e attese la parola fine scritta con due colpi di archibugio. L’evoluzione storica del continente americano può dividersi in tre periodi: quello precolombiano, quello della colonizzazione europea e quello contemporaneo; durante la prima fase il territorio fu scarsamente popolato ma diede vita alle tre grandi civiltà: Azteca (Messico dal XII sec.), Maya (Yucatàn dal IV sec.), Inca (Ande peruviane dal XIII sec.). Nel 1519/1522 Cortés conquistò l’impero azteco, Balboa si spinse fino alle coste dell’Oceano Pacifico, Alvarado si inoltrò nel Guatemala, Cabral nel Brasile e Pizarro nel Perù. Gli spagnoli divisero i domini nei vicereami Nuova Spagna, Nuova Castiglia, Nuova Granada e Rio de la Plata. Più tardi, attratti dall’immensità del territorio, dal nord al sud si insediarono portoghesi, francesi ed inglesi, sovrapponendosi agli indigeni fino a costituire il coagulo di gruppi razziali e meticci attuale. Dopo il 1492 gli equilibri di un intero continente – con relative negatività per le antiche rituali cerimonie sanguinose, per le guerre intestine tra le tribù rivali e per l’acquisizione dei simboli del potere – furono sconvolti: Aztechi, Incas e Maya, pur avendo costruito nei secoli civiltà durature con innegabili testimonianze artistiche e sociali, divennero marionette nelle mani di bianchi barbuti europei che volevano soltanto rubare e dominare. I conquistadores importarono il peggio delle loro culture insieme a malattie per le quali gli indios non avevano anticorpi: i virus infettarono interi villaggi, la schiavitù divenne dogma, lo sgomento serpeggiò tra società assestate su ritmi patriarcali e così il sadismo dei vincitori spinse le popolazioni a suicidi collettivi e alla soppressione dei figli appena nati per sottrarli al macello che nel corso di pochi decenni decimò intere etnie, addirittura molte coppie decisero di non avere rapporti sessuali “per non generare schiavi”. Tra il popolo si diffuse anche l’uso delle droghe – già consumate da secoli anche dalle classi aristocratiche – per togliere la fame, la sete e la prostrazione derivate dallo sfruttamento intensivo del lavoro manuale imposto dai conquistadores. Le foglie di coca venivano masticate oppure, tritate, aspirate dal naso con cannucce; il peyote – un piccolo fungo – alterava la normalità dell’individuo che ne mangiava; un’altra polvere ricavata da semi vegetali era talmente potente da far perdere la ragione. Alla pratica quotidiana per ricuperare le forze si mescolava l’assuefazione ed un fondo mistico perché si riteneva che l’esaltazione scaturita avesse origine divina. Un episodio riportato da Bartolomé de Las Casas42 chiarisce in poche parole la tragedia dello scontro tra due popoli e due culture: un cacicco, mostrando un recipiente pieno d’oro parlò così alla sua gente: “Guardate il padrone che servono e venerano, è per lui che ci perseguitano” (fu poi catturato e bruciato vivo). Come in tutte le storie umane, anche lo sterminio dei nativi dell’intero continente americano fu pietosamente coperto con la menzogna di Dio e della Civiltà anche se le società nelle quali si mescolavano elementi primitivi con una eccezionale creatività avevano dimostrato da secoli la loro completa autonomia. Nel 1535 fu stampata la “Historia general del Nuovo Mondo” di Gonzalo Hernàndez de Oviedo y Valdéz. Confronta europei ed americani del Cinquecento con una semplice ma significativa notazione: “Le donne sono più pudiche e più nobili nella loro nudità di molte eleganti cristiane”. Uno storico commentava che i selvaggi non hanno mai innalzato gigantesche strutture e intagliato pietre nel profondo della foresta tropicale, sottintendendo così la presenza di un’antica cultura capace di affrontare realizzazioni così impegna tive. Infine, il testo “Chilam Balam” riporta “Ci dite che i nostri dèi non sono veri e ora dovremmo distruggere l’antica norma di vita?

 

Avendo come basi principali Cuba e le isole caraibiche, gli avventurieri europei approdarono nella penisola della Florida (1513) e da lì sciamarono verso nord attraverso terreni paludosi e deserti. La cupidigia – attratta da voci incontrollate come "templi rivestiti di lamine d'oro" – volle spingersi oltre, verso un nord opulento; l’immaginazione dei conquistadores attizzata da racconti fantastici ridiventò febbrile come al tempo dei tesori messicani e peruviani, ormai depredati. L'esplorazione via terra e via mare coinvolse in pochi decenni l’intero continente alla ricerca di nuove fonti aurifere, quasi sempre esaltate per indurre nuove spedizioni ad inoltrarsi nel territorio ma quasi sempre inesistenti. Tra le tante, quella tragica che nel 1540 con centinaia di fanti, cavalieri, schiavi e alleati indiani al comando di Francisco Vàsquez de Coronado (nato nel 1521 e segretario del Vicerè). Dopo mesi di marcia intessuta da scontri con le tribù, malattie, rivolte intestine e la costante delusione per l’assenza del fantastico Eldorado, due anni dopo tornarono scornati e decimati a Città del Messico. Qualche anno dopo, una spedizione pagata da Hernando de Soto – "uomo inflessibile e di poche parole", con l'esperienza maturata agli ordini di Pizarro – seguì la medesima sorte: alla solita ricerca di tesori al nord della Florida, minacciata dalla fame e dall’ostilità delle tribù per le prevaricazioni subite, scoprì un grandioso tempio intatto con suppellettili finemente lavorate e una grande quantità di perle scolorite. Il gruppo si inoltrò verso le pianure del nord per poi ritornare sconfitto al Golfo del Messico: dei 622 componenti solamente la metà sopravvisse all’ennesimo richiamo della Fata Morgana; lo stesso Hernando de Soto fu seppellito insieme ai suoi sogni di gloria illusoria.

 

 

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COLOMBO

 

 


Volli, fortissimamente volli” e forse una sorte di predestinazione intuibile da uno scritto giovanile (“Libro delle profezie”)
43 furono le due maggiori molle che spinsero il genovese a solcare il mare verso ciò che considerava la terra delle Indie. A intervalli sempre più distanti tra loro continua la diatriba per la nazionalità da attribuire a Colombo, anche se lui stesso – in una lettera scritta a Siviglia nel 1502 – afferma “Dalla città di Genova io trassi origine e in essa io nacqui”. Da un atto notarile stilato a Savona per conto del padre il 2 marzo 1470 risulta “Domenico Colombo, cittadino di Genova, fu Giovanni, di Quinto, tessitore di panni e taverniere”. In un altro documento si può leggere “Cristòbal Colòn, da Zena”. Le piante turistiche genovesi citano come “casa di Colombo” il rifacimento seicentesco dell’edificio in Piazza Dante, nel quale sembra che il navigatore abbia trascorso la giovinezza. Cristoforo (1451/1506) fu stimolato a stendere l’immaginario filo rosso tra le coste atlantiche dalla lettura de ‘Il Milione’ di Marco Polo44 e dagli studi del fiorentino Paolo Toscanelli dal Pozzo45 che sosteneva la sfericità del pianeta. Don Cristòbal fu l’involontario precursore del mutamento sostanziale della vita americana; le tradizioni tribali – con tutte le loro ascendenze positive e negative – si scontrarono con la civiltà europea fino ad esserne completamente assoggettate e annientate. D’altronde, la voglia di esplorare e sapere è insita nell’uomo fin dai primordi e quindi, come scrisse Victor Hugo, “la gloria di Colombo non consiste nell’essere arrivato ma nell’avere levato l’ancora”. La sua insistenza, quasi una fobia per una missione che riteneva possibile, gli permise di attraversare l’Oceano sconosciuto e di toccare una terra misteriosa. Armato di una fede al limite del misticismo, condusse le caravelle verso le sponde inesplorate portando con sé la Croce ma anche le ferite delle umiliazioni subite in anni di esortazioni alle Corti di Portogallo e Spagna per ottenere i finanziamenti necessari a realizzare il grande sogno di “buscar el Levante por el Poniente”.

 

Le vicende storiche sono spesso riportate in modo incerto per carenza di documentazione o per consapevole alterazione delle date e dei fatti. Non è facile addentrarsi con sicurezza nei meandri del tempo e delle cose al loro accadere, tanto meno lo è quando la polvere dei secoli ha provveduto a schermare la realtà, già opinabile in base all’interpretazione individuale. Archeologi, filosofi, teologi e per essi scriba ed amanuensi, nel corso dei secoli hanno tolto o inserito qualcosa sulla verità originaria, sui testi che volta per volta vengono ricopiati o stampati. La memoria del passato viene inevitabilmente alterata perché i fatti subiscono la metamorfosi dell’interpretazione. Motivi politici e di tutela dell’ortodossia sono altri elementi che vengono corrotti per le numerose mani dalle quali passano.

Il “Diario del primo viaggio” del navigatore (probabilmente tratto dalle note del Giornale di bordo purtroppo perduto46) è stato scritto dal Vescovo Bartolomé de Las Casas (la copia esistente è “un piccolo volume in folio, legato in pergamena, composto da 76 foglietti di assai fine e compatta scrittura”). Nei viaggi successivi Colombo si perse nell’esplorazione delle isole caribiche. Non superando la linea dell’equatore lasciò ai conquistadores lo spazio per assoggettare gli antichi imperi. Oltre alle traversie che aveva patito per realizzare il viaggio transoceanico, la sorte fece assegnare al continente remoto il nome America, derivato forse dal fiorentino Amerigo Vespucci47 che lasciò precise relazioni sui suoi viaggi via mare: con la propria capacità mediatica ante litteram riuscì a rubare a Colombo il nome del continente avvistato dal coraggioso genovese.
 

Nel secolo XIII, i navigatori genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, dopo essere approdati alle isole Canarie scomparvero nel tentativo di raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa. Il mare ha sempre suscitato timore e meraviglia, curiosità e rischio. Molti santuari eretti sulle coste ospitano una quantità variegata di ex-voto in ringraziamento per lo scampato pericolo; un antico itinerario devozionale toccava i templi disseminati tra Liguria e Provenza, Valenza e Cadice. “L’arte della navigazione consiste nel trovare un porto” ovvero nella capacità di stabilire una rotta e di seguirla correttamente. Nuovi sistemi di velatura e l’uso del timone incernierato al centro della poppa permisero a caracche, galee e caravelle di governare con maggiore sicurezza di quando venivano impiegati i remi laterali. Anche la bussola magnetica (con la relativa rosa dei venti incisa sulla scatola) e le carte marittime (portolani) contribuirono ad aumentare il numero delle rotte anche in assenza del sole o delle stelle. L’etnologo e navigatore norvegese Thor Heyerdahl (1914/2002) volle dimostrare la teoria che le navigazioni transoceaniche fossero già avvenute in epoca precolombiana. Con questo intento – costruendo imbarcazioni primitive con legno di balsa, vimini, papiro, e sfruttando la sola forza dei venti e delle correnti – nel 1947 attraversò l’Oceano Pacifico (dal Perù alla Polinesia) con la zattera Kon-Tiki e nel 1970 l’Atlantico (dal Marocco a Barbados) con il barcone Ra II (il viaggio con Ra I dovette essere interrotto per avaria) simile a quelli usati nell’Antico Egitto48. Gli stessi Vichinghi – o Normanni – con la loro grande abilità marinaresca avrebbero potuto toccare (secoli VIII/XI) le coste americane: navigatori provetti e costruttori di navi da battaglia e mercantili (introdussero l’uso del timone e migliorarono l’efficienza delle chiglie e delle vele), colonizzarono con le loro esplorazioni piratesche le isole Shetland, Islanda, Groenlandia (Terra Verde), Terranova e Labrador49.
 

In quei giorni l’Oceano era navigabile da un’isola situata a occidente dello stretto che voi chiamate Colonne d’Ercole; dall’isola si potevano raggiungere altre isole e oltre queste si poteva arrivare al continente opposto, al di là del quale inizia il Grande Oceano50 Anche Colombo era convinto che oltre l’Oceano non ci fosse il vuoto assoluto ma terra calpestabile. L’ossessione lo portò dai vertici della fama all’oblio ma il nebbioso passato ricorda la tenacia, il genio marinaresco e geografico51, la volontà di vincere, la pazienza, la memoria e la fantasia di chi conosce le proprie possibilità. Pur essendo un autodidatta riuscì a risolvere problemi solitamente riservati agli specialisti e ad usare la psicologia con aristocratici e marinai. Affrontò per primo il Mare dei Sargassi e intuì la presenza della Corrente del Golfo. Una personalità complessa macchiata purtroppo dall’esagerazione nell’applicare l’autorità sulle terre vergini, soprattutto quando fece portare centinaia di indios al mercato degli schiavi di Siviglia. Il mare, la grande passione di un uomo nato per navigare, dapprima curiosando tra i moli del porto genovese, poi imbarcato come mozzo sui barconi che trasportavano la mercanzia. A tredici anni bordeggiava lungo la Riviera Ligure con una curiosità talmente acuta da fargli riconoscere – nel giro di pochi anni – i punti di riferimento a terra, i fondali, le correnti e tutto quanto era necessario per veleggiare in sicurezza. I miti di Afrodite52 e Oceano53 divennero parte integrante del giovane Cristoforo, fondatore della prima colonia spagnola nel continente che fino alla morte ritenne quello delle Indie Occidentali. La sua avventura avvicinò popoli e continenti, un inizio che sarebbe continuato con Magellano54; le nazioni europee compresero l’importanza dell’Oceano, al di là del quale avrebbero potuto allargare i loro domini. Il Portogallo (l’antica Lusitania) tra il 1419/1452 occupò Madera, Canarie, Azzorre, Capo Verde, Guinea, Congo, Mozambico. Bartolomeo Diaz55 entrò nell’Oceano Indiano, Vasco da Gama56 nel 1497/98 compì il periplo dell’Africa e raggiunse l’India (regione di Malabar, Mare Arabico). Pedro Alvares Cabral (1467/1526) invase il Brasile nel 1500: riportò in Patria pepe, oro, avorio e schiavi. Ecco perché la rotta delle tre caravelle partite da Palos il 3 agosto 1492 (lunghe meno di trenta metri ciascuna) aveva aperto una nuova era57.
Cristoforo aveva acquisito una serie di esperienze riuscendo ad oltrepassare i confini acquei noti per conto di armatori-mercanti che gli commissionavano compiti di fiducia con le loro filiali nel Mediterraneo e oltre le Colonne d’Ercole
58. Si era allontanato dalla famiglia, dedita a piccoli traffici ed alla gestione di un’infima osteria, per donarsi all’insaziabile bisogno di sapere i segreti del cielo e del mare: si affacciò allo sconfinato Oceano con un battesimo spaventoso, il drammatico naufragio della nave sulla quale era imbarcato. Nei giorni di convalescenza che passò ospite dei pescatori portoghesi che lo avevano salvato, decise di andare a Lisbona dove avrebbe contattato gli appoggi commerciali genovesi. Soprattutto, avrebbe viaggiato, sognato e imparato tutto quanto non aveva potuto fare da adolescente. Le carte geografiche erano state da sempre motivo di studio e curiosità: il fratello Bartolomeo – che nel frattempo lo aveva raggiunto per aprire una bottega specializzata nei pressi del porto – era diventato molto abile nel disegnare mappe e così la comune passione li aveva avvicinati forse più del legame di parentela. A Lisbona Cristoforo si accorse della grande richiesta di portolani aggiornati alle continue scoperte e le rotte che percorse in quegli anni gli permisero di conoscere meglio uomini e mari fino all’Islanda59. Con queste premesse, dentro di lui salì la febbre che in quell’epoca di esplorazioni contagiava molti; specialmente i marinai si scambiavano informazioni e leggende sui misteri dei confini. Lisbona era il focolaio di questi racconti, la maggior parte dei quali tendeva al concetto che “il Mare Oceano non è più vuoto di altri” (Mare totum navigabile) malgrado il sistema tolemaico60 imperava come una grata inamovibile. Tra un viaggio di lavoro e l’altro, tra un conversare e l’altro nel cenacolo del fratello, Cristoforo – sempre molto devoto – incontrò nella Chiesa Todos os Santos colei che sarebbe divenuta sua moglie, Felipa Moniz Perestrello (morì nel 1485 lasciandogli il figlio Diego). Dell’aspetto fisico di ambedue i giovani non si hanno né ritratti né descrizioni sicure, è certo però che la posizione sociale di lui migliorò notevolmente avendo sposato una aristocratica. Ebbe inoltre a disposizione materiale nautico lasciato in eredità dal suocero con importanti appunti sulle rotte conosciute verso Madera, Azzorre, Canarie, Capo Verde, Guinea, Anversa, Rotterdam, Londra, Bristol.
Un altro tassello che lo convinse ad impegnarsi in ciò che riteneva una missione sotto la bandiera del Vangelo. L’ipotesi del filosofo greco Pitagora (570/490) che la terra fosse tonda lo ammaliava e il progetto di tentare il grande balzo tra la teoria e la pratica diventò nella sua mente sempre più concreto. Quando veleggiò su un peschereccio per tre giorni, constatò che venti costanti favorivano la rotta dalle isole Canarie verso Ovest; quando riuscì ad imbarcarsi per toccare la Guinea e le isole di Capo Verde, notò piante e animali che non conosceva: ne dedusse che oltre la linea dell’orizzonte doveva esserci qualcosa da calpestare, tanto più che i geografi dell’epoca avevano dotato le dimore dei principi con mappamondi incompleti: mancava la prova definitiva della rotondità della terra. Per Colombo il punto di sutura era l’Oceano che aveva conosciuto in parte nel corso dei numerosi viaggi commerciali. Decise di rivolgersi a Paolo Toscanelli per avere conferma della possibilità di navigare oltre i confini conosciuti. L’astronomo fiorentino elargì una quantità di ragguagli sulla rotta e, implicitamente, l’ipotesi della distanza da percorrere ma i problemi pratici erano molteplici, da quelli economici a quelli di sopravvivenza sul mare ignoto.

 

Cominciò l’odissea – ingrata e umiliante – di bussare alle porte tra intrighi dei cortigiani, derisioni e incomprensioni. Il primo incontro che ebbe con il principe ereditario portoghese Don João (sovrintendente del Ministero della Marina e figlio di Alfonso V61) fu alquanto deludente. Alla morte del padre, il comportamento del nuovo sovrano Giovanni II62, pur appassionato di viaggi, farà amaramente constatare al genovese: “Fui dal re di Portogallo, che si intendeva di esplorazioni e di scoperte più di ogni altro... ma per quattordici anni non mi diede ascolto ... Il Signore chiuse gli occhi e le orecchie di Re Giovanni perché non riuscii a fargli capire le mie idee”. Tuttavia, senza avergli concesso alcuna udienza dalla sua consacrazione a sovrano, gli aveva permesso di imbarcarsi su un veliero portoghese verso la Guinea e le isole di Capo Verde, una rotta che avrebbe maggiormente avvinto Cristoforo alle sue intuizioni. Sulla base delle notizie avute da Toscanelli e dalle ricerche negli archivi, uno dei problemi che lo assillavano durante il viaggio era quello di rapportare il grado terrestre alle miglia marine: ciò gli avrebbe permesso di valutare il tempo necessario per oltrepassare il mare ignoto. Le ragioni del diniego definitivo di re João nel 1484 possono identificarsi in precise ragioni: in quel periodo la politica espansionistica di molte nazioni europee era rivolta alle possibilità offerte dal continente africano; le istanze rivolte alla Corte da parte di uno straniero che curiosava nelle carte nautiche tenute segrete stuzzicavano il nazionalismo portoghese; le perizie del progetto da parte di un cosmografo e di alcuni scienziati rilevarono errori abnormi nei calcoli di rotta e distanza: il peso negativo della bilancia rischiava di stroncare il sogno anche se tutto quanto – sia per i fautori che per i detrattori – era basato su congetture. Negli anni trascorsi curando gli affari dei committenti commerciali e consultando continuamente le nozioni disponibili, Cristoforo non aveva tralasciato alternative per ottenere il viatico indispensabile di mecenati disposti a rischiare per un’impresa ritenuta stravagante.


Il confine più allettante e vicino era quello spagnolo e lì si diresse nel 1485 con il figlio Diego. Nei primi tempi del soggiorno a Madera e Palos, l’incontro con molti marinai permise a Colombo di confrontare le sue esperienze di vita con quelle dei colleghi
63 e con le svariate teorie che dovevano essere confermate. Trasferitosi a Lisbona, presentato da alcune conoscenze altolocate, l’anno seguente fu ricevuto da Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia64. Ricominciò l’iter delle udienze, dei preconcetti delle varie commissioni che dovevano studiare l’impresa (costi e ricavi) e forse come Dante Alighieri in esilio anche il genovese comprese “come è duro salir l’altrui scale”: furono determinazione, carattere, cultura e la fede a farlo insistere nelle istanze. Nonostante l’interesse dei Reali propendesse per allargare la propria influenza su nuove terre e l’ammissione dello straniero a Corte fosse una possibile apertura alle scoperte, l’approntamento dell’impresa doveva attendere ancora sei anni. Il problema fondamentale che rendeva difficile l’approccio rimaneva il percorso: mentre verso Oriente la via terrestre era nota già nota, quella verso Occidente era bloccata dalla grande distesa d’acqua che nel tardo Medioevo si riteneva inesplorata. Come molte altre realtà – invenzioni e intuizioni scientifiche – la possibilità che nell’antichità fosse già conosciuta e successivamente dimenticata non poteva essere elusa: lo testimoniavano gli studi e le ipotesi sulle quali Cristoforo basava testardamente il proprio sogno. Alcuni potenti mecenati vicini alla Corte avevano offerto le garanzie economiche per renderlo tangibile ma il sigillo reale era comunque indispensabile, tanto più che in quel periodo si stava risolvendo – con relative gravose spese militari – la lunga lotta di riunificazione del territorio iniziata da Cid Campeador65 e conclusasi soltanto nel 1492 con l’espugnazione di Granada66, ultimo baluardo arabo in Europa.


   Il mondo cattolico spagnolo rimase affascinato dalla possibilità di salvare le anime dei presunti selvaggi – ottimo preludio per acquisire indulgenze plenarie – quello politico era incantato dall’ampliamento del regno con relative ricchezze, l’anima avventurosa dei cavalieri si eccitò come la fantasia del conterraneo hidalgo Don Chisciotte, appassionato lettore di romanzi epici
67. Nella ‘Historia le los Reyes Catolicos don Fernandos e doña Isabel’, Andrès Bernàldaz riporta: “Egli riferì ai Sovrani la sua fantasia, alla quale essi non accordarono gran credito. Parlò loro dicendo che ciò che affermava era vero e mostrò loro il mappamondo. In questo modo li fece desiderare di sentir parlare di quelle terre”. Colombo conobbe nuovamente le anticamere dei potenti e l’attesa diventò per lui un modus vivendi. A Cordova68, una delle tante tappe per seguire la Corte itinerante, ebbe il secondogenito Fernando dall’amante Beatrice Enriquez de Harana – figura misteriosa e appartata nella sua vita – e lì fu ricevuto ufficialmente per la prima volta dai Sovrani. La giurisdizione dell’Oceano apparteneva per lascito al Regno di Castiglia e quindi alla Regina: sarà soprattutto lei – coetanea del genovese – a seguire il complicato iter del sostegno all’impresa, particolarmente affascinata dall’idea di conquistare al cattolicesimo nuovi fedeli. Come in Portogallo, comparve sulla scena la commissione d’inchiesta (“dotti studiosi e validi marinai”), istituita per valutare le fantasie di uno straniero. Dal 1486, per la protezione della regina Isabella, Colombo cominciò a ricevere un 'soldo' annuo di 400 ducati d'oro: ciò era la conferma indiretta che le sue proposte avevano aperto uno spiraglio verso l'impresa che lo avrebbe iscritto a pieno titolo nel libro della storia così come i grandi scienziati, inventori ed artisti. Anche se aveva ottenuto la fiducia dei reali, avrebbe comunque dovuto attendere altri anni, lacerato da incertezze per le continue analisi del progetto da parte di politici, cortigiani e, soprattutto, dalle commissioni clericali poiché il sottinteso che muoveva l'intero processo destinato ad approvare o negare l'allestimento delle navi era la propagazione del cristianesimo, nuove anime da convertire alla fede. "Dicono di me che non sono dotto nelle lettere, che sono marinaio ignorante": la sua intuizione sull'esistenza di un 'nuovo mondo' era suffragata dall'esperienza di Marco Polo e dagli studi di Toscanelli ma non abbastanza da convincere chi doveva dare il parere definitivo a ciò che era considerata una fantasiosa avventura, tanto più che molti erano ancorati alle convinzioni di Sant'Agostino, per il quale oltre il mondo conosciuto ci fosse solamente il vuoto. Essendo il periodo in cui imperava la Santa Inquisizione demandata a Torquemada, era molto pericoloso per tutti mettere in dubbio l'ortodossia della fede e quindi di tutto quanto si era accumulato nei secoli sul dogma cattolico. Nel 1490 giunse ai Sovrani la sentenza: "Nulla può giustificare il favore delle Loro Altezze per un progetto basato su teorie irrealizzabili". Intanto gli era stato tolto il sussidio, forse per dimenticanza, forse per problemi del tesoro, impegnato nella 'pulizia etnica' ebraica, nella riconquista di Granada, città dell'Andalusia, e gravato dalle spese per il fastoso matrimonio tra l'Infanta Isabel con l'erede al trono portoghese. Quaranta anni, due figli, la moglie Beatrice ed il proprio mantenimento: un periodo per lui durissimo, in parte sostenuto dalla vendita di mappe geografiche, in parte attutito dal sogno che lo perseguitava. Fortunatamente per lui, nel 1492 i Mori furono definitivamente cacciati dal territorio spagnolo e dall'oblio riemerse l'idea della conquista. Molti mercanti intravedevano la possibilità di nuovi guadagni, i francescani di Palos lo avevano sempre sostenuto, i legami con la Corte non erano stati tranciati completamente e dunque Colombo si ritrovò – dopo anni di lotte e di inutile attesa – a riavere il sostegno della Regina Isabella con conseguente udienza (anche Re Ferdinando, da sempre oppositore al progetto, cominciò ad essere soggiogato dall'idea di allargare i propri domini). Fu dunque in questo clima promettente che Colombo si presentò ai reali: probabilmente per le umiliazioni subite nella lunga attesa, il suo atteggiamento fu alquanto altero; senza poter garantire nulla se non la sua fissazione, in primis chiese il titolo di Ammiraglio del Mare Oceano e di Viceré di tutte le terre che avrebbe scoperto, titoli che avrebbero dovuto essere ereditari. Malgrado la sua posizione fosse ancora molto precaria, si irrigidì nelle richieste fino a rischiare il definitivo rifiuto reale. A questo punto si intrecciarono molti fattori che permetteranno al genovese di condurre a termine l'impresa atlantica: lui abbandonò l'udienza, i fautori insistettero a suo favore, i reali rimasero preda dell'ambizione e fu deciso che il documento di nomina - dopo molte discussioni - recasse la postilla che sarebbe entrato in vigore solamente a scoperta avvenuta. Un messo raggiunse cavallo e cavaliere già sulla strada del volontario esilio e finalmente Colombo ebbe la soddisfazione di ritornare alla Corte, in quel periodo stanziata a Santa Fè, come un personaggio di alto lignaggio. Era il momento dei festeggiamenti per la riconquistata Granada dopo sette secoli di dominazione musulmana, una esaltazione collettiva che avrebbe coinvolto la città anche con l'intervento degli inquisitori di Torquemada. Il 17 aprile 1492 fu apposto il sigillo reale sul contratto, con tante promesse e tanti 'se', premesse che porteranno il nuovo 'ammiraglio' – nel frattempo nominato 'Don Cristobal' – a lunghe beghe giudiziarie per ottenerne l'applicazione ad impresa compiuta.

 

Fu deciso che la spedizione sarebbe partita da Palos poiché gli altri porti spagnoli erano ingombrati dai vascelli per il trasporto coatto delle famiglie ebree in Africa o in Italia. Palos era molto familiare a Don Cristobal e lì avrebbe trovato marinai competenti ed avventurosi ma la sua odissea dovette superare altri ostacoli. Con ricatti formali, i rappresentanti della coppia reale riuscirono a far pagare l'allestimento di due caravelle agli abitanti della città e riuscirono anche - per risparmiare o forse per una sottile rivincita all'alterigia dimostrata in loro presenza - ad arruolare equipaggi con detenuti graziati purché partissero per l'ignoto. Martin Alonzo Pinzon era ritenuto il migliore dei marinai andalusi; ricco perché possedeva una caravella e altri natanti, rispettato dagli uomini al suo comando, esperto nel navigare anche sulle rotte perigliose e quindi grande conoscitore dei capricci del mare, rozzo e ribelle. Colombo capiva di aver bisogno proprio di un uomo come Pinzon per formare l’alleanza ideale e Pinzon comprese le possibilità insite nei piani dello straniero; con il peso della sua fama arringò le esperte ciurme nell'angiporto promettendo fama e ricchezza a chiunque lo avesse seguito, allontanando così il pericolo di avere a bordo ex galeotti. Riuscì ad assoldare una novantina di marinai pagati dalla Corona; le due caravelle (vascelli veloci) minori – 'Pinta' e 'Nina' – erano obbligatoriamente fornite dai cittadini di Palos, l'ammiraglia 'Santa Maria' fu noleggiata. Erano barche di circa venti metri di lunghezza e con grandi carenze nautiche, specialmente per la traversata che le attendeva (Pinzon costituì un proprio equipaggio e si imbarcò sulla 'Pinta'); in quasi due mesi si riuscì a formare una 'flotta' sulla quale erano caricate provviste per un anno, bigiotterie varie per l'incontro con ipotetici 'selvaggi', artiglierie leggere, balestre e moschetti. Il 3 agosto 149269 Don Cristobal ordinò la partenza 'in nome di Gesù' verso l'arcipelago delle Canarie. Ripartì dalle isole il 6 settembre, attardatosi per una grave avaria al timone della Pinta, la sostituzione della velatura alla Nina e per rifornire le caravelle con la maggiore quantità di vettovaglie. Ospite nel frattempo al castello della Gomera (governatrice era Beatrice di Bobadilla), Don Cristobal ebbe modo di conoscere gli equipaggi, l'interprete, i parenti di Pinzon, il notaio, i chirurghi, tutti uomini che si sarebbero fidati del suo 'senso marino', ovvero la capacità di fiutare il vento e le correnti, di osservare le stelle, per seguire la rotta verso le Indie, da lui valutata in tanti anni di ossessione. Il 'Giornale di bordo' della prima traversata ci è pervenuto nella sintesi di Las Casas poiché l'originale (consegnato ai reali) e le copie sono perdute così come quelle dei viaggi successivi. Da quanto è rimasto si evince comunque un puntiglio nel raccontare i fatti e nell'annotare i dati nautici che denotano come Colombo, malgrado fosse completamente soggiogato dall'impresa, non dimenticò di essere al soldo di sovrani ai quali avrebbe dovuto fornire un preciso resoconto, tanto più prezioso per l'annosa concorrenza con i portoghesi, anche loro propensi alla conquista ed al colonialismo: “Qui pongo termine alla presente relazione, sebbene io abbia il disegno di trasferirmi per mare a Barcellona, ove sono ora le AA. VV., affine di raccontarvi tutto il mio viaggio che il Signor Nostro dopo avermene inspirato l’idea, mi ha accordato eziandio recare a buon fine. Imperocchè sono fermamente persuaso, né dubbio alcuno sento misto al mio convincimento, che l’alta sua Maestà fa tutto ciò che è buono e tutto è buono fuorché il peccato ... inoltre io vedo, dal felice successo di questo viaggio, che Iddio maravigliosamente ha provato ciò che io dico, siccome ad ognuno è facile convincersene leggendo questa relazione, per i segnalati prodigi da Lui operati nel corso della mia navigazione ed in favor mio; che sono da sì gran tempo alla Corte delle AA. VV., in opposizione e contro l’avviso di tante illustri persone della vostra casa; le quali tutte levaronsi contro di me, trattando di sogno il mio disegno e di chimerica la mia impresa. Pure io confido nel Signor Nostro che questo viaggio recherà il massimo onore al Cristianesimo, malgrado sia stato compiuto con tanta facilità (15 marzo 1493)”.

 

     Come tutti gli esploratori in terre sconosciute, anche a bordo dovettero provare un senso di panico di fronte ad un mare considerato senza confini. Le leggende e le superstizioni della gente imbarcata cominciarono quel giorno e, più il viaggio si prolungava, più aumentava la paura fino al rischio dell'ammutinamento. La costanza degli alisei aiutò notevolmente la piccola flotta ad accorciare le distanze. Dopo una quindicina di giorni di piacevole navigazione, incontrarono "grandi banchi di erba verdissima" (sargasso) che spaventò i marinai per il timore di rimanerne imprigionati; anche la bussola diede qualche preoccupazione quando l'ago magnetico si spostò di diversi gradi verso nord-ovest. Colombo comprese che seguendo le indicazioni dello strumento si sarebbe allontanato dalla rotta prevista e perciò si affidò alla Stella Polare. Seguirono giorni di bonaccia, altri con vento contrario, ma su tutto imperava l'infinita distesa d'acqua: cominciarono le ritrosie, i timori, gli insulti, i ripensamenti soprattutto verso l'ammiraglio 'straniero' che qualcuno voleva buttare fuori bordo per poter tornare in acque note: "Perché vuoi farci morire?". Il 6 ottobre fu indetta una riunione dei capi: "Colombo disse che era inutile lamentarsi poiché aveva deciso di arrivare alle Indie a qualunque costo". Ogni decisione fu procrastinata ed il grido tanto atteso "terra terra" arrivò propizio. Un urlo liberatorio, soffocato dal vento tra le sartie, un preambolo che avrebbe completamente cambiato un intero continente con pesanti ripercussioni anche per l'Europa: le culture delle antiche etnie rese schiave e distrutte, sofferenze inaudite per l'epopea della nuova frontiera con l’inevitabile annientamento delle tribù indigene. Al nord la guerra di Indipendenza per controbattere il colonialismo di inglesi e francesi, la guerra di Secessione, la nascita degli Stati Uniti70, al sud una serie di regimi dittatoriali che hanno soggiogato le popolazioni povere: dal Cile al Perù, dall’Argentina alla Colombia, dal Messico allo sfruttamento intensivo delle foreste amazzoniche.

 

     Il grido ripetuto congiunse "la terra più terra di tutte le terre" scoperta alle ore due del 12 ottobre 1492. Sembra però accertato che l'Ammiraglio del Grande Oceano nei quattro viaggi da lui compiuti non sia riuscito a penetrare nel continente ma solamente a toccare alcune coste e le isole limitrofe, anzi ritenne di essere approdato in Asia. L'incontro con i nativi è raccontato da Las Casas: "restavano stupefatti a guardare gli stranieri, le barbe, la pelle bianca, gli abiti" ed il notaio che prendeva possesso dell'isola a nome dei sovrani; la conquista in nome del cristianesimo cominciò dunque, nell'isola ribattezzata San Salvador, con un atto di prevaricazione che sarebbe continuato nei decenni con grande spargimento di sangue. Le caravelle continuarono a navigare toccando altre isole caribiche fino a Cuba, dove sbarcò il 28 ottobre dopo essersi rifornito di viveri ed acqua. Nel girovagare tra le Antille, gli alieni bianchi trovarono flora, fauna e tribù ma senza la minima traccia di quella ricchezza che avevano bramato e promesso in patria. Il malumore si diffuse tra gi equipaggi malgrado avessero scoperto – ignorandolo – l'uso del tabacco, un prodotto che avrebbe invaso l'intero pianeta con enormi implicazioni economiche e sanitarie. L'ossessione della parola "oro" – l'unico elemento tangibile che avrebbe potuto soddisfare gli avventurieri imbarcatisi con il solo scopo della ricchezza – cominciò ad impossessarsi della gente. La cupidigia spinse Pinzon a scomparire con la Pinta per un paio di mesi alla ricerca personale del prezioso minerale. Don Cristobal ne era angosciato sia perché temeva che il socio tornasse in Spagna precedendolo, sia perché non sapeva ancora quale terra stesse calpestando. Come avrebbe potuto giustificare le spese della spedizione con il resoconto dei pochi villaggi incontrati nell’arcipelago?

 

     Rimaneva la consolazione della conversione forzata dei 'selvaggi', un traguardo molto desiderato dai sovrani che, però, non avrebbero disdegnato materiale più tattile. Scrisse sul Diario parole premonitori sulla funzione dei conquistadores assassini: "Potrei conquistare queste isole senza incontrare resistenza; gli indiani scappano sempre, non posseggono armi, sono nudi e indifesi, quindi possono essere costretti al lavoro". Un chiaro riferimento al rapporto tra padrone e schiavo, senza alternativa di umana collaborazione nella quale il messaggio cristiano di fratellanza avrebbe dovuto essere prioritario. Il 6 dicembre le due caravelle raggiunsero Haiti dove Colombo avrà le poche intense soddisfazioni dell'intera sua carriera di esploratore fondando alcune città, seminando grano e trovando qualche monile del prezioso metallo, tra cui una maschera donata dal cacicco locale. Nella notte di Natale, durante lo spostamento via mare per cercare i "palazzi ricoperti d'oro", il timoniere della Santa Maria non s'accorse di avvicinarsi pericolosamente ad una secca formata da scogli taglienti; prima che la caravella si distruggesse completamente a causa del moto ondoso, gli uomini trasferirono le provviste e le attrezzature stipandole sulla Nina con l'aiuto di volonterosi indigeni. Furono poi ospitati nel villaggio e lì cominciò il classico baratto, usato da sempre tra 'civilizzati' e primitivi: lucente metallo nobile con chincaglierie senza valore. Quando ebbe notizia della presenza nei paraggi della Pinta, l'Ammiraglio fece costruire una specie di fortino, vi lasciò una piccola guarnigione a guardia del materiale salvato dal naufragio e partì alla ricerca perché comprese di avere bisogno di Pinzon, qualunque fosse la ragione che lo aveva allontanato. Finalmente le due barche si incontrarono e fu un momento felice per tutti malgrado sospetti e recriminazioni nascoste. Erano ormai quattro mesi che gli equipaggi erano lontani dalle famiglie e tutto ciò smorzava l'entusiasmo continuamente sollecitato da una supposta vicinanza di miniere. Si provvide a tirare in secco le due caravelle superstiti per calafatarle ed affrontare nuovamente l'Oceano. Il 16 gennaio 1493 i due vascelli superstiti cominciarono un viaggio non meno faticoso perché fu necessario cercare una zona dove i venti sospingessero verso la Spagna. Dopo vari tentativi, il fiuto di Don Cristobal trovò quelli giusti per averli in poppa. Gli strumenti nautici dell'epoca erano artigianali e quindi distanza, velocità e rotta erano presunti malgrado i marinai avessero alle spalle una notevole esperienza. Le condizioni meteorologiche non furono favorevoli: "il mare grosso e il cielo in tempesta"; per tre giorni in balia di "onde che tormentavano le caravelle" che, sebbene procedessero con la velatura ridottissima e favorissero la prua ad affrontare i cavalloni, rischiarono il naufragio ossia la morte sicura per tutti. Le due navi si persero di vista e fu questo un momento particolarmente greve perché ogni equipaggio pensò di avere perso i compagni. Preghiere e voti furono rivolti a Santa Maria di Guadalupa; il fato li fece approdare, malconci ma vivi, proprio sull'isola omonima nell'arcipelago portoghese delle Azzorre. Dopo essersi incontrato con Bartolomeo Diaz (aveva doppiato per primo il Capo di Buona Speranza) fu invitato a Lisbona da Re Giovanni II, sospettoso e incredulo di ciò che Colombo gli raccontava. Infine, dopo un viaggio di otto mesi entrò nel porto di Palos tra un tripudio di folla (l'ambizioso Pinzon, sbarcato in ritardo la sera stessa e subito rinchiusosi nella sua casa, morì cinque giorni dopo). Il 20 aprile 1493 Don Cristobal presentò a Ferdinando e Isabella, nella lussuosa udienza preparata appositamente per festeggiare l'impresa, pezzi d'oro, ambra, cotone, erbe sconosciute, volatili e alcuni indiani che lo avevano seguito. Era il momento della gloria ma anche l'inizio della decadenza.

 

     Cinque mesi più tardi (25 settembre 1493), partirono da Cadice 17 navi con 1200 uomini, tra i quali molti agricoltori per la colonizzazione delle nuove terre. La seconda avventura cominciò con marcate diffidenze tra i rappresentanti della Corona e colui che giustamente rivendicava il diritto al titolo di Ammiraglio del Mare Oceano. Scopo dichiarato – supportato dal Papa Alessandro VI per la contesa territoriale con i portoghesi – era la conversione dei 'selvaggi' ma il vero specchietto che richiamò tutta questa gente era l'oro. Con le stive ripiene di provviste (saranno completate durante la sosta all'isola di Gomera), la partenza fu fastosa e festosa come l'arrivo. Don Cristobal era ansioso di ritornare a Hispaniola (Haiti) per ritrovare il drappello di uomini lasciato come presidio e trovare le fonti del prezioso metallo: 21 giorni di navigazione senza storia per arrivare alle 'mille isole'. Ci fu però il primo assaggio della sanguinosa 'conquista': il violento assalto di una canoa con indigeni feroci e la constatazione della decimazione dei 40 marinai lasciati a terra protetti dal fasciame della "Santa Maria". Il 2 gennaio 1494 l'impazienza dell'Ammiraglio lo fece ancorare in una località che battezzerà "Isabela" in onore della regina. Voleva fondarvi una città e farne l'avamposto per la conquista. Fu una scelta infelice per l'ambiente paludoso e malsano per la presenza di nugoli di zanzare che fecero ammalare centinaia di uomini e deteriorare buona parte delle provviste. Decise così di rispedire in Spagna dodici velieri con poco oro e la richiesta di soccorso. Organizzò una spedizione nell'interno e in una valle decise di costruirvi un forte, punto di partenza per l'esplorazione e la raccolta di oro il cui sito gli indigeni indicavano sempre vagamente pur donando saltuariamente scaglie e pepite. Tra gli equipaggi cominciò a serpeggiare un diffuso nervosismo, alimentato dalla voglia di tornare a casa; contrasti con gli indiani, fame e malattie non miglioravano una situazione che Colombo decise di superare puntando la prua di tre caravelle verso Cuba e Giamaica con l'ossessione di trovare le Indie. Tornato a Isabela dopo cinque mesi di inutile navigazione – a poche miglia dal ricco Messico e dall'immensità del Nuovo Mondo – fu avvolto da un torpore mortale, somma di alcune patologie trascurate. Lo salvò l'arrivo del fidato fratello Bartolomeo con tre caravelle cariche di rifornimenti ma fu anche il suggello delle diatribe tra lui – Ammiraglio del Grande Oceano e Viceré delle Indie – e l'orgoglio dinastico della corte spagnola.

 

     Nominò il fratello, arbitrariamente, governatore dell'isola e questa notizia insieme ad alcune altre malevole giunsero in Spagna con l'accusa di arroganza e incapacità. Inoltre il rapporto con gli indigeni diventava sempre più aspro, violenze e ingiustizie da ambo le parti con l'inevitabile corollario di vittime. Don Cristobal penò un anno per soffocare la rivolta dei nativi: decise di 'spedire' in Spagna cinquecento schiavi come sigillo di una vittoria (duecento di loro morirono) che, invece, fu interpretata come un fallimento. "Basta con le Indie" era il pensiero dominante tra i cortigiani; ciò fece decidere i Sovrani ad affiancare il loro uomo di fiducia Juan Aguado all'Ammiraglio per farne controllare le azioni, un affronto che completò il totale insuccesso di questo secondo viaggio. Ferito nell'orgoglio, disilluso ed ammalato, Colombo tornò a Cadice, senza vessilli e senza gloria, per essere ricevuto dalla coppia reale. In un clima piuttosto ostile, fece sfilare i prigionieri, esibì qualche oncia d'oro e qualche sfavillante prodotto locale per arricchire lo spettacolo. Nel colloquio furono analizzate le spese e le questioni morali sorte in seguito al brutale trattamento della popolazione indigena che prima dello sbarco europeo viveva i suoi ritmi sociali nei confini di una antica cultura. Malgrado dubbi e tentennamenti da parte delle autorità, nel maggio 1498 ripartì un convoglio di sei velieri, alcuni dei quali avrebbero portato viveri a Hispaniola, gli altri avrebbero toccato l’arcipelago di Capoverde e oltre, sempre alla ricerca delle ipotetiche Indie. Trovò Trinidad, vicinissima al territorio americano; tuttavia ebbe un dubbio: "Reputo che questo possa essere un grande continente, tuttora ignoto" (perse l'occasione della ricchezza locale, le perle, un bene che sarebbe stato sfruttato più tardi da uno dei luogotenenti e che avrebbe potuto riportarlo nelle grazie dell'intera Corte).

 

   Intanto il fratello Bartolomeo aveva trovato l'isola che sarà battezzata Santo Domingo – sede dal XVI sec. della più antica università americana – e lì aveva costruito l'alloggiamento per qualche centinaio di uomini. L'Ammiraglio, con il fratello Diego, vi avrebbe soggiornato un paio d'anni tra scontri sanguinosi con le tribù, malumori crescenti tra gli equipaggi e aperte ribellioni verso la famiglia 'straniera' dei Colombo che, spesso, si vendicava impiccando e imprigionando gli stessi compatrioti. Tra le due sponde dell'Atlantico le tragiche notizie finirono per convincere i Sovrani che l'impresa avesse preso una direzione pericolosa: arrivò il funzionario Francisco de Bobadilla con credenziali eccezionali, autorizzato a qualunque azione ritenesse necessaria per la salvaguardia degli interessi spagnoli. Considerata la situazione sul posto e trovatala pessima ordinò l'arresto dell'Ammiraglio e il rimpatrio in catene: "le porterò fino a quando i Sovrani non ordineranno di toglierle". I sovrani lo fecero aspettare fino al mese di dicembre 1500, anche se nel frattempo ordinarono di liberarlo e di fornirgli 2.000 ducati. L’udienza si svolse su posizioni di reciproca difesa: Don Cristobal confessò i suoi errori speranzoso di ricuperare la piena fiducia della coppia, i reali non confermarono le promesse firmate a suo tempo. Malgrado la grande impresa, per lui ricominciarono le attese di un richiamo a Corte mentre altri, attratti dall’avventura, ripercorrevano le rotte oceaniche verso quelle isole e quel mondo ancora sconosciuto che riserverà molte sorprese. Un anno dopo – ridotti notevolmente i titoli che gli spettavano e sostituito come governatore delle isole – avrebbe potuto vivere tranquillamente sulle rendite che gli erano concesse ma il carattere irrequieto e la costante dei suoi sogni lo incitarono ad insistere per rimettersi in mare. Infine, il 14 marzo 1502 arrivò il benestare reale e Colombo, con il compito di trovare oro e perle ma con il divieto di deportare schiavi, ripartì con quattro caravelle. Rendendosi conto della propria salute vacillante, condusse con sé il figlio quindicenne ed il fratello Bartolomeo affidando inoltre il comando a marinai fidati più giovani di lui.

 

   Tre mesi prima era stato preceduto da una maestosa flotta – 32 navi, 2500 uomini, 12 frati francescani – i cui capi, forniti delle necessarie credenziali, avrebbero stabilito sul posto guarnigioni, utile premessa per ulteriori esplorazioni e soprattutto per la rivendicazione del territorio scoperto nei confronti di altre nazioni europee. Una flotta che sarebbe scomparsa in alto mare al ritorno da Santo Domingo per un tremendo fortunale: vi erano imbarcati anche alcuni nemici acerrimi di Colombo; l’Ammiraglio li aveva avvertiti con il suo innato fiuto marino di non uscire dal porto. Purtroppo per loro e anche per lui, questo viaggio era nato con influssi negativi, dovuti alla mancanza di fiducia della stessa Corte e di tutti quanti lo avevano osteggiato. Le sue quattro caravelle si salvarono per la preveggenza di Don Cristobal tanto che – dopo alcune necessarie riparazioni – si rimisero in rotta alla ricerca dell’ipotetico passaggio verso le Indie. Con questa intenzione, costeggiò l’isola di Margarita bordeggiando poi nei Caraibi convinto che, prima o poi, sarebbe approdato sul grande continente. Lo vide infatti quando ebbe davanti la costa dell’Honduras. Lì incontrò tribù più evolute che conoscevano la lavorazione dei metalli e delle fibre tessili, usavano utensili, armi e canoe scavate da un unico tronco. Per Don Cristobal fu una grande occasione perduta perché se si fosse avventurato all’interno avrebbe incontrato il centro della grande civiltà Maya, nello Yucatàn, con conseguenze per lui eccezionali. Invece decise di proseguire la navigazione costiera combattendo, ancora una volta, con tempeste che conciarono male le navi causando lo sfinimento di equipaggi già al limite della disperazione: “Altre tempeste ho visto ma nessuna che durasse così a lungo e così spaventosa ... io ero ammalato e giunsi più volte alle soglie della morte”. Honduras, Costarica, Nicaragua e la notizia fornita dai nativi: oltre le montagne (l’istmo di Panama) era visibile un altro mare. Colombo, già troppe volte deluso, tralasciò di continuare l’esplorazione lasciando la scoperta dell’Oceano Pacifico a Vasco Nuñez de Balboa nel 1513. Nella zona trovò comunque una notevole quantità di manufatti d’oro che furono inevitabilmente barattati con le solite chincaglierie. La pressione degli uomini per tornare a casa, la sua stessa debolezza, il clima intollerabile, il vano tentativo di stabilire una colonia, i cruenti contrasti con gli indigeni che causarono la morte di molti spagnoli, furono le ragioni che fecero trascurare le voci di grandi quantità del prezioso metallo nella giungla tropicale. Con due caravelle in meno ed il fasciame corroso dalle teredini (“pompe, pentole e altri recipienti non riuscivano a sgottare l’acqua che entrava dai buchi”) fu costretto a fare arenare le altre – dopo un trasferimento periglioso – su una riva della Giamaica. L’impresa era totalmente fallita e l’unica speranza risiedeva in qualche nave che avvistasse i naufraghi bloccati sull’isola come tanti Robinson Crosue71. Il problema del nutrimento fu in qualche modo risolto commerciando con i nativi in modo urbano (memori delle precedenti esperienze), gli equipaggi furono forzati a bordo per non creare attriti con le tribù, la speranza fu affidata a due canoe che dovevano superare almeno 100 miglia marine per raggiungere il presidio spagnolo di Santo Domingo. Purtroppo, quando riuscirono a sbarcare e contattare il governatore, trovarono un uomo indeciso ed incapace che procrastinò l’invio dei soccorsi fino al 1504 inoltrato.

 

  Don Cristobal, abbandonato e senza notizie, dovette fronteggiare l’ammutinamento di una cinquantina di uomini che, paurosi di affrontare il mare su fragili zattere, si dedicarono a razzie e violenze su alcuni villaggi più lontani; lo stesso cacicco che li aveva aiutati si stancò della presenza di questi attaccabrighe rifiutandosi di continuare a collaborare con loro. Fortunatamente il 29 febbraio doveva verificarsi l’eclissi totale della luna e ciò fu l’arma vincente di Colombo. Radunò i capi indiani predicendo un maleficio che avrebbe colpito tutti coloro che si fossero opposti alla sua volontà: l’artificio salvò una situazione diventata ormai insostenibile. 28 giugno 1504: un amico di Colombo aveva noleggiato un paio di caravelle e finalmente la truppa prigioniera delle acque salpò per Hispaniola. Tre mesi dopo, fece la sua ultima transoceanica: “solo fra tanti dolori, ammalato, aspettando la morte”. Aveva 53 anni, la voglia di rivendicare i diritti pattuiti con i reali di Spagna non era sopita, la protettrice Isabella morì appena un mese dopo il ritorno dall’ultimo viaggio nefasto, Ferdinando sottopose ai legali ciò che era stato sottoscritto nel contratto con l’Ammiraglio del Grande Oceano e gli interessi della Corona. Cavilli e sottigliezze che l’Ammiraglio, malgrado fosse inabile, non voleva cedere. Era già ricco per i proventi che continuamente gli giungevano oltremare, aveva diverse proprietà di valore in Spagna, gli fu offerto un feudo prestigioso, eppure puntigliosamente si arroccava su pretese talvolta assurde e sogni vani come quello di comandare una spedizione per liberare Gerusalemme. Morì a Valladolid72 il 20 maggio 1506 attorniato solamente dai familiari e da alcuni amici fedeli. La Spagna ufficiale ignorò completamente la scomparsa di colui che aveva aperto nuovi orizzonti apportando ricchezze al vecchio continente ma anche molte sofferenze al territorio che verrà chiamato America. Seguirono maldicenze sul suo operato – fomentate dal Re e da una parte della Corte che lo avevano sempre osteggiato – tanto da temere l’eterno oblio sul suo nome. La vertenza duratura tra gli eredi e la Corona di Castiglia, ognuno con le proprie ragioni, ognuno con i propri torti, proseguì e per alcuni secoli il suo nome si allontanò dalla ribalta della storia finché archivi e studiosi permisero di ripercorrere la vita di un uomo che Victor Hugo73 definì: “La sua gloria non consiste nell’essere arrivato ma nell’avere levato l’ancora”, ribadendo così che i sogni possono divenire realtà solamente con il coraggio e la determinazione.
 

 

 

 

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AZTECHI
 

 

 

Religione degli Aztechi -  Testa del mitico Serpente di Fuoco che guida il Sole
 

 

   Tra gli Aztechi, il Dio Tonatiuh (“vai per illuminare e per scaldare”) era affiancato alle divinità delle stelle e del cielo del Sud nonché ad una quantità di altri più o meno importanti simboli identificabili nel “padre nostro, madre nostra, madre degli dei e il dio della fertilità”, ai quali venivano offerti – per celebrare la primavera ed il germogliare della semina – molti sacrifici umani più l’usanza della mortificazione con la perforazione delle orecchie e delle unghie. Gli Aztechi (“luogo dove si diventa dio”) erano i discendenti degli Olmechi insediatisi nel Golfo del Messico dal 1200 al Mille a.C. I Toltechi, presenti dall’VIII al IX secolo, sottomisero le popolazioni autoctone fomentando lo scontro etnico per la supremazia. Un principe battezzato – Ixtlilxochitl (1568/1648) – ebbe la capacità di scrivere in modo dotto la storia del popolo sottomesso. Tra ricordi, racconti verbali e resoconti tramandati in varie forme, raccolse notizie assai pertinenti ma disattese per molti anni dagli studiosi. La ricostruzione comprende la cognizione del tempo, della scrittura, della matematica, dell’architettura e racconta la saggezza delle leggi tolteche che furono comunque spesso trasgredite a causa delle lotte dinastiche. Ciò forse favorì l’invasione di altre etnie e la successiva fuga verso lo Yucatan (quanto scritto dal principe fu confermato solamente nel XX secolo quando l’antica capitale Tula fu riscoperta nella sua maestosità). La religione sanguinaria basata sui riti segreti dei sacerdoti simboleggiava nel “serpente piumato” (Quetzalcoatl) una delle principali divinità delle civiltà precolombiane. La tipica architettura è caratterizzata dai grandi templi piramidali adornati da colonne a forma di serpente e dalle sculture antropomorfe della civiltà Maya74 (sembra che gli Aztechi non facessero la guerra per ampliare il proprio territorio o per acquisire maggiore autorevolezza ma solamente per catturare prigionieri da sacrificare sulle loro piramidi insanguinate75). L’istinto di predare e sopraffare è uguale a tutte le latitudini: i conquistadores sono colpevoli di sterminio ma anche gli antichi messicani avevano alle spalle guerre e omicidi malgrado vivessero in una società relativamente evoluta. Le statistiche rilevate dai reperti archeologici riportano cifre raccapriccianti: per l’inaugurazione di un tempio (1486) furono sacrificate ai feticci 70.000 vittime, una costumanza diffusa con varie modalità in molte parti del mondo. Il simbolismo cristiano del pane e del vino “Mangiate, questo è il mio corpo e questo è il mio sangue” era praticato da queste ed altre popolazioni con il rito di un diffuso cannibalismo. Gli Aztechi – tribù nomadi arrivate scaglionate nella Valle del Messico intorno al 1168 d.C. – basavano la vita quotidiana su regole precise, rispettando rigorosamente la gerarchia ed i riti religiosi. Quando Cortés riuscì a penetrare nella loro capitale, oggi Città del Messico, trovò enormi costruzioni con centinaia di gradini per raggiungere la cima, Su questi mastodontici altari venivano sacrificati i prigionieri spagnoli o i loro alleati indi: i sacerdoti gli aprivano il petto per strapparne il cuore ed i corpi venivano fatti rotolare dai gradini fino alla base per sezionarli ulteriormente e le conquiste militari fornivano numerose vittime per il culto sanguinario. Il sadismo diventato sacralità è parte integrante di molte società e quindi non può che essere addebitato alla parte peggiore dell'essere umano. Gli innumerevoli tremendi esempi storici diffusi in ogni tempo e luogo ne sono la testimonianza concreta: il modus vivendi di società malate o atrofizzate dal potere arriva all’estremismo di decimare e distruggere. Gli orrori compiuti dalla nostra razza, dotata di sentimento e di libero arbitrio, sono una serie ininterrotta di nefandezze e le colpe delle società cosiddette civili sono altrettanto grandi di quelle compiute prima del loro avvento. A Cartagine tra il VII ed il II secolo a.C. erano uccisi con rito solenne alcuni figli di famiglie nobili. In Cina, i bambini nati in giorni ritenuti infausti venivano massacrati. In Egitto, all'epoca di Mosé, il faraone ordinò la morte dei primogeniti maschi ebrei. I ripetuti pogrom verso questa etnia consumati76 in ogni epoca e in molte società il cui apice è stato raggiunto in epoca nazista con l’olocausto di sei milioni di deportati nella seconda guerra mondiale. Ogni popolo comunque dovrebbe recitare il ‘mea culpa’ verso tutte quelle forme di sopruso coperte da comode falsità ideologiche (l’autodafè, sacrificio umano alla divinità, è stato praticato fino al XVII secolo). I Toltechi usavano le calotte craniche come coppe, un capo colombiano appoggiava la testa su un cuscino ripieno di teschi degli antenati o dei nemici, gli spagnoli al seguito di Cortés contarono i trofei nei templi e trovarono fino a 130.000 crani delle vittime immolate agli idoli. Nel Nuovo Messico gli archeologi hanno rinvenuto centinaia di torri, per la maggior parte bruciate. Dentro hanno trovato i resti di persone uccise con asce e frecce. Gli Aztechi gettavano bambini vivi nelle acque di un lago, giovani di ambo i sessi dentro pozzi profondi per propiziarsi gli dèi della tradizione e immolavano una ragazza ornata come la dea che doveva rappresentare. Alcuni sciamani – ritenuti incarnazione del divino – venivano bruciati vivi in cerimonie pubbliche: il popolo si contendeva le ceneri per berle sciolte nel vino. In Brasile i prigionieri cristiani venivano depilati e compiaciuti in ogni loro desiderio per poi ucciderli e mangiarli. Nel Messico si fronteggiarono per un certo periodo due ‘scuole’: i Maya volevano eliminare l’uccisione rituale, gli Aztechi volevano conservarla.

 

   Coatlicue era l’onnipotente dea della terra, Huitzilopochtli, era il dio del sole simboleggiato dal colibrì, Eacatl, dio del vento, Tlazolteotl dea dell’amore, Teto Innan dea della fecondità, furono eredità di un ramo degli amerindi, gli huaxtechi, stanziati nel I millennio a.C. fra la Sierra Madre messicana e la costa atlantica. Un pantheon complesso nel quale la classe sacerdotale aveva un’influenza predominante, officianti esclusivi di ogni cerimonia. Il dio della guerra era raffigurato con “immensi occhi terribili” ed i templi erano impregnati dal fetore delle vittime, tuttavia quando i 400 spagnoli di Cortés entrarono nella capitale Tenochtitlàn (la città-stato dove nascono gli dèi) accolti dal fasto della corte di Montezuma II77, rimasero sorpresi nel trovare “gente educata e civile come qualsiasi popolazione europea”, mercati ordinati e ricchi di ogni genere di prodotti, una ospitalità garbata che si sarebbe presto incrinata per la bramosia e la ferocia dei soldati barbuti, al contrario degli indigeni che si depilavano perché associavano la peluria alle bestie. “Montezuma aveva circa 40 anni, era alto e ben proporzionato, agile e magro, non scuro ma del colore naturale con le sfumature proprie di un Indio. Non portava i capelli lunghi, la sua barba rada era sottile e di bella forma. Il suo viso un po’ lungo ma gioviale; era curato e pulito e si faceva il bagno ogni pomeriggio. Aveva molte donne come amanti, figlie di capi tribù mentre due grandi ‘cacicas’ erano le sue spose legittime. Non era affetto da alcuna anormalità sessuale, nel senso che non era sodomita. I vestiti che indossava un giorno, non li riusava prima che fossero passati almeno altri quattro giorni. Aveva 200 capi tribù come sua guardia personale e quando andavano a parlargli erano obbligati a togliersi i ricchi mantelli e ad indossarne altri di minor valore; dovevano entrare a piedi nudi, tenendo gli occhi abbassati senza guardare mai il suo viso e dovevano fare tre inchini. Per ogni pasto venivano preparate più di trenta portate e sotto ai piatti venivano collocati piccoli bracieri di ceramica affinché le vivande non si raffreddassero (Bernal Diaz)78.

 

Religione degli Aztechi - Paradiso di Tlaloc, affresco

 

 

Gli Aztechi erano un popolo guerriero perché privi delle materie prime necessarie a produrre commercio. La loro attività principale era la conquista e la sottomissione di altri gruppi: ciò permise loro di acquisire abilità artigianale e soprattutto di iniziare una serie di scambi con colonne di portatori condotte dai mercanti: ciò richiedeva la protezione dai predoni delle altre cittàstato, ognuna delle quali doveva pagare i tributi – vittime da sacrificare e primizie dei campi – agli odiati dominatori ma “un governo che non si fonda sulle simpatie dei propri sudditi non può durare a lungo”. Gli Aztechi erano anche un popolo i cui architetti idearono e costruirono costruzioni immense – templi e piramidi – con particolare riguardo ai problemi idraulici: una struttura di dighe contro le frequenti alluvioni e di ponti mobili per proteggersi da attacchi improvvisi, affiancavano la rete di acqua resa potabile dal passaggio in conduttore di ceramica tenute continuamente pulite. La distribuzione avveniva con fontane alle quali il popolo poteva accedere, per non inquinare il lago gli escrementi organici erano trasportati nei campi come fertilizzanti, l’urina veniva invece conservata come mordente della tintura dei tessuti. Un sistema che molte civiltà contemporanee dovrebbero riusare per diminuire i micidiali prodotti chimici.

 

   La fortuna economica di Cortés cominciò partecipando alla conquista di Cuba ed allo sfruttamento intensivo degli schiavi impiegati nelle miniere d’oro. Con questa ricchezza allestì ed ottenne il comando di una flotta di undici navi. Ingordigia ed una naturale propensione alla crudeltà lo spinse ad inoltrarsi in un territorio sconosciuto per una giusta causa: “Seguiamo la croce e sotto questo segno vinceremo ... voi siete pochi ma decisi e se la vostra fermezza non vacillerà non dovete dubitare della protezione dell’Onnipotente”. Le parole di Cortés rivelano l’enorme determinazione e la caparbietà nell’attribuire alla diffusione della Croce ogni azione. Le passioni ed i sentimenti che albergavano nel mistero della coscienza ne fecero un avventuriero senza scrupoli. Con queste stigmate superò avversità di ogni genere, dal clima insano ai malanni dei compagni, dal costante pericolo di imboscate all’immensa disparità tra il minuscolo gruppo di bianchi e le centinaia di migliaia di indios: malgrado le condizioni logistiche ed ambientali riuscì ad annientare una civiltà importante aizzando i popoli vassalli degli Aztechi contro i loro padroni, mescolando la ferocia alle blandizie. Il suo nome precedeva l’avanzata delle truppe disorientando e spaventando le tribù che, ogni giorno di più, lo identificavano con una divinità invincibile. È utile ricordare che l’intero popolo aveva alle spalle anni tribolati, soprattutto per le superstizioni insite (in Messico nevicò, un vulcano si risvegliò dopo anni di inattività, nacque un bambino con due teste, un mago preannunciò al grande Montezuma che avrebbe perduto il regno): furono proprio questi fatti a spingere i sacerdoti a temere il disastro preannunciato dalle profezie antiche. La loro decisione produsse la carneficina di vittime, sacrificate sugli altari per placare gli dèi, consapevoli che gli stranieri sbarcati sulle coste e in rapida avanzata nel territorio sarebbero diventate un pericolo per l’impero. Con questa decisione si inimicarono molte tribù alleate dalle quali venivano prelevate centinaia di persone da portare ai templi e ciò avrebbe costituito la premessa di future alleanze tra indios sottoposti al potere centrale e le truppe spagnole. Si sarebbero scontrati due mondi, il vinto ed il vincitore: il 13 agosto 1521 la conquista del Messico era completata e l’antico popolo sottomesso alla nazione predominante. Palenque79, l’antica città e centro religioso distante 40 km da Città del Messico, conserva i monumenti più giganteschi della cultura maya-azteca: il viale dei Morti largo 42 metri e lungo diversi chilometri è affiancato da palazzi e templi, sovrastati dall’imponente piramide del Sole e da quelle minori dedicate rispettivamente al dio serpente piumato Quetzalcoatl e quello della pioggia Tlaloc. Nel 1832 un modesto pittore inglese, abbinò l’attività che lo faceva vivere alla passione per le rovine delle civiltà passate partendo per lo Yucatan in cerca di fama e guadagno. Aveva affinato la conoscenza del territorio contattando diversi connazionali collezionisti e leggendo le cronache dell’epoca eroica della conquista: sul posto però, oltre alla cronica mancanza di denaro, trovò difficoltà politiche e ambientali sempre maggiori che lo avrebbero costretto a ritornare in Europa dove riuscì a pubblicare un libretto illustrato privilegiando lo stile del divulgatore piuttosto che quello dello studioso: “Le costruzioni di Palenque fatta eccezione per il palazzo, sono di dimensioni ridotte, mentre quelle di Uxmal sono colossali e tutte realizzate in pietra lavorata. Quattro grandi edifici principali, separati da spazi aperti, racchiudono una superficie di 57.672 piedi quadrati... Il teocalli sta in cima a una piramide; la sua scalinata principale ha 100 gradini... L’influenza dell’Asia può essere facilmente percepita nell’architettura di questi monumenti. Sugli angoli arrotondati degli edifici si incontra il simbolo dell’elefante con una proboscide alzata sul lato orientale, abbassata sul lato occidentale... É principalmente negli ornamenti che possiamo ammirare la pazienza della mano d’opera impiegata in queste costruzioni e farci un’idea del gusto di questo antico popolo per lo splendore dei monumenti”. “Sosteneva che i Maya incidevano dei segni nei vani delle porte per misurare il tempo e che erano stati loro che avevano trasmesso ai Toltechi e agli Aztechi la propria civiltà”. I suoi disegni riportavano con grande meticolosità i particolari rimarcando che “se gli indios non sanno apprezzare le pietre sagomate con cura enorme e connesse perfettamente, lo splendore e la bellezza delle rovine disseminate sul suolo del loro paese, è perché dormono nella più profonda ignoranza”. Il lavoro non ebbe comunque fortuna né commerciale né accademica perché nel XIX secolo la scienza archeologica non era ancora nata se si eccettua l’occasionale rinvenimento della stele di Rosetta80 e la passione personale degli amatori di cose antiche. Gli scavi di Ercolano e Pompei, i monumenti greci ed i relativi studi posero le basi storico-critiche continuate con il lavoro sulle rovine di Troia di H. Schliemann, l’archeologo tedesco (1822/1890) anticipatore del moderno metodo dello scavo stratigrafico. Un settore importante di questa scienza è l’archeologia sottomarina, il mondo sommerso che cela una miriade di segreti del passato. Victor Hugo considerava la nave una dimostrazione delle capacità dell’uomo di confrontarsi con il mare, simbolo della potenza del Signore. La difficoltà di fare il punto nave e la dimensione ridotta degli scafi hanno fatto privilegiare agli antichi il traffico di piccolo cabotaggio. Tremila anni fa gli Egizi costeggiavano il Mediterraneo trasportando droghe, cosmetici, avorio; i Fenici stivavano mobili, gioielli, tessuti; i Greci, secondo la leggenda, attaccarono Troia dal mare; i Romani, esperti nel tracciare strade, usarono le navi per trasportare ceramiche, cereali e merce alla rinfusa. I fondali finora esplorati hanno rivelato giacimenti più o meno accessibili, più o meno conservati, ma sempre interessanti per la loro testimonianza. Le prime operazioni di ricupero in mare furono compiute in maniera disordinata e con l’unico scopo di portare a terra oggetti di valore. Solamente più tardi ci si preoccupò di rilevare e studiare ‘in situ’ ciò che una nave affondata rappresenta, un mondo unico e irripetibile dal quale dedurre le tecniche dell’ingegneria navale del tempo nonché l’attività militare o mercantile a cui il relitto era legato. Le prime cronache di ricuperi risalgono al XVII e XVIII secolo. Gioielli o il bronzo ed il ferro dei cannoni, ancore e materiale vario furono strappati al mare con enorme fatica, con l’aiuto di campane subacquee artigianali e di provetti tuffatori. Nota è la storia della ‘Lutine’, affondata alla fine del Settecento con un enorme carico d’oro, ritrovata, scavata, ricoperta nuovamente da cumuli di sabbia, riscoperta anni dopo con la pompa aspirante e nuovamente perduta con il suo carico appena intaccato. All’inizio del Novecento gli scavi sui fondali di Mahdia hanno riempito molte sale del Museo di Tunisi: candelabri, recipienti, bronzi e marmi raffiguranti simboli e personaggi mitologici. Nella stessa epoca una nave da guerra greca era all’ancora a ridosso di un’isola tra Creta e il Peloponneso; un palombaro aveva identificato a 50 metri di profondità statue in bronzo e in marmo, alcune nascoste dai sedimenti, altre liberate con pochi colpi di piccone e issate a bordo: tra questi ricuperi primeggiava il famoso ‘Atleta’ esposto al Museo Nazionale ateniese. In ambedue i casi il lavoro fu eseguito da palombari coadiuvati dagli stessi pescatori che avevano fortuitamente localizzato i resti. Il prezzo pagato per i ricuperi era allora molto alto, dalla perdita irrimediabile di oggetti eccezionali per la mancanza di una precisa metodologia di ricupero alla strage di uomini che si immergevano senza alcuna nozione dei problemi connessi alla decompressione. Gli spagnoli, estremamente appariscenti – supportati da seimila indigeni alleati che avevano radunato durante la marcia verso l’interno – si erano avventurati nella penisola di un regno che avrebbe potuto facilmente annientarli. Nel novembre 1519 si incontrarono due mondi, quello vecchio e quello nuovo, ognuno geloso delle proprie prerogative, rappresentati da Cortés e da Montezuma II, capo supremo di 100.000 guerrieri. Il fasto del corteo, arricchito dagli splendidi costumi della corte imperiale, fu il prologo della tragedia che avrebbe coinvolto l’intera America travolgendo le antiche etnie e le loro tradizioni. Nei secoli seguenti, dal Golfo del Messico i bianchi sarebbero migrati verso nord pagando con la moneta della morte ma appena un anno dopo questo incontro il Messico ed il suo imperatore, erano già distrutti dalla cupidigia e dalla violenza degli uomini di Cortés. In nome della Corte reale e con l’avallo delle autorità religiose, stragi e torture minarono le basi di un popolo la cui aggressività ancestrale venne sostituita da quella dei conquistadores: “Questa civiltà è l’unico esempio di una morte violenta perché non si spense lentamente ma fu trucidata nel fulgore della sua espansione”. Infatti quando arrivarono gli spagnoli con il preciso compito di salvare le anime pagane, si fece largo uso di brutalità e sottomissione forzata: le colpe degli esseri umani sono diffuse a tutte le latitudini e perciò giudizio e condanna coinvolgono inevitabilmente la responsabilità di tutti. Gli spagnoli si inoltrarono nel vastissimo sconosciuto territorio che avrebbe riservato molte sorprese, un incontro destinato a stravolgere società e ambiente. Cortés pensava di trovare tribù primitive in alloggi precari, invece si trovò di fronte ad immense costruzioni e ad un tipo di vita organizzato: “La grande città di Tenochtitlàn costruita al centro di questo lago salato81, a due leghe da qualunque punto della terraferma, è collegata da quattro strade rialzate larghe dodici piedi. La città è grande come Siviglia o Cordoba e nell’insieme è tanto vasta che io non riesco a farmi un’idea esatta del regno di Montezuma” (Hernàn Cortéz). Per gli indigeni, il corteo spagnolo diventò un simbolo divino per le gualdrappe colorate, le corazze lucenti e soprattutto per l’animale possente, mai visto da loro, che procedeva con l’altezzoso cavaliere. Cortés agì in poco tempo come un padrone impiantando la croce sui templi pagani, un emblema che copriva il vero scopo degli europei, l’oro. Infatti appena videro una porta nascosta, entrarono in una stanza ripiena di preziosi cesellati e di metallo nobile fuso in lingotti. Era il tesoro della dinastia Montezuma e sarebbe stato estremamente pericoloso toccarlo finché il piccolo drappello non avesse preso il predominio sull’enorme numero della popolazione. Lo stratagemma ideato con astuzia per ottenere questo risultato fu quello di plagiare l’imperatore, il semidio che con la sua autorità poteva condizionare sudditi ed alleati. Il piano fu attivato sia invitando Montezuma a presenziare alla Messa celebrata in una cappella costruita accanto al tesoro prudentemente rinchiuso come prima (il rito impressionò i notabili presenti: “effetto edificante sui pagani immersi nelle tenebre”), sia trasferendo il comando nello stesso palazzo del re. Da quel momento l’imperatore divenne un prigioniero sottomesso ad ogni richiesta di Cortés. La situazione si fece rovente: asportato l’intero tesoro dal nascondiglio e valutatone il grandissimo valore, al momento della spartizione i soldati si accorsero di avere avuto soltanto briciole. Il loro capo aveva deciso di trattenerne un quinto per pagare i debiti contratti, di riservarne una parte per i sovrani patrocinatori della spedizione, un quinto per ammansire il governatore di Cuba con il quale aveva litigato ed il rimanente per il presidio lasciato a Vera Cruz. Ci fu qualche tentativo di ribellione a queste decisioni ma qualche tempo dopo il campo fu in subbuglio per una grave notizia: si stavano avvicinando 900 spagnoli pesantemente armati con l’ordine del governatore offeso di arrestarlo per sedizione e portarlo a Cuba. Il carattere di Cortés fu ancora una volta sollecitato: anziché attendere il potente gruppo nella capitale azteca, decise di andargli incontro per combatterlo. Lasciando Pedro de Alvarado a presidiare la città, al comando di una settantina di soldati e di 200 indios alleati, in una notte di tempesta del 1520 piomba sull’accampamento avversario sconfiggendo i compatrioti. Fu l’occasione perduta di Montezuma per liberarsi dal giogo di Cortés: invece di sterminare la minuscola guarnigione rimasta nella capitale del regno, rifiutò i consigli dei notabili condannando se stesso e la sua gente allo sterminio. Un comportamento guerresco avrebbe probabilmente procrastinato l’invasione europea salvaguardando molte vite: una condotta che lascia stupiti per l’enorme divario di forze contrapposte: pochi spagnoli, moltissimi indios. La personalità di Cortés lo aveva schiavizzato fino a convincerlo di dare in omaggio l’intero tesoro della stirpe reale per tentare di salvare il briciolo di carisma rimasto a testimonianza del suo rango. La vittoria sui connazionali ebbe rilevanti ripercussioni: la defezione di parte delle truppe appena arrivate, il bottino di armi e cannoni che avevano al seguito, il rafforzamento delle forze spagnole sul territorio. Fu l’inizio della conquista e dello sterminio di un popolo accelerato dalla frenesia di imporre una forzata evangelizzazione: ciò avrebbe causato notevoli reciproche incomprensioni e risentimenti duraturi. Quando dogmi e fedi diverse si scontrano, ogni fedele diventa un fanatico pronto ad ogni riprovevole azione: la comprensione viene castrata in nome di un’entità ritenuta superiore; così si ripete l’eterna lotta dell’uomo contro l’uomo, svincolato da ogni remora morale. Disseminare di croci i templi pagani, inserirsi con prepotenza nella casta sacerdotale, oltraggiare antiche radicate credenze, furono atti che spinsero gli indios alla rivolta. Il cattolicesimo imperante dell’epoca condannava senza appello i sacrifici umani degli aztechi senza rendersi conto di dover recitare il mea culpa per il terrore dell’inquisizione che usava torture e assassini per ribadire le certezze nate da un Cristo compassionevole: la barbarie a confronto con la presunta civiltà. Altri due fatti precipitarono gli eventi: le insistenze di Cortés per convertire Montezuma e il massacro di centinaia di notabili riuniti in un tempio per uno dei loro riti, disarmati ed abbigliati con i vestiti da cerimonia. “Il sangue scorreva come l’acqua di un violento acquazzone”: fu l’insana iniziativa di Alvarado durante l’assenza di Cortés che, tornando, trovò una situazione pericolosissima. Migliaia di indios assalivano in continuazione gli spagnoli asserragliati nel palazzo reale; le loro sortite ottennero soltanto il risultato di fare tagliare le vie di fuga. Il tentativo di mediare lo scontro fu proposto dallo stesso Montezuma II che aveva fatto raggiungere all’impero il massimo splendore ma che nello stesso tempo lo aveva venduto per un incomprensibile atteggiamento di resa. Volle parlare al suo popolo ma ormai aveva perduto ogni prerogativa reale tanto da venire lapidato a morte dai sudditi il 30 giugno 1520: scomparendo la paratia che dava garanzie di contenimento al furore della massa indigena, Cortés decise di fuggire con i suoi tentando di attraversare le schiere dei guerrieri. Una situazione disperata il cui sviluppo verrà ricordato come la ‘noche triste’. Ormai era una questione di sopravvivenza e anche il tesoro perse ogni valore. Cortés lasciò che i soldati dividessero i preziosi raccomandando loro di non caricarsi troppo per poter essere più agili nella fuga notturna. La pioggia torrenziale mise in difficoltà il gruppo attorniato e inseguito: tentarono di attraversare in totale disfacimento i larghi fossati fangosi tra le numerose canoe piene di guerrieri che colpivano con clave, frecce e lance. Quando all’alba si contarono, si accorsero di avere perduto almeno due terzi della forza originale, compresi molti cavalli e le armi pesanti. L’unica via per la salvezza era quella che conduceva nelle terre dei loro alleati Tlascalani82 ma fu una ritirata costellata dalle costanti punzecchiature di gruppuscoli aztechi che inseguivano una truppa affamata e spossata. Otto giorni di sofferenze per giungere (8 luglio 1520) in una vallata ricolma di decine di migliaia di nativi pronti a trucidarli o farli prigionieri per immolarli ai loro dèi. La disperazione non faceva parte del carattere fiero di Cortés. Riunì i cavalieri rimasti e li lanciò al galoppo nella massa indigena che si apriva e si rinchiudeva al loro furibondo passaggio. Intanto vide su un’altura la portantina con le insegne del comando: intuendo la presenza di un principe, si scaraventò verso di lui colpendolo con la lancia e strappando il vessillo dorato. Gli indios ammutoliti si sbandarono in una tremenda confusione. Ci furono ancora velleità di rivalsa ma ormai la sorte del Messico era segnata. Gli spagnoli ricevevano in continuazione rinforzi militari e religiosi, il neo imperatore Quauhtemoc fu impiccato, nelle abitazioni ricostruite si sistemarono gli europei mentre gli aztechi erano relegati in riserve, completamente sottomessi come le tribù indiane del Nord America qualche secolo dopo. Il tesoro di Montezuma era andato disperso e quel poco che venne ricuperato e caricato su una nave diretta in patria, divenne preda dei francesi. La grande avventura fu comunque dimenticata proprio come i grandi monumenti riassorbiti dalla foresta. Gli archivi messicani e spagnoli rimasero misteriosi e impolverati fino all’avvento della ricerca archeologica: la sofferenza e la morte di intere popolazioni divennero pagine scritte e rimasugli da museo.

 

   La storia di Hernan Cortés (Estremadura 1485/Siviglia 1547) è la fotocopia dei capi conquistatori di quasi tutte le epoche, in entrambi gli emisferi. Se si scorre una qualunque edizione della cronologia della storia universale, ogni pagina contiene una goccia di sangue delle feroci conflagrazioni umane. Con alle spalle un paio d’anni all’università di Salamanca, la sua personalità irrequieta lo fece imbarcare nel 1504 in cerca di fortuna. Il 18 febbraio 1519 partì con undici vascelli, settecento uomini, sedici cavalli e dieci cannoni. Fondò Villa Rica de Vera Cruz dai cui maggiorenti si fece nominare capitano generale della regione. In questo modo ruppe temporaneamente i rapporti con il governatore Diego Velàzquez de Cuéllar83 con il quale aveva partecipato alla conquista di Cuba nel 1511. I legami con la madre patria furono interrotti poiché, per evitare diserzioni o rivolte, disarmò le navi al seguito: “Amici, seguiamo la Croce; sotto questo segno, se avremo fede, vinceremo”. In quel periodo l’impero azteco aveva problemi di coesistenza tra le varie fazioni: perciò, quando gli indigeni videro la pelle bianca degli invasori, le cavalcature e le armi, diedero un valore divino a quel gruppo di soldati che stavano per invadere definitivamente la loro terra. Anche tra gli spagnoli aleggiavano congiure e rivolte istigate dai partigiani di Velàzquez. Ciononostante Cortés, dopo aver sottomesso alcune tribù principali e sedato le congiure tra i commilitoni, entrò a Città del Messico nel mese di novembre 1519. Anche in questa occasione, proprio come per le civiltà Inca e Maya, i conquistadores furono dapprima ricevuti onorevolmente dagli indios sebbene il loro capo supremo Montezuma venne imprigionato per essere usato come ostaggio ma in seguito – di fronte alla sfrontatezza ed alla prepotenza degli stranieri che distruggevano e depredavano le loro sacre cose, abominevole sacrilegio – si organizzarono per arginare l’occupazione combattendo. Dopo il primo abboccamento, per questi fatti che sdegnarono la popolazione e specialmente i sacerdoti, seguì un periodo non facile: Dìaz afferma “facevamo la guardia: né vento né pioggia, né freddo contavano: rimanevamo fermi, doloranti per le ferite ricevute nei combattimenti”. Infatti era la stagione delle piogge e il terreno si era trasformato in una palude. Intanto Velàzquez, forse pentito di avere permesso al sottoposto di calpestare per primo il suolo messicano, lo fece seguire da un’altra flotta comandata da P. de Narvàez costringendo il generale a lasciare Città del Messico e a cedere il comando della città a Pedro de Alvarado. Cortéz sconfisse l’inviato di Cuba aumentando il suo potere con una parte degli armati passati al suo servizio. I problemi però erano appena cominciati: subito dopo il suo ritorno dovette reprimere la rivolta degli indigeni contro lo stesso Montezuma che simpatizzava per il gruppo spagnolo; il venerato capo supremo degli aztechi fu assassinato dai sudditi mentre teneva un comizio pubblico. La sollevazione popolare in seguito a questi fatti che volevano azzerare l’impero messicano, costrinse gli spagnoli ad una completa ritirata. L’abitudine alla guerra permise agli uomini di Cortés a riorganizzarsi tanto da riuscire a sconfiggere l’esercito messicano quantitativamente superiore: posero sotto assedio Città del Messico nel 1521 ottenendone la resa. Terminò così il periodo della conquista e iniziò quello dello sfruttamento intensivo, comune a tutte le terre invase. Cortés, nominato governatore dei nuovi territori dal Re di Spagna Carlo V, tentò di suddividerli tra i suoi seguaci, di ricostruire la capitale e di estendere il proprio dominio sulle regioni confinanti mandando diverse spedizioni per l’esplorazione e l’assoggettamento. Le solite diatribe tra i vari blasonati, invidiosi del successo del generale, convinsero Madrid ad istituire il vicereame della Nuova Spagna facendolo ritornare in patria senza offrirgli altro che la conferma dei suoi titoli ed il compito di esplorare il nuovo mondo. Fu per lui l’inizio del declino: malgrado il viaggio lungo la costa californiana, osteggiato e sfiduciato dalla mancanza di risultati nell’ultimo periodo, tornò in patria senza ottenere da Carlo V l’introduzione alla corte reale. Morì senza che la società riconoscesse i meriti del condottiero. Iniziò il periodo della colonizzazione. Per spremere miniere e prodotti agricoli, i feudatari usarono il lavoro coatto di indios e neri importati dall’Africa, inizialmente dalla Guinea. L’impero Azteco, completamente sottomesso, assunse il nome di Nuova Castiglia, quello Incaico divenne Vicereame del Perù. Il trattato commerciale stipulato a Saragozza con il Portogallo (1529), avrebbe permesso almeno per un secolo il dominio dei due Stati su buona parte del mondo conosciuto. Le ricchezze che invasero l’Europa crearono una serie di problemi finanziari: il valore della moneta subì un forte deprezzamento in correlazione all’aumento dei prezzi ma soprattutto la disponibilità economica nelle casse degli Stati accrebbe la bramosia di ulteriore dominio con conseguenti inevitabili fatti d'armi (ne sarebbe seguita l’egemonia della rete commerciale olandese, la cui flotta rappresentò per un certo periodo l’80% dell’intera marineria europea). Preponderanti basi per il commercio e la razzia furono le isole delle Antille nel Mare Caraibico (Guadalupa, Martinica). Giamaica, in particolare, ebbe la popolazione autoctona sterminata dagli invasori iberici; successivamente gli inglesi ne fecero il punto d'appoggio dei filibustieri che esportavano zucchero e importavano schiavi (“raramente l’argento e lo zucchero giunsero in Europa senza macchie di sangue”), non dimenticando l’abbordaggio ai ricchi galeoni spagnoli carichi di merci preziose diretti in Patria. Conosciamo i fatti dell’epoca attraverso gli storici e la ricostruzione filmica ma la realtà doveva essere ben più crudele; lo sconosciuto Oceano Atlantico contiene nello scrigno degli abissi i residui delle antiche brutalità: la storia umana è intessuta di tali e tanti massacri che neppure filosofia e religione sono riuscite a tamponare l’eterno dilemma del dualismo bene-male.

 

 

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INCAS
 

 

 

Nella religione Inca, il dio del Sole Inti avrebbe incaricato il primo capo della dinastia, Manco Capac84, di trasmettere la conoscenza agli abitanti delle zone montuose delle Ande, l’altopiano peruviano e la vallata di Cuzco, l’antica capitale. Il Dio gli affidò una bacchetta d’oro con la quale segnare sulla terra il punto di nascita dell’impero che raggiunse la sua massima estensione con la sottomissione della regione equadoregna di Quito. Il titolo di ‘Sapa Inca’ (unico Inca) spettava a colui che era al potere in quel momento, rappresentante e discendente della ‘Divinità Suprema’ nel cui pantheon sono inclusi i creatori del sole, della luna, delle stelle, del mare, della terra: “Nessun ladro, nessun pigro, nessun bugiardo” (la dinastia dominò il territorio per diversi secoli: alcuni di loro – crudeli e potenti – sottomisero parecchie tribù confinanti, le stesse che più tardi si allearono con le truppe spagnole). Il sovrano Inca Atahualpa (1500/1533) dopo la morte del padre sconfisse l’erede legittimo Huascar; unificò il paese nel 1532 mentre veniva occupato dalle squadre di Francisco Pizarro: fu da loro catturato e ucciso dopo averlo battezzato ed avergli estorto una grande quantità di preziosi. Le ribellioni delle tribù contro gli spagnoli furono concluse con la repressione dell’ultimo tentativo, condotto da Tupac Amaru nel 1571: l’anno seguente, una spedizione di 40 soldati scelti lo trovò con la moglie attorno ad un bivacco; con varie lusinghe lo trasportarono nella capitale dove fu decapitato.

 

 

Canalizzazione e raccolta delle acque lungo le mura di Tambu Machay presso Cuzco

 

 

I sovrani amerindi (Inca o figli del sole) dovettero abbandonare il potere sulle popolazioni andine ma anche i risultati di una lunga storia: le conoscenze mediche ed astronomiche nonché la tecnica costruttiva delle imponenti opere terrazzate tuttora visibili a Cuzco (Cusco) e Machu Picchu (nella lingua quechua ‘antico picco’)85 sulla cui cima si estendono i resti del Tempio del Sole con una torre cerimoniale usata anche per il calcolo del tempo (è dimostrato che i Maya di Palenque avevano calcolato la durata del mese lunare con estrema precisione: 29,53086 giorni a fronte del valore 29,53086 giorni ottenuto con i moderni sistemi scientifici).

  

   Molti episodi evidenziano l’alterazione degli equilibri del continente per le successive fasi della conquista, dai rapporti tra gli indiani e gli spagnoli, alle lotte per il predominio tra le fazioni dell’una e dell’altra parte, agli odi ancestrali che da sempre seguono il cammino della razza umana. La nascita delle nazioni americane ha – come tante altre civiltà – la prerogativa di attraversare fiumi di sangue con enormi sofferenze sia per i vinti che per i vincitori. Guerre civili e di religione, guerre di conquista e di sterminio indiscriminato, guerre tra padri e figli, guerre nelle quali l’economia è solamente un pretesto per massacrarsi a vicenda e rivoluzioni ricorrenti nel Sudamerica.

 

 

Pietra del sacrificio sullo gnomone della meridiana a Machu Picchu

 

 

Un percorso ininterrotto, una fotocopia di azioni negative che coinvolgono l’intero pianeta. Anche la civiltà Inca non si sottrasse a questo destino: se non fosse stata opera dei Pizzarro, qualche altro cataclisma avrebbe spazzato via le antiche cose, l’organizzazione patriarcale, le costumanze ancestrali e l’economia agricola 86, gravitanti intorno alla capitale Cuzco (‘ombelico’). Anche in questo caso si rimane meravigliati nel ritrovare rovine così imponenti da chiedersi – come per le piramidi egizie, i templi aztechi, la muraglia cinese, le enormi statue dell’isola di Pasqua, l’emiciclo dei monoliti megalitici Stonehenge (costruito intorno al 2.000 a.C. e probabilmente usato come calcolatore astronomico), i monumentali resti greci e romani – potessero essere eretti con sistemi artigianali e con la sola forza delle braccia. Quando lo scrittore inglese Aldous Huxley87 visitò una delle città-tempio trovò il luogo “incomparabilmente magnifico, una situazione stupefacente; gli architetti Zapotechi non furono sconcertati dalle responsabilità artistiche che venivano loro imposte, essi livellarono la cima della collina, tracciarono due enormi patii rettangolari. Pochi architetti hanno posseduto un tale senso di austera e dinamica grandezza, a pochi è stata data mano libera come a loro, non permettendo mai che considerazioni religiose interferissero con la realizzazione di un grande sistema architettonico”. La storia è gonfia di misteri insoluti che probabilmente potranno essere risolti soltanto quando e se potrà essere realizzata la “macchina del tempo”, il marchingegno vagheggiato per ‘essere’ nel passato e nel futuro con le cognizioni contemporanee. Come in molte altre civiltà, il sovrano del Perù era considerato un essere superiore, rappresentante del Sole (una delle molteplici presenze naturali nelle quali i popoli antichi identificavano la fonte della vita). Per evidenziare la sua carica di uomo-dio e per dare come tutti i suoi omologhi (dai faraoni ai sovrani, dagli imperatori ai Papi) maggiore sfarzo al ruolo che incarnava, si abbigliava con oggetti preziosi, manti di piume e diademi che impressionavano il popolo sottomesso. Quando voleva visitare i possedimenti, il lungo corteo dei cortigiani e la ricca portantina portata a spalle (prima dell’avventura spagnola in quella terra i cavalli erano sconosciuti; la loro presenza fu determinante per pareggiare la discrepanza numerica e d’armamento tra le forze opposte nelle battaglie). Solitamente l’Inca viveva in palazzi che ancora oggi – malgrado l’abbandono – lasciano interdetti per la capacità degli architetti e degli operai di allora. Oltre alla precisione nell’assemblare i blocchi di pietra, l’ampiezza degli ambienti interni denunciava il gusto e la completa padronanza tecnica come in altre civiltà antiche. La teocrazia dell’Inca era assoluta: attorniato dalla corte dei nobili e dalla numerosissima figliolanza, rappresentava per la società peruviana (Perù è la storpiatura usata dagli spagnoli di un vocabolo locale) il sovrannaturale. Il vasto Stato, costituito da distretti e da tribù sottomesse, aveva al vertice i governatori il cui operato veniva saltuariamente valutato da apposite commissioni: furto, adulterio, omicidio e offesa alla sacralità dell’Inca da parte dei sudditi erano puniti sbrigativamente con la morte; la ribellione alle autorità di qualche comunità veniva soppressa distruggendo completamente il villaggio e tutti gli abitanti88. Le classi dominanti, dai nobili al clero, dai funzionari di corte all’intoccabile Inca, governavano il paese facendosi mantenere dal lavoro della popolazione. L’ammasso dei prodotti era però equamente suddiviso nei magazzini delle varie province, sotto il severo controllo dei delegati del potere centrale. I sudditi – operai, artigiani e contadini 89 – avevano l’obbligo, con precise cadenze e periodi limitati, di lavorare per le opere di pubblica utilità (in cambio erano mantenuti e avevano la sicurezza di potere accedere ai magazzini dell’Inca nei periodi di carestia, ripieni di mais, tessuti, vasellame, arnesi vari). L’indole della loro razza non li portava ad avere ambizioni, si accontentavano di ciò che la natura e l’Inca concedeva loro perpetuando, generazione dopo generazione, la condizione sociale che avevano trovato alla nascita. I romani sono famosi per i ponti, le strade consolari lastricate e gli acquedotti che li hanno portati a dominare mezzo emisfero ma anche i popoli dell'America latina hanno dovuto ingegnarsi per superare alte vette, burroni, le impenetrabili foreste e gli impetuosi fiumi. L'ambiente malsano del clima tropicale, al quale i nativi erano naturalmente vaccinati, fu uno degli elementi che ritardarono la conquista del nuovo continente ma furono soprattutto le condizioni orografiche a frenare l'espansione degli aggressori bianchi. Le grandi arcate dei moderni viadotti possono essere equiparate agli antichi ponti artigianali sorretti da cavi il cui diametro poteva raggiungere i 30/40 cm. È straordinario constatare che alcuni viadotti – costruiti con materiale vegetale intrecciato – erano lunghi più di 60 metri e fissati solamente alle due estremità del baratro. Non potendo usare elementi rigidi, il vento e la lunghezza dell'unica campata rendevano estremamente precario il passaggio di uomini ed animali, malgrado la presenza di passamani ai lati e tavole di legno al fondo, poiché l'oscillazione aumentava gradatamente più ci si avvicinava al centro che, inevitabilmente, formava una curva marcata. I ponti sospesi e quelli di barche collegavano una rete stradale alla quale gli Incas erano particolarmente attenti con una continua manutenzione: un lavoro immane che contribuì alla formazione ed alla conservazione dell'impero: "le strade erano alcune fra le più utili e meravigliose opere che mai l'uomo abbia realizzato". La Grande Strada o Strada Reale degli Incas lunga 1260 km (“dubito che si abbia memoria di una strada paragonabile a questa, che scenda in valli così profonde, si inerpichi sulle alte montagne, procedendo tra metri di neve, nella roccia viva, superando acquitrini e fiumi turbolenti”) collegava i confini peruviani tra la Colombia al Cile era costruita con estremo ingegno e confermava la tecnica evoluta delle antiche maestranze tanto che nel 1950 gli unici edifici di Cuzco danneggiati dal terremoto furono solamente quelli di età spagnola. Gli itinerari servivano, oltre alla popolazione, anche ai corrieri reali che riuscivano a percorrere in un solo giorno, grazie ai frequenti cambi e punti di sosta, anche 300 km. L'esercito – con 200.000 uomini armati di frecce, lance, asce e corte spade (la polvere da sparo era ancora sconosciuta in Sudamerica) – poteva intervenire con celerità nelle contestazioni tra le varie province o per sottomettere le tribù ribelli all'idolo solare, il cui supremo rappresentante sulla terra era l'Inca coadiuvato dalla potente casta dei sacerdoti. Pur essendo di indole docile e accomodante, il popolo guerreggiava per allargare il proprio territorio ma soprattutto per indurre gli infedeli ad adorare l’unico vero Dio Sole. La grande varietà di idiomi delle tribù sottomesse nell’immenso territorio, rese necessaria amalgamarne forme e vocaboli in modo da potersi intendere con un’unica lingua, usata tuttora e denominata “Quechua” (popolo della vallata calda). Era uno dei tanti sistemi per governare un popolo variegato che l’amministrazione centrale tentava di uniformare per garantirsi da rivolte interne e stroncare eventuali velleità di invasione dai gruppi confinanti. Segreti e misteri si avvicendano nelle epoche storiche, molti dei quali inspiegabili malgrado le moderne tecnologie. Le domande sulla specie umana si susseguono e non possono avere altro che risposte ipotetiche: le antiche culture non hanno avuto la possibilità di trasmettere ai posteri tutte le numerose conoscenze accumulate nei millenni: qualcosa di estremamente importante si è definitivamente dissolto insieme agli ideatori, fossero essi extraterrestri, fossero appartenenti a civiltà evolute che il tempo ha sepolto. Le enormi tracce sul terreno nel deserto di Nazca, situate ai margini dell’Oceano Pacifico nel triangolo Lima-Cuzco-Titicaca, insieme a tessuti e ceramiche sono la testimonianza di una civiltà preincaica: animali e figure geometriche (geoglifi) occupano un’area di 520 kmq. e sono tanto vaste che per averne una visione d’insieme necessita alzarsi in volo. Su questa raccolta di immensi disegni sono state formulate – dal XX secolo – numerose teorie, ognuna delle quali plausibile ma fondamentalmente non provata scientificamente. Un cronista dell’epoca racconta un importante rito relativo all’uomo d’oro che “... alla laguna di Guatavita – nei dintorni di Bogotà con il moderno Museo de Oro – rendeva offerte e sacrifici al demone adorato come un dio. Costruita un’imbarcazione e caricata con uomini e donne sontuosamente abbigliate, cosparsero l’erede al trono di polvere d’oro, lo portarono in mezzo alla laguna e scaricarono nell’acqua una grande quantità di preziosi tra lo stridore di trombe e canti degli spettatori rimasti sulla riva ... con questa cerimonia El Dorado diveniva Re della regione: la cerimonia si concludeva con l’immersione del nuovo signore fino a quando la scintillante polvere che lo ricopriva si scioglieva nell’acqua”. Nei secoli successivi la ricerca dei tesori dell’Eldorado fu lo scopo di esploratori ed avventurieri attratti da un mito che sembra intramontabile. Solamente alcuni oggetti di finissima fattura e quindi realizzati da abilissimi artigiani sono stati ritrovati: tra essi uno smeraldo grande come “un uovo di gallina”. Il paese di Vilcabamba, la cui ubicazione è incerta, è considerato l’ultimo rifugio degli Incas e quindi il luogo dell’esecuzione di Tupac Amaru per ordine del Viceré spagnolo. È ritenuto la roccaforte di ambedue le forze in campo: per l’Inca la possibilità della riscossa, per gli spagnoli il baluardo finale della conquista del territorio e l’ulteriore saccheggio. Leggenda o cronache perdute? Quando nel XX secolo gli archeologi andarono in Perù per riscoprire le rovine rimaste, il nome di Vilcabamba fu abbinato a Machu Picchu e Esperitu Pampa: il passaggio del tempo propone soltanto interrogativi. La predominante egida dell’astro solare non impedì ai peruviani di comporre una dottrina adattata alle esigenze ed alle influenze della società nella quale dovevano convivere insieme a superstizioni, usanze e consuetudini radicate con la diversificazione di casta. La loro catechesi comprendeva la persistenza dell’anima nell’aldilà, il significato di azione buona e azione cattiva con relativo premio e castigo, la salvaguardia del corpo con la mummificazione (similmente agli egizi, ponevano accanto alla salma gli arnesi usati nel corso dell’esistenza terrena; in molte occasioni sacrificavano spose e servi per ribadire al defunto il proseguimento della vita). Un disegno sottilmente politico tuttavia permetteva la convivenza ‘ecumenica’ tra le varie credenze, tanto da affardellare – sotto l’ente supremo, il Sole, per la cui venerazione venivano impegnate enormi sostanze e una quantità incalcolabile di cuori strappati alle vittime designate – la quantità di idoli delle tribù sottomesse: ciò garantiva il potere centrale da eventuali contrasti religiosi tra le varie comunità (lo sterminato pantheon dottrinale dell’India ne è l’esempio più appariscente: guerre e scaramucce si susseguono – con le inevitabili influenze della ragion di stato – a causa delle differenze di intendere riti e costumanze). Il Tuono, il Fulmine, la stella Venere, l’Arcobaleno, la pioggia, gli alberi e le montagne erano altrettanti monumenti alla loro fede, tangibilmente espressi nei templi del lago Titicaca, di Cuzco e di quelli disseminati nel territorio. Al culmine del prestigio Inca, queste testimonianze – nascoste poi dalla lussureggiante vegetazione – potevano essere accostate allo splendore architettonico e civile delle antiche dinastie egiziane, assai distanti nel tempo e nello spazio ma originate dalla medesima creatività. La bramosia dei conquistadores immiserì la ricchezza artistica e sacra dei grandi templi riducendoli a vuote carcasse, diventate tanto più miserande per l’asportazione – come successe al rivestimento della piramide di Cheope, prelevato per costruire una parte della città del Cairo – dei blocchi che ne costituivano l’ossatura. Come nelle altre civiltà, anche il governo del Perù aveva il gruppo dominante (nobiltà e clero) che imperava su una grandissima quantità di gente. La sottomissione era sopportata e forse anche gradita per la garanzia data al popolo dall’ammasso di cibo stipato nei magazzini agricoli sparpagliati nel paese, dall’accuratezza nella distribuzione dell’acqua (simili ai famosi acquedotti romani) e la difesa delle comunità dalle aggressioni di tribù esterne al tipo di società basato su una cultura prettamente agricola e tessile (merinos, lama, vigogna, guanaco). Gli artigiani avevano acquisito una particolare abilità nel modellare vasellame d’oro o d’argento, ritrovato copioso nelle tombe e ognuno svolgeva il proprio compito sotto l’implacabile sorveglianza degli intendenti dell’Inca: un equilibrio che sarà distrutto dall’equivoco di avere scambiato lo sparuto numero di spagnoli con corazze e cavalli come messaggeri degli dèi e quindi superiori al potere dello stesso loro sovrano. Una particolarità rendeva dittatoriale il rapporto tra il popolo e l’autorità suprema: ogni decisione doveva passare sotto le forche caudine di un’amministrazione che, se da una parte provvedeva al benessere dei sudditi, dall’altra impediva loro la libertà anche nelle cose più personali come scegliere la moglie, cambiare la residenza, divertirsi e vestirsi in modo diverso da quello deciso dalla legge. La popolazione era assoggettata agli ordini dell’Inca e dei sacerdoti sia nella realizzazione delle opere pubbliche sia per l’approvvigionamento dei magazzini, sia per partecipare attivamente contro eventuali sommosse di villaggi rissosi. Ciononostante, questa civiltà con migliaia di persone e con una cultura antica basata su regole di predominio, dapprima fu distrutta definitivamente da uno sparuto gruppo di europei che agiva in un territorio aspro e sconosciuto sotto il comando del crudele Francisco Pizarro e del socio Almagro (“brutto di faccia, con i lineamenti grossolani, dotato di grande coraggio e tenace”) che lo seguirà più tardi con un altro vascello. La spedizione spagnola verso il Perù nacque sotto cattivi auspici: gli avventurieri furono colpiti da burrasche, soffrirono per la fame e le malattie, faticarono a trovare approdi che permettessero l’inoltro nell’interno paludoso. Pizarro dovette usare tutta la sua autorità ed il suo carattere forgiato da una fanciullezza gonfia di patimenti per tenere insieme quel gruppo di uomini stremati e stimolati solamente dalla prospettiva di future ipotetiche ricchezze. Inoltre il capitano non voleva ritornare a Panamà90 senza avere raggiunto alcun traguardo: lo aspettavano debiti e sarcasmi che il suo orgoglio non avrebbe potuto accettare. Sospinse dunque la gente esasperata avanti, sempre più avanti, con blandizie, promesse e minacce, pagando il suo accanimento con una ventina di morti per inedia. Il paesaggio intanto diventò più accogliente e finalmente trovarono un modesto villaggio che depredarono immediatamente per soddisfare il lungo periodo di digiuno. I pochi indios presenti non osarono ribellarsi all’irruzione straniera ma, purtroppo, esibirono ingenuamente manufatti d’oro, quel metallo per il possesso del quale si sarebbero imbarcati una moltitudine di individui. Gli spagnoli ebbero informazioni – privi di carte topografiche e immersi in foreste inesplorate che davano solo l’angoscia del nulla – su un grande paese al di là delle montagne regnato dal Figlio del Sole. Tornati sulla costa, decisero di continuare il viaggio via terra. Ci furono le prime scaramucce con tribù battagliere che – armate di frecce e giavellotti, i corpi nudi tatuati e penetranti urla di guerra – assalirono il gruppo spagnolo; un momento critico per loro poiché lo stesso Pizarro rischiò di essere catturato e ucciso. Gli uomini delusi e prigionieri della selva, persero parte dell’entusiasmo iniziale davanti alla necessità di prestare assistenza ai feriti e seppellire i morti. Per mascherare la sconfitta, il capo della spedizione rispedì il vascello a Panamà con i manufatti d’oro racimolati, non riuscendo però ad incrociare la caravella che Almagro nel frattempo aveva equipaggiato.

 

   In questa pericolosa situazione si evidenziò lo spirito indomito degli avventurieri, degli esploratori, di tutti coloro che richiamati dall’esotico e dall’ignoto lasciano il paese natio per prendere parte alla storia dell’espansione umana. I due soci – dopo ulteriori traversie – si ritrovarono incrementando così le scorte di cibo e di uomini: inoltre Almagro trovò più oro di Pizarro e ciò li convinse a continuare la ricerca del favoloso Eldorado ma il tentativo di proseguire fu funestato dalla perdita di molti uomini a causa dei boa, degli alligatori, degli attacchi indiani e dei nugoli di zanzare; tra un approdo e l’altro inoltre, il mare infierì sulla spedizione rendendo necessaria una sosta di due settimane su un’isola accogliente. Sembrava l’ingresso ideale a quel regno favoloso che alcuni indios indicavano vagamente oltre la catena dei monti continentali: le vicissitudini di questo viaggio furono comunque il preludio del massacro di una civiltà. Ritornati sulla costa, gli spagnoli videro estese coltivazioni ben tenute che testimoniavano la presenza di una tecnica collaudata, i villaggi diventavano sempre più numerosi ed abitati; i primi approcci furono ostili e la discrepanza di numero tra bianchi e peruviani poteva essere il segno di una precoce sconfitta. Il pericolo incombente fomentò principi di rivolta tra gli equipaggi ma soprattutto tra i due comandanti, pronti a duellare per far valere le proprie idee. Il destino individuale e di una società è gravato da una miriade di incognite che decidono per tutti: ogni minimo gesto si ripercuote all’infinito fino ad alterare l’intero mondo. Anche in questo caso, così come Colombo perse l’occasione di calpestare e guadagnare il suolo sudamericano pur avendone intuito l’esistenza, Pizarro ed i suoi dovettero ringraziare una serie di circostanze per avere scoperto l’impero Inca. Fortuna e tenacia non sarebbero stati sufficienti a fronteggiare guerrieri bellicosi senza un fatto fortuito: sembra che la caduta di uno spagnolo dal proprio cavallo stupì talmente gli indios vedendo rompersi in due una creatura già di per sé fonte di meraviglia da innalzare, nella loro ingenuità, animale e cavaliere al livello degli dèi. La superstizione e la sottomissione alle regole draconiane della classe nobile aprirono agli invasori le porte del misterioso impero. La spedizione, già provata per le avverse condizioni ambientali e gli attriti personali, era anche osteggiata dal governatore di Panamà che spedì l’ordine di evacuare ogni spagnolo superstite. Pizarro non era uomo da rinunciare a ciò che aveva cominciato; diede ai suoi accoliti un aut-aut perentorio, ognuno era libero di tornare e ognuno era libero di seguirlo a sud per realizzare il sogno. Lo sparuto gruppo di fedeli che aveva deciso di rimanere, attese sette mesi su un’isoletta fortunatamente ricca d’acqua dolce prima di vedere un vascello carico di provviste e la possibilità di tornare al porto di partenza, mortificati ma vivi. Il capitano portava un messaggio del governatore che, timoroso delle ripercussioni in patria, dava a Pizarro un limite massimo di sei mesi per concludere l’esplorazione. Una nave e più uomini a disposizione premiarono la fiducia e la costanza di Pizarro che subito dimenticò le sofferenze di quel periodo per concentrarsi esclusivamente sul successo dell’impresa. Bordeggiando, incrociarono una flottiglia di grandi canoe con molti guerrieri che si apprestavano ad attaccare una tribù ribelle: fu il primo incontro positivo tra due civiltà perché finalmente Pizarro incontrò un personaggio di alto lignaggio riconoscibile dai ricchi ornamenti al quale, con qualche difficoltà di interpretazione da parte di alcuni indios che avevano frequentato gli spagnoli, spiegò di essere al servizio di un grande sovrano e soprattutto di una divinità suprema alla quale tutti dovevano sottostare. Il dialogo servì comunque ad ottenere cesti di frutta ricambiati da Pizarro con l’invito a bordo del nobile indio – estremamente incuriosito della nave – ma principalmente a pubblicizzare la presenza dei bianchi in Perù. L’ambasceria spagnola scesa nella vallata di Tumbez non lontana da Quito con spade, archibugi e lucenti armature, si trovò di fronte ad un tempio coperto d’oro e argento, protetto da muraglie e da molti indigeni armati. Accanto sorgeva il gineceo a disposizione dell’Inca e lì furono gli spagnoli a meravigliarsi per la ricchezza e la quantità del nobile metallo usato da abili artigiani per riprodurre fiori e piante da giardino. Levati gli ormeggi, il viaggio proseguì incontrando altre comunità che erano già a conoscenza della presenza spagnola e della loro indole cortese e pacifica. Pizarro si era reso conto di essere ai margini di una civiltà evoluta, regnata da un potente capo indio: voleva dunque arrivare alla capitale con i tesori che senz’altro custodiva però, prima di spingersi oltre, fu convinto dai suoi a ritornare a Panamà dopo diciotto mesi di assenza per organizzare una più poderosa spedizione. Furono accolti da trionfatori ma non trovarono lo stesso entusiasmo nel governatore che si rifiutò di sovvenzionare un’impresa priva di certezze. Decisero dunque di rivolgersi direttamente alla corte reale come aveva fatto Colombo. Nel 1528 Pizarro salpò per recarsi in patria con alcuni indios, lama, stoffe e vasellame d’oro, a testimonianza delle ricchezze del Nuovo Mondo. L’imperatore, già soddisfatto del lavoro di Hernando Cortéz ma bramoso di ampliare i propri confini, diede il proprio assenso al progetto dopo avere ascoltato il parere del Consiglio delle Indie (la prima spedizione era stata completamente pagata da Pizarro e soci, le spese della seconda sarebbero state a carico dei territori occupati). Purtroppo, la burocrazia della corte di Castiglia fece attendere a lungo la stesura di un Capitolato che indicava minuziosamente limiti, funzioni, emolumenti e suddivisione del prevedibile bottino. In un angolo di tutte queste elaborazioni faceva capolino la volontà di conversione dei selvaggi a gloria e rinomanza della cattolicissima Spagna: diventerà uno dei capitoli peggiori della conquista poiché una parte rilevante dei religiosi useranno metodi brutali indegni degli insegnamenti evangelici. È uno dei tanti esempi dei travisati rapporti tra le nazioni cosiddette civili ed i cosiddetti barbari, considerati spesso esseri inferiori soltanto perché la loro cultura è diversa. La religiosità è un mezzo ambiguo per inserirsi nelle società da sottomettere perché si agisce in nome di un ipotetico essere superiore che ognuno identifica a modo suo. Con questa giustificazione, nei millenni si sono susseguite torture, schiavitù, deportazioni, guerre durate decenni e ostilità durate secoli, un comportamento che non onora la razza umana perché abbassa l’intelligenza al livello delle bestie. Ancora una volta una nazione più potente riversò le proprie bramosie su popoli che sarebbero divenuti vassalli fino al completo asservimento. La storia si ripete in ogni epoca con una monotonia negativa e purtroppo i principi etici sui quali sono basate la maggior parte delle Costituzioni sono disattesi.

 

   Nel 1530 Francisco Pizarro ripartì con un vascello seguito da altri due comandati dal fratello Hernando la cui presenza nefasta sarà motivo di dissidio con altri componenti del gruppo, in particolare con il socio veterano Almagro. Cominciò la rapina del territorio: manufatti d’oro, smeraldi e l’arbitraria suddivisione del paese; tutto quanto fu ripartito rigorosamente fra i partecipanti dopo avere accantonato la percentuale dovuta alla Corona di Spagna (chi nascondeva un oggetto del bottino per scopi personali veniva giustiziato). Il rapporto con gli indios era totalmente cambiato dal primo cordiale incontro; diffidenza e paura erano subentrate alla meraviglia ed al rispetto, l’eco di queste razzie precedeva l’avanzare degli spagnoli che, nel frattempo, erano riusciti ad arruolare a Panamà altri uomini attratti dal campionario di preziosi. Cavalli, corazze, spade, moschetti, picche e balestre mietevano vittime e terrore tra i peruviani, impreparati come erano all’improvviso furore degli uomini bianchi. Battaglie, momenti di incertezza si alternavano a periodi di esaltazione, una sosta all’isola di Punà per superare la stagione delle piogge e l’arrivo del Capitano Hernando de Soto (colui che avrebbe scoperto in seguito il Mississippi) con notevoli provviste di uomini e materiali. Stimolato da queste novità, Pizarro si dedicò alla conquista di Tumbez, preludio al completo assoggettamento del Perù.

 

   La dinastia dei Figli del Sole aveva guerreggiato a lungo per ammettere al regno alcune parti degli Stati vicini ma, purtroppo per loro, superstizioni e presagi avrebbero facilitato il crollo dell’Impero; la voce di una razza superiore (uomini barbuti sopra animali molto veloci) che stava invadendo l’altopiano della Cordigliera si espandeva tra la gente creando sconforto e voglia di ribellione. Le sofferenze per la conquista del nuovo continente si sarebbero sommate alle stragi passate e future evidenziando la lettera scarlatta incisa nel DNA umano. Memori delle antiche profezie che prevedevano la scomparsa del sacro ultimo Inca (Tupac Amaru fu decapitato nel 1572 sulla piazza di Cuzco dopo avere assistito all’atroce supplizio della moglie squartata da quattro cavalli), il popolo peruviano durante la conquista fu lacerato tra vecchia e nuova cultura, tra vetuste rivalità tribali, tra alleanze e tradimenti, tra ambiguità generate dalle presenza di un misterioso Dio universale e di un altrettanto misterioso potente re della lontana terra misteriosa; erano sopraffatti anche dalla contrapposizione delle melliflue parole degli uomini barbuti e una massima tramandata dalla tradizione india, concetto comune a molte società, riassume il rapporto con il potere: “La scienza non è destinata al popolo ma a chi è di sangue nobile. Le persone di bassa estrazione con la scienza si gonfiano diventando vanitose ed arroganti; non devono interessarsi al governo del paese perché le alte cariche andrebbero in discredito provocando un danno allo Stato”.

 

   La meta di Pizarro era Cuzco per incontrare l’Inca Atahuallpa: poche centinaia di spagnoli avrebbero attraversato la Cordigliera delle Ande91 tra migliaia di guerrieri indigeni, lontani da ogni possibilità di aiuto o di fuga. Un’impresa temeraria “per la causa di Dio e del Re” seguendo un percorso molto aspro squarciato da baratri. Era il 1532 quando per la prima volta il gruppo di armati incontrò a Caxamalca92 il Re incaico. L’ambasceria fu estremamente impressionata dalla moltitudine di tende bianche all’esterno della città, ordinate e colme di guerrieri, una premessa non incoraggiante per gli scarsi europei. Fu ancora l’indomito Pizarro ad elaborare un piano per colmare la differenza di forze: fare prigioniero con l’inganno lo stesso Inca – autorità suprema – e conseguentemente sottomettere al suo dominio l’intero popolo. Nella convinzione di riuscire a riunire sotto l’insegna della Croce migliaia di ‘selvaggi’ – dimenticando la loro natura di rapaci avventurieri – gli spagnoli prepararono la trappola invitando l’Inca a cena nei loro alloggiamenti. Sicuro di avere alle spalle migliaia di guerrieri, peccando di ingenuità e presunzione nei confronti degli uomini barbuti, si ammanettò da solo insieme ai più alti dignitari entrando nella città riccamente abbigliato e assiso sul trono d’oro della portantina, accompagnato da una massa di sudditi guerrieri e nobili. Il lungo corteo si ammassò nel grande cortile, accolto solo da un frate domenicano che, inspiegabilmente, iniziò una lunga predica spiegando i misteri della Trinità e del sacrificio di Cristo. La magniloquenza del frate, cappellano del comandante, scese a cose più terrene e pratiche quando parlò del Papa di Roma e del Re di Spagna. Come e quanto della predica fosse entrato nel cervello dell’Inca – nella traduzione approssimativa di alcuni nativi che avevano frequentato gli europei – non si può sapere ma forse dalle parole trapelò il concetto che qualcosa o qualcuno volesse sottomettere l’inviolabilità della tradizione. La furibonda reazione a questa affermazione incitò gli spagnoli nascosti all’azione: improvvisamente il caos riempì il piazzale principale con scariche di moschetteria e falconetti, cariche della cavalleria che aprivano vasti varchi tra la folla dei guerrieri indigeni, panico contagioso e probabilmente mancanza di coordinazione tra gli indios. Atahuallpa cadde dal suo trono d’oro, attorniato e legato, confuso e ancora inconsapevole di avere perso il regno in poco meno di un’ora di battaglia tra migliaia di suoi sudditi e poche centinaia di uomini bianchi. Incarcerato e ben sorvegliato l’Inca, razziato sistematicamente ogni genere di preziosi, svuotati i magazzini colmi di stoffe raffinate, assegnati gli indios al servizio dei soldati, rinforzata parte della muraglia per resistere ad eventuali tentativi di contrattacco esterno, Pizarro cominciò a pianificare l’avanzata verso Cuzco dopo avere inviato una relazione delle sue imprese a Panamà con la speranza di ricevere rinforzi in uomini ed armi. In quel periodo era in atto una lotta dinastica per il potere tra Atahuallpa ed il fratello Huascar, sconfitto tempo prima sul campo e da allora imprigionato. Atahuallpa temeva che il consanguineo corrompesse i suoi carcerieri e si mettesse alla testa di un esercito per spodestarlo e diventare lui il ‘figlio del sole’ ufficiale. Il pensiero lo tormentava e quindi, avendo ormai compreso perfettamente che agli spagnoli interessavano i preziosi più della religione e del potere, Atahuallpa offrì loro – in cambio della libertà – un vasto locale da riempire di manufatti d’oro da prelevare nei templi e nei palazzi di Cuzco. Un atteggiamento che riconferma quale preponderanza abbia nell’animo umano l’istinto maligno: l’Inca comprò una parvenza di libertà personale completandola con l’assassinio del fratello Huascar, scomoda e pericolosa presenza. Pur attorniato dalla truppa spagnola, soprintendeva agli affari pubblici, alla gestione della nobiltà, alla numerosissima servitù ed al vasto gineceo. Intanto un gruppo di conquistadores – resi più sicuri dal totale dominio sull’indiscusso capo indio – fu inviato ad incontrare i notabili delle varie comunità sulla strada imperiale che conduceva alla capitale peruviana. La sterminata influenza del ‘figlio del sole’ fece accogliere con rispetto ed omaggio le poche decine di armati in missione. Gli abitanti di Cuzco contribuirono notevolmente a soddisfare l’ordine dell’Inca accumulando materiali pregiati per farlo liberare. Soggetti alla sua influenza, accontentarono gli spagnoli in ogni loro desiderio, ripagati però da un atteggiamento arrogante fino a sentirsi componenti di una razza superiore. Intanto Pizarro era stato raggiunto da Almagro con un paio di centinaia di armati, utile aiuto per la completa invasione del paese ma le reciproche gelosie e recriminazioni dei capitani e delle truppe prevalsero su una ordinata pianificazione: intanto tutti reclamarono la loro parte del tesoro raccolto – rifuso in lingotti – con le inevitabili discussioni. Malgrado la ricchezza depredata, le voci di una possibile rivolta india decisero il destino di Atahuallpa: un processo-farsa portò l’imputato (29 agosto 1533) – previa l’imposizione del battesimo – ad essere giustiziato sulla piazza per strangolamento93. La notizia – diffusasi celermente per la capillare organizzazione dei corrieri – portò disordine e confusione in ogni angolo del paese e in ogni ordine sociale. Scomparso l’idolo al quale tutti volgevano lo sguardo per qualunque faccenda e insieme a lui la struttura piramidale del governo, l’anarchia si sparse come un’onda anomala. Cominciarono le province più lontane, sottomesse a suo tempo con la forza, si estese alle singole comunità e divenne aperta rivoluzione contro le autorità che rappresentavano la figura dell’onnipotente ‘figlio del sole’. Pizarro, comprendendo di avere sbagliato tagliando il cordone ombelicale che collegava la società nelle sue varie componenti, decise di mettere sul trono vacante l’erede dinastico Manco. Naturalmente, al di là della forma posticcia del nuovo monarca, il potere rimase interamente in mano ai cinquecento spagnoli che ormai pensavano solamente a depredare la capitale: il variopinto corteo si mosse seguendo il percorso della grande Strada Reale94 costruita con perizia nel corso dei secoli sui baratri delle Cordigliere. Non fu un viaggio facile sia per gli ostacoli naturali sia per i continui attacchi di gruppi indigeni condotti dai capi delle varie comunità. Entrarono nella grande città accolti dagli abitanti e dalla mole delle due costruzioni più importanti: il Tempio dedicato al Sole e la formidabile fortezza sull’altura. Malgrado i severi ordini di Pizarro, gli accoliti violarono case, templi e sepolcri arrivando all’abominio della tortura pur di ottenere sempre più oro e argento. L’eccesso della ricchezza spronò il gioco d’azzardo con le fatali conseguenze e l’aumento incontrollabile dei prezzi, dalle scarpe, alle spade, dal vino ai cavalli. L’economia millenaria di quella civiltà era stravolta dalla legge della domanda e dell’offerta, Pizarro fu nominato Governatore, i frati domenicani ebbero il loro Vescovo nella persona di Padre Valverde, alcuni spagnoli formarono il nucleo amministrativo di un paese che assumeva sempre più le caratteristiche europee per la costante immigrazione di nuovi coloni. I missionari si inserirono in ogni strato del paese tentando di spiegare alla massa di idolatri i misteri cristiani: il simbolo della Croce veniva eretto sui vecchi templi e spesso i metodi brutali supplirono alla mancanza di buona volontà di apprendimento degli indios, strettamente avvinti alle antiche tradizioni. Due notizie allarmarono il limitato distaccamento acquartierato a Cuzco; infatti si stavano avvicinando due reparti minacciosi per il predominio di Pizarro. Un forte nucleo di indigeni desiderosi di ripristinare l’antico potere e le soldatesche comandate da Pedro de Alvarado richiamate dalle notizie su favolosi tesori. Pur avendo obiettivi diversi, questi gruppi minacciavano l’egemonia del Governatore vanificando la conquista del territorio. La battaglia contro i nativi rivoltosi fu presto conclusa con la vittoria delle truppe di Almagro e Manco, mentre l’avanzata dal mare a Cuzco di Alvarado fu rallentata dalle difficoltà del percorso e dall’incombente inedia: “l’unica cosa preziosa per loro in quel momento era il cibo”. Le prime vittime furono i cavalli, subito divorati, poi cominciarono a morire fanti e cavalieri fino a ridursi almeno di un quarto. Ancora una volta le Cordigliere tentavano di difendere i loro segreti e le popolazioni autoctone. Tuttavia i gruppi di Almagro e Alvarado, per una serie di circostanze fortuite, si incontrarono rivendicando, ognuno, la primigenia della scoperta del ricco impero. La diatriba avrebbe potuto concludersi solo con l’uso delle armi se il buon senso e la consapevolezza di essere su un territorio infido non avessero convinto le due parti ad accordarsi. Alvarado e la truppa residua si imbarcarono per ritornare al governatorato guatemalteco (morì nel 1541 schiacciato dalla caduta del cavallo). L’impero peruviano era quasi interamente soggiogato – salvo qualche rimasuglio di resistenza india – e Francisco Pizarro cominciò a lavorare per sistemarne l’amministrazione. Fondò la capitale Lima, in posizione ideale sul mare per i commerci futuri, con la grande piazza contornata dai massicci edifici della cattedrale, di numerosi palazzi pubblici e rifornita di acqua dal vicino fiume con opportune canalizzazioni in pietra. Nel 1534 inviò a Siviglia il socio Almagro (poiché tra i due predominavano sfiducia e invidia, gli affiancò il fratello Hernando per controllarne il comportamento) con il quinto dei preziosi dovuti per contratto all’imperatore Carlo V. Consapevole dell’importanza della conquista che prometteva lauti profitti, affascinato dai resoconti edulcorati di Hernando Pizarro, l’imperatore concesse ai condottieri maggiori possibilità di manovra ampliando i confini stabiliti nel primo contratto notarile. Molti spagnoli entusiasti partirono verso il magnifico sogno, verso quella terra che stava per diventare una colonia ma che, ancora, opponeva notevoli difficoltà di percorso e di rifornimento. Il numero dei componenti la spedizione si ridusse notevolmente per malattia e carestia, per rinuncia di fronte ad avversità che sembravano insuperabili e per il raffreddamento dell’iniziale esaltazione. È il prezzo da pagare per ogni conquista: “Credevano di scovare l’oro e invece dovettero scavarsi la fossa”. Gli unici che raggiunsero Cuczo furono quelli che seguirono Hernando Pizarro attraverso l’istmo di Panamà. Nel frattempo, la politica dei conquistadores nei confronti dei peruviani si stava facendo implacabile: la proprietà privata era costantemente violata, le fazioni di Francisco Pizarro e di Diego de Almagro polemizzavano sulle rispettive competenze concesse dalla Corona. Da Lima il governatore tornò a Cuczo per dirimere le controversie: si accordò con l’antico socio ribadendo le solenni promesse di reciproco rispetto sulle spettanze economiche e territoriali previste nell’ultimo soggiorno in patria. I due leader divisero poi gli obiettivi da raggiungere: il primo si dedicò al completamento della nuova capitale95 con idee di grande magnificenza e fondò nuovi insediamenti sulla costa dell’Oceano Pacifico, il secondo si diresse verso il Cile96 con ampie speranze di ricchezza e autonomia; un’avventura che sarebbe costata tremende sofferenze sia agli indigeni angariati dalle truppe sia agli stessi spagnoli che si trovarono a dover fronteggiare la fame ed il gelo dei passi montani con conseguenze mortali. Iniziò il periodo più torbido nella conquista spagnola delle Americhe. Fino a quel momento le popolazioni indigene avevano accettato supinamente le prepotenze straniere, anche le più ignobili. L’Inca Manco tentò la fuga ma fu ricondotto prigioniero a Cuczo; mellifluamente, approfittò dell’amicizia simulata con Hernando Pizarro per farsi rilasciare promettendo di rivelare il nascondiglio segreto di una statua d’oro. Questa volta ricomparve solamente al comando di un esercito che si batteva con grande determinazione assediando la capitale con nugoli di guerrieri. La lunga battaglia ingaggiata tra le due parti meriterebbe un enorme affresco o un grande arazzo come quelli esposti nei musei di tutto il mondo; anche se fossero cosparsi di manciate retoriche, le cronache riportate ne avvalorano la sanguinosa grandiosità. Poche centinaia di conquistadores – con qualche migliaio di indios diventati nel frattempo loro alleati per il contrasto con il millenario potere centrale – erano attorniate da una miriade di nativi che tentarono di distruggere la città con le frecce incendiarie. Le poche notizie che provenivano dall’esterno riportavano la tragedia di una rivolta che coinvolgeva l’intero Perù. L’Inca guidava le truppe con le strategie assorbite dai suoi carcerieri, montando abilmente il cavallo bardato e tronfio per la corazza sottratta; era ridiventato il capo a cui guardare e per il quale sacrificare la vita. Intanto, nuove ambascerie giunte dalla Corona con decreti che stabilivano precisi confini d’influenza amministrativa, fomentarono dissensi tra i vari capi – che già pativano di invidie reciproche – desiderosi di ampliare, ognuno, il potere personale. I risentimenti sfociarono in combattimenti tra le fazioni di Almagro, Alvarado e il governatore Francisco Pizarro ancora impegnato a Lima. Però il tempo era passato ed i capi soffrivano di debilitazioni dovute alle fatiche ed agli eccessi di vite costantemente in pericolo. Inoltre molti altri spagnoli erano arrivati sospinti da sogni di gloria e di ricchezza promessi dal nuovo continente; tutti ambivano a rapide scorrerie che permettessero loro di tornare in patria più ricchi e rispettati e il momento non era il più propizio per le lotte in corso tra compatrioti: il 26 aprile 1538, nei pressi di Cuzco, fanteria e cavalleria spagnole – costituite da soldati di varia estrazione e spesso passati da un campo all’altro – si fronteggiarono guidate rispettivamente da Hernando Pizarro e da Almagro. Le alture intorno erano ripiene di spettatori incuriositi e ambedue i gruppi prima della battaglia si preoccuparono di partecipare alla Messa – estrema ipocrisia – implorando lo stesso Dio cristiano di dare la vittoria. Guerre civili, rivoluzioni, vendette personali hanno lasciato nella storia scie di sangue fraterno come quello di Caino ed Abele. Il campo dello scontro, durato quasi due ore e con poche centinaia di contendenti, fu invaso dagli indios che spogliarono morti e feriti spagnoli, nemici acerrimi del loro antico popolo. La fazione soccombente fu trascinata a Cuzco e il loro capo Almagro, già malato, fu incatenato e rinchiuso dove aveva imprigionato i fratelli Pizarro, suoi vecchi soci. Tra gli spagnoli ricominciarono le faide famigliari, gli sguardi pieni di odio e di bramosia per i tesori nascosti. Compito di Hernando, in attesa dell’arrivo del governatore da Lima, era quello di sedare le risse e di concedere la rapina di tutto quanto era rimasto a Cuzco. Anche la sorte di Almagro era segnata: marchiato da colpe vere o false, nel processo a cui non gli fu permesso di assistere, questo soldato coraggioso e generoso fu condannato a morte da una giuria faziosa con il diffuso uso spagnolo della garrota. La Corona, informata degli avvenimenti e delle conquiste territoriali, accolse il ritorno di Hernando con qualche diffidenza: dopo una serie di incertezze, le testimonianze a lui contrarie lo fecero rinchiudere per venti anni in un fortilizio. Si difese con reiterati procedimenti legali ma la sua situazione non migliorò: malgrado una vita debilitante e le immense ricchezze accatastate, sembra che raggiunse – eccezionalmente per l’epoca – la veneranda età di un secolo. Arrogante e vendicativo, coraggioso e ambizioso, rispettato dal fratello minore Francisco, pagò duramente le nefandezze che distribuì equamente tra amici e nemici diventando – in un certo senso – il simbolo dei conquistadores, persone sempre in bilico tra potere e tragedia, meritevoli di un dramma shakespeiriano. Le notizie provenienti dal nuovo continente parlavano di anarchia totale – di brutalità inumane – e Francisco Pizarro, nonostante i suoi meriti, cadde sotto la lente sempre sospettosa degli alti dignitari e dei cortigiani che agivano in nome della Corte. Per indagare sul suo operato fu deciso di inviare il giudice reale Vaca de Castro, tanto più che ormai gli insediamenti dei coloni europei, con conseguenti prepotenze sugli indios usati come schiavi, si erano moltiplicati sull’intero territorio. Intanto i partigiani di Almagro – impoveriti e disprezzati per una disastrosa spedizione nelle terre cilene – cospiravano contro l’autorità del governatore: alcune voci davano disperso in mare il giudice reale e ciò li incitò a pianificare l’omicidio del conquistatore del Perù e fondatore di Lima, sia per i latenti sentimenti di rivalsa sia per ottenere più libertà d’azione. Al grido di “Viva il re, morte al tiranno” penetrarono nella sala da pranzo del palazzo dove una ventina di convenuti erano riuniti. La maggior parte di loro si precipitò verso porte e finestre per sottrarsi al mortale assalto mentre Pizarro – incredulo di quella temerarietà e dopo essersi battuto con vigore malgrado l’età – finì a terra tradito e trafitto come Giulio Cesare. Fu inumato di nascosto fino al 1607 quando gli fu reso onore con una ricca tomba nella cattedrale. Le fazioni continuarono a fronteggiarsi con ogni mezzo per ottenere il potere sul paese e l’arrivo – dopo un viaggio molto lungo e spossante – del giudice Vaca de Castro non riuscì, malgrado possedesse credenziali ufficiali, a tamponare le evidenti discrepanze. Giunse in Perù completamente ignaro della situazione, dell’uccisione del governatore, delle diatribe personali tra i vari comandanti, degli indios diventati schiavi, privo di una forza armata che lo sostenesse in un territorio sconosciuto. Eppure, il suo naturale carattere positivo e l’autorità indiscutibile del decreto reale, lo assicurò nel suo nuovo ruolo che, presto, fu comunicato ai maggiori insediamenti. I ribelli spagnoli comunque non desistevano dai progetti sediziosi continuando a razziare armi, cavalli, preziosi e vettovaglie con l’intento di opporsi alla nuova autorità, pur avendo ben presente il grave pericolo di mettersi contro la Corona con le relative ferali conseguenze. Anche con l’aiuto dell’Inca Manco, il giovane figlio di Almagro – che nel frattempo aveva fatto trucidare il pericoloso rivale Alvarado – riuscì a formare un agguerrito piccolo esercito che intendeva contrapporre alle truppe di Vaca de Castro, ormai insediato a Lima: vole va rivendicare l’egemonia sul territorio della Nuova Toledo lasciatogli in eredità dal padre. A questo scopo, prima di ricorrere alle armi, inviò a Lima un messaggio nel quale esprimeva le proprie rimostranze. Non avendo ottenuto alcuna risposta, Almagro uscì da Cuzco nel 1542 con l’artiglieria pesante, duecento cavalieri e altri trecento veterani avvezzi alle alabarde ed agli archibugi. Vaca de Castro poteva disporre di settecento uomini e ad un nuovo messaggio di Almagro si degnò di rispondere assicurando il perdono previa la consegna dei diretti assassini di Pizarro. Nessuna delle parti voleva cedere e al calar del sole iniziò una battaglia tra compatrioti che si concluse al buio con circa trecento caduti. La fazione del giovane Almagro fu distrutta: i superstiti fuggiaschi furono catturati, esiliati, condannati a morte o al taglio di alcune estremità del corpo. Coloro che erano rimasti sul campo di battaglia – morti o feriti gravi – diventarono preda degli indios - spettatori che si impossessarono di ogni oggetto sparso sul terreno o sui corpi degli odiati spagnoli. Almagro fu condotto al patibolo accusato di tradimento: chiese solamente di essere sepolto accanto alle spoglie del padre. I conquistadores erano per la maggior parte avventurieri attratti da facili prede. L’antica civiltà peruviana al tramonto, soggiogata dalla prepotente presenza di lestofanti che, malgrado qualche timido tentativo di convivenza, perseguivano una politica di aggressione. Vaca de Castro si dimostrò sempre pronto a mediare e si dimostrò capace in campo politico, amministrativo e militare ma notizie negative giunsero alla corte dell’imperatore Carlo V. Tornato ad occuparsi delle colonie, che nel frattempo si erano estese, ricevette dal vescovo domenicano Bartolomé de las Casas97 una relazione dettagliata che tentava di fare un quadro della situazione peruviana con particolare attenzione alla precaria condizione dei nativi. A Lima fu costituito un nuovo Consiglio reale, un nuovo tribunale e soprattutto fu inviato un vicerè con l’autorità derivatagli da una serie di ordinanze pubblicate a Madrid nel 1543, normative che privarono i coloni dell’ampia libertà d’azione alla quale era adusi poiché si ritenevano legittimati dalla conquista. Subentrò un periodo turbolento al limite della rivoluzione, specialmente per la liberazione degli schiavi, sottratti ai coloni dal vicerè Blasco Nuñez Vela.

 

Agire esclusivamente per riguardo agli interessi del re, delle Indie e soprattutto del Perù”: con queste intenzioni Pizarro – richiamato da molteplici petizioni – riunì un numeroso gruppo di armati e uscì da Cuczo per incontrare il viceré a Lima: depredò anche le casse reali, denaro pubblico, per sostenere le spese di una spedizione ufficialmente pacifica98. Invece di quietarsi, il paese era tuttora in fermento: partigiani di una parte disertavano per passare all’altra e viceversa in base ai personali interessi, spagnoli contro spagnoli e indios contro gli invasori; il vicerè, che avrebbe dovuto sanzionare una struttura governativa continuativa, tronfio e sospettoso, fece incarcerare il suo predecessore insieme a numerosi nobili. Consapevole però del pericolo incombente, inviò alcuni messi a Gonzalo con l’assicurazione di una completa amnistia. I messaggeri ritornarono con risposte negative e quindi Blasco Nuñez Vela preparò Lima al confronto armato con i ribelli di Cuczo ma proprio per il suo carattere impulsivo e aggressivo cominciò il rapido declino: già inviso a molti e soprattutto ai componenti del Consiglio decise la propria sorte assassinando personalmente uno dei membri con l’accusa di sedizione. I componenti del Consiglio assunsero i poteri e lo rispedirono in Spagna per essere processato: una carriera breve che ricalcava quella di molti altri compagni che in quella terra si consideravano padroni senza rispetto per i diritti altrui. Gonzalo Pizarro, entrato nella capitale con 1200 soldati e qualche migliaio di indios, fu proclamato Governatore in attesa delle decisioni reali, assumendosi responsabilità che probabilmente non avrebbero avuto il benestare di Madrid. Relegò Vaca de Castro a bordo di una nave che improvvisamente scomparve dal porto con la prua verso la Spagna, arrestò molti di coloro che lo avevano contrastato, emise condanne a morte, organizzò l’esercito e diede ai suoi fedeli le cariche più importanti in modo che tutto il paese fosse strettamente sorvegliato. Sulla scena riapparve brevemente il vicerè Blasco Nuñez Vela per riprendere quel potere che gli aveva assegnato il decreto reale. Con molte sofferenze come ai tempi iniziali della conquista, arrivò con la truppa sfinita a Quito, inseguito dall’inviperito Gonzalo, ormai considerato un traditore anche se quasi benvoluto dalla popolazione. Per settimane i due gruppi si cercarono finché cominciò l’ennesima carneficina perché “noi combattiamo per la causa del diritto, è la causa di Dio” (il Dio sconosciuto è sempre citato per scusare i comportamenti umani). Comprendendo che quella battaglia avrebbe deciso lo sfruttamento di una terra ricca, il combattimento si protrasse tra fratelli furenti, aizzato dall’orgoglio tipico della gente spagnola: fanteria e cavalleria del vicerè furono soverchiate dagli archibugieri di Gonzalo, morti e feriti giacevano nel sangue ed episodi di inumana crudeltà si rinnovarono fino al calar del sole. Cominciò allora la caccia dei superstiti nascosti nelle chiese di Quito, prelevati e subito giustiziati dalle truppe di Pizarro, acclamato come “principe vittorioso”.

 

   Nella prospettiva che si era venuta a creare in Perù, il consigliere a lui più vicino – Carbajal – gli suggerì di staccarsi dalla Corona e diventare padrone incontrastato del territorio, con l’aiuto anche di nozze politiche con una nobile rappresentante Inca. Intanto, notizie contrastanti giungevano in Spagna creando confusione nelle decisioni da prendere per rafforzare la conquista e lo sfruttamento intensivo della colonia. Tra le altre novità ci fu l’arrivo di Vaca de Castro, subito imprigionato perché preceduto da maligne insinuazioni sul suo governatorato (dodici anni di detenzione prima di essere completamente assolto e reintegrato nel rango che gli competeva). Anche se la rotta per le Americhe era tracciata, le comunicazioni tra i due continenti erano ancora scarse ma soprattutto arrivavano con ritardi eccessivi. Nel 1545 il consiglio reale si riunì per affrontare l’aperta ribellione di Gonzalo Pizarro. Si comprese subito che non era facile trasferire truppe nel lontano continente e quindi si optò per un accomodamento diplomatico offrendo la grazia reale a tutti coloro che fossero ritornati sotto lo scettro di Carlo V e del figlio Filippo II99. Per questa delicata missione fu scelto l’ecclesiastico castigliano Pedro de la Gasca che alle spalle aveva notevole esperienza militare e teologica, capacità conciliative e la massima reputazione presso la Corte (fu anche imparziale e avveduto membro del Consiglio dell’Inquisizione). Pur essendo una persona umile, la sua esperienza nelle varie contese lo aveva convinto a rivolgersi direttamente all’imperatore per chiedergli ampi poteri nel risolvere la questione peruviana. Carlo V – consapevole dell’estrema difficoltà della missione – aderì incondizionatamente a tutte le richieste di Pedro de la Gasca – rilasciandogli addirittura lettere in bianco autenticate con il sigillo reale da redigere per evenienze particolari. I primi atti ‘politici’ di questo palesemente dimesso uomo di chiesa accompagnato da pochi altri, furono diretti ai ribelli di Gonzalo Pizzarro ricordando loro la piena sovranità della Corona sulle colonie. Partirono missive per incontrare le autorità del paese e soprattutto alla comunità Domenicana, diffusa nei centri maggiori. Domiciliato a Panamà, Pedro de la Gasca, attese per mesi risposte che soltanto Gonzalo – che godeva a Lima di una vita principesca, servito, riverito e adulato – avrebbe potuto decidere. Probabilmente i legami con le sue origini non si erano atrofizzate completamente e il rispetto nonché il timore verso la dinastia della Corte Spagnola allignava nel suo intimo, gratificato dalla posizione acquisita ma anche dalla consapevolezza di doversi confrontare con la Patria. Si decise alla contromossa per assicurarsi la benevolenza delle Corona: inviò un’ambasceria a Panamà per farla poi proseguire per l’Europa ma successe un fatto imprevisto. L’incontro e la conversazione tra uno dei più fedeli di Gonzalo con l’inviato reale, si concluse facendo recedere l’incaricato da ogni tentativo di sopraffare le argomentazioni di Pedro de la Gasca: comprese che dietro l’umiltà di quel prelato era in agguato la potenza spagnola che, se fosse scesa in campo, avrebbe fagocitato in poco tempo il regno fittizio del testardo Pizarro, dittatore assoluto malgrado le numerose defezioni di compatrioti e malgrado gli avvertimenti che gli giungevano dal rappresentante reale. Comprese comunque di essersi troppo compromesso (aveva addirittura fatto coniare una moneta propria) e perciò decise di lasciare il Perù e dirigersi nella zona del lago Titicaca100.

 

   Il 26 ottobre 1547 si arrivò inevitabilmente al confronto: da una parte le forze reali con un migliaio di uomini bene armati guidati da Centeno, ex commilitone dei Pizarro, (il cronista Pedro de Cieza ne parla come di un “gentiluomo piccolo di statura, con la barba rossa, non molto generoso con il suo denaro ma pronto a dissipare il quinto dovuto al suo Re”), dall’altra poco meno di cinquecento (la maggior parte archibugieri addestrati da Carbajal) con la cavalleria trascinata dallo stesso Gonzalo. É la cronaca monotona anche se crudele di una delle tante battaglie combattute dalla nostra razza, con le relative sofferenze e spietatezze con l’aggravante di una guerra tra conterranei in una terra rubata. Soddisfatto della vittoria sul campo ottenuta per la maggiore esperienza dei suoi soldati, Gonzalo, baldanzoso per la sconfitta inflitta alle truppe reali, decise di stabilirsi a Cuczo. Gasca, sgomento per le notizie pervenute, riprese l’abituale energia, rianimò i superstiti e inviò un distaccamento a smontare i cannoni delle navi all’ormeggio per trasportarli al campo. Era deciso a superare la sierra innevata appena le condizioni del tempo lo avrebbero permesso, un provvedimento saggio che permise ai feriti di risanarsi, di accogliere il ritorno dal Cile di Valdivia con la sua truppa (“gli era più gradito vedere lui anziché un rinforzo di ottocento uomini”) e l’adesione di molti indecisi che avevano compreso da quale parte stava la vera autorità. Nel 1548, dopo tre mesi di inattività, le soldatesche (quasi 2000 uomini) si diressero verso Cuczo superando le tremende difficoltà del percorso montano, compreso l’attraversamento di fiumi che – per la loro impetuosità – necessitarono di essere scavalcati dai ponti sospesi, costruiti ex novo perché quelli originali erano stati distrutti. Incominciò la disfatta: i soldati di Gonzalo – già indecisi per l’incalzare delle notizie – di fronte alla forza reale si dispersero, alcuni si affidarono alla clemenza della Corona, gli alleati indios furono i primi ad abbandonare il campo per non combattere a favore di coloro che li vessavano, lo stesso comandante, consegnò la spada a Gasca tentando di difendere il proprio operato rivendicando la conquista del Perù da parte del fratello Francisco. Pedro de la Gasca lo accolse con freddezza accusandolo dell’assassinio del vicerè e di avere abusato dei poteri che la Corte gli aveva concesso: ne rispettò comunque il rango ordinando una prigionia stretta ma dignitosa. Anche il fedele orgoglioso Carbajal si consegnò a Centeno chiudendo in questo modo il cerchio di un tracollo che donò alle truppe reali le vettovaglie immagazzinate a Cuczo, cibo del quale avevano estremamente bisogno. In quelle circostanze la giustizia si muoveva rapidamente: il giorno seguente fu istruito il processo che condannò Gonzalo (42 anni dediti all’ambizione) alla decapitazione e Carbajal ad essere squartato (84 anni, molti dei quali intrisi di sangue). Il primo si avviò al patibolo riccamente abbigliato come usava fare, il secondo con il ghigno sarcastico che lo aveva sempre contraddistinto. I vincitori reclamarono la loro parte di bottino e Gasca si ritirò tre mesi per stilare un elenco dei meritevoli e dei relativi compensi: diede incarico all’arcivescovo di renderlo pubblico rendendosi conto che le sue decisioni avrebbero suscitato invidie e malumori. A Lima si preoccupò di lenire i pesanti disagi degli indios in servizio presso i coloni che li consideravano bestie da lavoro. La saggezza che aveva dimostrato nell’amministrare e nel conciliare le fazioni di una colonia in rivolta – senza profitti personali – fu ricompensata al momento della partenza dalla presenza di numerosi cacicchi e coloni che insistevano per regalargli un consistente quantitativo di oro e argento. Nella sua cristallina onestà, rifiutò i doni convinto di avere agito solamente nell’interesse della Corona ma caricò la nave con il quantitativo dovuto al tesoro spagnolo. All’inizio del 1550 salpò dal nuovo continente per arrivare, dopo quattro anni di assenza, al porto di Siviglia. Nuove manifestazioni di stima ed affetto per questo ecclesiastico che, malgrado l’aspetto dimesso, aveva saputo affrontare le feroci diatribe di una società turbolenta. L’imperatore Carlo V, assillato da problemi politici, militari ed economici, convocò subito Gasca per congratularsi personalmente con un funzionario così raro nella storia delle nazioni. Le casse reali furono rimpinzate dal carico prezioso delle navi, Gasca, nominato vescovo (morì nel 1567), fu sempre consultato dal governo sulle questioni che continuavano a scuotere i territori sottomessi. Fortunatamente il suo incarico in Perù fu ricoperto da viceré che proseguirono la strategia dell’equità verso i connazionali e verso i nativi (soprattutto contenendo il lavoro coatto), ripulendo per quanto possibile il paese dalla feccia dei primi conquistadores e tentando di conciliare le varie componenti di una società sovvertita101.

 

   Il compimento della storia dell’antico impero vede la morte dell’Inca Manco II, da tempo nascosto nelle foreste con 80.000 uomini: da lì faceva sortite assalendo i convogli spagnoli per equipaggiare con viveri, armi e cavalli il suo esercito che sempre più apprendeva le tattiche della guerriglia, affiancati da tribù che odiavano gli Incas. Alcune circostanze banali, malintesi e reciproche garanzie (tra l’altro il manoscritto spagnolo delle “Nuove Leggi” che poteva costituire la premessa per una pace duratura) furono il preambolo per l’assassinio di Manco – subito vendicato trucidando i colpevoli – le cui insegne saranno portate diversi anni dopo dal battagliero figlio Titu Cusi Yupanqui. Consapevoli di un pericoloso ritorno alle sanguinose lotte per il predominio, il viceré inviò un unico uomo (frate Diego Rodriguez) in missione parlamentare con l’offerta che se Titu Cusi e le sue truppe fossero usciti dai loro inaccessibili rifugi avrebbero ottenuto l’egemonia su diverse zone ed un ricco appannaggio. All’incontro tra le parti – inframmezzato da un lungo e pericoloso viaggio del frate sorretto soltanto dalla fede – seguirono discussioni interminabili sulla bilancia delle colpe alterne: il frate addebitò all’Inca i massacri e chiese il permesso di svolgere opera missionaria, la fazione peruviana rispose con un sintetico pericoloso “lo dovremmo mangiare subito”. Non avendo ottenuto alcun risultato, frate Diego ripercorse amareggiato il cammino che lo aveva portato entusiasta all’interno del paese. Nel 1566, il tentativo di soggiogare i ribelli venne ripetuto da altri frati ma il destino decise con asprezza: Titu Cusi Yupanqui morì all’improvviso e per questo fu accusato il Dio cristiano, i frati furono uccisi così come una delegazione spagnola che stava portando il consenso alle condizioni richieste dai capi peruviani. Il nuovo Inca Tupac Amaru apprese dalle spie che gli spagnoli di Cuzco – irritati dal continuo pericolo – si preparavano ad attaccarlo: nel 1572 fu sorpreso insieme ai capitani e l’aspra battaglia tra la catena montuosa si concluse davanti al viceré. Incatenato alle mura di Cuzco e condannato a morte, il giorno dell’esecuzione l’Inca venne crudelmente costretto ad assistere allo squartamento102 pubblico della propria sposa. Come avviene ogni volta che la morbosità si insinua nella folla, tutti gli spazi della Plaza Mayor erano gremiti di curiosi, ansiosi di assistere al macabro rito. La testa cadde al primo colpo di mannaia: venne mostrata, grondante sangue e al suono delle campane nelle varie chiese della città, agli spettatori peruviani e spagnoli, religiosi compresi. La storia recente del Perù è caratterizzata dagli interventi del capitale nordamericano, il 74% degli abitanti risiede nelle città: la Cordigliera delle Ande (altezze tra i 2.000 e 5.000 metri, con la cima più elevata a 6.768) scoraggia gli insediamenti. Le catene montuose scendono gradatamente verso le basse terre amazzoniche, il mare. La metà dei peruviani vive sotto la soglia di povertà malgrado l’autosufficienza dei gruppi familiari dediti alla coltivazione di mais, orzo, patate, ortaggi e all’allevamento di lama, alpaca, bovini e pollame. Solamente sulla costa sono diffuse colture come la canna da zucchero, cotone, agrumi, frutta, cacao, caffé. Il patrimonio forestale, quello minerario e la pesca (le acque dell’Oceano Pacifico, tra le più pescose del mondo), sono ricchezze potenziali non completamene sfruttate per l’eredità negativa del colonialismo, per le disastrose politiche governative. L’alta percentuale di crescita demografica e le tensioni interne per i contrasti sociali tra le varie classi103.

 

 

 

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MAYA
 

 

 

Calendario Maya

 

 

L’astro che genera vita è citato nella religione Maya come una delle tante manifestazioni palesi (“il dio del sole e del cielo, il signore con il sole in fronte, dio del tuono e della pioggia”). Per prepararsi alle cerimonie più importanti i Maya dovevano osservare il digiuno, astenersi dai rapporti sessuali e confessare i peccati, comportamenti comuni ad altre religioni di una civiltà fiorita nel IV secolo. Uno dei riti ricorrenti nelle feste segnalate era quello del sacrificio di animali e talvolta di vite umane. Il loro calendario era suddiviso in 18 mesi di 20 giorni ognuno: il primo era denominato ‘bisogno di acque’, il secondo ‘disossamento degli uomini’. In questo periodo, per sedici giorni, si svolgevano cerimonie e processioni con sacerdoti che danzavano avvolti nelle pelli delle vittime sacrificate agli dèi nel corso delle cerimonie propiziatorie. Purtroppo, a causa dello zelo parossistico degli spagnoli nel voler imporre ad una antica civiltà il cattolicesimo, i libri e la cultura Maya sono state distrutte dai roghi (solamente tre testi sacri originali sono arrivati nelle biblioteche europee a disposizione degli studiosi). Proprio come sarebbe successo molti secoli dopo, quando i nazisti si accanirono sull’ebraismo, anche la conquista dell’America pagò un alto prezzo con vite umane e con preziosi codici che avrebbero aiutato gli studiosi a ricostruire le tradizioni delle antiche civiltà. Numerosi frati si erano dedicati alla decifrazione dei geroglifici ma, contrariamente alla storia delle dinastie faraoniche sufficientemente ricostruite, le nozioni Maya-Aztechi-Inca furono quasi dimenticate e difficili da raccogliere cronologicamente. Lo Yucatan è uno dei 31 Stati del Messico situato nell’omonima penisola, con quasi due milioni di abitanti. Prima dell’invasione spagnola, era una delle regioni più prospere dell’Impero Maya che tuttora esprime la propria tipicità con i mastodontici resti archeologici risalenti a oltre 3.000 anni fa. Lo Stato è uno degli ultimi territori assorbiti dalla Repubblica messicana. Durante la presidenza di José Porfirio Diaz (1830/1915) che si avvalse di metodi dittatoriali ma nello stesso tempo favorì la modernizzazione economica, lo Yucatan fu diviso in 106 comuni. Diaz fu soppiantato nel 1911 dalla rivoluzione liberale di Francisco Indalecio Madero (1873/1915), che ricoprì la carica di presidente fino al suo assassinio.

 

   Dagli albori dell’umanità, tutti i gruppi sociali hanno voluto imbrigliare la misura astratta del tempo104. Il calendario (dal latino calendarium, ovvero libro di credito i cui interessi scadevano il primo giorno di ogni mese, denominato ‘calende’, giorno sacro a Giunone, dagli antichi romani) ha il compito di suddividere il tempo – attraverso l’osservazione dei fenomeni astronomici – in sezioni codificate generalmente su base annua. L’espressione scherzosa ‘rimandare alle calende greche’ – dapprima riferita soltanto alle scadenze economiche – ha ancora oggi il significato di rinviare le cose da fare a tempo indeterminato: infatti il calendario greco non prevedeva le calende; ‘Calendimaggio’ è il primo giorno di maggio, celebrato nei secoli passati dal folclore europeo con feste e canti per festeggiare il ritorno della primavera, a Firenze si eleggeva la Regina della Primavera, culti agrari e riti magici avevano lo scopo di favorire la fecondità vegetale, animale ed umana. In Francia, dal periodo post Rivoluzione fino al 1805, i mesi furono ribattezzati con nomi legati alle caratteristiche naturali: vendemmiaio, brumaio e frimaio per l’autunno; nevoso, piovoso e ventoso per l’inverno; germinale, floreale e pratile per la primavera; messidoro, fruttidoro e termidoro per l’estate. Elaborato da un membro della Convenzione, il calendario repubblicano divideva l’anno in dodici mesi di 30 giorni, più 5/6 giorni complementari a compensazione. Ogni mese era diviso in decadi e l’inizio dell’anno era fissato alla mezzanotte del 22 settembre. Gli orologiai francesi costruirono nuovi orologi per uniformarsi alla legge del 1793 che suddivideva il giorno in 10 ore, ognuna delle quali durava il doppio di quelle abituali. Il calendario repubblicano durò soltanto pochi anni perché lo stesso Imperatore si lamentò delle innovazioni che creavano confusioni e malintesi anche a livello internazionale. Il calendario della civiltà Maya precolombiana, basato sull’anno solare di 365 giorni, doveva essere corretto periodicamente per annullare le differenze tra anno ufficiale e quello astronomico. Complicatissimo nel simbolismo per le forti influenze religiose e rituali (anno sacro di 260 giorni), contemplava periodi lunghi (144.000 giorni) e periodi brevi (quotidianità e coltivazione del mais).

 

   Originariamente il calendario romano era composto da dieci mesi, come si deduce dalle radici latine degli ultimi quattro: septem, octo, novem, decem e iniziava dal mese di marzo. Il nostro calendario deriva da quello romano attribuito a Numa Pompilio: 12 mesi per 355 giorni. Al tempo di Giulio Cesare il calendario ufficiale era in anticipo di circa 90 giorni rispetto all’anno tropico. Nel 46 a.C. il calendario giuliano introdusse l’anno bis sexto o bisestile, adottato a Roma e osservato da tutta la cristianità fino al 1582 quando Papa Gregorio XIII lo riformò ulteriormente in base ad un progetto di Luigi Lilio e sottoposto all’approvazione di matematici di tutto il mondo: è quello tuttora in uso e non avrà bisogno di modifiche ancora per molti secoli (a Giulio Cesare e Augusto furono dedicati i mesi ‘iulius’ e ‘augustus’). La società multimediale tende ad uniformare le varie culture, talvolta agli antipodi proprio per le loro diverse origini, ma non può cancellarne le tradizioni. L’anno 2000, per esempio, è l’attuale convenzione più adottata nei rapporti tra gli uomini per ragioni di praticità. Tuttavia non bisogna dimenticare che il tempo frazionato ha altre misure: i cinesi festeggiano l’anno del Drago 4698, per i buddisti l’inizio del nuovo millennio corrisponde al loro 2544, i calendari degli antichi Maya ed egizi contano rispettivamente 5119 e 6236 anni, in base a computi di carattere religioso o leggendario. Il calendario gregoriano fu accettato dai paesi praticanti la religione greco-ortodossa soltanto dopo il 1917: “Il 25 febbraio 1582, a conclusione dei lavori di una commissione formata da scienziati ed ecclesiastici, papa Gregorio XIII emise la bolla Inter gravissimas che, oltre a stabilire le regole del nuovo sistema, imponeva l’abolizione di dieci giorni, dal 5 al 14 ottobre, per ricondurre l’equinozio primaverile al 21 marzo”. Meridiane solari, orologi ad acqua e clessidre, orologi meccanici, a pendolo o a bilanciere, al quarzo e atomici: un complesso arsenale di marchingegni ideati e messi a punto per organizzare spazi di tempo predeterminati. La clessidra ad acqua di Amenofi III ritrovata nel 1904 in Egitto (datata 1400 a.C.) sfruttava una inclinazione di 70º: ciò permetteva al liquido nel cilindro di alabastro di uscire in modo omogeneo da un foro; le decorazioni rappresentano i momenti fondamentali per l’economia agricola regolata dalle inondazioni del Nilo: semina e raccolto. I Bizantini calcolavano gli intervalli di tempo con orologi ad accensione (combustione di olio, ceri, ecc.). I Cinesi usavano candele sulle quali venivano incise tacche ad intervalli regolari solitamente di un’ora che, consumandosi lo stoppino, liberavano una cordicella collegata ad una campana. I Romani classificarono gli spazi di tempo per le necessità della loro società: il giorno naturale (dies naturalis), quello civile (dies civilis), quello militare e quello astronomico. In epoca imperiale usarono meridiane monumentali e portatili oppure clessidre a polvere (o sabbia) per segnare un tempo omogeneo e ripetitivo. La civiltà cristiana introdusse le ore canoniche: le campane scandivano le sette divisioni del giorno (dal mattutino alla compieta) ed erano regolate sulle meridiane che segnavano l’ora locale. Il Medioevo cristiano occidentale ideò la clessidra meccanica, l’orologio a mercurio, gli orologi lignei e l’astrolabio (antico strumento utilizzato per misurare l’angolatura del Sole rispetto all’orizzonte, usato per studi astronomici e dai naviganti per fare il punto (sostituito poi dal sestante). Le meridiane furono impiegate nella misurazione del tempo fino al Seicento; successivamente servirono per controllare gli orologi meccanici ancora imprecisi. Esempi di meridiane solari molto note si trovano a Genova nella Cattedrale di San Lorenzo (il cosiddetto ‘arrotino’) e la traccia di bronzo incastrata sul pavimento all’ingresso del Duomo di Milano. A Roma l’obelisco prelevato dall’imperatore Augusto in Egitto ed innalzato in piazza Montecitorio nel 1792, ha la funzione dello gnomone ossia quella di indicare l’ora tramite la direzione e la lunghezza della sua stessa ombra sulle tracce segnate a terra. Sono state costruite meridiane da tavolo, ad anello, tascabili di legno munite di bussola per l’orientamento, altre su piani inclinati, verticali e orizzontali. La loro impostazione – ovvero disegnare le linee orarie e le relative correzioni per i mutamenti stagionali in base alla posizione – richiede calcoli matematici, strumenti astronomici e una grande abilità (gli Arabi raggiunsero un alto grado di precisione tecnica nella costruzione sia di meridiane che di astrolabi). Molte meridiane parietali sono state realizzate con notevoli ambizioni artistiche ed architettoniche, spesso con risultati cromatici e figurativi molto belli.

 

   Gli Aztechi adottarono un calendario diviso in 18 mesi di 20 giorni ognuno. Il primo era denominato ‘bisogno di acque’, il secondo ‘disossamento degli uomini’: in questo periodo, per sedici giorni, si svolgevano cerimonie e processioni con sacerdoti che danzavano avvolti nelle pelli delle vittime sacrificate agli dèi nel corso di riti propiziatori. Quello musulmano è basato esclusivamente sul moto della luna, quello ebraico fa coincidere i mesi con le lunazioni e le stagioni. L’anno greco era formato da dodici mesi lunari, alternativamente di 29/30 giorni, 354 giorni complessivi con evidenti scompensi in rapporto al moto solare. I calendari solari confrontano la durata dell'anno civile o legale con quella dell’anno ‘tropico’, ovvero l’intervallo di tempo fra due passaggi consecutivi del Sole ad uno stesso equinozio. Nell’Antico Egitto il giorno era suddiviso in 24 ore, il mese in 30 giorni e l’anno in 12 mesi ma la differenza tra i 365 giorni fissi calcolati e la durata reale dell'anno tropico portava ad una divergenza tra il calendario civile – in vigore per quasi tre millenni – ed i fenomeni astronomici e naturali (l’inizio del calendario coincideva con le cicliche inondazioni del Nilo, alternanze strettamente legate alle stagioni della ‘raccolta’ e quindi essenziali per l’economia di tutto il paese). I Maya facevano risalire l’inizio della loro storia a circa 3 millenni a.C. La classe sacerdotale dominante aveva identificato i solstizi studiando gli astri e riuscendo ad approntare un computo del tempo tra i più precisi: 365 giorni come i calendari giuliano (Giulio Cesare) e gregoriano (Gregorio XIII) ma la cadenza dei mesi era l’occasione di orge di misticismo pagano. Le vittime designate erano le protagoniste di riti tanto cruenti da diventare perversione collettiva. Nella storia delle società si presentano spesso questi fenomeni, sinergie tra intelligenza e animalità, flagelli che hanno apportato sofferenze inaudite: nord e sud, est ed ovest, il cancro del male è universale. Dopo il Concilio Lateranense IV (1215) che stabilì la repressione dell'eresia, nel 1231 Gregorio IX istituì tribunali presieduti da religiosi domenicani o francescani. La Santa Inquisizione doveva accertare con l'interrogatorio la colpevolezza dell'accusato; se rifiutava di confessare veniva consegnato al braccio secolare con conseguenti torture fino al rogo 'purificatore'. In Spagna l'Inquisizione fu introdotta da Sisto IV nel 1478 in seguito alla richiesta della coppia regnante Ferdinando e Isabella. Il frate Tomàs de Torquemada (1420/1498) sovrintendeva con inflessibile durezza ai procedimenti giudiziari. Leggendo gli atti processuali dell’epoca si evince un’efferatezza talmente inumana da diventare follia. Tra le migliaia di vittime di questo infame procedimento rientra anche il frate agostiniano e poeta spagnolo Luis de Leòn (1527/1591), inquisito per avere tradotto e commentato il "Cantico dei cantici", rimanendo fedele all'originale ebraico tratto dall'Antico Testamento.

 

   Il contrappunto morale si evidenzia nella constatazione che i conquistadores consideravano barbare le usanze dei nativi ma nello stesso tempo depredavano con ferocia e cupidigia tutto quanto avesse valore, incuranti di ogni insegnamento evangelico: "Ho visto anche degli oggetti portati al Sovrano dalla nuova Terra dell'Oro ... un sole tutto d'oro del diametro di sei piedi e una luna tutta d'argento". I giovani spagnoli erano convinti che "la ricchezza doveva essere conquistata con i saccheggi, con il gioco d'azzardo o con lo sfruttamento di grandi possedimenti lavorati dagli schiavi". Trattavano gli indiani con disprezzo e per convertirli forzatamente al cristianesimo usarono ogni mezzo intriso di crudeltà. Nel 1545 i frati francescani giunsero nella penisola dello Yucatan per dedicarsi a questo compito. Ne arrivarono altri dalla Spagna e tra questi colui che diventerà noto non solo per lo zelo missionario ma anche per i suoi scritti sui costumi dei nativi. Nato nel 1524 nei pressi di Toledo, Diego de Landa divenne presto Padre Guardiano per i meriti acquisiti nelle nuove terre. Il compito primario era quello di istruire catechisti Maya e di opporsi alle vecchie costumanze come i sacrifici umani, i tatuaggi e la schiavitù. Imparò la lingua indigena e riuscì a redigere semplici concetti religiosi per dare più consistenza al lavoro dei confratelli. Le buone intenzioni diventarono però prevaricazioni: i gruppi di indigeni isolati furono obbligati a lasciare le loro attività per riunirsi in monasteri costruiti in modo coatto da loro stessi; in pochi anni malattie e privazioni decimarono quelle popolazioni che lo stesso Landa nei primi tempi ammirava: "Nello Yucatan esistono molti edifici di pietra molto ben tagliata malgrado in questo paese non vi siano metalli". Per una bizzarra dicotomia della sua personalità, mentre da una parte studiava con estrema attenzione i reperti dell’antica civiltà, dall’altra puniva crudelmente chi non seguiva i precetti cattolici.

 

   I segreti dei Maya sarebbero rimasti sepolti per sempre senza gli scritti di Diego de Landa e gli scavi archeologici che, con estrema pazienza, tentano di riallacciare la catena del tempo. Gli accurati resoconti del frate rivelano la strana dicotomia tra l'interesse pignolesco per i costumi indiani, i manufatti d'uso giornaliero, le artistiche sculture ed il fanatismo nel perseguire vere o presunte ‘eresie’: proprio per questo fu richiamato in Spagna per essere processato a sua volta. Un viaggio durato un anno e mezzo, pieno di traversie (naufragio e malattia). L’indagine sul comportamento stigmatizzato per invidie, fu conclusa con l’assoluzione e la nomina nel 1571 vescovo dello Yucatan fino alla morte avvenuta a Merida105 otto anni dopo: sia la 'Relaciòn' che le testimonianze verbali furono dimenticate per diversi secoli. Quando il manoscritto fu ritrovato negli archivi di Madrid, cominciò l'avventura archeologica con la scoperta di Palenque106 i cui monumentali resti, coperti dalla fitta vegetazione, impressionarono i componenti della prima spedizione scientifica. Malgrado l’impegno, le ricerche non furono sufficientemente approfondite e quindi si dovette attendere il XIX secolo per ridare interesse alle regioni dove avevano vissuto molte generazioni di peruviani. L'attività per trasformare i pagani in cristiani incise profondamente nella società politica e religiosa originale; sui templi furono assise le croci, molte opere d'arte idolatre furono distrutte, piramidi e palazzi furono livellati per usare il materiale nei nuovi edifici. Come per il rivestimento delle piramidi egizie di el-Giza, rimosso per le nuove costruzioni a Il Cairo, anche qui i templi furono considerati cave dalle quali prelevare materiale per i nuovi progetti. Molte 'conversioni' erano soltanto apparenti perché per lungo tempo idoli e sacrifici umani sopravvissero alle 'insistenze' dei frati. Nel 1562 si usarono contro di loro gli stessi metodi dell'Inquisizione: tortura con il fuoco e la frusta per sapere i luoghi segreti dove avvenivano i riti 'magici'. Quando venivano trovati codici Maya "poiché non contenevano altro che superstizioni e menzogne, noi li bruciammo". Questo sistema contribuì a fare scomparire in pochi anni una enorme massa di informazioni sul passato di culture che hanno lasciato le testimonianze fatte di pietra, molte delle quali tuttora sepolte nella foresta equatoriale. Anche l'importante lavoro certosino del gesuita Joseph de Acosta – contestato per le contraddizioni riscontrate, malgrado fosse stato un testimone oculare di molti avvenimenti – faticò nella sua 'Historia', scritta alla fine del XVI secolo, a chiarire le vicende degli indiani d'America tanto da ritenerli, in conclusione, "cacciatori selvaggi costretti al nomadismo per carestia o avversità naturali". I molti misteri nascosti nel complesso connubio tempo-spazio hanno legami con le civiltà storicamente più antiche: l’anello di congiunzione tra passato e presente è spesso manipolato – sul metro umano – per fini politici o religiosi; malgrado ciò, dal passato ci pervengono molteplici messaggi, anche se intrisi di ipotesi. Per esempio, cinquemila anni fa furono proprio i Maya – elaboratori di teorie cosmogoniche – a predire una catastrofe planetaria nel terzo millennio, esattamente il 21 dicembre 2012107. Il diluvio universale, riportato dalla Bibbia e da molti altri testi di varia provenienza, potrebbe ripresentarsi in una forma più apocalittica coinvolgendo non solo il nostro pianeta. I motivi di questo spaventoso cataclisma potrebbero essere innescati da molteplici fattori: lo spostamento dell’asse terrestre, il rovesciamento del ciclo naturale caldo-freddo o dei poli, esplosione atomica o demografica, ricorrenti maree o terremoti, eccesso di manipolazione degli elementi chimici. Harmaghedon108 è il nome usato nell’Apocalisse per indicare il luogo dove i re malvagi, alleati della Bestia, si concentreranno nella guerra contro Dio: “Ed essi li radunarono nel luogo che si chiama in ebraico Harmaghedon. Poi il settimo angelo versò la sua coppa nell’aria; e una gran voce uscì dal tempio, dal trono, dicendo: È fatto. E si fecero lampi e voci e tuoni; e ci fu un gran terremoto, tale, che da quando gli uomini sono stati sulla terra, non si ebbe mai terremoto così grande e così forte. E la gran città fu divisa in tre parti, e le città delle nazioni caddero; e Dio si ricordò di Babilonia la grane per darle il calice del vino del furor dell’ira sua. Ed ogni isola fuggì e i monti non furono più trovati. E cadde dal cielo sugli uomini una gragnuola grossa del peso di circa un talento (45 kg.); e gli uomini bestemmiarono Iddio a motivo della piaga della gragnuola; perché la piaga d’essa era grandissima (Apocalisse 16/21). Se è vero che la Bibbia contiene tutta la storia umana con un linguaggio criptato da interpretare, prima dell’Apocalisse le profezie negative vengono tamponate con i riti propiziatori, con i segreti delle alchimie, con l’intersecazione aliena, con l’astrologia di personaggi come Nostradamus109 fino all’avverarsi di “Io faccio nuove tutte le cose” perché sarà “il tempo del crollo totale in cui ogni cosa è perduta”. Dunque, la fine del mondo potrebbe coincidere con l’inizio di un nuovo ciclo. Così come Jean-François Champollion (1790/1832), in seguito al ritrovamento della stele di Rosetta (basalto nero inciso con il testo in tre lingue: geroglifico, demotico, greco110), decifrò la più antica scrittura egizia, i documenti salvati dai roghi fanatici dei conquistadores e soprattutto gli scavi archeologici permisero di riportare alla luce le rovine, le tombe e la lastra di Palenque. Una tomba intatta sotterranea rivelò nel 1952 i suoi tesori: i resti del defunto (un Re chiamato Signore del Sole Pacal, morto nel 683 d.C. all’età di 80 anni) erano contornati da splendidi manufatti di giada ma ciò che più stupì i ricercatori fu la presenza della lastra pesante cinque tonnellate che copriva il sarcofago, con la serie di geroglifici sui bordi. I reperti della civiltà Maya sono stati soffocati per secoli dalla foresta tropicale, eclissando un popolo ed i suoi grandiosi manufatti ma il sito di Palenque – con i disegni simbolici che rappresentano gli elementi fondamentali della vita (acqua, aria, fuoco e terra) scolpiti sulla lastra – ha permesso di risalire, anche se in modo frammentario, ad una civiltà antichissima. Dall’Ottocento gli studiosi ebbero a disposizione fotografie e riproduzioni di iscrizioni originali da decrittare e confrontare con gli scritti del vescovo de Landa nonché con gli importanti Codice di Dresda (tavole per il calcolo delle eclissi) e il Codice di Madrid, il maggiore manoscritto Maya oggi esistente.

 

 

Palenque, Tempio delle Iscrizioni

 

 

Una parte notevole degli edifici pubblici di Palenque è stata scavata, tra gli altri i templi del Rilievo, della Collina, del Sole, della Croce, delle Leggi e soprattutto il Tempio delle Iscrizioni che conserva la cripta con la grande lastra. L’alcade di Valladolid lasciò scritto a proposito del pozzo sacro: “In periodi di siccità i sacerdoti vi gettavano giovani con offerte in oggetti preziosi. I notabili, dopo un periodo di digiuno, vanno in processione al pozzo e tentano di fermare la malasorte buttando alcune donne dell’aristocrazia. Al tramonto calano delle corde per issare le sopravvissute chiedendo loro cosa hanno visto”. A Panuco – a nord di Vera Cruz – venivano bruciati vivi gli sciamani, considerati divinità da sacrificare per il benessere della società111. Due appassionati viaggiatori con alle spalle esperienze di scavo nel Medio Oriente si incontrarono nelle librerie di New York e la comune passione li indusse ad approfondire la storia dei popoli del Messico e del Perù che uno storico aveva sbrigativamente definito “non degni di essere classificati fra quelle nazioni che meritano il nome di civili”. Nel 1839 John Lloyd Stephens e Frederick Catherwood partirono per la colonia britannica del Belize e per l’interno del Continente. Unitisi ad una carovana di mulattieri, incontrarono difficoltà enormi per i sentieri fangosi a picco su profonde voragini, per le cadute e la defezione di alcuni portatori. Uno dei misteri del popolo Maya è l’improvviso abbandono delle residenze tradizionali per spostarsi più a nord fondando nuove città e nuovi templi. Chichén-Itzà112, la capitale Merida fondata da uno degli ufficiali di Cortés intorno al 1542 e Palenque hanno reperti essenziali per lo studio di questa civiltà. I due viaggiatori – combattendo mosche, zecche e una forte forma di malaria per il clima insalubre – fecero le prime rilevazioni topografiche misurando le costruzioni e riproducendo particolari a loro parere interessanti. Una storia particolare riguarda Copàn (centro rituale Maya nell'Honduras), remota e soffocata località che i due americani riuscirono a raggiungere con molti sforzi. Furono così entusiasti di ciò che trovarono da dimenticare anche le vessazioni dei diffidenti padroni delle terre: “Gli strani monumenti sembravano gli spiriti errabondi della razza scomparsa di guardia alle rovine delle loro antiche abitazioni ... Non vi era nulla che potesse essere associato a questo luogo ma l’architettura, la scultura e la pittura – tutte arti che rendono la vita più bella – erano fiorite in questa fittissima foresta; oratori, guerrieri e uomini di stato, ambizione e gloria erano scomparsi e nessuno sapeva dire qualcosa della sua passata esistenza”. Stregati dalle “rovine della città deserta” ebbero l’idea di comperarne la proprietà e di spedire l’intero sito a New York. Il sogno presto abbandonato per le difficoltà dell’impresa non impedì a Catherwood di riprodurre in disegni precisi le numerose steli ed idoli artisticamente scolpiti, a Stephens di raccontare in modo poetico quel mondo nascosto. Anche il nome di Palenque li affascinò a tal punto da sottoporsi ad un altro periglioso viaggio per accamparsi – tra piogge torrenziali e stormi di zanzare – in un enorme palazzo con torre, costituito da grosse mura e diversi cortili. I bassorilievi e le decorazioni sulle pareti rivelavano una manualità e una capacità espressiva moderna. Anche qui il lavoro documentario dei due amici risultò straordinario, soprattutto per la grande esperienza acquisita nei loro vagabondaggi archeologici nel Medio Oriente. Dovettero però fuggire perché la loro salute era minacciata seriamente dal clima venefico di quelle zone. Tornati in patria, realizzarono nel 1841 un diario di viaggio arricchito da oltre ottanta illustrazioni con il titolo “Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatan”. Era il periodo delle grandi esplorazioni e tutto quanto riportava notizie esotiche stimolava la curiosità e l’interesse del pubblico; infatti ne furono vendute 20.000 copie ma l’enorme lavoro di documentazione rischiava di rimanere monco perché fino ad allora la lingua Maya – proprio come per i geroglifici egizi – attendeva lo studioso capace di decifrarla.

 

   Nel 1846 l’abate francese Brasseur de Bourbourg (1814/1873), soggiogato dalla lettura de La conquista del Messico di William Prescott o forse per una naturale predisposizione, si convinse di poter dare un contributo al rinvenimento delle zone archeologiche americane. Si preparò alla missione in maniera pignolesca: sull’argomento consultò la biblioteca vaticana, conobbe alcuni collezionisti con raccolte di libri dedicate al tema, ebbe un incarico presso l’ambasciata francese messicana e con la sua conoscenza dell’inglese, del fiammingo e della madrelingua, molte porte si aprirono permettendogli di consultare fonti a quel momento dimenticate. Partito per il Messico nel 1845, visitò San Salvador, Nicaragua, Guatemala: i contatti ravvicinati e prolungati con i dialetti delle etnie migrate, gli permisero di pubblicare i quattro volumi (2.500 pagine, con teorie spesso non verificate) dell’Histoire des Nations civilisée du Mexique et de l’Amérique centrale. Ritenuto ormai un accademico, superata una malattia per l’impegno profuso, sovvenzionato dal governo francese, si rimise in viaggio per approdare all’importante scoperta delle 142 pagine della Relazione di Diego de Landa relegata e misconosciuta per secoli ed ora nota come Codice di Madrid113. Oltre a questa novità, la corrispondenza di Stephens con William Hickling Prescott114, fu proficua perché lo indussero ad interessarsi approfonditamente della storia sudamericana (per un incidente che lo rese quasi cieco, si dedicò con ferrea volontà alla ricerca dettando il testo al segretario). Avendo mezzi finanziari sufficienti, attivò una fitta rete di collaboratori: da Madrid e Città del Messico i topi di biblioteca gli procurarono una enorme quantità di documenti che gli permisero di produrre – con uno stile avvincente – due testi fondamentali per ritrovare le piste e le gesta dei conquistadores. Intanto, i due soci progettarono un altro viaggio verso Uxmal, località archeologica dello Yucatàn fondata probabilmente nel X secolo, una delle più importanti città Maya (piramide dell’indovino, quadrilatero delle monache, palazzo del governatore). Aggregarono alla spedizione il giovane medico Samuel Cabot e soprattutto il bagaglio era arricchito dal nuovo apparecchio per dagherrotipi, prototipo della tecnica fotografica moderna. L’attività di ricognizione sul sito dovette interrompersi per un nuovo attacco di malaria dovuto ai nugoli di zanzare; i tre esploratori furono ricoverati nei chiostri di un vicino convento, salvati dall’inedia per l’intervento casuale di un frate francescano. Dopo settimane di convalescenza, la spedizione proseguì il percorso fino ad arrivare a Chichén Itzà, estremamente stimolante per le capacità operative del gruppo. La curiosità li spinse a girovagare ancora per completare i rilievi che sarebbero stati raccolti e pubblicati nel 1843 a New York (dopo nove mesi il loro ritorno) con il titolo “Incidents of Travel in Yucatan”: “le pagine dello storico sono tinte di sangue e, viaggiando sulla rossa corrente, appare la politica degli Spagnoli rigida e ferma, più salda e fatale della spada, tesa a sovvertire tutte le istituzioni degli indigeni”. Un epitaffio che conclude sobriamente con efficacia la loro esperienza in America latina: la malaria contratta nel clima nocivo li perseguiterà in tutte le mutevoli attività che l’attivismo e l’entusiasmo li spinse ad intraprendere in patria. Le gravissime conseguenze del morbo portarono alla morte Stephens nel 1852; Catherwood morì due anni dopo per un naufragio. Un’altra personalità importante per il contributo alle future analisi dei siti di interesse archeologico fu un sacerdote. Bernardino de Sahagùn – nato verso il 1500 e deceduto nel 1590 in territorio messicano – concepì un metodo scientifico che raccolse con altri testi religiosi della nazione che lo ospitava. Nel 1529 arrivò con altri confratelli per trasbordare il Messico dalla cultura pagana in quella cristiana. Per una sessantina d’anni s’impegnò nel ruolo di missionario ma, parallelamente, la curiosità lo spinse a studiare la lingua, l’ordinamento sociale e militare di quella terra. L’opera letteraria che ne derivò è il compendio – quasi un’enciclopedia – dell’intero processo storico di una nazione completamente sconosciuta fino a pochi anni prima. Il testo – steso in lingua azteca – dopo anni di oblio e soprattutto salvato dal vescovo di turno che faceva distruggere fanaticamente tutte le nozioni raccolte oralmente presso i numerosi cacicchi, fu continuamente osteggiato anche in patria; finalmente il presidente del ‘Consiglio delle Indie’ comprendendo il valore del manoscritto riuscì a farlo tradurre in lingua spagnola. Il destino del lavoro di questo sacerdote intelligente ed avveduto fu comunque mesto perché morì solo e dimenticato dopo avere subito l’oltraggio di vedere il suo lavoro sabotato dalla censura. Le relazioni originali di Bernardino rividero la luce molti secoli dopo: la stesura bilingue è custodita a Firenze, l’edizione spagnola venne stampata a Londra nel 1830. All’attività di questo religioso si può affiancare quella della monaca carmelitana Juana Ines de la Cruz, nata nel 1651 e morta di peste nel 1695 a Città del Messico. Si investì di una missione, quella di comprendere i sanguinari riti aztechi accostandoli ai torturatori cristiani. Ne fu così sconvolta da mortificare il proprio corpo con pesanti penitenze e offrendo tutti i suoi averi – dono della Corte per il suo impegno religioso – per i poveri angariati indios. Una sua poesia declama: “Rappresento le credenze e le aspi razioni di questi paesi, di questi popoli, con la voce, la fiducia e i pieni poteri degli Indios tutti ... Se ti senti tanto forte perché riuscisti a convertirli, non tentare ora la forza per distoglierli dall’antico uso che essi praticano nel sacrificio”.

 

   Uno studio del 1879 su Chichén Itzà realizzato dall’archeologo dilettante americano Edward Herbert Thompson, narra la riscoperta di questo posto con le ripide scalinate dei templi ornati, dalla cime dei quali trasse l’ispirazione poetica: “Sorse il sole grande, rotondo ... La natura insegnò agli uomini ad adorare il sole e nel profondo del cuore seguirono sempre questo insegnamento”. Nel libro di Diego de Landa aveva trovato una nota che si riferiva al pozzo sacro ‘Cenote’ usato nei periodi delle vacche magre per ingraziarsi le divinità. Sembra che le processioni fossero formate da giovani destinate al sacrificio, contornate dai sacerdoti salmodianti. Venivano gettate vive nella profondità dell’oscuro pozzo, subito seguite da oggetti preziosi. Per lui quella voragine divenne un’ossessione tanto che – alcuni anni più tardi, dopo avere percorso lo Yucatan accumulando esperienza – riuscì ad ottenere in patria i finanziamenti per esplorare il fondo nascosto dall’acqua. Con una draga manovrata a mano dagli uomini che aveva assoldato, Thompson fece diversi tentativi pescando solo resti di animali e di vegetazione mescolati al liquame. Poi, dopo una settimana di tentativi in quel buco largo 50 metri, gli artigli della draga issarono qualche gioiello, utensili, coltelli e uno scheletro di adolescente. Un primo successo che lo convinse ad ingaggiare un palombaro. Si immersero insieme bardati con le pesanti mute nel buio totale riuscendo tuttavia a parlarsi attraverso i vetri dei caschi. Solamente con il tatto i due riuscirono a riportare alla luce statuette votive di giada, lance, resina d’incenso, manufatti d’oro cesellati, importanti conferme dei resoconti di Diego de Landa. Thompson morì nel 1935 dopo quasi mezzo secolo di vita tra gli indigeni, sempre entusiasta del suo lavoro.

 

   I violatori di tombe al tempo degli antichi egizi ed i ladri delle vestigia greche e romane, agirono in modo vandalico anche sui tumuli del Nuovo Mondo facendo perdere agli studiosi importantissimi dettagli per ricostruire la storia delle civiltà precolombiane. Collezionisti e cercatori di tesori saccheggiarono tutto quanto poteva essere trasportato, pubblicizzato indirettamente dalle varie pubblicazioni che affascinavano il pubblico. Il XX secolo apportò modernità ma anche la devastazione di molti siti archeologici: la costruzione di strade e di argini contro le inondazioni, lo sfruttamento sempre più intensivo dei giacimenti petroliferi, gli spostamenti di masse di persone con la necessità di edificare nuove città non impediscono però al turista contemporaneo di ammirare l’eredità di progenitori tuttora enigmatici. L’area centrale Maya fu abbandonata nell’anno 800, probabilmente per l’impoverimento delle aree agricole: gli abitanti emigrarono sugli altipiani e lì rimasero fino all’arrivo degli spagnoli. Villahermosa, capitale dello Stato di Tabasco, conserva il parco archeologico di La Venta fondato negli anni Cinquanta del XX secolo da un collezionista. Raccoglie una trentina di sculture in basalto e la grande piramide, reperti provenienti dall’isola omonima, già capitale degli Olmechi che insieme ai Toltechi furono protagonisti della cultura locale dal 1500 a.C. I Maya saliti dal sud e gli Aztechi discesi dal nord, hanno intrecciato con loro storie e tradizioni, un coagulo di gruppi nomadi che, nel corso dei secoli, si sono mescolati nella nazione messicana115. La scienza archeologica moderna nasce dalle collezioni di reperti che già nell’antichità attirarono la curiosità del ceto colto, un fenomeno diffuso nella società romana dal III secolo a.C. per le opere greche. L’inizio degli scavi nel XVIII secolo a Ercolano e Pompei, la rivelazione della stele di Rosetta e l’apertura della tomba del faraone Tutankhamon fecero affermare una nuova scienza, nel secolo successivo i musei si riempirono di fregi, statue e monumenti sottratti ai siti della Grecia, dell’Egitto, dell’Italia, dell’Oriente. Gli inglesi G.H. Carnavon (1866/1923) e Howard Carter (1873/1939), il francese Gaston Maspéro (1846/1916), l’italiano Ernesto Schiaparèlli (1856/1928) e Heinrich Schliemann (1822/1890) hanno dato un importante contributo all’organica sistemazione delle indagini sul campo: “L’archeologia, specchio che coglie la vita così com’era, costituisce il retaggio visibile delle generazioni scomparse (Ernst Buschor). Le nuove metodologie di scavo, l’analisi chimica e stratigrafica, la fotografia aerea e la ricerca sottomarina hanno dato un notevole impulso ai sistemi artigianali di un tempo; malgrado le inevitabili devastazioni dei siti dovute ai secoli, al passaggio degli eserciti e alla negligenza degli uomini, gli studi apportano nuove cognizioni sul passato. Il punto interrogativo è nascosto nel binomio realtà-verità: la storiografia vuole convincersi di essere nel giusto ma i fatti accaduti sono stati tramandati dalle varie culture, dalle diverse interpretazioni, dalle traduzioni e dalle ricopiature molto spesso ‘guidate’ da interessi politici o religiosi dell’epoca nella quale vengono realizzate. Un secolo dopo l’altro la realtà-verità viene inevitabilmente falsata e tutto quanto noi contemporanei abbiamo tra le mani sono soltanto brandelli della storia così come è accaduta. Il medesimo ragionamento vale per la scoperta e la conquista dell’America: i personaggi, gli effetti, il bene e il male dei comportamenti, i monumenti inneggianti alle vittorie con relativo assoggettamento dei popoli, sono fatalmente ingigantiti e soprattutto intrisi di plagio e retorica. Così le parole, la lingua, assumono un valore diverso per chi scrive e per chi legge in base alle cognizioni personali e al momento in cui si scrive e si legge. Le steli, le lapidi, i sepolcri, i resti delle antiche civiltà sono interpretabili ma spesso enigmatiche. Tutto quanto può essere messo in dubbio, anche se la prospettiva di chi lavora sui dati storici ha un indubbio valore di testimonianza, ma come confermare con certezza che teorie ed invenzioni dei millenni passati siano veri? Si parla di batterie elettriche116, di viaggi intorno alla terra e di automi già nel I sec. a.C., di antibiotici nell’Egitto del III millennio a.C. Scoperte che sono state ricuperate ai tempi nostri dopo secoli di oblio: dimenticanze o brutali distruzioni? Incapacità di valorizzarle oppure semplice cancellazione dovuta ai secoli? Eraclito (540/475 a.C.) teorizzò la relatività; si dovette aspettare Copernico (1473/1543) per avvalorare la tesi di Pitagora (VI sec. a.C.) che la terra è un pianeta; Galileo confermò la presenza delle macchie solari scoperte dai cinesi nel 2000 a.C.; Democrito (460/370 a.C.) intuì che la Via Lattea è un insieme di stelle.117

 

   Intanto Cortéz procedeva nell’intento di esplorare la penisola dello Yucatan per espandere il simbolo della Croce e smantellare le vecchie tradizioni religiose. Nelle nuove zone la truppa spagnola si scontrò con un inaspettato quanto feroce atteggiamento. Ancora una volta archibugi e balestre spaventarono gli indios malgrado la loro grande abilità nell’uso dell’arco: la città di Tabasco fu infine assoggettata anche se gran parte degli abitanti erano scomparsi insieme con i loro averi. Cortéz dichiarò la città suddita del sovrano cattolico e con questa cerimonia ufficiale si tutelò contro eventuali rivendicazioni da parte di altri stati europei. Non fu comunque un’impresa facile per i continui contrattacchi degli indigeni, furiosi per l’ingerenza forzata degli stranieri. Gli spagnoli, infastiditi dalle continue punzecchiature dei nativi, decisero di uscire dalla città e di attaccare il numeroso gruppo dei guerrieri sparsi sulla pianura a poche leghe dalla cinta di legno che proteggeva il centro abitato; nello scontro furioso furono quasi sopraffatti dal numero dei nemici ma la battaglia fu vinta quando in loro aiuto giunse la cavalleria, per i nativi una spaventosa fusione di uomo e animale. Dopo avere soggiogato e ‘redento’ lo Yucatan, gli spagnoli si imbarcarono dirigendosi verso le coste del Messico. Qui cominciò l’avventurosa collaborazione dell’indigena Marina (Malinche) con la spedizione, dapprima interprete/segretaria e infine amante di Cortéz, dalla quale ebbe poi un figlio118. La penetrazione spagnola nel territorio messicano ed i rapporti con l’imperatore Montezuma (Moctheuzoma) vennero facilitati dall’intelligenza di questa donna ma soprattutto dalla condiscendenza dello stesso sovrano. Come sempre, lo stile ipocrita del conquistatore riuscì a sottomettere il popolo azteco – malgrado la ferma difesa dei connazionali da parte di Marina – aprendo vaste brecce nelle antiche credenze idolatre e nella strutturazione sociale. L’attività di Cortéz cominciò ad attuarsi – senza perdere l’occasione di ricerca dell’oro – nel porre le basi per ciò che sarebbe diventata la grande città di Veracruz119. A quel tempo il territorio era malsano per la presenza delle paludi che diffondevano la malaria tra gli europei. I rapporti con gli indigeni furono sanzionati con l’uso del baratto e diventarono forieri di maggiore familiarità quando arrivò all’accampamento un nobile azteco – seguito da numeroso e folcloristico corteo – con il compito di fare da intermediario tra l’imperatore ed il comandante spagnolo. Finalmente – 8 novembre 1519 – avvenne nella capitale Messico l’incontro tra Montezuma II e Cortéz, il primo preceduto da un corteo di nobili sfavillanti di ornamenti preziosi, il secondo seguito da 400 armati e da migliaia di indios Tlascalani, nemici da sempre della civiltà azteca; un testimone oculare lasciò scritto: “Non potrò mai dimenticare quello spettacolo. Ancora dopo tanti anni lo ricordo come se si fosse svolto ieri”. Avvenne il confronto tra due civiltà lontane millenni per le diverse esperienze che avevano creato società agli antipodi nei costumi, nelle culture, nelle regole, negli obiettivi che ogni gruppo si pone. Al solito, allo spagnolo non interessava il fatto storico, non vedeva o non voleva vedere l’inizio di una nuova epoca; l’incontro lo affascinò solamente perché intravide alle spalle di quella maestà venerata dal suo popolo la possibilità di portare in patria – con la copertura della Santa Chiesa120 – le ricchezze e la proprietà del territorio oltre agli indigeni convertiti al cristianesimo: “Amici seguiamo la croce e sotto questo segno – se abbiamo fede – vinceremo”. Comprese subito di trovarsi davanti ad un popolo evoluto, con precisi regolamenti per la convivenza e con principi basilari sui quali ancorare la vita quotidiana.

 

   Una delle ragioni che contribuirono alla distruzione della civiltà azteca fu la scoperta di una porta nascosta da una parete fresca di cemento. Quando gli spagnoli penetrarono senza riguardo nella stanza nascosta, rimasero affascinati dal cumulo di oggetti preziosi costituito da monili, verghe d’oro, opere finemente lavorate da abili artigiani: il tesoro di Montezuma. Cortéz fece prudentemente rinchiudere il varco non osando per il momento risvegliare la collera di migliaia di guerrieri pronti a stroncare qualunque sabo taggio verso il loro imperatore. Fu proprio la sacralità di questa autorità a suggerire allo spagnolo di convincere Montezuma a trasferirsi nel palazzo che lo ospitava: ottenne così di tenerlo in ostaggio, non dichiarato, e di mostrare palesemente la propria forza disponendo la sua cavalleria – temibile per i superstiziosi indios – alle porte della città. Fece anche allestire una cappella dove i padri Dìaz e Olmedo officiarono la santa messa, rito che colpì i pagani per il suo effetto coreografico. Da quel momento la sottomissione di Montezuma divenne totale, irritando notevolmente il suo popolo ancora influenzato da secoli di coesistenza. La prima incrinatura fra le truppe spagnole avvenne in seguito a questo atto e alla conseguente appropriazione dell’intero tesoro; ciò accese la cupidigia dei soldati, subito repressa dal loro capo che intendeva spartire i preziosi in modo equo: una parte spettava alla Corona, un’altra parte avrebbe coperto le spese pagate da Cortéz per l’allestimento della spedizione, un quinto al governatore Velàsquez, una porzione al presidio lasciato a Vera Cruz e ciò che rimaneva, ben poco, da suddividere tra la truppa. Qualche mese dopo al comandante venne comunicato che una flotta con più di mille uomini era in rotta per raggiungerlo e portarlo prigioniero a Cuba su ordine del governatore. Il carattere di Cortéz non fu scalfito dalla notizia, anzi decise di andare incontro – malgrado la disparità di forze – ai compatrioti. Lasciando il capitano Pedro de Alvarado a Messico come guardia del tesoro (un pegno prezioso a salvaguardia di qualunque tipo di disputa) e come custode della fedeltà azteca, il gruppo si avvicinò all’accampamento degli uomini di Velàsquez che, convinti di essere protetti dal furioso temporale, si erano addormentati. La notte di Pentecoste del 1520 fu una vittoria della volontà del condottiero: dopo una breve ma furiosa battaglia, molti dei superstiti si dichiararono disposti a giurare fedeltà al trionfatore che riuscì anche ad impossessarsi di una enorme quantità di armi, fucili, balestre e cannoni. L’esercito spagnolo doveva ora espandere il suo potere all’intero Messico e probabilmente gli aztechi avrebbero accettato la sottomissione politica anche se la ferita all’orgoglio sarebbe stata profonda. Ciò che rese difficile la capitolazione di un antico impero, con tutte le implicazioni che ciò comportava, furono le diverse dottrine religiose, fortemente radicate nei due popoli ma completamente contrapposte. Sacralità e spiritualità sono soverchiate dal desiderio di possesso del potere e del denaro, due delle componenti che hanno procreato disuguaglianza e ingiustizia in tutte le latitudini. La coscienza non ha più, se mai l’ha avuta, la capacità del mea culpa: l’istinto naturale dell'evoluzione che vuole migliorare giorno dopo giorno la condizione della vita, ha portato a eccessi che ci condannano. Il processo che presiede alla formazione delle civiltà, si incrina ogni volta per una serie di immoralità tanto più abnormi quanto più esclusive di una razza che ha il grande dono del raziocinio e della fede, della creatività e della fantasia. Il progresso ha innescato molteplici fattori a rischio, tanto più pericolosi quanto più supportati dall'uso improprio delle scoperte tecnico-scientifiche, dallo squilibrio distributivo delle risorse del pianeta, dall'alternanza conflittuale dei gruppi etnici e religiosi. Inevitabile è l’interconnessione tra religione e filosofia: la prima si basa essenzialmente sulla Fede, la seconda sul Raziocinio: ambedue però hanno il privilegio del Dubbio, peculiarità fondamentale dell’Intelletto.

 

   “Qualsiasi tipo di azione o sentimento ostile provoca una reazione, la quale si accresce e, a sua volta, genera una progenie di violenza e di ingiustizia di straordinaria ferocia” (Bertrand Russell). Perdendo fiducia e gioia e sicurezza, l'individuo affronta gli altri per preservare se stesso: egoisticamente misura la vita sul metro della propria salvezza. Ciò che l'afflato religioso dona, sia vero o falso, è vanificato dalla lacerazione di una società che non sa coagularsi e quindi l'insegnamento dei Profeti è sminuito giorno dopo giorno dalla cattiva volontà e dalla paura che genera sofferenza. Potrebbe essere il dolore ad alterare l'equilibrio del mondo, potrebbero essere l'egoismo e la superbia a far dimenticare l'uguaglianza, potrebbe essere la consapevolezza interiore dell'inanità umana a incitare al male operare, potrebbe essere l'inconscia aspirazione di ogni essere umano all’immortalità a far colpire qualunque cosa si frapponga alla propria volontà. Le occasioni di incontro ecumenico per esponenti di tutte le religioni del mondo ci sono state; la buona volontà concettuale verso la pace e la convivenza ha posto faccia a faccia le dogmatiche più diverse, un unico Dio si identifica in dottrine nate in continenti con alle spalle gestazioni etniche e culturali molto differenti: può questa intenzione risolvere la precarietà morale riposta da millenni nell'individuo, può la sola unità religiosa risolvere i conflitti politici ed economici, può Dio far dimenticare la diversità dialettica dei dogmi e divenire unità per permettere finalmente alla razza umana di condividere la vita e la morte? Essere o avere, essere o apparire, il dubbio e la fede: contrapposizioni che fanno soffrire ma soprattutto innescano la miccia della violenza e della brutalità. Il male è una pulsione che spinge l'essere umano ad interrogarsi, da Caino in poi. La tradizione giudaico-cristiana ha imposto nuove prospettive morali che – dopo il persistente istinto distruttivo della razza e l’accumularsi nel tempo della popolazione mondiale nonché l’acuirsi dei problemi collegati alla convivenza – sono diventate questioni vitali alle quali dare risposta; proprio per questo, prima ancora della nascita della filosofia nell'antica Grecia, gli uomini avevano abbozzato delle teorie attraverso i loro miti cosmogonici. Sappiamo infatti che nelle tradizioni mitologiche di tutto il mondo esiste una netta contrapposizione tra divinità benevole e maligne: “Così, per gli egiziani Osiride si contrappone al dio del male Seth, per il parsismo Ahriman a Mazda, per gli scandinavi ed i germani Loki a Thor”. Le divinità opposte ma unite dal legame bene/male esemplificano il rifiuto del dualismo da parte di queste tradizioni, più propense a considerarle come frutto di una originaria ambivalenza del reale. È comunque nell'antica Grecia, con le definizioni date da Socrate e dagli Stoici che ha avuto origine una vera e propria indagine sull'origine del male. Nel pensiero di Socrate il Bene è il principio primo e “ogni essere che lo conosce, lo cerca e lo insegue, volendo prenderlo e possederlo”: il Male è dunque frutto dell'ignoranza, compiuto cioè da coloro che non riconoscono il Bene, la cui cognizione spinge l'uomo ad essere, anche se i moderni mass-media tendono all’apparire. Quando gli spagnoli ebbero il permesso di salire la lunga gradinata che portava in cima al tempio dedicato ai sacrifici umani, furono raccapricciati dalla vista dei numerosi crani accatastati dopo anni di ritualità barbare. Non fecero alcuno sforzo per paragonare l’usanza abominevole con il rogo delle presunte streghe, le torture e le uccisioni della Santa Inquisizione capeggiata dal frate Torquemada nella loro civile patria. Gli stessi frati al seguito della spedizione, in questa occasione agirono con molta più prudenza della soldataglia, suggerendo a Cortés un atteggiamento ponderato dopo le prime reazioni piuttosto dure. Anche Montezuma si innervosì notevolmente per questo comportamento che implicava oltre tutto l’elevazione di croci sul punto più alto dei numerosi templi. Furono momenti di tensione ma soprattutto fu il confronto fra due civiltà, fra due modi di interpretare la vita e tra due antiche tradizioni. L’immagine spaventosa del Dio Huitzilopochtli che osservava la pietra sacrificale a lui dedicata, inorridì ulteriormente i bianchi che, comunque, riuscirono a convincere gli aztechi a costruire un altare con l’immagine della Vergine Maria. Naturalmente sparirono oro e argento, scopo principale, insieme alla redenzione di questa gente considerata primitiva, causando infine, con queste azioni, la collera dell’intero popolo.

 

   Si rinnovava in quel periodo l’importante festa dedicata a Huitzilopochtli: gli spagnoli, con magnanimità, permisero il raduno previsto obbligando però i partecipanti ad intervenire disarmati e con il divieto assoluto di non effettuare sacrifici umani. Il tragico epilogo si stava per compiere. Quando l’aristocrazia dei fedeli si radunò, incomprensibilmente gli spagnoli perfettamente armati trucidarono la folla indifesa: “il sangue scorreva a torrenti come l’acqua di un violento acquazzone”. Il massacro rovinò inevitabilmente i rapporti tra i due gruppi, quello civilizzato e quello barbaro, tanto che quando Cortés ritornò a Messico trovò il luogotenente Alvarado assediato da una moltitudine di indigeni. Le battaglie si susseguirono senza alcun risultato: fu lo stesso Montezuma a sbloccare la situazione di stallo presentandosi con le insegne imperiali e il corteo dei nobili offrendosi come intermediario per sanare l’intricata questione. Il gruppo di Cortés distrusse mezza città, i nemici tagliarono tutti i ponti per la ritirata e nello stesso tempo (30 giugno 1520) lapidarono il loro capo Montezuma II perché per debolezza si era sottomesso agli stranieri. Cominciò così quella che è comunemente chiamata “noche triste”, preludio al totale asservimento dell’antica civiltà.

 

   Se si pensa che poche centinaia di spagnoli avrebbero dovuto passare attraverso le fitte maglie delle migliaia di guerrieri indios – fortemente motivati a distruggere la piccola truppa – si deve dare atto al coraggio e all’audacia di Cortés se riuscirono nottetempo e in mezzo a una pioggia torrenziale a sgusciare tramite il primo ponte frettolosamente ricostruito. L’odissea della ritirata durò almeno una settimana: le perdite furono ingenti, dagli uomini, ai cavalli, alle armi, agli alleati Tlascalani. Fortunatamente gli inseguitori furono rallentati – anche loro – dalla bramosia; infatti per rendere più celere la fuga, gli spagnoli furono costretti ad abbandonare lungo il percorso moltissimi preziosi ma pesanti manufatti del tesoro sottratto all’impero. Stanchi ed affamati, disillusi, i superstiti si ritrovarono compressi tra due fuochi perché oltre ai guerrieri alle spalle giunsero ad una vasta vallata piena di bellicosi vendicatori. Sembrò la fine della conquista ma, ancora una volta, la spregiudicatezza di Cortéz riesce a superare le avversità. Raggruppa i pochi cavalieri a disposizione e si dirige al galoppo fendendo la folla verso una ricca portantina che trasportava un dignitario, probabilmente il comandante degli indios raccolti nel vallone: lo uccide e gli strappa le insegne del comando. Con questa battaglia la sorte del Messico è decisa malgrado ulteriori tentativi di ribellione, tuttavia “…che tutto ciò sia stato realizzato da un manipolo di indigenti avventurieri ha del miracoloso, senza parallelo nella storia…”.

 

   Ancora oggi questa grande nazione risente delle vicende accadute centinaia di anni fa, pur ignorate dagli storici per molto tempo. Il magma della rivolta verso la diffusa imposta cristianizzazione, verso il sistematico sfruttamento delle miniere e della popolazione formata dal 65% di meticci, ha portato una serie di subbugli politici e guerre civili.

- Massimiliano d’Asburgo (1832/1867): imperatore del Messico dal 1864 fino alla fucilazione dei repubblicani di Juàrez; accettò la corona su iniziativa di Napoleone III.

- José Porfirio Dìaz (1830/1915): dittatore del Messico dal 1876 al 1980 e dal 1884 al 1911; abbattuto dalla rivoluzione liberale di Madero.

- Francisco Indalecio Madero (1873/1913): leader della rivoluzione democratica contro Dìaz, fu presidente della repubblica fino al suo assassinio.

- Emiliano Zapata (1879/1919): esponente della lotta dei braccianti indios per la riforma agraria, ebbe un ruolo decisivo nella rivoluzione di Madero contro Dìaz; continuò la guerriglia insieme a Pancho Villa finché venne assassinato.

- Pancho Villa Doroteo Arango (1887/1923): rivoluzionario con Zapata e Madero; assassinato dopo avere deposto le armi.

- Làzaro Càrdenas (1895/1970): presidente del Messico dal 1934 al 1940; realizzò la riforma agraria e nazionalizzò le industrie petrolifere.

- Marcos M. Guillén: guerrigliero nato nel 1958, a capo dal 1994 del movimento antigovernativo degli indios di Chiapas, di ispirazione zapatista.

- Garcìa Benito Pablo Juàrez (1806/1872); presidente liberale del Messico dal 1861 alla morte, considerato il padre della nazione; guidò la resistenza contro Massimiliano d’Asburgo.

- L’eroe venezuelano Simòn Bolìvar (“Libertador”), generale e uomo politico (Caracas 1783/1830), figlio di una famiglia spagnola, ricca ma non nobile, aiutò nel 1810 la rivolta verso gli eredi dei conquistadores: “per il Dio dei miei genitori, giuro per loro, per il mio onore e per la Patria che non darò pace al mio braccio né riposo alla mia anima finché non avrò spezzato le catene che ci opprimono”. Così scrisse in Italia durante un lungo viaggio in Europa, influenzato anche dalle nuove idee dell’illuminismo messe a confronto con la realtà del suo paese in mano alla minoranza bianca che sfruttava indios e territorio. La guerriglia che organizzò con truppe anche mercenarie, subì contraccolpi ma poi ottenne l’unione di Venezuela, Colombia, Ecuador. Ne divenne presidente con l’intesa di lasciare l’incarico al termine delle guerre. Proclamato Libertador, proseguì verso l’antica capitale peruviana Quito. Però in una delle sue ultime lettere confessò: “Ho governato per 20 anni e non ho ottenuto che pochi risultati certi; ho compreso che l’America è ingovernabile per noi nativi, colui che serve una rivoluzione sta arando nel mare, l’unica cosa che si può fare in America è emigrare, questo paese cadrà inevitabilmente nelle mani di una folla scatenata per passare poi a quelle di tiranni quasi impercettibili, di tutti i colori e razze”. Profezia di un uomo romantico che, per tutta la vita, tenne fede al giuramento di un giovane idealista capace di operare concretamente pur minato dalla tubercolosi ereditata dalla madre. Sposò a 19 anni una nobile venezuelana che morì pochi mesi dopo per una malattia tropicale. In occasione di un viaggio in Italia, sul monte Aventino giurò “per il Dio dei miei genitori, giuro per loro; giuro per il mio onore e giuro per la Patria che non darò pace al mio braccio né riposo alla mia anima finché non avrò spezzato le catene che ci opprimono”. Patriota idealista, si incontrò con le idee di Jean Jacques Rousseau121 e Napoleone. Ottenne l’indipendenza di Quito e Lima. Per porre fine alla presenza spagnola in America, Simòn Bolìvar (da lui ha assunto il nome dell’attuale Stato della Bolivia 122) pose il quartiere generale sulla costa peruviana dove governò con poteri dittatoriali. Progettò una Confederazione delle Ande (Grande Colombia), l’abolizione della schiavitù, la creazione di un esercito e di una flotta federali; tuttavia, commentò amareggiato: “Mi vergogno a dirlo ma l’indipendenza è l’unico bene che abbiamo ottenuto a spese degli altri”.

 

   L’indipendenza messicana fu proclamata nel 1821 ma non fu la fine delle tribolazioni: tuttora il confine tra il Messico e gli Stati Uniti è strettamente sorvegliato per diminuire la costante illegale emigrazione verso lo Stato più ricco. Il 70% dei chicanos sono espatriati – legalmente o illegalmente – verso California, Texas e New Mexico. La legge border region ha permesso a centinaia di migliaia di loro di trovare lavoro nelle numerose fabbriche americane lungo il confine, sorte per la manodopera a basso costo; ciononostante il degrado ambientale e la delinquenza diffusa ne hanno ridotto in parte il beneficio. La rivolta ispirata agli ideali zapatisti degli indios del Chiapas, regione tra le più povere al confine con il Guatemala (1994/2000) fu il segnale dei messicani di un profondo malessere sociale. Le sostanze che i nativi assumevano per sopportare la fatica del lavoro alle alte quote (l’80% del territorio supera i 1.000 fino a 5.700 metri) sono diventate merce primaria del deleterio commercio internazionale della droga. Tombaroli, miseria e criminalità comune mettono a repentaglio vestigia e habitat tropicale, compreso il disboscamento selvaggio (15.000 ettari di foresta ogni anno): “Nella penisola dello Yucatan che conserva le rovine delle zone archeologiche di Chichen Itzà e Palenque, i Maya hanno demolito l’ambiente naturale distruggendo la giungla per ottenere terreno agricolo, noi a distanza di secoli stiamo facendo lo stesso”. L’inquinamento affligge soprattutto la vasta regione urbana della capitale che detiene il primato di città più avvelenata del mondo anche per l’eccezionale incremento demografico degli ultimi decenni: nel 1900 gli abitanti erano 13 milioni, nel 2001 hanno superato i 100 milioni (la capitale ha oltrepassato i 20 milioni tra bianchi, indios e meticci); recenti statistiche prevedono che entro 40 anni la popolazione messicana raddoppierà. Si calcola che oltre 20 milioni di messicani vivono legalmente o illegalmente negli USA. La cultura mesoamericana sta subendo una trasformazione radicale, così come molte ampie zone del nostro mondo, soffocato ormai dalle novità spesso negative del nuovo millennio, simili negli intenti a quelle antiche perché il DNA della razza rimane comunque invariato, ma elevate drasticamente all’ennesima potenza.

 

 

 

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CRONOLOGIA

 

 


• 1271 – Il mercante e viaggiatore Marco Polo (Venezia 1254/1324) parte con il padre e lo zio per raggiungere, via terra, la Cina. Ospite dell’imperatore, fu incaricato di svolgere missioni diplomatiche. Tornato in patria, fu catturato in battaglia e incarcerato dai genovesi. Dettò in francese a Rustichello da Pisa (scrittore di avventure cavalleresche) il resoconto dei suoi viaggi, stampato poi con il titolo “Il Milione”, derivato dall’appellativo ‘Emilione’ usato dalla famiglia per distinguersi dagli altri Polo, assai numerosi a Venezia.
 

• 1451/1506 – Cristoforo Colombo, partito da Palos approdò alle Bahamas. 1480/1526: Diego (figlio di Cristoforo, per alcuni anni Viceré spagnolo delle Indie Occidentali). 1488/1539: Ferdinando (figlio naturale, autore della biografia paterna).
 

• 1474 – Una lettera al canonico portoghese Martines inviata dall’astronomo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli (1397/1482) – convinto della sfericità della terra – spronò Colombo a cercare la via marittima per le Indie navigando verso Occidente.
 

• 1492 – Colombo salpa dal porto di Palos-Cadice il 3 agosto e approda il 12 ottobre in un’isola dell’arcipelago delle Bahama, ribattezzata San Salvador. Ferdinando I di Castiglia e di Aragona conquista Granada facendo cadere l’ultimo baluardo della dominazione araba in Spagna.
 

• 1493 – Colombo compie la seconda traversata del Mare Oceano scoprendo varie isole dell’America Centrale.
 

• 1494 – Spagna e Portogallo stipulano, con la mediazione del Papa, un trattato per la divisione delle zone da colonizzare. Gli ebrei vengono espulsi da ambedue le nazioni.
 

• 1497 – Il navigatore Giovanni Caboto (1450/1498) – al soldo degli inglesi – scopre il continente nord-americano, seguito da Giovanni da Verrazzano, al soldo dei francesi.
 

• 1498 – Terzo viaggio di Colombo nel corso del quale avvista per la prima volta il continente americano. L’imperatore Inca Huayna Capac completa la Strada Reale delle Ande lunga più di cinquemila chilometri.
 

• 1499 – Amerigo Vespucci (1454/1512) esplora le coste del Brasile per incarico del re di Spagna. L’anno successivo Pedro Alvares Cabral – seguendo la rotta tracciata da Vasco da Gama – sbarca in Brasile dichiarandolo possedimento della Corona portoghese.
 

• 1502 – Colombo compie l’ultima spedizione. Vespucci scopre la baia di Rio de Janeiro e costeggia la Patagonia al servizio del Portogallo (il Nuovo Mondo prenderà il nome di America in suo onore).
 

• 1508 – Sebastiano Caboto (1480/1557) riprende l’esplorazione dell’America nord occidentale, iniziata nel 1497 dal padre Giovanni.
 

• 1510 – Gli spagnoli occupano Cuba che diverrà la base per la conquista del Messico.
 

• 1513 – Una spedizione spagnola guidata da Vasco Nuñez de Balboa raggiunge l’Oceano Pacifico attraverso lo stretto di Panama. Juan Ponce de Leòn raggiunge le coste della Florida.
 

• 1519 – Hernàn Cortés – accolto pacificamente dalla popolazione che lo identifica con il Dio Cuauhpopoca – si impadronisce del territorio azteco e distrugge la capitale Tenochtitlàn, sulle cui rovine sorge oggi Città del Messico.
 

• 1519/1521 – Prima circumnavigazione della terra di cinque navi al comando del portoghese Ferdinando Magellano (alias F. Magalhaes – 1480/1521). La “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” è stata scritta dal vicentino Antonio Pigafetta al seguito della spedizione. Magellano non compì l’intero periplo perché, arrivato alle isole Filippine, venne ucciso dagli indigeni. Il percorso fu comunque completato dall’equipaggio dell’unica nave superstite. Il secondo viaggio sarà compiuto (1577/1580) dall’inglese Francis Drake.

 

• 1524 – Gli spagnoli di Francisco Pizarro giungono all’impero Inca (Perù), annientandone in pochi anni società e cultura.
 

• 1526 – L’italiano Giovanni Caboto risale i fiumi Paranà, Uruguay e Paraguay per conto della Spagna.
 

• 1527 – Inizia la conquista spagnola della civiltà Maya (Messico meridionale), tra le più evolute dell’epoca precolombiana (scrittura geroglifica, calendario o ‘Pietra del Sole’, architettura monumentale e culto del Dio solare).
 

• 1530 – Pubblicazione postuma delle “Decadi del Nuovo Mondo” di Pietro Martire di Anghiera (1459/1526), storia delle scoperte nel continente americano.
 

• 1535 – Stampa della “Historia general del Nuovo Mondo” di Gonzalo Hernàndez de Oviedo y Valdéz.
 

• 1535 – Fondazione di Lima, capitale del Perù, sede universitaria dal 1551, più volte ricostruita in seguito a fenomeni tellurici.
 

• 1548 – Fondazione di La Paz, capitale della Bolivia, indipendente dal 1825, sede del governo dal 1898.
 

• 1552 – Bartolomé de Las Casas scrive “Brevissima relazione della distruzione delle Indie”.
 

• 1558/1569 – Il frate B. Sahagun scrive dodici volumi sulla sua esperienza tra gli Aztechi.
 

• 1565 – Gerolamo Benzoni edita a Venezia “La historia del Mondo Nuovo”.
 

• 1589 – Stampa di "Historia natural y moral de las Indias" del missionario gesuita Joseph de Acosta, attivo in Perù e Messico per una decina d'anni (1570/1580).
 

• 1571 – Diego Fernandez de Palencia pubblica a Siviglia “Historia del Perù”.
 

• 1572 – Stampa a Venezia della biografia colombiana scritta dal figlio Fernando.
 

• 1609/1617 – In questo periodo Garcilaso de la Vega ('El Inca'), scrive l'epica storia del Perù: "Comentarios reales de los incas", in due volumi tradotti in inglese nel 1688. Nato a Cuzco nel 1539, era figlio di uno spagnolo e di una nobile Inca.
 

• 1721 – Il frate domenicano Ximenez pubblica “Historia del origen de los Indios de ésta provincia de Guatemala”.

 

• 1875 – Pubblicazione postuma di “Historia de las Indias” di Bartolomé de Las Casas scritta nel 1598.
 

• 1941 – Traduzione in inglese della "Relaciòn de la Cosas de Yucatan" di Diego de Landa (in italiano è stato pubblicata dalle Edizioni Paoline nel 1983.
 

• 1955 – Traduzione in francese: “Chilam Balam” di Chumayel.
 

• 1963 – Traduzione in inglese: “L’Historia verdadera de la conquista de la nueva España” scritta nel XVI sec. da Bernal Dìaz del Castillo, vissuto fino a 89 anni, uno dei partecipanti all’avventura di Hernando Cortés.

 

 

 

 

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PERSONAGGI
 

 

 

 

• Almagro Diego de (1475/1538) – Collaboratore di Pizarro, esplorò la Bolivia e il Cile alla vana ricerca di tesori. Tornato in Perù nel 1537, liberò Cuzco assediata dagli Incas e se ne impadronì in contrasto con Hernando Pizarro dal quale fu poi battuto e ucciso.
 

• Almagro Diego de (junior, detto el mozo, 1520/1542) – A capo di un gruppo di ribelli fece assassinare Francisco Pizarro e assunse il titolo di capitano generale del Perù ma, a sua volta, fu sconfitto come il padre e decapitato.
 

• Alvarado Pedro de (1486/1541) – Collaboratore di Cortés nella conquista del Messico e fondatore del Guatemala. In Perù partecipò alla fondazione di Lima e Quito. Morì durante una spedizione punitiva contro gli indios.
 

• Balboa Vasco Nuñez de (1475/1517) – Nel 1513 con 190 spagnoli e 600 indios giunse all’Oceano Pacifico denominandolo Mar der Sur. Fu governatore alle dipendenze di Gil Gonzalez de Avila che lo fece condannare a morte temendone le mire ambiziose.
 

• Caboto Giovanni (1450/1498) nel 1497/1498 toccò per primo, con il figlio Sebastiano, le coste dell’America settentrionale al servizio di Enrico VII.
 

• Cabral Pedro Alvares nel 1500/1502 prende possesso del Brasile in nome dei reali del Portogallo.
 

• Cacicco – Titolo dei capi indigeni delle Antille e dell’America Centro Meridionale all’epoca dell’invasione spagnola. El Dorado (l’uomo dorato) era il Cacicco che per l’ascesa al trono si immergeva ricoperto di polvere d’oro in un laghetto vicino all’odierna capitale della Colombia, Bogotà.
 

• Cadamosto Alvise o Da Mosto (1432/1488) – Navigatore veneziano scoprì con Usodimare le isole di Capo Verde).
 

• Cieza de Leòn Pedro (Siviglia 1518/1560) – Per 17 anni visse in Perù come soldato. Scrisse tre libri nei quali raccolse la cronaca delle vicende storiche che lì avvennero.
 

• Cook James (1728/1779) – Navigatore inglese che esplorò la Nuova Zelanda, le coste dell’Australia, le isole dell’Oceano Pacifico e superò il circolo polare antartico; fu ucciso dagli indigeni delle Hawaii.
 

• Cortés Hernàn (1485/1547) – Di nobile famiglia decaduta, nel 1504 si imbarcò per il Nuovo Mondo stabilendosi a Hispaniola (Santo Domingo). Dopo avere partecipato alla conquista di Cuba, guidò una spedizione sbarcando sulle coste messicane dello Yucatàn. Fondò la città di Vera Cruz e sottomise la repubblica di Tlaxcala, divenuta poi sua alleata contro la potenza degli odiati Aztechi. Giunto alla capitale dell’impero, fece prigioniero il re Montezuma costringendolo a dichiararsi vassallo del re di Spagna. Nominato da Carlo V nel 1522 governatore e capitano generale della Nuova Spagna, favorì la conversione forzata degli indigeni e lo sfruttamento coloniale dell’intero paese. Scrisse “Relazioni”.
 

• Diaz de Armendàriz Miguel – Giudice che nel 1549 fece riconoscere Santa Fè come capitale della Colombia, fondò città e tentò di arrivare alle coste dell’Oceano Pacifico.
 

• Diaz Aux de Armendàriz Lope. Governatore di Quito (1571) e del Nuovo Regno di Granata (1578).
 

• Diaz del Castillo Bernal (1492/1581) – Avventuriero e cronista spagnolo al seguito di Cortés. Scrisse “Verdadera historia de los sucesos de la conquista de la nueva España” in contrapposizione all’apologia del biografo ufficiale di Cortés, Fr. L. de Gòmara.
 

• Diaz de Solìs Juan – Navigatore del XV sec. che comandò una spedizione scoprendo l’estuario del fiume che più tardi Caboto battezzò ‘Rio de la Plata’.
 

• Diaz Venero de Leiva Andrés – Primo presidente della Nueva Granada dal 1564 al 1574, tentò di reprimere gli abusi sugli indiani, creò scuole, missioni, opere pubbliche.
 

• Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico (1452/1516) – Nel 1469 sposò Isabella di Castiglia (1451/1504) riuscendo in seguito a riunire i due regni fino ad allora divisi per contese di successione. Patrocinatori dell’impresa di Cristoforo Colombo, favorirono l’incremento dell’industria e del commercio ma intolleranti nel dogma religioso: nel 1478 introdussero il Sant’Uffizio che torturò e condannò migliaia di eretici; espulsero dalla Spagna le etnie arabe ed ebree.
 

• Gama Vasco da – Nel 1497/1498 compì il primo periplo dell'Africa raggiungendo l’India (Malabar) e proclamandone la sovranità portoghese.
 

• Hurtado de Mendoza Andrés (1490/1561) – Stabilì a Lima la Corte e creò l’amministrazione del vicereame – Garcìa (1535/1609): figlio di Andrés, governatore del Cile e poi viceré del Perù.
 

• Las Casas Bartolomé de (1474/1566) – Noto con il sopranome di Apostolo, vescovo di Chiapas in Messico; giunto nei nuovi territori come colono, diventò sacerdote e si rese conto dei metodi crudeli usati dai conquistadores verso gli indios per costringerli a lavorare. Tornato in Spagna, si recò dal successore di Ferdinando e Isabella (Carlo V) implorandolo di fare cessare la carneficina. Propose di importare africani, più adatti – in base alla sue convinzioni – ad essere impiegati nelle miniere e nelle piantagioni. Le buone intenzioni furono travisate in modo macroscopico dando inizio alla tratta dei negri, con le agghiaccianti sofferenze riportate dai documenti e dagli storici.
 

• Losada Diego de – Spagnolo che nel 1567 fondò la città Santiago de Leòn de Caracas (Venezuela) sul luogo di un villaggio di indiani Caracas, tribù probabilmente caribica.
 

• Magellano Ferdinando (1480/1521) – Portoghese che nel 1519/1521 compie la prima circumnavigazione della terra al servizio della Spagna dimostrandone la sfericità. Morì nelle Filippine in uno scontro con gli indigeni; della sua impresa ne dà un particolareggiato resoconto Antonio Pigafetta.
 

• Mendoza Pedro de (1487/1537) – Governatore del Rio de la Plata, nel 1536 fondò il primo insediamento di Buenos Aires. Gli fu compagno il fratello Diego, morto in uno scontro con gli indigeni.
 

• Montezuma II (1466/1520) – Imperatore Azteco che accolse gli spagnoli credendoli inviati delle divinità. Per la pavida sottomissione a Hernan Cortés, il suo popolo si ribellò nel giugno 1520 e Montezuma II rimase ucciso nella ‘noche triste’.
 

• Orellana Francisco de (1511/1546) – Nel 1544 scoprì il corso superiore del Rio delle Amazzoni e attraversando l’intero continente ne raggiunse le foci.
 

• Pigafetta Antonio – Vicentino che partecipò alla spedizione di Magellano alle Molucche (1519/1522); scrisse “Relazione del primo viaggio intorno al mondo”.
 

• Pizarro (fratelli) Francisco – Partito alla conquista del Perù nel 1531, catturò l’imperatore Inca Atahualpa e lo uccise dopo avergli estorto un favoloso riscatto –
Hernando (1475/1578) lo affiancò nella lotta contro Almagro – Gonzalo (1502/1548) eletto governatore di Quito, si ribellò al nuovo viceré e per questo fu giustiziato.
 

• Quesada Hernàn Pérez de – Conquistatore spagnolo che combatté spietatamente gli indiani. Nel 1541 inviò una spedizione in cerca dell’Eldorado. Esiliato, morì in mare mentre tornava in Patria.
 

• Ulloa Francisco de – Al seguito di Cortés, nel 1539 fu inviato ad esplorare il Golfo della California.
 

• Ursùa Pedro de (sec. XVI, ucciso in Amazzonia) – Avventuriero, governatore di Bogotà (dal 1991 Santa Fé de Bogotà, capitale della Colombia), fondò alcune città ed intraprese spedizioni alla ricerca del mitico Eldorado sottomettendo le tribù locali. A Panamà dal 1555 al 1557 soggiogò i ‘cimarrones’ (schiavi neri fuggiaschi. Nel 1558 seguì nel Perù il viceré Hurtado de Mendoza.
 

• Usodimare Antoniotto (Antonio da Noli – Genova 1425/Capo Verde 1497) – Navigatore al servizio del Portogallo. Scoprì nel 1456 con A. Cadamosto le isole di Capo Verde diventandone governatore dal 1472 fino alla morte.
 

• Vaca Castro de (1492/1566) – Inviato nel 1540 da Carlo V nel Perù per ristabilire l’ordine turbato dalle diatribe tra Pizarro e Almagro. Giunto sul luogo subito dopo l’uccisione di Francisco Pizarro, assunse il titolo di governatore e di generale in capo; sconfisse Almagro e lo fece giustiziare. Fu sostituito per la cattiva gestione amministrativa dal viceré Blasco Nuñez de Vela, a sua volta decapitato nel 1546.
 

• Valdivia Luis de – Missionario gesuita (1561/1642) inviato nel Perù e nel Cile, cercò di istruire e proteggere gli indigeni scrivendo catechismi a loro dedicati.
 

• Valdivia Pedro de – Inviato da Francisco Pizarro ad esplorare il Cile nel 1540, fondò la città di Santiago. Diventato governatore, morì in uno scontro con gli indigeni che aveva sottomesso: “Ho combattuto per Sua maestà in Italia, ho partecipato alla presa di Milano, ho servito nelle Fiandre”.
 

• Velàzquez de Cuéllar (Segovia 1465/Cuba 1524) – Accompagnò Colombo nel secondo viaggio. Nominato governatore di Cuba, veniva dimesso dall’incarico per poi essere reintegrato.
 

• Verrazzano Giovanni da (1480/1528) – Nel 1524 per conto della Francia esplora la Baia di New York. Morì durante una seconda spedizione verso il Brasile.
 

• Vespucci Amerigo (Firenze 1454/Siviglia 1512) – Nel 1499/1501 raggiunge le coste del Brasile e della Colombia. Al servizio del Portogallo esplora le coste atlantiche meridionali rendendosi conto per primo di calpestare un nuovo continente che dal 1507 sarà battezzato America in suo onore.

 

 

 

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FILMOGRAFIA

 

 

 


• Aguirre, furore di Dio (1972) di Werner Herzog – Nel 1560 una spedizione guidata da Gonzalo Pizarro discende la Cordigliera delle Ande alla ricerca del leggendario Eldorado.
 

• Amistad (1997) di Steven Spielberg – Ricostruzione di un episodio storico sullo schiavismo.
 

• Capitano di Castiglia (1947) di Henry King – Gentiluomo spagnolo del XV secolo si unisce a Hernàn Cortés nella spietata sottomissione del Messico.
 

• Conquistatore del Messico (1939) di William Dieterle – Massimiliano d’Asburgo, imperatore del Messico, contro la resistenza armata guidata da Benito Juarez (1806/1872).
 

• Cristoforo Colombo (1949) di David Macdonald – Biografico.
 

• Cristoforo Colombo, la scoperta (1992) di John Glen – Biografico.
 

• Diari della motocicletta (2004) di Walter Salles – Viaggio in moto di Che Guevara alla scoperta dell’America Latina.
 

• Impero del sole (1956) – Documentario di Enrico Gras e Mario Craveri.
 

• Inferno verde (1940) di James Whale – Avventurieri alla ricerca di un tesoro degli Incas.
 

• Lampi sul Messico (¡Que viva Mexico! - 1933) di Sergej Eizenstein – Violento regime feudale nel 1900. Film incompiuto con molte peripezie produttive per l’autore russo.
 

• Magia verde (1953) documentario di Gian Gaspare Napolitano – Spedizione attraverso le terre vergini del Mato Grosso, le foreste amazzoniche del Brasile, le zone andine del Perù e Bolivia.
 

• Messicano (1970) di Felipe Cazals – Biografia di Emiliano Zapata che, insieme a Pancho Villa e Francisco Madero, capeggiò la rivolta dei peones contro la dittatura di Porfirio Diaz.
 

• Messico in fiamme (1981) di Sergei Bondarchuk – Biografia del giornalista John Reed e del suo reportage ‘Messico insorto’ a contatto con la leggenda vivente di Pancho Villa.
 

• 1492 - La scoperta del Paradiso (1992) di Ridley Scott – Storia di Colombo narrata come il ritratto di un sognatore sconfitto.
 

• Mission (1986) di Roland Joffé – Nel 1750, un mercante di schiavi convertito, diventa gesuita e va in Sudamerica a dirigere una missione.
 

• Nel mar dei Caraibi (1945) di Franz Borzage – Pellegrini naufragi nei Caraibi vengono imprigionati dal governatore spagnolo Alvarado.
 

• Q - Il serpente alato (1982) di David Carradine – Compare su Manhattan un serpente alato che fa strage di abitanti indifesi. È Quetzalcoatl, il rettile piumato adorato come divinità dagli Aztechi.
 

• Re del sole (1963) di J. Lee Thompson – Una tribù Maya emigra dal Messico al Texas coalizzandosi con i locali pellerossa.
 

• Segreto degli Incas (1954) di Jerry Hopper – Una pietra indica il luogo dove è nascosto un tesoro Inca. Ricerca sulle Ande da parte di gruppi antagonisti.
 

• Sette città d’oro (1955) di Robert Webb – Nel 1769 una spedizione spagnola parte da Città del Messico per conquistare la California e cercare le leggendarie ‘sette città d’oro’.
 

• Simon Bolivar (1969) di Alessandro Blasetti – Vita e imprese del generale venezuelano ‘El Liberador’ (1783/1830) che guidò le guerre d’indipendenza di Perù e Colombia contro gli spagnoli.
 

• Vera Cruz (1954) di Robert Aldrich – Rivoluzione popolare messicana nel 1866 contro l’imperatore Massimiliano d’Asburgo (1832/1867), fucilato dai repubblicani di Benito Juarez.

 

• Viva Villa! (1934) di Jack Conway – Generale dei ‘ribelli’, Pancho Villa (1887/1923) appoggia il presidente messicano Madera.
 

• Viva Zapata! (1952) di Elia Kazan – Città del Messico 1909. Vita del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata (1879/1919) che combatté il dittatore Porfirio Diaz per i diritti dei peones.

 

 

Giuliano Confalonieri

giuliano.confalonieri@alice.it

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:
• AA.VV. – Alla scoperta dei tesori archeologici – Ferni, 1975
• AA.VV. – L’America prima di Colombo (arte) – Fondazione Milano, 1990
• Alford Alan F. – Mistero e genesi delle antiche civiltà – Newton, 2000
• Bennassar Bartolomé – Storia dell’inquisizione spagnola – Milano, 1994
• Caraco Albert – Breviario del caos – Adelphi, 1998
• Ceram C.W. – Civiltà al sole – Mondadori, 1970
• Ceram C.W. – Civiltà sepolte – Einaudi, 1968
• Colombo Cristoforo – Il diario del primo viaggio – Del Drago, 1992
• Conti S. (a cura di) – Bibliografia colombiana 1493/1990 – Genova, 1990
• Fagan Brian – Alla scoperta degli imperi del sole – Newton, 1977
• Francipane Michele – L’avventura del calendario – Sonzogno, 1999
• Fromm Erich – Avere o essere? – Mondadori, 1988
• Fromm Erich – Anatomia della distruttività umana – Mondadori, 1978
• Gilbert/Cotterell – Le profezie dei Maya – Corbaccio, 1996
• Gibram Kahlil – Sabbia e schiuma (aforismi) – Mondadori, 1993
• Granzotto Gianni – Cristoforo Colombo – Mondadori, 1984
• Hesse Hermann – Religione e mito – Mondadori, 1989
• Ivaldi Roberto – Storia del colonialismo – Newton, 1997
• Lansford W. – Pancho Villa – Della Volpe, 1967
• Mangione/Morreale – La Storia (emigrazione italo-americana) – SEI, 1996
• Mannix/Cowley – Carico nero (commercio schiavi) – Longanesi, 1962
• Marcireau Jacques – I più strani riti del mondo – Mondadori, 1990
• Mazzitelli Guido – La nave di legno – Propeller Club Port of Savona, 1997
• Morison S.E. – Cristoforo Colombo – Mulino, 1962
• Morison S.E. – The Discovery of America – New York, 1971/1974
• Prescott William H. – La conquista del Messico – Newton, 1992
• Prescott William H. – La conquista del Perù – Newton, 1992
• Puech H.C. (a cura di ) – Storia delle religioni – Universale Laterza, 1978
• Reed John – Il Messico insorge (Pancho Villa) – Einaudi, 1979
• Steiner Leo – Cristoforo Colombo – Del Drago, 1992
• Taviani P.E. – Cristoforo Colombo – De Agostini, 1980
• Taviani P.E. – I viaggi di Colombo – De Agostini, 1984
• Thompson J.E.S. – La civiltà Maya – Einaudi, 1970
• Tomas Andrew – Non siamo i primi – Ferro, 1971
• Vaillant G.C. – La civiltà azteca – Einaudi, 1970
• Vàsquez Francisco – Aguirre alla ricerca dell’Eldorado – Savelli, 1981
• Von Glasenapp H. – Le religioni non cristiane – Feltrinelli, 1962
• Von Hagen Victor – Civiltà e splendori degli Aztechi – Newton, 1978
• Von Hagen Victor – L’Eldorado – Rizzoli, 1993
• Von Hagen Victor – La strada reale degli Incas – Rizzoli, 1974
• Wachtel N. – Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola – Einaudi, 1977
• Womack John jr. – Storia di Emiliano Zapata – Mondadori, 1977

 

 

 

NOTE:

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1 - (1877/1962). Scrittore tedesco, premio Nobel nel 1946. Gli avvenimenti della prima guerra mondiale produssero in lui una violenta crisi, accostandolo alla psicoanalisi e al pensiero religioso indiano (“Siddharta”).

2 - (1844/1900). Filosofo e scrittore tedesco. Dopo il primo manifestarsi della pazzia a Torino nel 1899, vagò da una clinica all’altra fino alla morte.

3 - Nato nel 1919 a Costantinopoli, morto suicida nel 1971. Oggi è considerato uno degli scrittori più provocatori del XX secolo; i suoi libri pubblicati in vita non ebbero successo (“Post mortem”).

4 - (1879/1953). Pseudonimo di Stahl (acciaio) Dzugasvlii. Iscritto al seminario di Tiflis, ne fu espulso nel 1898 per avere fatto propaganda rivoluzionaria. Esiliato in Siberia dal 1913 al 1917, ritornò a Pietroburgo poco dopo lo scoppio della Rivoluzione. Commissario del primo governo sovietico, diede un importante contributo come organizzatore nella guerra civile. Fu eletto segretario generale del Partito Comunista nel 1922.

5 - (1899/1953). Capo della polizia politica russa nel 1938. Alla morte di Stalin fu accusato di alto tradimento e fucilato.

6 - (1889/1945). Uomo politico tedesco, conobbe a Vienna disoccupazione, miseria e frustrazione dei suoi sogni artistici. Volontario in un reggimento bavarese nel 1914, terminò la guerra con decorazione al merito. Nel 1919 entrò nel Partito tedesco dei lavoratori, diventato poi Partito Nazional-socialista tedesco del quale divenne capo nel 1921. Organizzò il Putsch di Monaco per abbattere la Repubblica di Weimar. Nominato Cancelliere nel 1933 si proclamò Capo (Führer) del Reich instaurando la dittatura.
7 - Re degli Unni dal 434 al 453, unificò le tribù sotto il suo dominio portandole alla supremazia di vasti territori. Nel corso dell’invasione della Gallia, fu sconfitto dal romano Ezio. In Italia incontrò Papa Leone I che lo convinse ad accettare la pace.
8 - (1162/1227). Signore della Mongolia, conquistò Pechino, parte della Russia, della Persia e dell’Afghanistan. Morì lasciando un impero in eredità ai figli.
9 - Napoleone I Bonaparte (1769/1821). Ufficiale di artiglieria prima, generale poi, condusse le truppe francesi in Italia ed Austria. Acerrimo nemico dell’Inghilterra, fu bloccato in Egitto dalla flotta dell’ammiraglio Nelson. Divenuto Primo Console, si proclamò Imperatore tentando la conquista della Spagna e della Russia. La coalizione delle nazioni europee lo costrinse ad abdicare relegandolo all’Isola d’Elba ed infine a quella di Sant’Elena.
10 - (1821/1881). Scrittore russo, rivela l’attenzione pietosa per la sofferenza dell’uomo socialmente degradato. Per l’adesione ad un circolo culturale socialista fu condannato dallo Zar a quattro anni di lavori forzati in Siberia: “Memorie da una casa di morti”.
11 - (1818/1883). Scrittore russo dedicatosi interamente alla letteratura nel 1845. Stile realistico semplice, non retorico, che rappresenta la vita umile, dura, spesso dolorosa del contadino russo.

12 - (1564/1616). Prolifico drammaturgo inglese nel periodo in cui i teatri erano numerosissimi, sia pubblici scoperti in cui si recita alla luce del giorno sia privati dove la scena è fissa.
13 - (1920/1994). Scrittore statunitense bohémien stravagante, emarginato dalla cultura ufficiale. Al ‘sogno americano’ contrappone il grottesco elogio del sesso, dell’alcol, dell’eccesso e racconta con linguaggio aggressivo la disumana violenza delle metropoli.
14 - (1623/1662). Scienziato, filosofo e scrittore francese. Autore di numerosi scritti scientifici, deve il suo posto nella letteratura alle opere scritte negli ultimi anni della sua breve vita.
15 - (1799/1850). Raccolta di scritti definiti ‘realismo visionario’ del romanziere francese Honoré de Balzac.
16 - Poema epico in 12 libri di John Milton (Londra1608/1674).

17 - Promotrici dei traffici a lunga distanza, attive fino al XIX secolo quando cedettero i loro privilegi alle novità del mercato.

18 - Nella Bibbia è citata varie volte la divinità Molek, alla quale venivano offerte vittime umane ed il cui culto fu combattuto dai Profeti. Nella religione cananea, il sacrificio rituale di bambini era praticato dai Fenici dal I millennio a.C.
19 - (1908/1950). Scrittore piemontese morto suicida. Autore di “Paesi tuoi”, “Feria d’agosto”, “Dialoghi con Leucò”.
20 - (1879/1955). Fisico tedesco, Premio Nobel 1921, teorico della ‘Relatività’.

21 - Orazio Flacco Quinto (65/8 a.C.). Poeta latino educato a Roma ed Atene. Equilibrio etico tra capacità di rinuncia e piaceri immediati dell’attimo fuggente (‘carpe diem’).
22 - Alessandro conte di Cagliostro alias Giuseppe Balsamo (Palermo 1743/1795). Avventuriero famoso in Europa per le sue arti di negromante.
23 - Gerolamo (Pavia 1501/1576). Matematico, medico, fisico. Gli è attribuita l’invenzione del ‘giunto cardanico’.
24 - Francis Bacon (1561/1626). Filosofo inglese che progettò una grande enciclopedia delle scienze in polemica con l’aristotelismo.
25 - Dal romanzo di H. Melville, il mare come regno dei mostri, del terrore e di tutto quanto sfugge al raziocinio.
26 - Personaggio dei libri dell’inglese Lewis Carroll (1832/1898); lo scrittore mette in rilievo le assurdità e le incoerenze della vita adulta.

27 - Religione nazionale del Giappone. I due maggiori testi (sec. VIII d.C) menzionano numerose divinità (Kami) primordiali ma anche forze della natura, eroi, defunti. È una religione rituale, priva di istanze etiche, spesso praticata insieme al buddismo.
28 - Thomas More (London 1478/1535). Letterato e filosofo. ‘Utopia’, scritta in latino, descrive la struttura politico-sociale della repubblica ideale.
29 - Psicologo tedesco (1900/1980). Con la moglie Frieda Reichmann fondò l’Istituto psicanalitico di Heidelberg e nel 1935 si trasferì negli USA dove ha insegnato alla Columbia e alla Yale University. Autore di “Avere o essere?”, “L’arte di amare”, “Fuga della libertà”.

30 - In lingua spagnola “paese dorato”, regione favolosa ricchissima d’oro inutilmente ricercata nel Sudamerica dal XVI al XVIII secolo.
31 - (1877/1962). Scrittore tedesco, Premio Nobel 1946, autore di ‘Il lupo della steppa’, ‘Siddharta’, ‘Narciso e Boccadoro’.
32 - (1420/1498). Nel 1478 organizzò per conto dei Re cattolici i terribili tribunali inquisitori, reggendoli con inflessibile durezza. Torture, roghi, espulsioni, delazioni, una sofferenza immane per tutti coloro che erano sospettati di eresia.
33 - Costituiti alla fine del XII secolo per reprimere le eresie, i tribunali operarono indiscriminatamente violando libertà, diritto e dignità. Furono bruciati migliaia di persone accusate di illegalità dogmatica e formale nei confronti della Chiesa.
34 - Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689/1755). Scrittore politico francese.
35 - Chilam: sacerdoti indigeni Maya – Balam: banditori di profezie).
36 - (1548/1600). Filosofo e letterato italiano che nel 1576 depose il saio domenicano per accostarsi alla Chiesa protestante.
37 - (1564/1642). Fisico e astronomo italiano, sostenitore del sistema eliocentrico copernicano per cui entrò in conflitto con la Chiesa cattolica che rimaneva inflessibile sulle teorie che ponevano la terra al centro dell’universo.
38 - (1483/1546). Riformatore religioso tedesco, iniziatore del protestantesimo, scomunicato nel 1521.

39 - Gli Zulù, la popolazione africana del gruppo Bantù, costituitasi in nazione sotto Chaca (1787/1828) subirono la medesima sorte da parte delle truppe inglesi. La guerra coloniale iniziata nel 1879 fronteggiò immense folle di indigeni armati di zagaglie a militari addestrati ma decisamente numericamente inferiori.
40 - Ufficialmente la tratta degli schiavi è stata abolita con decreto nel 1865 e perseguita legalmente nel 1956 dalla Convenzione di Ginevra, però i dati del 2002 parlano ancora di cifre angoscianti: ogni anno indifesi bambini sono forzati a lavori improbi o alla prostituzione e spesso sono venduti dalle famiglie povere per il trapianto degli organi (i minori in semischiavitù sarebbero nel mondo oltre 200 milioni, quelli considerati veri e propri schiavi sarebbero 8 milioni).

41 - Da questa e da altre fonti, il regista tedesco Werner Herzog trasse nel 1972 il film “Aguirre, furore di Dio” con l’interpretazione nevrotica e veristica dell’attore Klaus Kinski (1926/1991).

42 - (1474/1566) Missionario domenicano che denunciò la brutalità dei coloni spagnoli verso gli indios nei Caraibi. Scrisse: “Brevissima relazione della distruzione delle Indie” e “Storia delle Indie”.

43 - In questo suo libro raccolse numerosi testi antichi, dai quali rilevò qualche premonizione della terra che avrebbe scoperto: un passaggio della Medea, la tragedia in cui il filosofo latino Lucio Anneo Seneca (ca. a.C. / ca. 65 d.C.), prediceva che in futuro un nuovo mondo si sarebbe rivelato oltre l’Oceano. Seneca, oratore brillante, esiliato otto anni in Corsica per un processo, precettore di Nerone, non riuscendo a contenere la politica sempre più dispotica dell’imperatore, si ritirò per scrivere le sue opere. Condannato a morte in seguito ad una congiura, si uccise tagliandosi le vene.
44 - Venezia 1254/1324. Mercante e viaggiatore, si recò in Asia nel 1271 con il padre e lo zio giungendo – via terra – in Cina. Ospite dell’imperatore, incaricato di missioni diplomatiche in Tibet e Birmania, tornato in Italia fu catturato in battaglia ed imprigionato dai genovesi: in carcere dettò a Rustichello da Pisa il racconto dei suoi viaggi. Dall’originale stesura francese fu tradotto con il titolo ‘Milione’, dall’appellativo della famiglia Polo, Emilione. Fu liberato nel 1299.
45 - (1397/1482). Umanista, ricercatore, matematico, geografo, medico e astrologo per la dinastia Cosimo de’ Medici.

46 - Sembra che Colombo abbia aggiornato due versioni: uno con i dati veritieri per sua memoria e un altro con distanze percorse diminuite per non scoraggiare l’equipaggio se il viaggio si fosse protratto eccessivamente.
47 - Firenze 1454 / Siviglia 1512 – Nel 1499 costeggiò Brasile e Colombia. In un secondo viaggio al servizio del Portogallo, esplorò le coste atlantiche fino al Rio della Plata.
48 - Gli egizi percorsero grandi distanze con navi dotate di remi; la vela cominciò ad essere utilizzata dal 3200 a.C.
49 - Erik il Rosso (940/1007 ca) e suo figlio Leiv (970/1021) fanno parte della saga nordica continuata dai sovrani omonimi fino al 1577.
50 - Platone (Atene 427/347 a.C.). Filosofo greco, allievo e amico di Socrate.

51 - “Colombo superò nell’arte della navigazione tutti i contemporanei” (Las Casas). Un compagno genovese commentò: “Solo a vedere una nuvola o una stella di notte, giudicava quello che doveva seguire e se doveva essere mal tempo”.
52 - Nata dalla spuma dei flutti, dea greca della bellezza, dell’amore e della fertilità.
53 - Dio di tutte le acque, uno dei Titani, figlio di Urano e Gea, considerato come un immenso fiume avvolgente la terra.
54 - Il re portoghese rifiutò sia a Colombo che a Magellano i mezzi necessari per le esplorazioni: fu dunque sotto la bandiera spagnola che Magellano partì nel 1519 per la circumnavigazione del globo; i superstiti ritornarono a Siviglia nel 1522 dopo avere perduto quattro dei cinque vascelli, quasi tutti gli equipaggi e la stessa vita del comandante. Fu comunque la prova definitiva che il mondo era sferico e non piatto.
55 - (1450/1500). Nel 1487 il navigatore portoghese doppiò il Capo di Buona Speranza entrando nell’Oceano Indiano. Nel 1494 fu stipulato un trattato tra Spagna e Portogallo per la ripartizione delle terre invase.
56 - (morto nel 1524). Nel 1502 proclamò la sovranità portoghese su parte del territorio indiano avviando contemporaneamente una intensa attività commerciale.
57 - Armate dai sovrani di Spagna le caravelle Niña, Pinta e Santa Maria toccarono terra il 12 ottobre sull’isola ribattezzata San Salvador nell’arcipelago delle Bahamas. Colombo scoprì anche Cuba e Haiti, convinto di avere raggiunto il continente asiatico. Nella seconda e terza spedizione attraccò alle Piccole Antille e alla Giamaica. Nel quarto viaggio – dopo avere subito un processo per presunte atrocità – costeggiò l’America Centrale fino alla Colombia. Ritornato stanco e deluso, Colombo morì a Valladolid dimenticato da tutti e ignorando di avere scoperto il Nuovo Mondo. Nel 1501 poteva comunque affermare con orgoglio: “Tutto quello che fino a oggi si naviga, tutto io l’ho navigato”.
58 - Promontori sullo Stretto di Gibilterra, considerati anticamente i confini del mondo.

59 - “Nel febbraio 1477 navigai cento miglia oltre l’isola di Thule” (anticamente considerata il
limite del globo, identificata prima con le Shetland, poi con l’Islanda e con la parte settentrionale
della Norvegia).
60 - Claudio Tolomeo (ca 100/170), astronomo, geografo e matematico alessandrino; il suo sistema
geocentrico durò fino alla riforma di Copernico nel XVI sec.
61 - (1438/1481). Figlio e successore di Edoardo I. Sotto il suo regno si svolsero i viaggi dello
zio Enrico il Navigatore. Attaccò i musulmani in Marocco e contrastò la successione in Castiglia
di Isabella la Cattolica.

62 - (1455/1495). Re dal 1481, promosse importanti esplorazioni tra le quali quella lungo le coste africane comandata da Bartolomeo Diaz.
63 - Alla fine del XIX secolo, anche lo scrittore Emilio Salgari assorbiva i racconti delle ciurme nelle osterie dell’angiporto di Genova. Nel 1898 lavorò per un editore tedesco di Via Luccoli e scrisse ‘Il Corsaro Nero’. Durante il soggiorno genovese arricchì la lista di eroi esotici chiedendo notizie su luoghi e personaggi per ambientarli sulla carta con caratteristiche plausibili. Da giovane tentò gli studi per ottenere la licenza di capitano marittimo, senza tuttavia raggiungere lo scopo (fece un solo viaggio in Adriatico durato tre mesi).
64 - I Re Cattolici Ferdinando II (1452/1516) e Isabella (1451/1504) sposandosi nel 1469 posero le basi per la riunificazione dei regni di Aragona e Castiglia. Nel Nuovo Mondo favorirono l’incremento dell’industria e del commercio ma furono crudeli ed intolleranti in materia di religione. Dal 1478 avevano introdotto in Portogallo il Sant’Uffizio, la Santa Inquisizione che torturò e condannò a morte migliaia di presunti eretici. Espulsero dal paese le etnie arabe ed ebree.

65 - Dall’arabo ‘sid’ (signore) e dal tardo latino ‘campeductor’ (guerriero), soprannome di Rodrigo Dìaz de Vivar (1043/1099), cavaliere castigliano, eroe nazionale spagnolo che tolse Valenza ai Mori.
66 - Città dell’Andalusia, conquistata dagli Arabi all’inizio del secolo VIII.
67 - (1547/1616). L’autore di “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha” - Miguel de Cervantes - ebbe un’esistenza travagliata, dalla partecipazione alla battaglia di Lepanto al periodo di schiavitù ad Algeri, all’incarico di fornitura di viveri per l’Invincibile Armata. Malgrado tutto, Cervantes trovò la “forza del genio da cui man mano che gli si spegne la vita nascono le opere più grandi”.
68 - Città dell’Andalusia fondata dai Fenici. Annessa alla Castiglia nel 1236.

69 - Traversate oceaniche di Colombo: 1ª nel 1492, 2ª nel 1493, 3ª nel 1498, 4ª nel 1502.

70 - Griffith David Wark (1875/1948). Regista e produttore statunitense. Autore del film "Nascita di una Nazione" (1915).

71 - Romanzo dell’inglese Daniel Defoe (1660/1731) nel quale si racconta la vera storia di un marinaio abbandonato su un’isola per 28 anni.

72 - Sede universitaria dal 1346. Due piazze della città conservano i monumenti dedicati a Colombo e Cervantes, l’autore di Don Chisciotte della Mancia. Traversate atlantiche di Colombo: dal 1492 al 1493 – dal 1493 al 1496 – 1498 – dal 1502 al 1504.
73 - (1802/1885). Romanziere francese autore di “Notre-Dame de Paris”, “I miserabili”.

74 - Attualmente il Cristianesimo è professato da quasi tutti i messicani; all’epoca di Cortés molti degli antichi templi furono spogliati dai simboli degli dèi sostituendoli con la Croce e immagini dei Santi. Fu un drastico cambiamento – introdotto a forza dai preti spagnoli al seguito dei conquistadores – che colpì i fedeli ma soprattutto la classe sacerdotale con il relativo potere.
75 - Nel 1471 gli incas sottomisero il potente stato teocratico Gran Chimù, amerindi del Perù, consolidatosi dal XIV al XV secolo.

76 - Termine russo (distruzione) con il quale si indicano massacri e saccheggi contro le minoranze ebraiche.
77 - (1466/1520). Imperatore azteco dal 1502 al 1520. Ebbe la notizia che strani uomini con la barba, che navigano in grandi barche, sono arrivati dal mare-oceano. Si sottomise a Cortéz identificandolo con il mitico serpente-dio Quetzalcoàtl. Detestato per questo dai sudditi, fu ucciso durante la rivolta antispagnola della ‘noche triste’.

78 - Montezuma I detto ‘il collerico’ era suo nonno. Bernal Diaz scrisse “Verdadera historia de los sucesos de la conquista de la nueva España”.

79 - Fondata intorno al 100 d.C. non è una città azteca ma piuttosto appartiene alla civiltà Maya, assai più antica della prima. I Toltechi introdussero scrittura, l’astronomia e le prime leggi sociali.
80 - Stele di basalto nero del 196 a.C. trovata presso la città di Rosetta da soldati francesi nel 1799 durante la spedizione napoleonica in Egitto, ora conservata al British Museo di Londra. Il testo, scolpito in tre lingue (geroglifico, demotico, greco) permise a J.F. Champollion di decifrare nel 1822 la più antica scrittura egizia.

81 - I laghi messicani, costituiscono un unico sistema idraulico continuo. La maggior parte era salina tranne che nei due bacini più meridionali; il sistema delle dighe e delle strade fu sviluppato in seguito all’insediamento azteco.

82 - Tlascaltèchi: tribù del Messico centrale, probabilmente insediati nel territorio prima dell’arrivo degli aztechi ai quali opposero una lunga e tenace resistenza; dopo avere osteggiato l’arrivo degli stranieri europei, divennero loro alleati con migliaia di guerrieri contro il nemico comune quando videro la potenza delle armi da fuoco a fronte di fionde, lance, frecce. Preziosa per l’ambasceria tra i due gruppi si rivelò l’interprete india e amante di Cortés, la formidabile Marina che si era guadagnata l’ammirazione generale del campo per la forza e la serenità dimostrate sia nel tentare di mitigare le sofferenze dei compatrioti sia nel rincuorare i cristiani nelle situazioni più difficili.

83 - Seguì Colombo nel secondo viaggio verso le Americhe. Nominato governatore organizzò alcune spedizioni nello Yucatan e nel Golfo del Messico. Gli attriti con l’insubordinato Cortéz, che rifiutava di ritornare a Cuba, furono motivo di reciproci risentimenti.

84 - Ricco, illustre, nome di re e nobili Incas. Manco Capac I fu il fondatore dell’impero incaico peruviano; ritenuto ‘figlio del sole’, uccise i tre fratelli maggiori e si stabilì a Cuzco iniziando la coesione di tribù autoctone. Manco Capac II (1513/1544) fu riconosciuto Re da Pizarro, un potere apparente perché dominato dagli spagnoli.
85 - Cuzco: città del Perù meridionale in una conca della Ande (3398 m. slm.) - Machu Picchu: località delle Ande (2300 m. slm.) scoperta nel 1911; conserva un importante complesso monumentale dell’ultimo periodo Inca (fine XV secolo). Nel punto più alto è posta una pietra dedicata a Inti (il dio del Sole) sormontata da una colonna (un grande gnomone come nelle meridiane) che permetteva di calcolare l’altezza del sole, l’ora, le stagioni, i solstizi e gli equinozi.
86 - Il cronista Pedro Cieza de Leòn (Siviglia 1518/1560) si sofferma con competenza sull’allevamento dei lama, della vigogna e dell’alpaca, animali adusi a vivere alle alte quote, il cui vello fornisce la materia prima per tessuti pregiati (il lama veniva sfruttato per trasportare carichi, come cibo e come combustibile).
87 - Aldous Leonard Huxley (1894/1963). Autore inglese di romanzi ingegnosi e brillanti (tra l’altro ‘Il mondo nuovo’ del 1932, testo tra i più illustri della narrativa di anticipazione per l’allarmata profezia di una società tutta dominata da apparati tecnologici).
88 - Garcilaso de la Vega detto 'El Inca' (1539/1616), scrittore peruviano meticcio, figlio di un capitano spagnolo e di una principessa incaica, tentò la sintesi delle due culture. Nella sua storia del Perù ("Comentarios reales de los incas"), racconta le origini leggendarie dell'impero e la conquista fino alla decapitazione di Tupac Amaru, descrivendo gli indiani con il taglio romantico del Buon Selvaggio e contenendo le critiche verso i conquistadores. L'influenza dei genitori appartenenti a mondi diversi lo indusse probabilmente a non sottolineare eccessivamente lo scontro drammatico tra le due razze, la prima incline alle carneficine rituali, la seconda dedita allo sterminio.

89 - Per sopravvivere alle fatiche quotidiane ed alle alte quote della Cordigliera, venne introdotto l’uso delle foglie di coca, molte le coltivazioni in Perù, impastate fino a formare palline che gli indios succhiavano come caramelle.

90 - Stato dell’America Centrale tra Costa Rica, Colombia, Oceano Atlantico e Oceano Pacifico, collegati dall’omonimo Canale lungo 81,6 km. e largo da 90 a 300 mt. Aperto nel 1914, dal 2007 è sottoposto a lavori di ampliamento, la cui conclusione è prevista per il 2014. Fautore di questa importante opera e del Canale di Suez fu il francese visconte di Lesseps F.M. (1805/1894).

91 - Sistema montuoso lungo 7500 km, largo tra 150 e 650 km., con 25 vette che superano i 6000 metri.
92 - Città sparsa in una lussureggiante vallata e frequentata a quel tempo dalla nobiltà per i bagni termali, situata sul percorso lastricato per arrivare alla capitale del regno.

93 - La garrota è uno strumento cinto al collo del condannato: lo fa morire stringendo il cappio con un bastone. Usato in Spagna dal 1882 al 1976.
94 - La strada meravigliosa, “la più lunga e la più grandiosa del mondo”. Lo scrittore Prescott nel suo libro “La conquista del Perù” spiega che la strada era tracciata fra impervie sierras innevate, che gallerie erano scavate per leghe, che ponti sospesi oscillanti al vento erano gettati sopra i fiumi e i precipizi erano resi valicabili da scalini tagliati nel fondo roccioso. Da Quito nell’Ecuador a Cuzco fino alla Bolivia e al Cile per oltre 8.000 km. Purtroppo questa splendida realizzazione umana si rivelò utilissima per la penetrazione dei conquistadores.

95 - Lima, Città dei Re, sede universitaria dal 1551. Fondata nel 1535 da Francisco Pizarro, danneggiata
e ricostruita dopo vari terremoti.
96 - Scoperto da Magellano nel 1520, conquistato dagli spagnoli (1535/1553), diventato repubblica indipendente nel 1818.

97 - Una tra le più antiche città costruita nel 1528 in stile europeo è San Cristobal de la Casas (2000 mt. slm) dedicata al vescovo che, per primo, difese i nativi dalle prepotenze dei conquistadores.
98 - Durante la marcia giunse la notizia dell’assassinio dell’ultimo Inca – Manco – per mano dei partigiani di Almagro, a loro volta trucidati dai peruviani. Nascosto con i suoi guerrieri nelle montagne ma sempre pronto a tendere agguati e sterminare gruppi isolati di spagnoli, l’Inca si dimostrò indomabile fino all’ultimo nella sua battaglia per ricostituire l’antico dominio.

99 - Carlo V (1500/1558) – Figlio di Filippo d’Asburgo Arciduca d’Austria, e di Giovanna la pazza, regina di Castiglia, grazie all’abile politica matrimoniale del nonno paterno, l’Imperatore Massimiliano I, riumì sotto la sua autorità un immenso impero: le Fiandre, la Franca Contea, gli stati ereditari asburghici, i regni di Castiglia e d’Aragona con le colonie americane, di Napoli e di Sicilia. Alla morte di Massimiliano I ottenne dalla dieta di Francoforte il titolo di Imperatore (1519), cui aspirava anche Francesco I di Francia. Domata in Spagna la rivolta dei Comuneros fu a più riprese impegnato in un conflitto con la Francia per l’egemonia in Europa. Dopo avere sconfitto e fatto prigioniero Francesco I, che fu costretto al trattato di Madrid, si scontrò con la lega di Cognac (Francia, Firenze, Venezia e Stato della Chiesa). Il conflitto, che vide Roma saccheggiata, Carlo V terminò vittoriosamente con la pace di Cambrai. Incoronato Re e Imperatore (1530) da Papa Clemente VII. A Francesco I veniva riconosciuta la Borgogna; cercò poi di sfruttare le difficoltà provocate all’Imperatore dalla minaccia turca e dai principi protestanti tedeschi. Una nuova fase della guerra si concluse nel 1544 con la rinuncia francese al ducato di Milano. Dopo altre contese, Carlo V abdicò in favore del figlio Filippo II, lasciando infine la dignità imperiale sugli stati tedeschi in favore del fratello Ferdinando. Il suo rapporto con i conquistadores fu spesso ambiguo e influenzato sia dalle manovre di Corte sia dall’estensione dei territori da governare – Filippo II detto il ‘re prudente’ (1527/1598). Primogenito di Carlo V e di Isabella di Portogallo, già Duca di Milano (1540), reggente di Castiglia e Aragona e Re di Napoli, in seguito all’abdicazione del padre (1556) ereditò tutti i suoi domini ampliandoli ulteriormente con una serie di acquisizioni.
100 - Il maggiore bacino (altitudine 3812 mt, superficie 8300 km²) della zona andina al confine tra Bolivia e Perù con numerose isole in parte basse e paludose, coperte da fitti canneti ancora oggi usati per intrecciare le tipiche robuste imbarcazioni. Oltre alle rovine preincaiche sulle coste, anche le isole conservano notevoli resti; una di esse è considerata luogo sacro dell’impero incaico.

101 - Nel 1821 il Perù proclamò la propria indipendenza diventando repubblica. Nel 1879 la nazione fu nuovamente agitata dalla ‘guerra del Pacifico’ che coinvolse Bolivia e Cile. I successivi tentativi di democratizzazione furono disturbati da governi militari e dal gruppo terroristico maoista ‘Sendero Luminoso’ fino all’attuale difficile situazione socio-economica.

102 - Antico supplizio: quattro cavalli legati ai quattro arti della vittima venivano spronati in direzione opposta.
103 - Sendero Luminoso è l’organizzazione clandestina di estrema sinistra fondata nel 1970 ha compiuto dal 1980 numerosi sanguinosi attentati contro l’esercito e altri organi governativi. Dal 2006 ha intensificato l’attività armata in alcuni distretti del paese.

104 - Sintesi della storia degli orologi: 1200/movimento meccanico – 1400/analogici portatili – 1650/a pendolo – 1670/ad àncora – 1760/cronometro marino – 1840/elettrico – 1929/digitale al quarzo – dal 1950 atomico e al cesio.

105 - Capitale dello Yucatan, centro di partenza per visitare le vestigia Maya della penisola.
106 - Città del Messico meridionale, Stato di Chiapas, ai confini con il Guatemala, il nome deriva dallo spagnolo ‘luogo recintato’. Scoperta nel 1691 dal vescovo Nuñes de la Vega. Il nome indica un tipo di abitazione tuttora diffusa fra le popolazioni del Nicaragua e Costa Rica: tetto conico sostenuto da un palo centrale e da una corona circolare di pali più bassi. La città fu costruita per volere di Pacal, al trono dai 12 agli 80 anni (morì nel 683 d.C.). Come i faraoni egiziani, anche Pacal volle una tomba-cripta sovrastata dalla piramide.

107 - Gli scienziati sono scettici perché ritengono che il 2012 sia semplicemente la conclusione di un calendario periodico e quindi l’inizio di un ulteriore conteggio del tempo. Ciononostante, il rapido deterioramento della Terra in questi ultimi decenni, potrebbe essere il preludio di un cataclisma senza possibilità di ritorno alla normalità. Il nostro piccolo mondo potrebbe essere coinvolto dalla costante espansione dello spazio siderale.
108 - Ovvero, il monte di Meghiddo, con probabile allusione alla città omonima in Palestina, teatro di importanti battaglie.
109 - 1503/1566 – Forma latinizzata di Michel de Nostredame. Medico e alchimista provenzale, divenne famosissimo per i suoi almanacchi di profezie in quartine rimate. Ne pubblicò due raccolte, la prima nel 1550 di 7 Centurie composta ciascuna di 100 quartine, la seconda aumentata nel 1566. Successivamente furono pubblicate molte altre edizioni, con aggiunte apocrife. Le sibilline profezie di Nostradamus che giungono fino all’anno 1797, sono state per secoli oggetto di studi approfonditi e di imitazioni serie o giocose e ispirano ancora oggi i compilatori di almanacchi popolari.

110 - La stele è stata ritrovata nel 1799 da soldati francesi al seguito della spedizione napoleonica in Egitto. Oggi è conservata al British Museum, Rosetta è una città sul braccio occidentale del Nilo.
111 - Se paragoniamo i metodi “progrediti” della Santa Inquisizione con i riti dei cosiddetti “selvaggi” affiora il dubbio che i vari Torquemada della storia siano stati peggiori. La tortura – in nome del Dio sconosciuto – i roghi delle presunte streghe, con lo stiramento delle membra, con le tenaglie arroventate, con la caduta a strappo, con il piombo fuso versato sui corpi delle vittime designate, ha lasciato testimonianze indegne della presunta civiltà. Il DNA dell’essere umano è talmente intriso del concetto di “male” da doverlo addebitare all’esclusiva sua responsabilità, senza chiamare in causa, ipocritamente, influenze sovrannaturali.
112 - Località archeologica, importante centro cerimoniale dello Yucatàn con i Templi dei Guerrieri e dei Giaguari, fondato nel VI secolo d.C. dai Maya-itzà (Itzà, popolo che invase lo Yucatan intorno al 1224). La sua piramide è stata costruita in modo che, durante l’equinozio di primavera, il sole al tramonto disegni sulla scalinata un serpente.

113 - Ciò gli permise di confrontare i testi in suo possesso con i geroglifici riportati sui calendari Maya e una parte della lingua fu infine decifrata. Le prime fotografie dei siti messicani furono riprese al tempo di Napoleone III (1852/1870).
114 - Storico statunitense (1796/1859) autore di “Storia della conquista del Messico” (1842), “Storia della conquista del Perù” (1847). Dopo avere letto il libro-diario di Stephens e Catherwood, Prescott commentava: “Che cosa è avvenuto delle razze che edificarono questi edifici coaspilossali? Forse rimasero sul luogo o migrarono verso sud dove trovarono maggiori possibilità di espansione della loro civiltà”.

115 - Purtroppo il boom petrolifero degli anni Settanta (XX sec.) e le piogge acide delle industrie danneggiano in modo irreparabile l’intero ambiente senza apportare un significativo benessere alle povere popolazioni, già vessate dalla corruzione politica.

116 - Nel XX secolo furono scoperti in Irak manufatti in terracotta – ritenuti vecchi di 2000 anni – con all’interno barre di rame coperte d’asfalto; fu introdotto solfato di rame facendo così iniziare il processo che produce l’energia elettrica.
117 - La storia del nostro pianeta e dei suoi abitanti è composta da una serie interminabile di circostanze, di concatenazioni, di casualità. Due esempi eclatanti dei nostri tempi portano i nomi di Napoleone Bonaparte e di Adolf Hitler: se l’imperatore dei francesi avesse conquistato Mosca, l’Europa politica e amministrativa sarebbe diventata una realtà già nel XIX secolo, se il Führer avesse vinto la guerra, forse ci ritroveremmo nel clima terrificante descritto da George Orwell (1903/1950) nel suo preveggente romanzo “1984”.

118 - Orfana di un ricco cacicco, venduta come schiava dalla matrigna. Nella disavventura imparò oltre al dialetto locale anche la lingua maya: il necessario compito di interprete avveniva tra lei e un ufficiale spagnolo che conosceva il maya, così l’azteco diventava castigliano permettendo a Cortéz di sapere e quindi comandare meglio. Malinche – donna intelligente ed affascinante – tentò di salvaguardare le esigenze del suo popolo con quelle dell’amante.
119 - Fondata nel 1519, fu sede dell’ultimo vicerè spagnolo, costretto a firmare nel 1821 il trattato che riconosceva l’indipendenza messicana.
120 - Nel 1493 il papa Alessandro VI Borgia aveva spartito il mondo tra Spagna e Portogallo; perciò le spedizioni di conquista avvenivano con la benedizione della Chiesa che però pretendeva la conversione dei popoli sottomessi. Ogni gruppo di avventurieri aveva al seguito missionari con il preciso compito di impiantare la Croce.

121 - (Ginevra 1712/1778). Letterato e filosofo, polemico contro le istituzioni del suo tempo, contrappose
la natura intesa come spontaneità ed istinto basando la sua teoria sulla bontà originaria dell’uomo.
122 - Capitale La Paz, vicina al lago Titicaca. Già parte dell’impero Inca, dopo la conquista spagnola del 1538 dovette sopportare lunghe guerre con Cile, Brasile, Paraguay, conflitti che hanno ridotto notevolmente l’estensione originaria. Colpi di stato, rivolte di minatori e contadini rendono il paese continuamente inquieto