“La bora è l’unica cosa veramente originale che abbiamo”

 

Carlo Wostry (Trieste 1865 - 1943)

 

Walter Abrami

 

 

 

L’attivissimo e infaticabile Wostry, ‘pittore dotato di attitudini meravigliose’ - come ebbe a definirlo Silvio Benco - bruciò i tempi nel campo delle arti figurative.

Di ritorno a Trieste dopo aver frequentato per tre anni l’Accademia di Vienna e successivamente quella di Monaco in compagnia di Riccardo Carniel, Isidoro Grünhut, Vittorio Güttner, Eduardo Variano e Umberto Veruda (1886), si rivelò subito artista deciso e vigoroso, sicuro dei propri mezzi, soprattutto versatile.

Fu allora definito “il più serio e studioso fra i giovani pittori della nostra città”.

Nella Trieste imprenditoriale di fine ‘800 fu artista di spicco e divenne immediatamente famoso: fu stimato dai colleghi anziani e i coetanei gli furono amici sinceri poiché riconobbero in lui non solo le invidiabili capacità che dimostrava con i pennelli, i colori e le matite, ma anche la sua grinta, la sagacia e il carisma. Tra i suoi committenti figurarono ben presto i baroni Sartorio, Currò e Ralli e la baronessa Cecilia de Rittmeyer, generosi mecenati.

L’esordio in città, dopo le dure esercitazioni e gli studi effettuati in Austria e Germania fu folgorante: le quattordici stazioni della Via Crucis di due metri d’altezza ciascuna, tuttora visibili nella Chiesa di Santa Maria Maggiore, furono concepite e dipinte dal promettente ragazzo in soli tre mesi.

Nel 1886 furono esposte alla cittadinanza nel Palazzo della Borsa, sorpresero il pubblico e suscitarono il clamore dei critici e degli appassionati.

Esse trovarono immediata e definitiva collocazione nella chiesa sita alle pendici del colle e la stampa locale diede gran risalto al lavoro compiuto dall’arditissimo Wostry, talento emergente.

Scrisse Silvio Benco in occasione degli interventi di pulitura delle tele ai quali partecipò lo stesso autore: “Vedete quante novità di visione e di composizione ha portato il giovane Wostry nel tema sacro. Vedete, nella quinta stazione, la figura stupenda del Cireneo, e come essa grandeggia, riempie di se lo spazio; vedete il bel accento drammatico (e pittorico) del paesaggio nell’episodio di Cristo caduto sotto la croce; vedete la magnifica figura orientale della Veronica e l’espressione dolorosa del volto; vedete nella Spogliazione quella bellezza d’accordo tra il rosso vibrato e i delicati gialli e cilestrini; vedete nella scena, pur tante volte dipinta, delle Crocifissione, il ripiegarsi stanco del corpo di Gesù, e quell’efficace quinta vivente e sofferente data dal corpo d’uno dei ladroni e dalla figura inginocchiata della Maddalena, e in fondo gli impasti rari e delicati di toni sul petto che s’intravede, dell’altro ladrone; vedete infine, nella Deposizione, l’effetto assolutamente nuovo tratto dall’aver tutto chiuso il corpo di Cristo nel lenzuolo funebre, che biancica con ombre azzurrastre nelle tenebre rotte appena da una debole face” (“Il Piccolo”, 2 aprile 1941).

La vocazione di Wostry nei confronti dell’arte sacra fu l’unica costante, in verità, di una lunga vita artistica (lavorò sessant’anni!) caratterizzata da molte variabili alterne: fu verista, baroccheggiante, orientalista, impressionista, preraffaellita, pittore storico e ... opportunista!

Se non le correnti e le mode, inseguì spesso, senza vergogna, i gusti degli acquirenti.

Faccio il piacere di coloro che si improvvisano raccoglitori” era solito dire, e nella sua Storia…(p. 251) ricordò che i suoi lavori gli procurarono un guadagno straordinario che gli permise di far fronte ai bisogni della vita.

Aggiunse: “Alcune ‘imitazioni’ mi furono pagate tre volte i miei originali che avrei volentieri ricomperato” (Storia… p.247); non c’è da stupirsi, dunque, della sua sincerità, della sfrontatezza, dell’intraprendenza, ma anche del desiderio che ebbe di sentirsi e voler apparire ‘artista’, nella concezione e nel significato rinascimentale del termine.

Non di rado riaffiorò in Wostry una vena narcisistica: ben ‘pubblicizzata’ anche dai suoi numerosi autoritratti, contribuì a creare attorno alla sua persona, una kafkiana ragnatela di cristallo.

“Logorata” dal tempo e féssa dalle invidie d’alcuni colleghi che si ritennero più moderni di quanto lo fosse lui nella metà degli anni Venti, si rivelò fragilissima e si frantumò, ma le sue ‘schegge’ persistenti, ineliminabili, mai consentirono di ridurla in polvere.

Soltanto il recente lavoro di ricerca ha messo in luce, tuttavia, alcuni aspetti meno noti della sua attività iniziale e gli stretti contatti che ebbe con Umberto Veruda.

“L’Indipendente” del 4 giugno 1888 riporta: “Da ieri, la magnifica sala del nostro Circolo Artistico ha un nuovo ornamento che la rende più caratteristica. Nello spazio riservato alla scuola del nudo, sono esposte in giro alle pareti le caricature de’ suoi fondatori: una galleria delle meglio riuscite, che probabilmente sarà completata. Il giovane e fervido ingegno di Wostry e Veruda vi si rivela in tutta la sua balda e felice disinvoltura.”

Cinque anni più tardi lo stesso giornale (1 aprile 1893), pubblicò l’articolo Una bizzarria artistica nel quale si scopre la collaborazione totale dei due artisti che dipinsero uno accanto all’altro, a quattro mani.

Così si legge: “Già nello scorso inverno era corsa voce nei nostri circoli che il Veruda e il Wostry, presi da un balzano capriccio, si fossero posti a lavorare assieme intorno alla stessa tela: molti non credevano, altri gridavano alla fantasia di stagione (s’era di carnovale), altri, infine, considerando non a torto le essenziali differenze dei due vigorosi talenti pensavano ne verrebbe cosa così sproporzionata ed informe che gli stessi autori l’avrebbero distrutta prima di finirla. Invece non fu così: il quadro ha ricevuto l’ultimo tocco e fu coraggiosamente esposto nel solito tempietto di via Ponterosso [Schollian].”

La Donna che coglie fiori in un giardino fu il soggetto dell’unione dei due amici; nel dipinto Veruda eseguì la figura e Wostry si dedicò all’ambiente.

E’ curioso il commento del critico: “L’ambiente è riuscito al Wostry d’una luminosità, d’una vivacità di colorito sì plastica che si crederebbe vedere il sole introdursi fra l’uno e l’altro filo d’erba e discacciar l’ombra dovunque. Non è nuovo questo effetto prepotente; ma è personale al Wostry che l’ha posto a rappresentare il suo carattere artistico, come il Veruda ha estrinsecato il suo nella lesta e scorrevole pennellata con cui rese i merletti dell’ombrellino, i fiori, il cappellino”.

All’epoca, non meno impressione delle stazioni della Via Crucis, suscitarono i dipinti di Wostry Regina Marthyrum pervaso da una teatralità che rimanda alle composizioni allegoriche d’importazione imperiale e l’enorme quadro ad olio di soggetto idillico Dafni e Cloe; in quest’ultimo, dove tutto ‘è finemente delineato con gentilezza, dove il colore è appropriato’, Wostry ‘non fu alieno di ogni convenzionale idealismo e rappresentò il tema con senso del vero, modernamente’ scrisse un cronista de “L’Indipendente”.

Altrettanto interesse destarono l’allegra Fantasia di primavera, alcuni ritratti (Ritratto del signor Brunner, Ritratto della signorina Engelmann), Il vecchio e il nipotino, Il pizzicotto, Le tre grazie e La piccola convalescente opera che gli consentì di vincere il Premio Rittmeyer e di recarsi a studiare e ‘ripassare’ pittura a Roma.

Fu un balzo nel buio perché una malattia gli causò la perdita della funzionalità dell’occhio sinistro e destino volle che per tutta la vita egli ebbe una visione monoculare; certamente ne fu condizionato più di quanto si possa supporre, ma ciò non gli impedì di essere disinvolto, di sfidare continuamente se stesso, di osare.

Anzi, superati i primi timori egli, disegnatore formidabile e caricaturista per vocazione e diletto, si dedicò anche alla scultura, alla tecnica dell’incisione - agli inizi del Novecento essa costituiva una novità a Trieste - alla medaglistica (eseguì la medaglia della Società delle Corse, la medaglia della redenzione, quella per il congresso della Società Nazionale Dante Alighieri, una targa dedicata ad Oscar Gentilomo, un’altra per il re del Montenegro), alla xilografia (I Martiri della Redenzione – Trieste Austriaca sotto l’Austria), alle miniature, all’affresco, al restauro, alla decorazione e alla ‘progettazione’ di mobili e persino all’oreficeria (eseguì per il gioielliere Janesich il gruppo allegorico delle Assicurazioni Generali).

Mantenne stretti rapporti con la fotografia quand’essa costituiva da qualche decennio appena, la novità del secolo: già nel 1886, infatti, in una storica circolare del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, il governo italiano riconobbe che la fotografia era un’arte. Dopo il viaggio in Francia di Giuseppe Sigon, a Trieste se ne discusse ampiamente. In seguito il termine fotografia-artistica fu liquidato, ma il dibattito sull’effettivo e rispettivo valore tra la fotografia e la pittura si protrasse.

Anche Wostry, come altri pittori locali, ne fu coinvolto, ma mai sentì la fotografia, che tanto gli piacque, indispensabile per fare pittura. Tuttavia se ne servì: non è un caso che La pianella, pregevolissimo nudo femminile che suscita candida emozione, abbia vaghe somiglianze con alcune fotografie di Demachy e Puyo che probabilmente il pittore vide a Parigi presso qualche laboratorio o studio.

C’è comunque tutta la maestria di Wostry nell’immagine di questa bellissima ragazza ripresa in un atteggiamento assai più spontaneo di molte fotografie dell’epoca. I colori del dipinto sono stesi con delicatezza e risultano fluidi; l’incarnato è reso magistralmente e una posizione naturale e spontanea la fa vibrare di sensualità. La sua acconciatura riporta al periodo liberty e ammirando il quadro si respirano le atmosfere di alcune opere di John Everett Millais e Valentie Cameron Prinsep.

Wostry che partecipò alle Biennali di Venezia nel 1910, 1920, 1922, 1924, 1935, dopo essersi improvvisato giornalista de “Il Palvese”, fu pure grafico pubblicitario e si avvicinò al cartellonismo, (conobbe i lavori di J. Hassal uno dei più famosi cartellonisti di fine ‘800 e la grafica francese di Steinlen); non è ancora tutto! Animatore del Circolo Artistico di Trieste, ideatore e organizzatore di mostre e di clamorose burle, assunse sempre il ruolo di protagonista.

Nella sua carriera rimane a tutt’oggi, e più che mai brillante, il memorabile 1888 anno nel quale dipinse Tramonto al molo San Carlo – simbolo della mostra Carlo Wostry Da San Giusto a San Francisco - Passeggio Sant’Andrea, la scompariniana Scena Allegorica e i due antitetici ritratti di Giuseppe Garzolini e di Pietro Sartorio.

Viaggiatore instancabile, l’artista ritornò più volte a Budapest per motivi di lavoro - tra gli altri fece il ritratto della cantante Vasquez, del generale Thürr, del conte Appeny, del conte Andrassy e - in Ungheria presentò l’avvincente e poderoso ritratto di Giuseppe Garzolini - fu a Barcellona e a Dresda dove espose cento ritratti al Salone Richter.

Wostry fu capace di eseguire un’ottantina di opere di grandi dimensioni in un anno!

In Normandia, dove si accostò ai quadri di Eugéne Boudin, scoprì il fascino della Côte Fleurie e dipinse le donne, le mareggiate e I pescatori di aringhe; abbandonata la Francia andò a Londra per conoscere meglio le opere di Dante Gabriele Rossetti, Holmann Hunt, William Morris, Edward Burne-Jones e dei caricaturisti d’oltre Manica.

Uno dei suoi dipinti inglesi è L’ostacolo.

Il pittore (era d’origine irlandese), si spinse in Russia e successivamente in Attica attratto dai cieli ‘smaltati di brillanti’; fu ad Atene dove realizzò i dipinti Il teatro di Dionisio, I Propilei e in Turchia dove eseguì Il ponte di Galata, Tappeto Indiano e innumerevoli soggetti esotici che lo appassionarono. Poliglotta, sapeva pure suonare l’armonium e la chitarra.

Irredentista convinto, dal 1916 insegnò all’Istituto Industriale: accettò l’incarico con l’unico scopo di impedire la nomina di un insegnante austriaco in un ambiente notoriamente nazionalista.

Infine scrisse La storia del Circolo Artistico di Trieste un libro di grottesche memorie (e non solo!) che tenne nascosto per anni in un armadio e pubblicò nel 1934, nel cinquantenario della fondazione del Circolo, per liberarsi di un ‘ingombro spirituale’.

Sibillina la sua frase: “Avevo tutta l’attitudine a diventare un grande: m’è mancato il genio.”

Presunzione o consapevolezza dei propri mezzi?

Significative a tal proposito alcune riflessioni che Wostry mise per iscritto nell’articolo A un giovane impressionista (“Il Palvese”, 24 marzo 1907): “Siamo già in decadenza e più decadenti dei romantici di cinquant’anni fa”.

Continuò in tal modo: “Qualunque artista risente oggi il benefizio di quel raggio di sole che ci arrivò dalla Francia”.

E Wostry in Francia rimase dal 1896 al 1903, espose diverse volte alla Galleria del Frate, partecipò alle mostre del Salon nel 1898 e 1899, ricevette riconoscimenti ufficiali, fu vignettista de “Le Figaro Illustré”; a Parigi, dove si recò con nove anni di ritardo rispetto l’amico Umberto Veruda, dipinse il quadro concepito a Trieste Cristo e la Maddalena per la chiesa di San Rocco, il Martirio di San Giusto conservato nella Cattedrale, la Scena boschereccia del Civico Museo Revoltella.

I grandi Boulevards, un olio su tela di questo felice periodo, fu venduto nel 1987 in un’asta di Sotheby’s a New York.

Nella capitale francese Wostry dipinse tantissimi quadri di varie dimensioni affrontando soggetti mondani, ritrovi alla moda, interni di caffè, scene ippiche, aspetti della città che lo incuriosivano di cui si conservano molte fotografie, ma di cui si sono purtroppo perse le tracce. Gli ultimi soggetti parigini di Wostry furono presentati a Trieste nella mostra postuma del 1943 presso la Galleria Michelazzi.

 

 

Ti sogno California ovvero l’America di Wostry

 

Ciò che spinse il Grande Vecchio ad imbarcarsi su un piroscafo per raggiungere l’America a sessant’anni, fu l’innata curiosità, il desiderio di mettersi alla prova in età avanzata, la solitudine e le amarezze provate a Trieste. Alcuni lavori nella Chiesa di San Vincenzo de’ Paoli (dove ebbe la collaborazione di Guglielmo Samuel) non si conclusero com’egli auspicava e i suoi progetti per l’abside della Cattedrale di San Giusto e quelli per la decorazione della Chiesa di Sant’Antonio, non furono approvati dalla Commissione ai Monumenti.

Giunto a New York alla fine del 1925, trovò facilmente impieghi poiché non ebbe troppi concorrenti nel dipingere vaste superfici; tra le altre cose decorò con dieci quadri che rappresentavano la vita della Vergine, la chiesa Nostra Donna di Lourdes. Fu a Washington (espose alla Galleria Levi), a Chicago e raggiunse la California.

A San Francisco si fermò a lungo e dipinse spesso le Case da the che frequentava.

A Los Angeles lavorò nella chiesa Prezioso Sangue di Gesù dove dipinse opere ‘di un rinascimentismo primitivo ancora rigido e medioevalizzante’ e a Pasadena, nella Cattedrale di Sant’Andrea (dipinse l’abside e la navata centrale) nella quale ricordò il ‘venezianismo arioso’ dei grandi maestri del passato.

Ma Wostry, elegantemente mondano, amante del bel vivere, frequentò l’alta società americana e lavorò pure nei teatri e in alcuni casinò (dipinse i soffitti di un casinò a Los Angeles). Visse parecchio tempo in un sobborgo di Los Angeles, ad Hollywood, in un ‘incanto di ville e giardini; si sorprese molto delle abitudini degli americani che riempivano i frigoriferi di scatolame, che acquistavano per dieci dollari un’automobile usata, che suonavano jazz e ‘ballabili’ con gli organi delle chiese.

Gli piacquero i grattacieli, si rammaricò di non poter guidare l’automobile per il problema degli occhi (gli piacquero le Lincolm), ma ‘i tranvai’ che frequentava gli offrivano quotidianamente ‘sorprese’ meravigliose, com’egli scrisse, quando di fronte a lui si sedevano le biondissime californiane tutte imbellettate.

“Quando siedono in tranvai non vi dico i panorami che s’offrono all’occhio. Ma è proibito osservare o si finisce in prigione”.

A Wostry piacquero sempre e dovunque le donne: “Le donne americane sono i più bei campioni femminili che esistono”, ricordò ai disinformati concittadini.

In America ascoltò molto la radio che lo entusiasmava. In un articolo da lui scritto e pubblicato in due puntate su “Il Piccolo” del 18 e 25 maggio 1930 si legge: “Ho udito distintamente la voce di Marconi parlare da Londra e una mattina fecero irruzione nel mio studio le voci gaie di alcune ‘divettes’ del Moulin Rouge di Parigi.

In California dipinse il deserto in fiore - ora vado a dipingere il deserto in fiore e spero che i serpenti a sonagli siano ancora in letargo… i cactus di cento specie con fiori grandi come cavoli gialli, rossi, scarlatti, violetti - gli indiani, le loro attività nelle riserve e i loro accampamenti.

Un mitico coast to coast anni Trenta, consentì al pittore di arrivare in Florida dove decorò alcune ville e dipinse paesaggi, ritratti, il noto Attrici di Hollywood ai piedi dell’alto salice e cantanti in voga.

Eseguì infine un gruppo marmoreo rappresentante la Comunione di San Giovanni per la chiesa  del Santissimo Sacramento di Hollywood e nel 1937 tornò definitamene a casa.

“Questa vita mi ha fatto ringiovanire di dieci anni!” disse.

 

 

  

Walter Abrami