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Body Art
“Le sole opere che oggi contano sono quelle che non sono più opere”, così anticipava Theodor W. Adorno nel 1949, così Luciano Inga Pin apriva il volume “Performances” del 1978, anno in cui si poteva già tracciare un bilancio di due decenni ricchi di azioni e happenings. L’onda del Fluxus, movimento sorto alla metà degli anni ’50, aveva unito artisti, musicisti e performer europei, americani e giapponesi; le loro azioni scivolavano con fluidità tra media e generi, diventando via via più provocatorie e destabilizzanti: “La linea tra arte e vita deve rimanere fluida, e la più indistinta possibile. [...] La composizione di un happening è uguale a quella di un assemblage e di un environment cioè è costituita da un certo collage di eventi in certe misure di tempo e in certe misure di spazio” 1 Dagli anni ’60 il corpo si fa il tramite attraverso il quale l’artista si interroga sulle proprie pulsioni, manifesta il disagio verso i condizionamenti della società, rifiuta il manufatto artistico come prodotto di una specifica techne e si ribella a quel sistema di mercato a cui Marcel Duchamp, per primo, non si era assoggettato. Il corpo, nuovo veicolo espressivo che prende le distanze da ormai sorpassate ricerche estetiche, viene indagato senza tregua, spesso senza pietà: si scava nei piccoli gesti quotidiani ossessivamente ripetuti ed amplificati, si nega la separazione tra pubblico e privato portando alla luce nevrosi, malattie, angoscie e desideri, si esibiscono le proprie deiezioni, auto-infliggendosi ferite secondo personali rituali catartici. “L’atteggiamento ritualistico concima la ricerca di un rapporto fra attività estetica e piacere regressivo... [...] tutto questo quotidiano porta inevitabilmente a uno stadio di angoscia di essere-nel-mondo, al dolore per l’impossibilità di mettersi in reale rapporto con esso: ecco, allora, la reazione da catastrofe, il delirio di protezione.” 2 Negli anni ’60 a Vienna, Hermann Nitsch fonda il Teatro delle Orge e Misteri, che reinterpreta la tragedia classica mettendo in scena in tempo reale, pratiche di culto dai rimandi ancestrali; dai rituali che ne derivano emergono pulsioni profonde che soggiogano lo spettatore e lo accompagnano fino alla catarsi finale. L’azione è lenta, ossessiva e permeata dalla violenza: il sangue e le interiora delle carcasse di animali presi al macello scorrono sui corpi adagiati sopra candidi sudari, legati o crocifissi, vittime passive di gesti di matrice dionisiaca. Insieme a Nitsch altri artisti si uniscono nel Wiener Aktionismus: Otto Muehl, Rudolf Schwarzkogler, Günther Brus miscelano la carica espressionista alle forze messe in moto dalla psicanalisi; Arnulf Rainer lavora sull’autoritratto fotografico, iniziando con la serie Face Farces del 1968, immagini realizzate in una cabina per foto automatiche della Westbahnhof di Vienna, su cui interviene con segni pittorici tesi e graffianti per accentuare espressioni e smorfie, aggiungendovi dinamismo e tensione: “Nel mio lavoro l’arte figurativa è mimica e ginnastica [...] in questo modo faccio dell’arte una ricerca antropologica, dato che l’uomo è soltanto una massa; un cumulo di germi, di possibilità che egli stesso appena sospetta e che per una buona parte rifiuta a priori.”3 Negli azionisti viennesi la violenza diviene auto-aggressione e tortura, vuole essere il mezzo per destabilizzare e frantumare la normalità dell’individuo; grande è lo scandalo di quegli anni, tante sono le censure, le denunce e gli arresti... Qui, come in altre Azioni, lo spettatore non può più limitarsi ad una passiva contemplazione, ma è chiamato costantemente in causa:, si fa complice, vittima e carnefice; si mette in discussione, prova empatia e repulsione, diviene cassa di risonanza del performer. Nella impellente ricerca di nuove dimensioni, si utilizzano spazi al di fuori dei luoghi tradizionalmente deputati all’arte, si miscela l’arte “alta” con i fermenti colti dalla strada, adoperando con estrema libertà tutti i canali comunicativi ed i mezzi di ripresa e di registrazione: macchine fotografiche, cineprese, ma anche radiografie, misurazioni e tracciati topografici. Enrico Job nel 1974 realizza Il Mappacorpo, composto di circa 1000 fotografie; per quest’opera la pelle dell’artista è “mappata” e suddivisa in quadrati di 4,50 cm. per il corpo e 2,50 cm. per la testa; ogni quadrato viene fotografato, ingrandito del doppio e ricomposto su pannello. “Una pelle di uomo scuoiato: un animale ridotto a tappeto. L’intenzione del Mappacorpo, come quella di qualsiasi mappa, è di costringere a un’unica dimensione ciò che è vivo, e quindi agisce contro la doppia dimensione spazio-tempo.” Di certo la fotografia porta un contributo fondamentale al riscatto del corpo nella Body Art: “la presa di coscienza della propria corporeità passa analogamente attraverso l’impiego di un medium (specchio o fotografia) col quale si ricompongono unitariamente, da un punto di vista sia emotivo sia funzionale, i frammenti di un corpo che il bambino vive ancora in maniera separata e che l’adulto in qualche modo si rifiuta di trasferire in un ambito di comunicazione sociale.” 4 E all’utilizzo della fotografia come specchio ricorrono molti degli artisti di quegli anni, lavorando sull’autoritratto non solo come verifica della propria corporalità, ma come proiezione in uno spazio illusorio, mediante auto-trasformazioni che oscillano tra slittamenti di gender e ardite messe in scena. Attingendo dalle esperienze della Rrose Sélavy di Marcel Duchamp e alle poli-identità di Claude Cahun, numerosi artisti si travestono, ricomponendo io trasversali attraverso la “certificazione” del mezzo fotografico.” Il Free Power di fine anni Sessanta irrompe anche sui palchi teatrali e musicali, accolto da musicisti Glam Rock ed Heavy Metal, che utilizzano androginia e trasgressione contro le censure del perbenismo. I musicisti/performer attingono indifferentemente dalle icone del passato, dai film di serie B, ai prodotti dell’industria pubblicitaria; drag queen e impersonators oltrepassano i confini dei teatri di second’ordine amplificando quel nomadismo culturale che ha mantenuto inalterata la sua carica fino ai giorni nostri.
Note: 1. Allan Kaprow “Di alcuni principi dell’happening”, 1966 2. Lea Vergine “Il corpo come linguaggio”, 1976 3. Arnulf Rainer, 1970 4. Claudio Marra “Fotografia e pittura nel Novecento”, 2000
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