BOCCASCENA
 

 

Giuliano Confalonieri

 

 

 

 

Palchi visti dal boccascena

 

 

Teatro ha l’antico significato di ‘guardare’ e quindi, per estensione, forma di divertimento e spettacolo. I giochi pubblici greci e i ludi romani, i tornei e le giostre medioevali, erano macchine teatrali con caratteristiche che facevano del ‘guardare’ un sinonimo di partecipazione emotiva. In Grecia – dal VI sec. a.C. –  una semplice tenda all’aperto divideva pubblico e attori, più tardi si costruì il semicerchio attorno al punto focale della scena; gli anfiteatri sono la testimonianza più tangibile, ancora in epoca moderna, di concepire lo spazio per coinvolgere il pubblico nel ‘rito’ della rappresentazione.

 

Etienne Du Pérac, Anfiteatro Castrense, acquaforte

 

Lo stesso ‘buffone’ con i propri lazzi faceva spettacolo alle Corti medioevali e rinascimentali diventando una figura ufficiale di quelle società.

La storia dell’architettura teatrale si evolve attraverso le civiltà con soluzioni diversificate in base alle esigenze e alle mode ma inalterato rimane il rapporto tra chi dà e chi riceve: l’Olimpico di Vicenza, la Scala di Milano e l’Arena di Verona sono tre soluzioni ambientali dentro le quali mutano le sensazioni ma non l’interscambio tra palcoscenico e platea.

 

Verona, Arena

 

Nel Medioevo le pubbliche piazze fungevano da piattaforma per l’azione dei teatranti, durante il Rinascimento furono i palazzi aristocratici ad ospitare il vecchio ‘Carro di Tespi’ – leggendario trageda greco che girava l’Attica con un palcoscenico mobile – poi la genialità del Palladio e del Piermarini rivolse l’attenzione anche all’acustica, alla prospettiva, alla logistica di palchi, atri, logge, platee e golfi mistici.

Esibizioni acrobatiche ed equestri, marionette e burattini, cantastorie e mimi, giullari e menestrelli, la Commedia dell’Arte, il melodramma ottocentesco, la tragedia e la commedia, la danza e l’espressione corporea, come forma di comunicazione ed espressività. Parole e gesti per suscitare emozione e risate liberatorie ricreati dall’innata predisposizione dell’essere umano alla mistificazione e dal suo bisogno di presentare il proprio volto come una maschera, simbolo di insicurezza e di menzogna. L’artificiosità del processo articolato e stratificato delle ‘invenzioni’ teatrali che si sono succedute nei millenni, evidenzia un dualismo psicologico tendente a sublimare la realtà in fantasia.

La maschera assume il valore di logo del teatro proprio per la sua aderenza al ‘phisyque du rôle’ del personaggio, ovvero dell’alterazione voluta e dovuta per rappresentarsi. La maschera come contraffazione delle sembianze umane o animali è probabilmente di origine rituale. Il simbolismo insito nell’espressione rigida del materiale usato (cuoio o cartapesta) è così implicito da ipotizzarne l’uso in civiltà molto antiche, forse anche nelle tribù dei periodi preistorici. La finta testa o il finto volto con il loro enigmatico segreto hanno da sempre un potere carismatico molto forte nei confronti del gruppo: quindi il mito, religioso o sociale, non poteva che essere rappresentato in forma tangibile attraverso un’idea fantastica.

Il vocabolo latino ‘persona’ (di probabile origine etrusca), prima di assumere il significato attuale indicava la maschera teatrale.

Il popolo egizio ha lasciato bassorilievi e maschere funerarie a testimonianza della mistificazione del reale.

 

 

Il teatro greco usava abitualmente la maschera come mezzo espressivo: la caratteristica grande apertura della bocca aveva la doppia funzione di amplificare la voce e di estrinsecare lo stato d’animo del personaggio. Già i romani usarono questo artifizio convenzionale proprio perché il linguaggio simbolico di un viso artefatto atteggiato a smorfia o sorriso (tragedia e commedia) aiutava commediografo e attore alla simbiosi con la platea. La Maschera più vicina a noi, dopo secoli di dimenticanza, è quella della Commedia dell’Arte (arte come sinonimo di mestiere e corporazione), una forma di spettacolo improvvisato sulle variabili di un canovaccio. Personaggi derivati dalla tradizione popolare con i loro dialoghi mimati facevano riconoscere al pubblico il ‘carattere’ impersonato dall’attore.

Usata per la sua carica grottesca, la Maschera assume nel tempo le fattezze di un personaggio definito: non più il semplice sentimento ma anche un ‘tipo’ nelle cui caratteristiche lo spettatore riusciva facilmente a identificarsi. Ecco Zanni (servo scaltro e imbroglione), Arlecchino (tanto povero da indossare un abito rattoppato con pezze di ogni colore), Pantalone, Balanzone, Brighella, Scaramuccia, Meneghino, Gianduja, Pulcinella, Stenterello, Rugantino, eccetera. Fu proprio la ripetitività degli schemi a causare la decadenza della Commedia dell’Arte.

 

 

In piazza, sua sede naturale, lo spettacolo viaggiante è un tipo di divertimento genuino e diretto: cani ammaestrati, fachiri e saltimbanchi, famiglie itineranti che con pochi riflettori, un semplice velario e sedie in plastica ricreano l’atmosfera dello chapiteau dei grandi nomi del mondo circense, una forma di spettacolo popolare viaggiante ideato nel 1779 dall’inglese Philip Astley. Le antenne imbandierate si diffusero sia in Europa che negli Stati Uniti dove nell’Ottocento cominciò ad operare il famoso impresario Barnum. Oggi il circo è in fase di recessione per l’opposizione degli animalisti e per la supremazia dei nuovi intrattenimenti. Tuttavia alcune famiglie come Togni e Orfei producono ancora ‘il più grande spettacolo del mondo’.

A Parigi ha sede stabile il Cirque d’Hiver, nei paesi dell’est la tradizione è molto viva, in Cina numerose scuole addestrano i giovani in complessi esercizi acrobatici, nel Principato di Monaco ha successo il Festival del Circo. Fu l’italiano Franconi nel XVIII sec. a dare impulso all’attività circense nel nostro paese, soprattutto con le pantomime del clown ‘bianco’ per la faccia infarinata e ‘augusto’ per l’uso di scarpe spropositate, il naso rosso e la parrucca fantasiosa. Uno dei più grandi clown fu lo svizzero Grock, comico, funambolo e musicista; anche la famiglia Fratellini (di origine italiana ma attiva in Francia) contribuì notevolmente ai primi del Novecento al successo di un genere che comprendeva esibizioni dei cavalli ammaestrati, del lanciatore di coltelli, del domatore, del funambolo, dell’antipodista, dell’acrobata, della contorsionista, del trapezista e del giocoliere.

 

 

Il famoso Buffalo Bill (William F. Cody), che compì stragi di bisonti per nutrire gli operai della ferrovia del Pacifico e combatté contro gli indiani Sioux, lavorò con il Circo Barnum e portò in Europa alla fine dell’Ottocento un suo Circo nel quale rievocava l’epopea del Far West americano.   

La tradizione dei cantastorie e dei mangiatori di fuoco, dei nani e della donna cannone, un mondo apparentemente romantico ma in realtà legato alla dura legge della “Strada” felliniana con Zampanò e Gelsomina. Anche i burattini fanno parte della troupe degli artisti da strada, simbolo povero di uno spettacolo popolare con radici antiche: ne parlano gli scrittori classici e le cronache medievali riportano il loro uso nelle chiese per sacre rappresentazioni o nelle corti feudali per intrattenimento. La marionetta (azionata dall’alto con i fili) e il burattino (manovrato dal basso con le mani) sono rappresentanti di un mondo semplice nel quale tuttavia non mancano citazioni culturali.

Notizie storiche indicano Giappone e Cina come esportatori in Occidente di personaggi con il corpo snodato e le teste in legno o terracotta. I secoli XVI e XVII vedono i pupazzi girare l’Europa, interpreti di copioni originali o di adattamenti da canovacci teatrali conosciuti. A Venezia il genere era molto diffuso tanto che lo stesso Carlo Goldoni ricorda il padre intento a manovrare i fili a San Tomà; i Pupi siciliani sono famosi per il loro repertorio eroico-cavalleresco; il Teatro dei Piccoli fondato nel 1922 da Vittorio Podrecca ha divertito diverse generazioni di giovani spettatori; la famiglia Colla ha costituito per decenni il nucleo portante del vecchio Teatro Gerolamo di Milano. A Campomorone, dal 1996 il Museo delle Marionette espone la collezione di Angelo Cenderelli (1897/1959), più di 70 esemplari e 100 copioni con costumi e scenografie d’epoca di uno spettacolo di successo.

 

La tradizione teatrale in Liguria risale alla fine del XV secolo con la “Farsa dei Pellegrini” scritta da Adorno anche se rappresentazioni di carattere sacro e qualche accenno nella letteratura medioevale può fare recedere di qualche secolo il concetto di teatro nella nostra regione. Più che compagnie di giro o mestieranti, in questi casi erano intere comunità a seguire copioni che prediligevano un tipo di drammaturgia popolare coinvolgente, malgrado opposizioni e censure, con canti di laudi scritte da poeti dell’epoca per conto delle Confraternite.

A Genova si ha notizia di spettacoli sacri medioevali; la Commedia dell’Arte si presenta nel XVI sec. in coabitazione con il retaggio dei cantastorie e dei mimi. Si costruirono i Teatri Falcone, Sant’Agostino e delle Vigne. Nel 1772 si stabiliscono prezzi e regole che valgono per i vari tipi di programma: opera seria e giocosa, prosa e feste da ballo. Il Senato del tempo censurava ciò che riteneva non consono alla pubblica morale o non conforme alle sue direttive, fino al paradosso di vietare l’ingresso alle donne nel 1795. Il Teatro Falcone, già in disuso perché adibito a magazzino, fu distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale insieme al Sant’Agostino; il Teatro delle Vigne, in legno, chiuse alla fine dell’Ottocento. Il Campetto, il Diurno, l’Apollo, l’Andrea Doria, il Paganini  e altri ambienti dislocati nelle delegazioni documentano la vivacità di un tipo di spettacolo diversificato che includeva anche esibizioni acrobatiche ed equestri, marionette e concerti.

La cronaca genovese ricorda le tribolazioni per ricostruire sia il Modena di Sampierdarena (aperto nel 1857, notevolmente manipolato negli anni Trenta per ampliarne la capienza e trasformarlo in cinematografo) sia il Carlo Felice (aperto nel 1828, risorto dopo i danneggiamenti subiti per le incursioni aeree notturne del 1943): “Giuseppe Verdi trascorre gli inverni a Genova, gli piace il clima, i dolci locali, è solito regolare il suo cronometro da tasca sull’orologio del Carlo Felice famoso per la sua infallibilità (Secolo XIX, 1889)”.

A Savona nel 1963 riapre il Chiabrera, costruito nel 1853, dopo una radicale ristrutturazione. Il minuscolo Teatro Sacco, ricavato nell’omonimo palazzo alla fine del Settecento, è inoperoso dal 1983. Il Teatro Aycardi a Finaborgo (inaugurato nel 1804, chiuso dal 1965), il Sivori di Finale Ligure (inaugurato nel 1867, chiuso dal 1956). Il Teatro Impavidi di Sarzana (1809), il cui palcoscenico ospitò Toti Dal Monte, Lina Pagliughi, Adelina Patti ed Eleonora Duse nel 1878, è ancora attivo. Il Teatro Cavour di Imperia (1871) dal 1990, dopo essere stato usato per decenni come cinema, è rientrato restaurato nel circuito teatrale. Il Teatro Sociale di Camogli (1876) è stato “costruito da sessanta caratisti che spesero più di 200 mila lire. Erano lupi di mare, usi a tutte le tempeste e a tutti gli ardimenti. Ma sentivano il bello” (G. Bono Ferrari). Si ricordano in zona anche i famosi Diurni (teatri viaggianti estivi con rappresentazioni pomeridiane), il Politeama, il Wanda, il Salone Marherita e il Reposi. Nel 1868 furono censite in Liguria 42 sale e 1018 nell’intera penisola.

Una forma moderna di proposte teatrali è quella del Festival, un lemma derivato dal latino medioevale ‘festivalis’ ovvero festa popolare con musiche, balli e luminarie. In spazi all’aperto, nella stagione estiva, negli ultimi decenni Spoleto, Taormina, Avignone, Borgio Verezzi, Nervi, Siracusa, Verona e molte altre località organizzano una serie di rappresentazioni che toccano varie discipline dello spettacolo coinvolgendo un grande numero di spettatori sia per le novità di testo o di regia sia per la particolare atmosfera della platea all’aperto. Solitamente sono zone con ambienti storici e naturali adatti ad ospitare manifestazioni del genere per la loro suggestiva cornice naturale.

Il termine Festival fu usato per esempio nel 1869 in Francia per ‘Chorègies d’Orange’ allestito per valorizzare il locale teatro romano; nel 1911 si rappresenta ‘Edipo Re’ a Fiesole; nel 1913 ‘Aida’ all’Arena di Verona, nel 1914 ‘Agamennone’ a Siracusa; nel 1926 D’Annunzio propone ‘La figlia di Iorio’ nel parco del Vittoriale. Un susseguirsi di eventi artistici – dalla musica alla danza, dal cinema al teatro – nei quali le novità convivono con la tradizione tentando comunque di stimolare creatività e invenzione.      

 

Finale Ligure ha due sale storiche ottocentesche: il Teatro Sivori chiuso dal 1956 per carenze nelle normative  di sicurezza; la sala a ferro di cavallo si presenta tuttora, pur nel degrado generalizzato, nella sua struttura originaria. La Commissione che ne decise la costruzione dedicò il Teatro all’insigne musicista “Camillo Sivori - Finale Marina - MDCCCLXVII”; nel “Programma per la costruzione di un teatro” del  24 gennaio 1865 si legge: “Fra i desideri o per meglio dire fra i bisogni più grandemente sentiti e in modo non dubbio espressi dalla quasi universalità della popolazione di questa Città, quello si è di avere un locale appropriato alle teatrali rappresentazioni”. Opere liriche, spettacoli d’arte varia, veglioni, la prosa della filodrammatica locale, riviste e serate del dilettante ebbero i loro momenti di gloria attraverso le  vicissitudini storico-politiche del Novecento. Il palcoscenico è largo al proscenio 7 metri e profondo 9, l’impianto architettonico ricalca lo stile del teatro all’italiana con sala e palchetti per 350 spettatori. Il dissesto della platea a ferro di cavallo circondata dagli ordini dei palchi del ‘Sivori’ (grande violinista ed unico allievo di Nicolò Paganini) e l’evidente stato d’abbandono degli arredi e delle strutture non riescono a sminuire l’atmosfera incantata di testimonianze che non si possono ignorare: il sipario ed il soffitto decorati, il disegno sinuoso degli archetti, le sculture lignee, i velluti stinti, le scale in ghisa, il lampadario centrale. Nel 1991 la Sagep ha edito il ricco volume illustrato “Teatri storici in Liguria” di Franco Ragazzi; vi si possono ammirare le fotografie di molti teatri d’epoca e conoscere le storie che stanno dietro le vecchie sale abbandonate.

 

A Finalborgo esiste ancora l’Aycardi, il più vecchio teatro ottocentesco della Liguria. Inaugurato nel 1804 per sopperire alla mancanza di un spazio adeguato ad ospitare spettacoli e feste, è nato per merito di  un gruppo di cittadini – tra i quali i rappresentanti delle famiglie più importanti del Borgo – che istituì la ‘Società del Teatro’ con gli scopi prefissati nel documento d’impegno controfirmato dai promotori: “Considerando li sottoscritti, che oltre essere il teatro un pubblico adornato, contribuisce di molto all’istruzione della gioventù ed a formare i buoni costumi, in riflesso che manca in questa città un conveniente locale onde attirare un sì vantaggioso esercizio, si obbligano a formarlo a proprie spese”. A differenza di quasi tutti gli altri teatri di quel periodo, l’Aycardi ha una struttura completamente in muratura, similmente al Teatro savonese Sacco-Colombo realizzato alla fine del Settecento. La sala del Borgo aveva originariamente una capienza di 250 persone nella platea, più due ordini di palchi ed un loggione (avendo mantenuto la curvatura absidale dell’oratorio preesistente, il palco ha una struttura ovoidale). Fu costruita nell’Oratorio dei Padri delle Scuole Pie, la cui istituzione era stata soppressa – con relativa confisca dei beni – insieme ad altri ordini religiosi dalla Repubblica Ligure. Dopo avere ospitato per decenni compagnie di giro e veglioni carnevaleschi, nel secondo dopoguerra l’Aycardi fu usato come  cinema. Dal 1965 è chiuso per motivi di sicurezza. Recentemente è stata rifatta la facciata, forse preludio ad un ricupero sostanziale: “Nel Novecento si ricordano alcune stagioni di prosa, recite dei filodrammatici locali (specie dei giovani del Circolo Leone XIII) e nel 1914 la commemorazione della nascita di Giuseppe Verdi con una giornata di festa che prevedeva cerimonie varie, concerti in teatro e l’edizione di una cartolina postale… Nel secondo dopoguerra l’Aycardi venne utilizzato per veglioni e come cinematografo, tappa obbligata nel processo di decadenza dei piccoli teatri di provincia, con qualche felice eccezione come il recital lirico del 1948… Nel 1965, il 7 di giugno, una commissione tecnica esprimeva il parere che il teatro non potesse più essere adibito a locale per pubblici spettacoli, per motivi di sicurezza.”

 

Il cinematografo si è occupato di questi autori realizzando per lo schermo gran parte delle loro opere nate per il teatro e le biografie più o meno fedeli alla loro vita reale. Il giovane Shakespeare è il protagonista di un film di successo del 1998 ‘Shakespeare in love’ di John Madden. In bilico tra realtà e fantasia, il film propone in un susseguirsi splendide immagini la creazione del copione di ‘Romeo e Giulietta’ facendo vivere all’autore la storia in contemporanea alla stesura del testo. Il gioco esemplare tra teatro e cinema, con l’uso degli artifici di ambedue le forme di spettacolo,  permette allo spettatore di calarsi nelle emozioni e nelle reazioni di un uomo del Seicento che si rivela soprattutto attraverso le sue opere. La regista francese Ariane Mnouchkine ha fondato nel 1964 il ‘Theatre du Soleil’ basato sul lavoro di gruppo; nel 1969 ha diretto al ‘Piccolo Teatro di Milano’ l’atto unico allegorico ‘La cucina’ di Wesker. Nel 1978 realizzò la coproduzione italo/francese ‘Molière’ (la vie d’un bonnéte homme) in una doppia versione: per il grande schermo durata 255’, per la Tv a puntate durata 300’. Il film racconta la vita e l’arte di Molière con grande partecipazione rievocando l’ambiente contadino, quello aristocratico e quello degli attori girovaghi della Francia del Seicento. Memorabile la sequenza finale del film quando l’attore-autore francese viene trasportato morente sulla scala al ritmo di un balletto macabro.

In Italia non è mai entrato nel circuito commerciale il film su GoldoniItalienisches capriccio’ (Capriccio italiano) di Glauco Pellegrini, prodotto nel 1960 su pellicola Agfacolor dalla Defa. Sceneggiato da Ugo Pirro, Liana Ferri e dallo stesso regista (senese, scrittore e insegnante al CSC, membro della sezione culturale del PCI). Interpretato da Ferruccio Soleri (Arlecchino), Nico Pepe, Claude Laydu (interprete del film ‘Diario di un curato di campagna’ di Robert Bresson), Maria G. Francia. L’azione si svolge a Rimini, Genova e Venezia nel XVIII sec. Su ‘Diario teatrale’ del 1992, Nico Pepe commenta: “Il film fu rifiutato prima per ragioni politiche: nel 1961 non era pensabile che sui nostri schermi potesse passare, anche se di eccellente fattura artistica e senza nessun significato politico, un film prodotto in un paese dell’area comunista… Momenti artistici bellissimi. Il racconto del film correva sulla falsariga delle ‘Memorie’ senza nessun arbitrio, senza nessuna di quelle concessioni tanto abituali nei registi cinematografici quando trattano argomenti o personaggi storici. Nessuna concessione ma il gusto dello spettacolo, l’amore a Venezia oltre che a Goldoni, una attenta cura allo stile e al carattere dei personaggi e l’aggiunta di quelle notazioni che Pellegrini nei suoi studi e nelle sue ricerche aveva trovato come complemento spettacolare alle ‘Memorie’. Un film che dovrebbe essere conservato in una cineteca italiana ed è invece in una cineteca tedesca.”

Con l’avvento del sonoro nel 1928 il cinematografo – per la sua enorme capacità di manipolare spazio e tempo – ha contribuito notevolmente alla diffusione della cultura e della propaganda di regime in una società con un tasso di analfabetizzazione elevato. L’Istituto LUCE fu fondato su questi presupposti. Fu il primo Ente Nazionale incaricato di coordinare e dirigere il cinema educativo: nel 1925 fu preposto dal Ministero della Pubblica Istruzione a preparare cineteche presso numerosi Provveditorati agli Studi per fornire le pellicole alle scuole medie (i maggiori comuni italiani, tra i quali Roma e Milano, fruirono del servizio anche per le scuole elementari). Nel 1926 l’Istituto costituì il primo gruppo di auto-cinema per la propaganda educativa gratuita tra le masse popolari. I camion attrezzati con il telone bianco, il proiettore da 35 m/m e gli altoparlanti gracchianti, sono ancora oggi nella memoria di molte persone che hanno assistito a quegli spettacoli itineranti. È merito del cinematografico la diffusione delle coreografie del balletto, fino ad allora confinate sul palcoscenico. Danza e mimica sono state usate in riti religiosi e cerimonie pagane dalle civiltà greca e romana; nel Medioevo la predilezione per questo tipo di spettacolo si esprimeva con le pantomime dei giullari e balli popolari in occasione delle feste di primavera, calendimaggio e maggiolate. Dalla scuola di danza classica alla jazz dance: il corpo ed il movimento nel contesto di una disciplina impegnativa. La scuola dell’Ottocento sveste i ballerini dai paludamenti barocchi imposti dal cerimoniale dei secoli precedenti e la coreografia acquista autonomia dai vincoli della scena statica e della gestualità convenzionale.

Le musiche di Ciaikowski, De Falla, Stravinski, Prokofiev e Casella furono tra le prime ad essere usate per il repertorio del balletto classico: Diaghilev, Taglioni, Duncan, Fonteyn, Fracci ne furono interpreti famosi. Cyd Charisse, Fred Astaire e Gene Kelly hanno danzato sul set di celebri film musicali (‘Ziegfeld Follies’, ‘Un americano a Parigi’, ‘Cantando sotto la pioggia’); Esther Williams inaugurò il nuoto sincronizzato nel cinema con la serie di balletti acquatici. ‘Bolero’ di Ravel, ‘Porgy and Bess’ di Gershwin, ‘West side story’, ‘Cabaret’, ‘All that jazz’ e ‘Chorus line’ – spesso rivisitazioni di produzioni nate per i placoscenici di Broadway – sono altrettanti spettacoli nei quali il movimento coreografico ha assunto un valore artistico ad alto livello.       

 

William Shakespeare (1564/1616) – Nasce nel villaggio inglese di Stratford-on-Avon da una antica ed agiata famiglia, la madre ereditiera e il padre John commerciante. Iniziò le scuole a sette anni: nel periodo elisabettiano l’insegnamento era basato sull’apprendimento meccanico delle nozioni e il futuro drammaturgo dimostrò un’ottima capacità mnemonica che gli sarebbe servita più tardi per costruire caratteri e canovacci. Lo studio del latino arricchì il suo vocabolario, la logica e la retorica affinarono le sue capacità dialettiche e quindi espositive, la conoscenza della mitologia greca e di quella romana gli fu di grande utilità nel lavoro creativo.

Si sposò ancora minorenne – tanto da avere bisogno del permesso dei suoi genitori – con una donna di 25 anni, Anne Hathaway. Nel 1583 ebbe la prima figlia Susan (causa delle nozze affrettate) e meno di due anni dopo nacquero i gemelli Hamnet e Judith. Dissesti finanziari della famiglia lo costrinsero poi a trasferirsi a Londra dove il teatro era il genere di spettacolo più diffuso e amato da tutti, dalla Regina Elisabetta all’uomo della strada. Le numerose sale private avevano la scena fissa, il proscenio prominente era senza sipario: la luce artificiale, i vari piani del palcoscenico e la disponibilità di scenografie diversificate influenzavano anche il modo di recitare degli attori; i teatri pubblici, generalmente scoperti, usavano invece la luce del giorno e un tipo di approccio con gli spettatori diverso.

In ogni caso era un ambiente favorevole per il talento innato di Shakespeare che cominciò il suo apprendistato come attore in piccole parti; divenne membro del gruppo di attori “Earl Pembroke’s Men” e quindi lavorò con la  Compagnia dei “King’s Players”. Come scrittore pubblicò i suoi primi poemi “Venere e Adone” e “Lucrezia violata”. Conobbe Christopher Marlow (1564/1593), uno dei più grandi drammaturghi dell’epoca elisabettiana, la cui personalità impetuosa influì notevolmente sul giovane Shakespeare e sulla sua opera futura. I teatri furono chiusi a causa della peste dal 1592 al 1594. Nel 1599 fu costruito il Globe Theatre e poiché Shakespeare ne possedeva una quota è facile pensare che i suoi guadagni fossero già consistenti. I lavori attribuiti a Shakespeare coprono un periodo di vent’anni: 37 opere teatrali e 154 sonetti. Ai lavori giovanili come ‘Tito Andronico’ e ‘La commedia degli equivoci’ seguono ‘La bisbetica domata’ e la serie imperniata sulla storia inglese, nella consapevolezza dell’ascesa  economica e militare del suo paese, da ‘Enrico IV’ a ‘Riccardo III’.

‘Giulietta e Romeo’, ‘Sogno di una notte di mezza estate’, ‘Giulio Cesare’, ‘Amleto’, ‘Otello’, ‘Re Lear’ , ‘La tempesta’: sono tutti testi interpretati da registi ed attori di ogni generazione. Non esistono manoscritti originali o stampe dei suoi lavori teatrali: ciò ha fatto dubitare non tanto dell’esistenza dell’uomo William Shakespeare quanto della sua attività di scrittore teatrale. In questo ruolo fu definito “una gazza ladra, un imperterrito copiatore” perché prelevava da altri autori frasi, personaggi e trame: il suo genio consisteva nell’arricchire, personalizzare e dare vigore al materiale ‘grezzo’ che raccoglieva intuendone le possibilità di messa in scena. Comunque, dopo la sua morte due amici ne raccolsero le opere nel primo in-folio del 1623 sul quale risalta la dedica dell’attore e drammaturgo inglese Ben Jonson (1572/1637): “He was not of an age but for all time!”

 

Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière (1622/1673) – Figlio di un tappezziere della Corte francese, a 15 anni si impegnò a subentrare alla morte del padre nella carica di tappezziere reale. Seguì studi umanistici in un collegio dei gesuiti e poi corsi di diritto. Fu il nonno ad iniziarlo alla magia del teatro portandolo ad assistere agli spettacoli. A 21 anni rinunciò al ruolo di fornitore reale e alle relative prebende per fondare con altri attori la Compagnia dell’Illustre-Theatre, una iniziativa purtroppo destinata all’insuccesso e conseguentemente ad un tracollo economico che portò lo stesso Molière in prigione per debiti (Jean Racine – 1639/1699 – ebbe rapporti con la Compagnia di Molière per due motivi: la rappresentazione di una sua opera e l’amore per l’attrice Du Parc, sottratta alla Compagnia e morta poi in circostanze  misteriose tanto da essere accusato di avvelenamento; l’autore drammatico francese pensava al testo teatrale come “Un’azione semplice, sostenuta dalla vicenda delle passioni, dalla bellezza dei sentimenti e dall’eleganza dell’espressione”).

Per tredici anni la Compagnia girò la provincia francese, un periodo prezioso per la formazione professionale di Molière e dell’Illustre-Theatre, fino ad ottenere la protezione del principe di Conti. Quando questi voltò le spalle alla Compagnia per ragioni religiose, fu il tempo per Molière di ritentare l’avventura parigina. Dopo avere recitato alla presenza della Corte, il gruppo di attori girovaghi ebbe una sede fissa nella sala del Petit-Bourbon dividendola con i colleghi della Comédie-Italienne e assumendo il nome di Compagnia di Monsieur, fratello del Re di Francia.

Il successo del suo primo capolavoro ‘Le preziose ridicole’ procurò a Molière l’invidia delle Compagnie concorrenti. Ciononostante il suo talento di attore e di autore – soprattutto in ciò che gli era più congeniale, ossia la satira di costume come nella ‘Scuola dei mariti’ del 1661 – lo impose al pubblico ed alla Corte di Luigi XIV per la quale, talvolta in collaborazione con G. Lulli, creava anche azioni danzate. ‘Il borghese gentiluomo’, ‘La scuola delle mogli’, ‘Il Tartufo’, ‘Il misantropo’, ‘L’avaro’, ‘Il malato immaginario’ sono alcune delle grandi commedie di carattere di questo genio del palcoscenico. Antesignano della riforma teatrale goldoniana, usò gli elementi migliori della Commedia dell’Arte per fonderli nella moderna commedia di carattere e costume. Morì dopo una rappresentazione del ‘malato immaginario’, un feroce bisticcio di parole che probabilmente aderisce alla sua valutazione del teatro come forma di espressione.              

 

Carlo Goldoni, il grande commediografo veneziano del Settecento, comprese che la staticità del ‘tipo’ era ormai superata. L’originalità della sua riforma si basava su un copione compiuto e articolato, su caratteri più approfonditi che volevano divertire ma anche segnalare i risvolti psicologici di una società in evoluzione. La sua conoscenza dell’ambiente teatrale (nei primi anni di attività fornì scenari e canovacci alle Compagnie dell’Arte) gli permise dapprima di usare gli stessi personaggi stereotipi della Commedia dell’Arte nella novità delle sue sperimentazioni, poi di reinventare il mondo del teatro: “Un povero commediante... bisogna che el se sfadiga a studiar, e che el trema sempre, ogni volta che se fa una nova commedia, dubitando o de no saverla quanto basta, o de non sostegnir el carattere come xe necessario.”

“Dopo aver attraversato quel ricchissimo e delizioso paese che è Sampierdarena, scorgemmo Genova dal lato del mare. Che spettacolo affascinante e sorprendente! È un anfiteatro semicircolare che da una parte forma il vasto bacino del porto e dall’altra s’innalza gradatamente lungo il fianco della montagna, con caseggiati immensi che da lontano sembrano sistemati l’uno sull’altro e terminano con terrazze, balaustrate e con gradini che fanno da tetto alle varie abitazioni. Di fronte a quelle file di palazzi, di case nobiliari e alloggi borghesi, gli uni rivestiti di marmo, gli altri ornati di pitture, si vedono i due moli che formano l’imboccatura del porto; opera degna dei Romani perché i Genovesi, malgrado la violenza e la profondità del mare, vinsero la natura che si opponeva alla loro sistemazione. Nello scendere dalla parte della Lanterna per raggiungere Porta San Tommaso, vedemmo l’immenso Palazzo Doria dove furono alloggiati temporaneamente tre Principi sovrani; poi andammo alla locanda di Santa Marta, aspettando l’alloggio che ci avevano destinato”. Goldoni rievoca così nelle ‘Memorie’ il suo ingresso a Genova al seguito come autore della Compagnia di San Samuele in tournée. Della Liguria scrive ancora nel 1762: “Ci imbarcammo sulla feluca del corriere di Francia e facemmo vela per Antibes, costeggiando la riva che gli italiani chiamano Riviera di Genova. Una burrasca ci allontanò dalla rada e poco mancò che non perissimo doppiando il capo di Noli.” 

Nato a Venezia nel 1707, morto a Parigi nel 1793, Carlo Goldoni dimentica dopo pochi anni la sua laurea in legge e segue le compagnie teatrali di Imer e Medebach. Scrive per il patrizio Grimani, lavora per i Teatri Sant’Angelo e San Luca, compone sedici commedie in un solo anno (1751) oltre all’esposizione programmatica de ‘Il Teatro Comico’ (il successo che ne derivò gli procurò la lunga rivalità del commediografo Pietro Chiari e la polemica con Carlo Gozzi, difensore ad oltranza della Commedia dell’Arte). I lavori di Goldoni erano infatti impostati su un copione preciso e quindi le implicite innovazioni non potevano non urtarsi con le abitudini del tempo: la commedia dotta in volgare e soprattutto la Commedia dell’Arte del XVI secolo si basavano sul mestiere dell’attore-maschera e sul canovaccio spesso improvvisato e quindi in netta contrapposizione con il suo teatro nuovo. Gozzi, nel 1772 commenta: “Egli ha fatto sovente de’ veri nobili lo specchio dell’iniquità e il ridicolo; e della vera plebe, l’esempio delle virtù e il serie. Io sospetto (forse troppo maliziosamente) ch’egli abbia fatto così per guadagnarsi l’animo del minuto popolo sempre sdegnoso col necessario giogo della subordinazione”.

Nel 1762 Goldoni si trasferisce a Parigi quale direttore della ‘Comédie Italienne’, nel 1765 è chiamato alla Corte di Luigi XV per insegnare italiano alle figlie del Re. Un lavoro che gli fruttò per qualche anno una modesta pensione. Il declino fisico fu parallelo al declino delle sue fortune; quasi cieco, morì povero il giorno prima che un decreto della Convenzione gli rendesse la pensione nel frattempo sospesa. Nell’introduzione alle ‘Commedie’ (Einaudi, 1979) Kurt Ringger commenta: “Venezia rappresenta lo sfondo sul quale si disegna il mondo poetico di Goldoni. E’ non tanto la Venezia panoramica di Canaletto, né il fondo quella anedottica di Longhi, quanto quella atmosferica del Guardi. La Venezia goldoniana è l’espressione di un clima poetico non fondato su effetti coloristici o sul gusto del pittoresco; essa si affida ad una unica fondamentale tonalità. Ad una coerente atmosfera. La Venezia goldoniana è un ambiente. Quest’ambiente è lo spazio poetico in cui si muove l’immaginazione di Goldoni: uno spazio in cui l’intuizione del poeta fermenta ed articola le strutture delle sue commedie. Lo spazio poetico goldoniano è sempre uno spazio teatrale, creato innanzitutto con mezzi linguistici: la trasformazione del palcoscenico in un mondo fantastico avviene progressivamente tramite l’azione da una parte ed il dialogo dall’altra.” 

È l’analisi efficace di un teatro fatto di caratteri, di maschere, di personaggi e situazioni che pur rispecchiando solo in parte la realtà dell’epoca, ricostruisce psicologie e sentimenti, giochi e ambienti adatti alla moderna macchina teatrale: “Persino nelle sue scene popolari è questione non di naturalismo vergine e potente ma di contrappunto: così furbescamente armonizzati sono, anche nei contrasti fra barcaioli, servi e donnette, i toni dei loro battibecchi, strilletti e strilli. Per noi è chiaro che se vogliamo vedere Goldoni nella sua giusta luce, dobbiamo cercare in lui non la potenza ma la grazia” (Silvio D’Amico, 1940). Gli espedienti teatrali usati dal commediografo veneziano sono ancora influenzati dal legame con la Commedia dell’Arte ma impostati in modo razionale; la struttura dei suoi copioni prevede infatti un principio ed una fine logici, una metamorfosi delle situazioni e soprattutto una gradevolezza linguistica che attira e coinvolge.

L’altro grande innovatore del teatro europeo, di formazione umanista e illusionista della scena, l’autore-attore francese Molière, aveva già scavato nei caratteri e nelle situazioni e sarebbe stato d’accordo con l’impostazione del teatro goldoniano; la sua capacità di cogliere nei comportamenti umani il contrasto tragedia-commedia lo accomuna a Goldoni se non altro per la comune propensione ad esprimere beffa e morale, passioni e manie, con il dialogo e l’azione delle loro creature. Il Goldoni  della commedia buffa e quello della commedia di caratteri si svincolò in modo sistematico dai retaggi delle tradizioni, delle mode e delle culture che mantenevano il teatro in un limbo senza novità: infatti i suoi migliori lavori sono caratterizzati dalla levità del linguaggio, dall’invenzione e dall’immediatezza. Circa 200 realizzazioni tra commedie, tragedie, melodrammi e intermezzi danno la misura della sua fecondità artistica.

Il teatro goldoniano faticò a penetrare nel capocomicato della sua epoca proprio perché dovette fronteggiare la tradizione radicata della Commedia dell’Arte. Furono necessarie reciproca comprensione e collaborazione: da una parte l’autore che si adatta alla personalità degli attori, dall'altra il loro sforzo per seguire il ritmo scenico calibrato. Anche se Goldoni considerava l’improvvisazione un’arte e la pantomima un’ispirazione, riteneva che fosse necessaria una elaborazione specifica del testo: non più la mummificazione delle parti (le Maschere della Commedia dell’Arte ripetevano un repertorio di frasi che gli spettatori per buona parte già conoscevano) ma la gradevole scoperta di dialoghi briosi che preparavano l’intreccio e lo portavano a compimento.

Le sue commedie più note furono scritte tra il 1748 e il 1762: ‘La vedova scaltra’, ‘La bottega del caffè’, ‘I pettegolezzi delle donne’, ‘La serva amorosa’, ‘La locandiera’, ‘Donne de casa soa’, ‘Il campiello’, ‘I due gemelli veneziani’, ‘I rusteghi’, ‘Sior Tòdero brontolon’, ‘Le baruffe chiozzotte’, ‘Trilogia della villeggiatura’, ‘Il servitore di due padroni’, eccetera. È il mondo pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie, dei paròni, delle serve, dei ganimedi perdigiorno e dei vecchi taccagni; è la decisa riforma del modo di fare teatro con la sostituzione della buffoneria fine a se stessa; è la proposta di personaggi che esprimono una gamma di emozioni e sentimenti nei quali lo spettatore può identificarsi. La Maschera, tipica della Commedia dell’Arte, prima di venire definitivamente abbandonata da Goldoni, è modificata fino a farla diventare persona, non più burattino disarticolato ma consapevolezza del proprio ruolo sul palcoscenico. Arlecchino riempie lo spazio inespressivo della maschera di cuoio con l’intelligenza e la furbizia, disponibile al compromesso pur di mangiare, altruista ed egoista proprio come nella vita quotidiana (l’origine di questo personaggio è rivendicata da diverse città, tra le quali Mantova che annovera un attore del luogo, Tristano Martinelli nato nel 1577; dal 1999 la città dei Gonzaga ha istituito il Premio Internazionale ‘Arlecchino d’oro’ per premiare attori meritevoli del titolo).

Nelle ‘Mémoires de M. Goldoni, pour servir à l’histoire de sa vie, et à celle de son theâtre, dédiés au Roi’ (scritto tra il 1784 e il 1787, uno dei più piacevoli libri del XVIII secolo) l’autore dice di se stesso: “La mia vita non è interessante ma può darsi che tra qualche tempo, in un angolo di una vecchia biblioteca, si trovi una raccolta delle mie opere. Forse incuriosirà sapere chi era questo uomo singolare che mirò alla riforma del teatro nel suo paese…”.

 

 

 

Giuliano Confalonieri

giuliano.confalonieri@alice.it