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“Apetti astratti e fantastici di Dyalma Stultus”

 

Walter Abrami

 

 

  

 

Coraggio, uomo!

sappi apprezzare questa villeggiatura, questo mutare una volta tanto, come l’aria, il punto di vista, questo vederti trasposto in un mondo che, svagandoti, ti dà forza per l’inevitabile ritorno al grigiore quotidiano: di più ti aiuta a deporre la spoglia, per qualche istante a fingerti Dio; ad attendere sempre con gioia le sere di festa, in cui l’anima va a ristorarsi, a ringiovanire le proprie forze snervate, a colmare di nuovi succhi le vene esauste.

Lasciati trascinare in questo mare corroborante…

 

                                                                                                                                                      Paul Klee

 

 

 

 

Nella  Venezia degli anni venti, città del sogno per chi come Dyalma Stultus non poteva o non aveva l’opportunità di raggiungere Monaco,  Vienna o Parigi e doveva accontentarsi di una meta importante, altrettanto simbolica, ma più vicina, il pittore, classe 1901, compì gli studi accademici sotto la guida di Ettore Tito e di Arturo Sèzanne.

Nonostante il prestigioso curriculum di Ettore Tito, (si pensi, per dare un’idea, che il Maestro era ringraziato quando motivava pubblicamente le ragioni dell’allontanamento di un giovane allievo incapace o privo di talento!) e il privilegio di trovarsi in un centro storico tradizionale dell’arte mondiale, l’Accademia non piacque e non soddisfece  Dyalma.

Quel mal essere che  in lui era esplicito - vedevo la città priva di colore, scrisse - era già ampiamente diffuso  tra gli artisti  delle nuove generazioni e si allargava a macchia: “[…] Ogni giovane talento è minacciato dall’accademia […]. L’accademia è il sistema più sicuro per  annientare le facoltà infantili […]. Sotto questo aspetto l’accademia riesce a tarpare, in misura più o meno accentuata, anche il talento più forte, per non parlare di quelli più modesti di cui fa strage. Un individuo di formazione accademica e di talento medio è contraddistinto da un completo dominio del fattore pratico-funzionale e dalla concomitante perdita di ogni sensibilità per la risonanza interiore. Costui ci darà un disegno corretto ma “morto”. Quando un individuo privo di cultura artistica, e quindi libero da obiettive conoscenze estetiche, dipinge qualcosa, non ne viene mai fuori una vuota apparenza. Il suo è un esempio di come agisce la forza interiore quando viene influenzata soltanto da nozioni molto generali del pratico-funzionale […]. L’artista che sotto molti aspetti rimane simile al bambino per tutta la vita, può percepire più facilmente di chiunque la risonanza interiore delle cose.

Considerazioni desunte da Il problema delle forme di  Kandinskij che  sono state  per   Stultus, pittore erudito e sempre informato, serio motivo di  riflessione.

Anche le attente analisi delle teorie e dei principi dell’astrattismo compiuta dal triestino agli inizi degli anni sessanta,  lo suggestionarono al punto ch’egli volle affrontare, attraverso una personale sperimentazione,   il campo sconosciuto di quel preciso linguaggio e anche del “papier collè”;  servendosi di questa indagine, egli si sentì addirittura nel dovere morale di trovare, per sé stesso,  una via di liberazione.

Generali anacronistici ripensamenti che fanno trapelare il suo inquieto magnetismo verso molteplici manifestazione artistiche ma, principalmente, un’invidiabile vitalità in età avanzata.

  Due decenni sono trascorsi da quando ho conosciuto gli esordi e le vicende del  percorso pittorico di Stultus dalla voce del suo coetaneo, collega  e grande amico Giovanni Hermet (in arte Gianni Brumatti) che mantenne con lui un epistolario anche dopo la sua partenza definitiva dalla città giuliana.

Nella penombra del  suo studio, sito a Trieste in via del Lavatoio, il lucido pittore ottantenne seduto su una sedia Thonet presso l’imponente, bella stufa di maiolica verde, il cavalletto e la tavolozza nell’angolo più lontano, mi parlava spesso di Dyalma e ricordava sia i momenti della loro spartana gioventù sia altre precise situazioni in cui vissero uno accanto all’altro.

Nei nostri cadenzati incontri settimanali Brumatti innervava un aneddoto, un episodio o una storia; spesso le digressioni lo portavano lontano e così, per cogliere appieno il senso del suo quieto conversare ricco di tante memorie, ebbi l’intuito di registrare le sue innumerevoli testimonianze  di un’epoca che oggi sembra davvero lontana.

Soprattutto nell’occasione di presentare in questo catalogo  un aspetto ancora sorprendentemente inedito del suo  operare, alcune note del mio altrettanto inedito archivio personale, giungono utili a chiarire le inquietudini dei giovani artisti in quel particolare momento storico del decennio 1920 - 1930, ma anche la confusione emotiva   che potevano suscitare in loro i movimenti in fermento e le loro dottrine teoriche che giungevano dal centro Europa in Italia e arrivavano spesso di seconda o terza mano nelle province …

Prima di attuarle e metterle in pratica, alcuni artisti come Stultus le ripresero e le rielaborano mentalmente solo dopo molti anni.

Stultus e Brumatti si conobbero  ragazzi durante il primo conflitto mondiale e chissà se l’adolescenza regalò loro qualche sprazzo di felicità!

L’ amore per i pennelli e per  i colori li accomunò nell’unica autentica  passione della loro vita: “Per rendere i colori ad olio più magri  intingevamo il pennello nell’acqua ragia; quando volevamo far vedere lo striscio del pennello sulla tela o uno sfregamento più marcato, evitavamo questo passaggio. Per i colori meno magri facevamo una mistura d’acqua ragia, olio e vernice finale e immergevamo il pennello nel recipiente che la conteneva, quasi fosse un biberon. Per le velature intingevamo un pennello morbido, sottilissimo, nella migliore trementina con il solo colore che ci serviva. La trementina doveva essere pulita, trasparente e in genere facevamo le velature dove i colori di fondo erano chiari. Talvolta ci compravamo un pennello più costoso di altri e lo usavamo un po’ per ciascuno…”

In seguito anche l’amicizia delle loro mogli, Norma e Ferdinanda, rafforzò ulteriormente il sincero legame.

A soli diciassette anni Stutus aveva già manifestato la propensione al disegno e  per tale ragione  ottenne una borsa di studio dal Comune di Trieste: lasciò la sua poverissima casa, sua madre, gli amici di strada, gli ex compagni della Scuola Industriale e si trovò improvvisamente in quella laguna che forse conosceva solo da qualche racconto o aveva potuto veder rappresentata in qualche marina.

Le trecento lire che gli furono assegnate lo resero umile e disorientato interprete in una gloriosa istituzione…

Schivo e in parte deluso aprì in ogni caso le orecchie e sebbene frastornato dai consigli e dai nuovi molteplici spiragli artistici avvertiti, determinato, cercò una strada.

La storia di Venezia, quella della formidabile stagione veneta  del Quattrocento, le animate discussioni dei colleghi più anziani  sui maestri consacrati e indiscussi d’impronta ottocentesca che avevano partecipato e partecipavano alle Biennali, quelle sui novecentisti che innescavano  contestazioni o altre d’avanguardia sui nuovi movimenti, se non lo coinvolsero subito, lo trovarono attento, intelligente spettatore.

Il nuovo fluire di vita all’ombra di San Marco, determinato dal clamore suscitato da presenze di artisti famosi alle Biennali, accentuò tutto l’interesse del mondo internazionale, ma soprattutto i dipinti esposti costituirono  per il giovane pittore triestino uno stimolo visivo straordinario.

In una Venezia che stava superando con questi vasti legami pittorici  l’isolamento venutosi a creare dopo la sua drammatica caduta nel secolo precedente, Stultus rappresentava l’elemento caratterizzante, ancora incontaminato, della nuova forza giovanile di matrice mitteleuropea.

Nino Barbantini riconobbe questa energia nel pulviscolo cromatico dei pigmenti verdi e nelle ocre dorate dei  suoi cartoni e delle sue prime tele,  intuì le doti di Dyalma e, nel 1922, solo un anno dopo l’ottenimento del suo diploma “in ornato e decorazione”, lo volle a Ca’ Pesaro: fu lì che  il pittore ebbe la prima personale! Fu un esordio promettente! Mentre altri giovani si mossero per marciare su Roma, Stultus pensava alla pittura e affrontava con invidiabile impeto vari formati.

Anche successivamente egli non ebbe mai il timore di sfidare tele di dimensioni ragguardevoli e di “misurarsi” con le tecniche. Le studiò dai grandi maestri rinascimentali e ne fu affascinato.

Il 1922 fu pure l’anno  in cui si costituì il gruppo milanese del Novecento che riprendeva alcuni dei postulati espressi da Valori Plastici e alla Biennale si poteva ammirare la mostra personale postuma d’Amedeo Modigliani morto improvvisamente a Parigi due anni prima.  

Poco distante c’erano anche le sale  che accoglievano i numerosi dipinti di Ettore Tito e la rassegna postuma d’Umberto Veruda.

Le passate polemiche tra lo scandaloso provocatore Marinetti - quello che aveva gridato bruciamo le gondole, aboliamo le curve cascanti delle vecchie architetture - e alcuni veneziani tra i quali il sindaco e Nino Barbantini, erano memorie che il giovane pittore non poteva cogliere.

Stultus sapeva tuttavia, che  nel lontano 1903 a Venezia lo stesso Modigliani  si era iscritto alla scuola libera del nudo nell’Accademia di Belle Arti e là erano pure transitati o si erano fermati, per citare solo alcuni artisti del recente passato, Umberto Boccioni (nel 1906 - 1907), Fabio Mauroner (nel 1905), Umberto Moggioli (dal 1905 al 1909) e Arturo Martini (1906 - 1907).

Per capire l’atmosfera di quegli anni, è illuminante a proposito, anche una lettera tarda scritta  dallo scultore di Treviso a Barbantini:

“Caro Barbantini è proprio così: da quel tempo nulla è mutato e sono sicuro che quietati i rumori e gli interessi, la pagina più autentica dell’arte italiana è ancora quella di Palazzo Pesaro.

La santità di quel tempo è tanto immacolata e autentica che sento dopo tanto lavoro e maturità il bisogno di rifarmi anche ora, per veder giusto, a quel tempo.

Quindi è bene che sia andata così e anche che sia stato fatto tanto silenzio per conservare il mistero a un mondo che nessuno potrà mai rivelare: a te la paternità e un abbraccio”.

Ma se il luglio del 1908 (data in cui s’inaugurarono a Venezia le mostre dell’Opera Bevilacqua La Masa nel piano ammezzato di Ca’ Pesaro) segna un punto fermo nello sviluppo della pittura moderna italiana e se la guerra non divise gli animi del gruppo dei migliori artisti di Ca’ Pesaro che si rincontrarono nel 1919, è anche vero che la secessione dell’anno successivo fu inevitabile.

 Stultus vide  le opere di Felice Casorati,  Filippo De Pisis,  Ottone Rosai,  Carlo Carrà,  Fioravante Seibezzi e del suo gruppo formato da Toni Lucarda, Aldo Bergamini, Alessandro Pomi, Francesco Scarpa Balla, di Umberto Moggioli,  Pio Semeghini,  Gino Rossi e di molti altri pittori e scultori italiani e stranieri che in quegli anni passarono per Venezia o sostarono su qualche isola tranquilla e malinconica    della laguna.

Il pittore sentì pure parlare del soggiorno monacense di Vasilj Vasil’evič Kandinskij che fu allievo di Franz von Stuck e anche del movimento collettivo del Blaue Reiter che pure ebbe una brevissima storia a Monaco (dicembre 1911-gennaio 1912) e fu creato dallo stesso Kandinskij con Franz Marc.

Furono loro a pubblicare il Blaue Reiter Almanach, una raccolta di saggi e di riproduzioni di varie opere che avrebbero dovuto fare il punto degli obiettivi e degli ideali del gruppo.

Il volume non si limitava alle belle arti, ma comprendeva anche l’arte primitiva, l’artigianato e il design, la musica, la poesia e il teatro.

Quando Stultus era poco più di un ragazzo, Kandinskij e Marc non si proponevano semplicemente di favorire una rinascita spirituale nel mondo artistico, ma anche di rigenerare l’intera società.

Al pittore esordiente, impreparato, giunsero (anche da parte di Gino Parin che  forse aveva conosciuto il russo a Monaco) solo vaghi, incomprensibili echi di ciò che Kandinskij scrisse nel 1912 nel trattato Lo Spirituale nell’Arte: “L’Arte non è vana creazione di cose destinate a perdersi nel nulla, bensì un potere dotato di un proprio fine, che deve favorire lo sviluppo e l’affinamento dell’anima umana […].

Se l’Arte rinuncia a questo compito, il vuoto che lascia è incolmabile: nient’altro può prendere il suo posto […].

L’artista deve avere qualcosa da dire, poiché il suo compito non consiste nel padroneggiare le forme, ma nell’adottare la forma al contenuto.”

Ma a quale lessico formale sarebbe dovuto ricorrere un principiante alle prime armi (che stentava a comprendere financo le perplessità espresse ancora da qualche amico giuliano sull’azzardato impressionismo di Veruda) in assenza di punti di riferimento?

L’oggetto non poteva mancare!

Nulla poteva condurlo a pensare che un dipinto fosse anzitutto una superficie piana coperta di colori disposti in un certo ordine!

Il suo cammino naturale, quello da molti conosciuto e apprezzato, fu inevitabilmente ben altra cosa da quello degli avanguardisti russi, cechi o ungheresi…

Dopo le noiose esperienze accademiche Stultus, compiuto un viaggio a Roma con Franco Atschko, ritornò nella città giuliana.

Erano  gli anni nei quali il concittadino Ettore Schmitz-Svevo  stava concludendo La coscienza di Zeno; la vita culturale cittadina aveva  precisi punti di ritrovo: il Caffè Garibaldi ne fu uno importante e sui suoi tavolini le discussioni d’arte erano all’ordine del giorno. Purtroppo uno dei principali esponenti se n’era andato da poco a Milano: si tratta di Piero Marussig le cui opere lasciarono in ogni modo, per lunghi anni, un segno preciso ed indelebile nella mente di Stultus.

 Forse fu proprio l’entusiasmo di Stultus, più degli insegnamenti di Zangrando, a spingere con maggior fiducia e definitivamente Brumatti verso la pittura (nel frattempo egli aveva compiuto le prime esperienze figurative a Gorizia ed aveva potuto vedere, presso la libreria Paternoli, alcuni dipinti di Luigi Spazzapan); il  mattino presto i due amici si trovavano per andare a dipingere insieme presso il  Ponte Rosso, in un bosco presso Barcola, nel parco di Villa Giulia, nel vallone di Zaule o nei paesi del Carso più facilmente raggiungibili da Opicina dove arrivavano con il tram.

 Di sera, quando avevano qualche soldo in tasca, i due pittori  confrontavano le loro idee con quelle dei colleghi del Circolo Artistico in una delle numerose osterie o nei caffè che costituivano, con i loro avventori, un microcosmo culturale  vivo e variegato: “Andavamo con Silvio Benco nella petesseria (osteria)  di un greco di nome Euftimio dietro Palazzo Costanzi. C’era un tavolino di marmo e si poteva mangiare una pastasciutta a tutte le ore. Alla sera, chiuso il locale, rimanevamo in compagnia del gestore e di altri amici e in una saletta del primo piano, cantavamo allegri qualche motivo in voga accompagnati da  strumenti musicali. Io e Dyalma amavamo entrambi la musica.

Nei caffè della vicina piazza vedevamo spesso  gli anziani Ruggero Rovan, Adolfo Levier, Edgardo Sambo, Arturo Nathan, che pure aveva più anni di noi, Franco Asco (Atschko),  Franco Orlando, Sante Lucas, Mario Lannes…

Un giorno andammo alla  stazione dei treni con Silvio Benco ad  aspettare il famoso critico  Ugo Ojetti. Dopo il suo  arrivo ci  fermammo volutamente con lui davanti un bel cartellone pubblicitario colorato in parte  strappato dalla bora che sembrava un’opera astratta…Provammo un’emozione comune”. (Brumatti)

In quegli anni Stultus, attraverso un manierismo postimpressionista d’ascendenza tedesca, ma “rivisitato” in laguna,  dipinse serenamente numerosi, preziosi, paesaggi  (resi con una pittura densa, grumosa, materica) colti nel biancore  di luce  naturalmente vissuta plen air.

Le successive vicende artistiche di Dyalma Stultus che lo condussero  a Firenze tra il 1927 e 1928 prima che si stabilisse definitivamente in Toscana nel 1941, sono state ampiamente documentate e sono note: le puntigliose ricerche storiche di Nicoletta Comar, gli approfondimenti di Rossana Bossaglia, Marco Fagioli, Francesco Gurrieri,  Corrado Marsan, Tommaso Peloscia, Renata Da Nova, nonché le numerose recensioni di mostre, l’interesse di Vittorio Sgarbi e di tanta autorevole critica nei suoi confronti, l’esito di un apprezzato sondaggio effettuato dal trimestrale d’arte IL MASSIMILIANO  che lo ha rilevato l’artista più amato nel pur ampio panorama regionale, hanno fatto conoscere il pittore triestino ad un pubblico sempre più vasto.

Non è quindi indispensabile riparlare in queste pagine dei suoi severi studi di volumetrie Quattrocentesche e Cinquecentesche fatti osservando le opere dei maestri, dei suoi indimenticabili dipinti del decennio 1928 – 1938 parecchi dei quali realizzati in compagnia di Brumatti nella Valle del Vipacco, a  Rifembergo, ad Aidussina o a San Daniele del Carso, di altri compiuti a  Perugia, Marino, Siena, di quella pittura da alcuni definita verismo  magico,  dei viaggi a Corinto,  Atene e Rodi o dell’amicizia e dei carteggi con tanti artisti e letterati triestini, veneziani e fiorentini tra i quali Felice Carena, che più di altri ammirò. E’ piuttosto utile ricordare che negli anni venti gli piacque molto mettere le mani in pasta e si divertì a modellare l’argilla. Purtroppo i suoi manufatti sono rari, ma alcuni disegni preparatori e tarde ceramiche conservate nell’Archivio fiorentino, sono ancora da scoprire e costituiscono con gli attuali ASPETTI ASTRATTI E FANTASTICI  l’ultimo tassello inesplorato della sua abbondante produzione.

Raccontava Brumatti: “Io e Dyalma frequentavamo  Marcello Mascherini prima che esordisse; egli incominciò a lavorare a Trieste e non in Friuli come sostiene qualcuno; realizzavamo ed  esponevamo alcuni nostri lavori nelle sale della ditta del signor Eugenio Rudes che lasciò un locale allo scultore  per consentirgli di compiere i suoi primi lavori con l’argilla. Egli imparò la tecnica da un gessino molto capace che si chiamava Roella.

In seguito Mascherini ebbe uno studio in via Battisti e noi lavoravamo altre volte accanto a lui. Uno dei suoi primi calchi  fu un Budda che io dorai…

 Andavamo assieme al caffè Edison che era uno dei nostri  punti d’incontro cittadini.

Con Stultus osservai pure un altro dei suoi primissimi lavori che fu la Testa di un cieco. Riuscì a venderlo, si compiacque e ci offerse da bere. Mascherini era figlio unico e sua madre era costretta a fare  umili servizi per tirare avanti”.

Nel  1932 arrivò anche  per Stultus l’occasione di andare a Parigi.   Ma in quella città che aveva sognato da ragazzo, di cui aveva sentito parlare tanto anche da colleghi triestini, si sentì come un pesce fuor d’acqua.

Così scrisse: “ A darmi coraggio mi vennero in aiuto quei colossali musei d’arte asiatica, più che i tanto decantati Louvre e Lussemburgo dove erano presentati con serietà gli ultimi artisti moderni. Proprio quei pezzi di scavo o sculture nate nella roccia e nelle foreste mi davano quel senso di grandezza dell’anima e dell’occulto. […] Per trovare bisogna cercare…”

Sembra dunque che  gli anelli (metaforicamente gesso, muro, roccia, cartone, materia, maschere, occulto, astratto) di un’interminabile catena d’esperienze,  si ricongiungano…

Illuminanti per chi presenta quest’inedita produzione d’opere facenti parte dell’Archivio Stultus, alcune frasi scritte dal pittore:

“Lottavo accanitamente, era così bella questa lotta fine a sé stessa, perché non si può mai vincere interamente la materia. Ma quanto più ne siamo padroni, tanto più  possiamo penetrare in essa ed infondervi la nostra anima”.

Sono dipinti astratti o informali, polimaterici, realizzati con tecniche miste e disegni di Pietre con i suoi fantasmi e altre fantastiche invenzioni. Non mancano curiose Colline animate.

Nei disegni il pittore è talora esplicito: Maschera di Pietra, Unione, Prigione, Lucernaio, Risveglio, Fauna del Futuro sono alcuni dei suoi percorsi.

Nel 1993 Decio Gioseffi a cui si deve l’introduzione della monografia scritta dalla Comar, si pose alcune domande che inevitabilmente condividiamo: “Perché Dyalma a partire dagli anni cinquanta presentò nelle personali opere che sembravano molto lontane da quelle impegnate di prima della guerra e che gli avevano aperto le porte della Biennale Veneziana e della Quadriennale Romana? Perché dopo aver aderito a un movimento (Valori Plastici e Novecento Italiano) rinnegò tutti i movimenti e preferì andare incontro al gusto di un pubblico più esteso, ma che anziché essere rappresentativo di più larghi strati del ceto popolare era comunque il pubblico dei Nuovi Ricchi? […]

E quali erano stati i suoi rapporti con i Futuristi e quali le sue attinenze con il realismo magico, con l’arte fantastica, la metafisica e il Surrealismo?”

Abbiamo potuto costatare anche in questo breve cammino, che Stultus fu pittore sensibile di molte letture, di diversa dottrina, ma soprattutto che egli ebbe una formazione  assai lunga, diversificata e non sempre prevedibile a causa dei contatti avuti con molti colleghi e delle sue ampie esperienze; esse divennero via via assai diverse da quelle di tanti altri pittori (triestini e non) che gli furono vicini in gioventù.

Firenze gli tolse le inibizioni.

“Sapeva Stultus che gran parte dei recuperi mirati delle avanguardie erano spesso basati su equivoci…Tra i suoi desideri segreti vi era la creazione di un’arte che fosse nello spirito della musica… dove i colori avessero ad essere squillanti, ma bene assortiti e bene aggiustati: emergenti dal grigiore altrimenti dominante del Basso continuo”. (Gioseffi)

E quest’esposizione inedita che la figlia Selma ha desiderato far allestire a Trieste, città natale di Stultus, sorprenderà non poco anche i critici militanti, gli appassionati locali più colti in materia d’arte, i galleristi o semplicemente i passanti; la mostra rende palese che il pittore fu ancora innovatore di contenuti personali a quasi settanta anni e che non fu tanto lontano dai clamori delle mode come qualche critico ha affermato.

 Dinanzi queste opere astratte  sarebbero rimasti esterrefatti anche gli amici dei tempi lontani: forse fu questa una delle ragioni per le quali preferì lavorare e meditare in silenzio senza vocii o interferenze. Custodì nello studio fiorentino questa parte della sua produzione databile 1960 – 1970 c. e non è chiaro se la volesse escludere dal mercato per una ragione intima.

La sua scomparsa, avvenuta a Darfo nel 1977, gli impedì di riesaminarla, ampliarla o semplicemente esporla.

Ci si chiede: quali  cambiamenti interiori, quali emozioni lo spinsero all’azione imprevista? Perché c’è questo taglio netto con il suo passato?

 “Egli usò dunque tutte le tecniche (figlie tutte del disegno) e  trattò forme naturali, artificiali e fantastiche […]  Gli artisti delle ultime leve lo respingevano dal loro Parnaso dicendo che non aveva capito l’astratto né i movimenti tipo dada e i surrealisti che erano partiti da zero. Non era vero; ed opere astratte o semiastratte ne dipinse anche lui”(Gioseffi)

Questa rassegna scopre perciò che egli ha saputo veramente assimilare le aspirazioni artistiche del nostro tempo per quel suo costante bisogno di eternare, esaltare, condividere.

E ad un certo punto i suoi paesi, i suoi contadini, le sensuali ragazze e i ritratti lasciano momentaneamente il posto ad un piccolo mondo magico reso con colori a tempera, fatto di minuziosi, geometrici ritagli di cartoncino, di retini, di pezzi di plastica, di capelli attorcigliati o di stagnola.

I colori con i loro contrasti, con le loro pause, con le loro vibrazioni stanno alla base della nuova forma espressiva dove ogni raffigurazione è indipendente dagli oggetti e dalle forme naturali sebbene l’artista ci offra i titoli di una serie di monotipi;

Cascata, Pesci, Alberi, Fronde e Fuoco ci conducono in un mondo primigenio immaginario.

Le sue nuove opere sono patchwork, sogni o finestre sul mondo?

Il desiderio di penetrazione del pittore non ha confini neanche nei formati contenuti che assumono l’aspetto di brandelli di natura o di realtà quotidiana. Le diversità dei materiali gli offrono pure sensazioni tattili e anche questo sentire la corporeità direttamente con le mani - più che ad allusioni di precaria esistenzialità artistica - lo avvicina forse all’esoterico.

 In termini concreti, attraverso questa crisi personale dell’immagine e della forma che è uno degli aspetti più carattesistici della ricerca artistica contemporanea, egli mira ad una realtà diversa, creata dal suo spirito e dal sogno.

Superata la mezza età, nel momento artisticamente più rivoluzionario della sua vita di pittore, (il suo primo collage è datato 1960) l’uomo esalta questo impulso progressivo teso a raggiungere la libertà interiore:  pur nell’assoluta consapevolezza di non dire niente di nuovo, egli desidera conquistarla attraverso un’espressione  totale.

Il suo diventa dunque un commovente sviluppo verso l’affermazione invincibile del provvisorio e della materia temporale come lo era stato con largo anticipo per Tristan Tzara.

Stultus non si spaventa né dell’inespressiva apparenza di forme causali né delle stilizzazioni: i suoi ingenui assemblaggi, le sue combinazioni di colore hanno  il pretesto di essere pittura ornamentale sicché, solo apparentemente, l’elemento incollato vale per la sua forma e per la sua materia.

Ma nelle Pietre, blocchi di notevole grandezza disegnati con carboncini e pastelli policromi, c’è da parte del  pittore la volontà di liberare un’ energia ancestrale  e il Carso sembra quello degli antichi insediamenti, dei Castellieri e della misteriosa gente che li popolò.

Le imponenti pietre, tra le quali qua e là s’insinuano rari fili d’erba, racchiudono segreti e magie millenarie. Nei massi allineati, sovrapposti, micenee memorie dell’artista, alcune sembianze umane sono provocatorie, allusive e simboliche (guerrieri Illiri? saggià principiù …sono solo alcune delle nostre ipotesi) mentre le più complesse costruzioni geometriche come le Rocce Duinesi, hanno invece uno slancio ciclopico e sembrano un’invenzione cinematografica di Steven Spielberg.

Giungono forse  più comprensibili, dopo la visitazione di questi   lavori, le  parole che Stultus amava ripetere: “Conoscersi è trovarsi con i propri fantasmi”, ma la sua creatività, dopo l’intemperie di questo decennio, si rivolse definitivamente al figurativo e il suo estremo messaggio, preludio alla morte imminente, è un autunno…

L’ impalpabile rumore di foglie cadenti l’aveva, alfine, riconvertito.

 

 

  

Walter Abrami