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A TUTTO SCHERMO
 

 

Giuliano Confalonieri

 

 

 

Louis Aimé Augustin Le Prince, Roundhay Garden Scene, 1888, fotogramma

 

 

La storia del cinema potrebbe essere suddivisa in quattro periodi: l’epoca pionieristica del muto, dal sonoro fino alla seconda guerra mondiale, il dopoguerra fino agli anni Settanta, dalla crisi delle sale alle novità in nuce. Alcune delle opere fondamentali del nuovo mezzo di comunicazione sono state realizzate proprio nel periodo in cui l’immagine era predominante. Ciò obbligava gli autori ad ‘inventare’ il racconto in modo comprensibile, sulla base di intuizioni personali. Il pubblico, non ancora aduso alla nuova forma di spettacolo, doveva essere necessariamente indirizzato in modo che potesse comprendere le potenziali possibilità sia di divertimento sia comunicative. I maestri del bianco e nero hanno dovuto costruire un modo di proporsi che mediasse le varie componenti di una produzione cinematografica con platee ancora acerbe: Meliés, Griffith, Pastrone, von Stroheim, Dreyer, Ejzenstejn, Pudovkin,Gallone,Chaplin,Flaherty.Dapprima fu semplicemente fotografia in movimento, poi le inquadrature fisse si evolsero in ‘carrellate’, in prospettive audaci, in sfumature di grigio attinenti ai momenti drammatici, in contenuti più articolati e soprattutto in spezzoni di pellicola giuntati: il montaggio costituì un anello fondamentale tra chi voleva dire qualcosa con la spettacolare tecnica del Novecento e chi doveva accogliere il messaggio senza averne ancora assimilato la cultura. La recitazione si scollegò gradualmente dall’impostazione teatrale diminuendo di conseguenza il vezzo delle attrici come attaccarsi ai tendaggi nei momenti di maggior pathos nonché le espressioni esageratamente marcate.  

Un ricordo di quella lontana stagione, dei rapporti con il cinema dagli anni Quaranta – in pieno periodo bellico – agli anni Settanta quando le sale accusarono un forte calo di presenze tanto da dover impiantare circuiti televisivi per mostrare ‘Lascia o raddoppia’ oppure le partite di calcio. Il cinema con le comiche finali di Ridolini e le torte in faccia, i film di Stan Laurel e Oliver Hardy, l’ottimismo imperante dei documentari dell’Istituto Luce. Il cinema per ‘militari e ragazzi a metà prezzo’  dove si proiettavano due film con un unico biglietto. La tromba fuori campo del 7° Cavalleggeri dava speranza al gruppo dei carri circondati dall’orda di indiani indemoniati e galvanizzava la platea dei ragazzini che ‘friggevano’ in attesa dell’urlo liberatorio ‘arrivano i nostri’. Platea e galleria fumose, affollate e vocianti, un pubblico eterogeneo alle prese con spagnolette e palpatine alle ragazze.

Al cinema-teatro si esibivano compagnie di guitti davanti a fondali scoloriti dall’uso, quattro gatti per l’orchestra e sullo schermo film patriottici del regime o – nel dopoguerra – film americani nei quali l’eroe di turno combatteva indiani, tedeschi e giapponesi. In quel periodo era possibile ‘inseguire’ i film per anni, dalla prima alla seconda visione, dalle sale pubbliche più modeste a quelle parrocchiali: la disponibilità delle pellicole permetteva alla distribuzione di raggiungere per anni ogni strato della popolazione e quindi era difficile perdere titoli importanti che il tam tam dello spettatore faceva circolare: si potevano vedere e rivedere “La leggenda del Narayama” di Kinoshita o “L’arpa birmana” di Ichikawa, oppure i film di Antonioni, De Sica, Bergman, Buñuel e Clair, con la possibilità di avere una panoramica del cinema migliore, dal neorealismo italiano alla nouvelle vague francese.

Il sonoro diede al cinema una ulteriore capacità di impatto. Le sale si riempirono di dialoghi e musiche incrementando così il bagaglio del linguaggio cinematografico. Il superamento del commento alle immagini con la pianola in sala o con le didascalie in calce al fotogramma diede un impulso determinante al cinema proprio come l’uso fondamentale del montaggio, necessario per tradurre il ‘tempo reale’ in ‘tempo cinematografico’. Spazio e tempo sono stati condizionati dal cinematografo che li ha modificati fino a costruirsi lo ‘specifico filmico’. La ‘settima arte’ ha dominato il mercato per molti decenni fino alle novità del secondo dopoguerra, la televisione in primis e le registrazioni su nastro VHS qualche anno dopo: ‘Odio la televisione, la odio come le noccioline, ma non riesco a smettere di mangiare noccioline’ è il giudizio sbrigativo di Orson Welles sulla dipendenza da questo elettrodomestico. Woody Allen ne sottolinea il concetto negativo: ‘A Los Angeles non buttano via la spazzatura, la trasformano in programmi televisivi’ e Totò aggiunge ‘La televisione non mi convince, non crea celebrità, le consuma’. Tuttavia il piccolo schermo è diventato un membro della famiglia, senza distinzione di classi sociali: l’antenna TV impera, in stretta simbiosi con il profilo dei panorami metropolitani e agresti.                 

All’alba del terzo millennio si assiste ad una modifica sostanziale della produzione e della distribuzione. Il tempo nostro è fatto di rapide mutazioni: per completare un primo ciclo tecnico ed espressivo le riprese su pellicola chimica hanno richiesto un secolo, oggi le novità informatiche fanno passi da gigante. Contaminato dall’enorme concorrenza televisiva, il cinema in sala ha cambiato volto: l’offerta del mercato è vasta ma limitata nel tempo. Le copie stampate per ogni film sono poche e ancor meno si pensa al magazzinaggio per una seconda ‘première’ (una eccezione è stato il “Pinocchio” di Benigni preceduto dalla grancassa pubblicitaria: sale stracolme come nel passato e 800 copie in tutta Italia). Se si perde un titolo, le occasioni per ritrovarlo sono poche: qualche Cineclub o qualche Associazione finanziata per cicli dedicati. L’alternativa è il salotto di casa con la videocassetta o il DVD. Un gestore di sala privato che volesse programmare a proprie spese una rassegna di film su un attore, un regista o un genere, dovrebbe rivolgersi forzatamente alle Cineteche nazionali: i costi (noleggio, assicurazione e trasporto) sarebbero insopportabili ed il pericolo di ricevere pizze usurate così come un carente afflusso di pubblico è sempre presente.

 

 

Thomas Edison, Annie Oakley, 1894, fotogramma dell'omonimo cortometraggio

 

 

Frères Lumière, L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat, 1895, fotogramma del cortometraggio proiettato per la prima volta il 6 gennaio 1896

 

 

Il termine cinematografo (dal greco, scrittura del movimento) compare in una relazione del 1895, lo stesso anno in cui iniziarono le prime proiezioni pubbliche al Salon Indién. I biglietti d’invito stampati per l’occasione annunciano: ‘La phothographie animée ‘Cinématographe’ de Lumière Frères’. Cronache dell’epoca riportano: ‘In una stessa serata i signori Lumière hanno proiettato due tipi di immagini, le une a colori, molto belle, che davano un’idea quasi arricchita dei colori smaglianti, meravigliosi dei soggetti riprodotti, le altre monocrome, ma che mostravano scene animate con tutta la realtà del movimento... Il realismo è superiore ad ogni aspettativa, l’immagine, che sullo schermo misura circa due metri di lato, è molto chiara, luminosa… Auguste e Louis Lumière sono riusciti a concepire un apparecchio che distanzia nettamente tutti i tentativi precedenti, un apparecchio mediante il quale è possibile far vedere ad un insieme di persone delle scene animate proiettate su uno schermo, per la durata di circa un minuto... Questa novità presenta anche un altro importante vantaggio: nel cinescopio Edison la pellicola veniva fatta avanzare con un movimento continuo... con il cinematografo dei Lumière, poiché la pellicola rimane immobile per due terzi del tempo, sono sufficienti quindici pose al secondo per ottenere l’impressione continua’ (24 f/s con l’avvento del sonoro). I Lumière spiegarono: ‘Il principio su cui si basa il funzionamento del cinematografo è noto da tempo. È il principio della persistenza delle impressioni luminose sulla retina; ed è facile comprenderlo. Quando osserviamo un  oggetto qualunque, la sua  immagine viene a formarsi in fondo agli occhi, disegnandosi materialmente sulla membrana nervosa che li riveste e che chiamiamo retina. Mentre è possibile cessare di colpo di illuminare l’oggetto, l’immagine retinica si cancella solo progressivamente e, fino al momento in cui non sarà definitivamente scomparsa, il nervo ottico continua ad esserne impressionato e l’occhio continua a vedere l'oggetto come se fosse rimasto illuminato’. I fratelli francesi (Louis 1864/1948, Auguste 1862/1954) entrano nella storia delle grandi invenzioni con apparecchiature rivoluzionarie adatte a riprendere ed a proiettare su uno schermo bianco le immagini fotografate su una striscia di pellicola perforata brevettata da Edison qualche anno prima (dopo l’entusiasmo per la novità tecnica il cinematografo sembrò destinato ad un rapido declino,  ‘una invenzione senza futuro’ si diceva; nel 1897 questa predizione rischiò di avverarsi poiché in una fiera di beneficenza a Parigi, la pellicola si incendiò provocando la morte di 140 persone). La pellicola in b/n su supporto di celluloide (nitrato di cellulosa, altamente infiammabile), fu prodotta da Eastman a Rochester (USA) per conto di Edison. Intorno al 1940 fu sostituita da quella in triacetato, materiale meno soggetto agli incendi ma comunque destinato ad un costante deterioramento molecolare. Le tragedie dei proiezionisti intrappolati dal fuoco nelle cabine sono riassunte da Giuseppe Tornatore in una sequenza del suo film “Nuovo Cinema Paradiso” del 1988 (dal 1896 diventa operativa a Lione - sede della fabbrica di materiale fotografico dei Lumière - la prima sala permanente).  

Nel primo decennio del Novecento il pubblico chiedeva continuamente al cinema novità. I banchieri francesi Lafitte fondarono la Casa di Produzione Film d’Art e chiamarono a dirigerla André Calmettes e Charles Le Bargy. La loro educazione teatrale li portò a produrre film con attori della Comédie Française, ovvero rappresentazioni teatrali mimate. Gli spettatori risposero comunque alle nuove proposte stimolando le Case cinematografiche Pathé e Gaumont a produrre film tratti da opere letterarie e musicali classiche (“Don Chisciotte”, “Carmen”). Anche il centro di produzione italiano a Torino si adeguò realizzando i primi kolossal: “Quo Vadis” di Enrico Guazzoni nel 1912, “Cabiria” di Giovanni Pastrone nel 1914. Lo scozzese E.S. Porter, già collaboratore di Edison, nel 1903 girò il suo primo film sui pompieri americani introducendo le tecniche del cinema d’azione: montaggio parallelo e il primo piano rendevano più verosimili le scene di movimento. Il suo successivo lavoro “La grande rapina al treno” influì stilisticamente su “L’ultima battaglia di Custer” (1912) e “La battaglia di Gettisburg” (1914) di T.H. Ince.   

Un’altra avventura dell’ingegnosità umana ha aperto nuovo spazio all’informazione, alla conoscenza, alla fantasia ed alla creatività regalando momenti di commozione e gioia a miliardi di spettatori nelle sale di tutto il mondo. Un procedimento che meravigliò i nostri progenitori ma che non manca di stupire anche gli smaliziati spettatori della grande sala moderna, attrezzata con lo schermo gigante, il suono stereo Dolby a quattro o sei piste ed il proiettore per la pellicola da 70 mm. Il coinvolgimento di un ambiente che consente il rito ‘di andare al cinema’ è qualcosa che le generazioni passate hanno vissuto molto più intensamente dei giovani d’oggi. Il cine-varietà diventava spesso un’arena crudele nella quale il pubblico sghignazzava per l’odalisca con incipiente pancetta, pernacchie al virtuoso fine dicitore, fischi al barzellettiere di turno, applausi e pesanti apprezzamenti alle ‘8 girls 8’ del periodo postbellico che tre volte al dì dovevano affrontare il buco nero della platea (un pubblico simile fu severamente ammonito nel  XVI secolo: ‘i comici venivano importunati e interrotti con tale frequenza da richiedere decreti e leggi che comminavano ammende in denaro, detenzioni e perfino torture ai disturbatori’). Spesso si assisteva allo spettacolo due volte, si usciva dal clima viziato dal sudore e dalle sigarette, ottusi e rimbambiti come le generazioni di oggi bloccate davanti allo schermo televisivo. Alberto Sordi nel suo film “Polvere di stelle” (rievocazione del mondo dell’avanspettacolo), Lattuada e Fellini con “Luci del varietà” (storia di una scalcinata compagnia girovaga) hanno rivissuto con nostalgia l’atmosfera delle sale di periferia dove spesso il faccendiere di turno – a spettacolo concluso sulla grancassa di ‘Tripoli bel suol d'amore’ e ‘Felici-bum-tààà’ – al momento della paga diceva ‘Ragazze, non c’è una lira’.

 

* 1840 - Talbot completa il processo fotografico iniziato da Niepce/Daguerre.

* 1872 – Il fotografo E.J. Muybridge inizia gli studi sul movimento umano ed animale con 12/24/40 apparecchi a otturatore elettromagnetico; con queste istantanee ottiene una serie di interessanti informazioni sulla locomozione.

* 1889 - Edison brevetta la pellicola sensibile in celluloide da 35 mm, perforata per il trascinamento; flessibile, resistente ma estremamente infiammabile.  

* 1892 - Una triste storia si riferisce ad un altro pioniere delle proiezioni, surclassato dalle novità tecniche e morto in miseria: Emile Reynaud preparava strisce dipinte immagine dopo immagine e poi le proiettava al Museo Grévin; sopraffatto dalla concorrenza del cinema gettò nella Senna tutto il lavoro del suo teatro ottico.

* 1895 - I Lumière, fabbricanti di lastre sensibili e di apparecchi fotografici, proiettano brevi film sperimentali al Salon Indien, Gran Cafè di Parigi. Nel 1898 usano uno schermo gigante, 33x26 m. e distante 215 m. dal proiettore, costantemente bagnato dai vigili del fuoco per ottenere una migliore riflessione. A proposito di questa esperienza, è lo stesso Louis Lumière a raccontare: ‘Feci confezionare lo schermo da uno stimato costruttore di palloni aerostatici perché la superficie doveva risultare uniforme, senza pieghe e con cuciture quasi invisibili. Il tessuto era relativamente leggero, di un cotone che avevo scelto perché, una volta inumidito, lasciava passare tanta luce quanta ne rifletteva e quindi le immagini proiettate si sarebbero potute vedere tanto in trasparenza che per riflessione’. I cinquanta secondi più famosi dell’archeologia del cinema sono quelli filmati da Louis Lumière dal ciglio della banchina ferroviaria mentre una locomotiva entra nella stazione della Ciotat.

* 1896 - Primo breve film italiano: “Arrivo del treno alla stazione di Milano” di Vittorio Calcina.

* 1899 - La società dei fratelli Pathé produce film con il motto ‘il cinema è il giornale, la scuola, il teatro di domani’. La pellicola Kinemacolor, a due colori, fu usata ai primi del Novecento. Qualche film fu dipinto a mano, un fotogramma dopo l’altro. I lungometraggi con il sistema Technicolor furono distribuiti dagli anni Trenta: la ripresa viene effettuata con i filtri dei tre colori fondamentali montati sulle ottiche; con un procedimento chimico, dai positivi b/n si ricavano matrici colorate che, sovrapposte ai colori complementari, saranno stampate nella copia definitiva.    

Dal 1900 il suono fu usato nelle sale con dischi sincronizzati; furono poi sperimentati sistemi per riprodurlo direttamente sulla pellicola. Dal 1922 si proiettarono film con sonorizzazione ottica parziale ma fu solo dal 1928 che circolarono lungometraggi sonori completi (l’alta fedeltà del sistema Dolby Sound fu introdotta nel 1971 con “Arancia meccanica” di Kubrick). Considerato dapprima un fenomeno da baraccone come le immagini in movimento di fine Ottocento, il sonoro ha invece fornito con le sue componenti – musica, dialoghi, rumori – un ulteriore apporto alla potenzialità dell’immagine. Nello stesso anno del suo debutto, il sonoro fu oggetto di un manifesto firmato da Ejzenstejn (fautore della sceneggiatura di ferro) e Pudovkin (fautore del montaggio come specifico filmico) nel quale si sosteneva che al periodo del cinema-attrazione potesse seguire il teatro filmato: ‘il sonoro avrebbe distrutto l’arte del montaggio e soltanto il suo impiego contrappuntistico nei confronti dell’immagine avrebbe offerto nuove possibilità espressive e più efficaci forme di montaggio’. “The jazz singer” è il  primo film parlato; proiettato nel 1927 ebbe un successo commerciale enorme malgrado la trama banale ed i pochi brani cantati da Al Jolson. “La canzone di Broadway” (1929) è il primo musical con una partitura originale. “Carosello napoletano” (1954) è il primo film musicale italiano. La colonna sonora dovrebbe fluire naturalmente per dare allo spettatore una maggiore emozione. Sebbene la ‘musica deve solo dare risonanza alle immagini’, molti compositori hanno creato pagine di intensa espressività autonoma: Rota, Morricone, Prokofiev e Tiomkin hanno contribuito al successo ed alla memoria dei film supportati dai loro motivi. Giovanni Fusco ha scritto le colonne sonore per i film di Antonioni, Mario Nascimbene per quelli di Zurlini, Piero Piccioni per quelli di Rosi e Teo Usuelli per quelli di Ferreri: ‘La musica per film è parte integrante dello sforzo collettivo di molti artisti e tecnici’ (Miklos Rozsa). Luigi Pirandello commentava così i problemi connessi al doppiaggio con l’introduzione del sonoro: ‘Gli occhi per vedere tutti i popoli li hanno uguali ma la lingua per parlare ogni popolo ha la sua. Per ogni film tante edizioni speciali quanti sono i paesi in cui quel film potrà andare, perché non tutti avranno una tale capacità di mercato da pagare le spese d’una speciale edizione per sé. Le traduzioni di una edizione unica, se erano possibili per le brevi didascalie, non saranno possibili per i dialoghi degli attori che non potranno mica parlare in tutte le lingue. Il mercato internazionale è perduto’. Molti paesi non esportano i loro film e quindi ne mantengono la lingua originale, altri preferiscono tuttora tradurre i dialoghi con le didascalie, l’Italia usa massicciamente il mestiere del doppiatore, professionista di un mestiere nascosto ma essenziale. Già all’inizio del XX secolo la riproduzione del suono (così come l’uso del formato 70 mm.) fu sperimentata in vari modi tentando di riprodurre la realtà; il sincronismo suono-immagine dei fonografi con rotoli di cera, il doppiaggio ante litteram, il commento musicale dal vivo con orchestre o pianoforti, talvolta con partiture originali, furono tentativi per rendere autonomo il cinema. Comunque le testimonianze di molti spettatori di allora confermano come il ‘cinema muto’ sia stato una indiscutibile realtà per molti decenni: ‘silenzio totale senza frasi, senza musica, solo il ronzio del proiettore’ (F. Céline).  

* Cinerama: tre cineprese e tre proiettori sincronizzati per ottenere su uno schermo panoramico di 20 m. tre immagini parallele ‘segnate’ dalle fastidiose linee verticali di giunzione.

* Cinemascope: dispositivo ottico-anamorfico che comprime la larghezza delle immagini 35 mm. in sede di ripresa riconducendole alla loro misura originale in sede di proiezione. La pellicola può così  riprodurre su uno schermo più grande l’immagine originale. Primo film realizzato con questo sistema è stato “La tunica” di Henry Koster (1953). Abel Gance usò per il suo “Napoleon” la Polyvision, antenata del Cinerama.

* Circarama: 11 cineprese e 11 proiettori sincronizzati per ottenere una immagine a 360°. Gli spettatori sono posti al centro dello schermo circolare.    

* 3D: nel 1915 si proiettarono a New York tre cortometraggi con effetto tridimensionale, sfruttando il principio della stereoscopia fotografica. Negli anni Cinquanta/Sessanta, un breve ritorno al 3D con l’uso di occhiali selezionatori. A proposito del cinema tridimensionale, Hitchcock dichiarò: ‘Era l’ottava meraviglia del mondo, ma durò lo spazio di un mattino’.

* Odori: dal 1940, alcuni film sperimentali furono distribuiti per stimolare nello spettatore anche il senso dell’olfatto. Con la ventilazione forzata, in sincronia con le ambientazioni sullo schermo, si immettevano profumi in sala.  

* Alta definizione (Hdvs, High Definition Video System): riprese a 1125 linee (il doppio del normale standard televisivo), successivamente riversate su film. Sistema Showscan: eccezionale risolvenza dell’immagine con pellicola da 70 mm (il doppio del formato classico), proiettata a 60 f/s su schermo avvolgente, sei canali stereo. ‘Nell’era del DVD, formato verso il quale provo grande entusiasmo e che mi auguro contribuisca, in qualche modo, a scoraggiare la pirateria cinematografica, vorrei però ricordare ancora una volta che lo standard ideale per il cinema rimane il ‘negativo’. La sperimentazione, le nuove tecnologie, hanno proposto una quantità di formati che ci hanno disorientato. I miei scaffali sono pieni di videocassette betamax, video 2000, ¾ di pollice, vhs. Un negativo del 1924, invece, ancor oggi può essere guardato con lo stesso risultato dell’epoca’ (Giuliano Montaldo).

* L’immagine digitale permette una progressione tecnica impensabile fino a pochi anni fa. La possibilità di un montaggio più preciso e la risoluzione in ‘bit’ offrono un connubio ideale: nuove possibilità espressive e diminuzione dei costi. “Tron” (1982 ) è stato il film con sequenze realizzate per la prima volta con la computer graphic. “Honolulu baby” di Maurizio Nichetti (2001), è il primo lungometraggio italiano la cui post-produzione è stata realizzata completamente con il sistema digitale.  set. Il prossimo futuro prevede riprese dirette su hard-disk oppure con la HDcam (nastro magnetico da ½ pollice), il montaggio sarà senza il classico tavolo della moviola, la cabina di proiezione avrà una testata capace di riprodurre i segnali emessi dalle banche centrali che conservano nei loro cervelloni registrazioni di ogni genere. Una rivoluzione che potrebbe mettere in soffitta la pellicola tradizionale in servizio da oltre cento anni. Naturalmente ci saranno problemi di costi per aggiornare le apparecchiature e sarà necessario attendere per confrontare la qualità dell’immagine proiettata dal nuovo supporto tecnico con il formato per ora ineguagliabile della pellicola da 35 o da 70 mm. (dopo lo sviluppo chimico della pellicola tradizionale il materiale è irrecuperabile, i nastri magnetici, i supporti CDrom e DVD possono essere riusati con grande risparmio). È anche concreto il rischio – considerando la continua evoluzione del mondo virtuale – che le apparecchiature diventino obsolete in poco tempo, incalzate dalle novità di mercato. Dopo l’avvento delle home-video e delle multisale, l’industria cinematografica si è rovesciata come un guanto riservando sorprese sia in campo produttivo che distributivo assorbendo inevitabilmente il virus  culturale di una società in rapida nevrotica marcia. Il cinematografo ha attraversato l’era industriale ed elettronica bruciando le tappe: è stato influenzato da così tante modifiche nella forma e nei contenuti da farlo considerare talvolta oggetto di archeologia come i reperti egizi: le pellicole di autori considerati innovatori come George Meliés (1861/1938) e David Wark Griffith (1875/1948) appaiono allo spettatore smaliziato contemporaneo come polverose testimonianze di un passato assai remoto. Molti anni fa il regista Alberto Lattuada scriveva: ‘Bisogna dare al cinema la sua autonomia economica, il che significa libertà di concezione e di creazione... la speranza più viva è quella del prodigioso mezzo tecnico che avvicini il giorno, non lontanissimo invero, in cui la pellicola costerà come un  foglio di carta bianca e la macchina da presa come un rasoio elettrico’

* Giovanni Pastrone (Italia 1882/1959) – ‘Fui uno dei primi ad affrontare la regia in grande stile col film “La caduta di Troia”. Adoperavo grandi scene appositamente costruite, un gigantesco cavallo di legno. Il film ebbe un metraggio di oltre 600 metri: una lunghezza incredibile per il 1910. Il vivo successo che ottenne all’estero mi convinse che ormai occorreva imporre il cinema come arte’. Direttore della società di produzione Itala film e cineasta appassionato, Pastrone dovette forzatamente mediare i suoi due ruoli, quello commerciale e quello artistico. Ottenne il suo massimo successo con “Cabiria” (1914, b/n, 150’), kolossal storico-mitologico. Per le didascalie fu ingaggiato Gabriele D’Annunzio (ideatore anche di Maciste, interprete in seguito di una serie di film con culturisti di varie nazionalità), per l’accompagnamento musicale in sala fu composta da Ildebrando Pizzetti ‘La Sinfonia del fuoco’. Scene di massa e gigantesche scenografie, costi elevatissimi, novità tecniche come l’uso della carrellata e della panoramica.     

* Georges Meliés (Francia 1861/1938) – Questo geniale creatore di cinema realizzò più di 400 pellicole (quasi tutti  i negativi furono distrutti da lui stesso in un periodo di  sconforto). Se i Lumière realizzarono la possibilità di riprodurre la realtà, Meliés portò sullo schermo sogno e fantasia. Fin da giovane fu attratto dal mondo dell’illusionismo: si esibì in giochi di prestidigitazione e magia in un teatro da lui fatto restaurare. In quell’epoca fu presente alle prime proiezioni cinematografiche dei Lumière al Grand Cafè di Parigi e ne restò affascinato per l’immediata intuizione delle grandi possibilità espressive insite nel nuovo mezzo di comunicazione. Quando i Lumière gli rifiutarono la vendita o l’affitto di una delle loro macchine, ne costruì una similare e cominciò a realizzare brevi film e documentari: fu proprio l’uso continuo della cinepresa e la familiarità con la pellicola a suggerirgli le prime manipolazioni come la sovrimpressione e la dissolvenza, l’uso di modellini e l’approccio ad un montaggio primitivo. Il suo film più famoso entrato nella storia del cinema fantastico, antesignano dei trucchi computerizzati della fantascienza moderna, rimane “Viaggio nella luna” – tratto dal romanzo di Verne – nel quale si narra di un gruppo di astronomi che, sparati da un cannone, finiscono nell’occhio apparente del nostro satellite. Il cinema era appena nato e quindi completamente mancante di qualsiasi elemento grammaticale per costruire il racconto: l’ardimento con il quale Meliés si cimentò in avventure sperimentali (per esempio, diverse sue opere furono colorate a mano dalla pittrice Thuillier) fu davvero speciale. Grande sperimentatore ma anche pessimo uomo d’affari, fu messo con le spalle al muro da una concorrenza che pianificava il mercato delle sale e la distribuzione dei film. Fu il produttore e industriale Pathé in particolare (Francia 1863/1957), con un sistema capillare di noleggio delle pellicole, a costringerlo a produrre una quantità maggiore di film, con maggiori costi e con ridotte possibilità commerciali. La fine della prima guerra mondiale lo vedrà povero e costretto ad essere ricoverato in un ospizio.

* David Wark Griffith (Usa 1875/1948) – Un uomo di cinema tanto importante da far dire a Jean-Luc Godard ‘ogni articolo che parla di cinema dovrebbe parlare di Griffith’ e tanto determinante da essere considerato l’inventore di molte componenti dello specifico filmico, ossia del linguaggio tipico per costruire un racconto con immagini in movimento. Di origini irlandesi ma educato nell’America del Sud, cominciò la sua carriera come giornalista e attore di prosa. Contemporaneamente metteva sulla carta idee e soggetti che in seguito userà per i suoi film. Entrò a Hollywood come attore e sceneggiatore, successivamente grazie a E.S. Porter (regista del primo western “L’assalto al treno”, 1903), firmò un contratto che gli fece realizzare nel 1908 “Le avventure di Dolly” (nello stesso anno girò una cinquantina di mediometraggi che gli permisero di familiarizzare con la nuova tecnica. Griffith introdurrà innovazioni come il flash-back, il campo americano e lo ‘stacco’ di inquadratura per la medesima figura. Notando che il maggior dinamismo delle immagini si ripercuoteva positivamente sulla vicenda raccontata, provò nuove strade come la prassi ormai collaudata della sceneggiatura, l’uso della luce artificiale per ottenere effetti drammatici (“Edgar Allan Poe”, 1909) ed il montaggio parallelo delle azioni che rappresentò una novità assoluta nel linguaggio cinematografico. Il suo film capolavoro “La nascita di una nazione” (tratto da un romanzo a sfondo manicheo e razzista, nel quale i neri sono il male e il Ku Klux Klan è il difensore dei valori americani), al di là di una tematica canagliesca – un atteggiamento che sarebbe risuscitato contro gli indiani d’America nella maggior parte del filone western – ha una forza espressiva eccezionale se si considera che il cinema aveva compiuto appena vent’anni. In seguito alle polemiche negli ambienti politici e agli scontri di piazza suscitati da questa ideologia parziale, il regista volle chiarire il suo atteggiamento con “Intolerance”, un film a episodi costato due milioni di dollari ma destinato all’insuccesso commerciale. Negli anni Venti Griffith fondò con Chaplin, Pickford e Fairbanks la casa di produzione indipendente United Artists. Il declino di Griffith cominciò con l’avvento del sonoro ma lasciò un insegnamento fondamentale: l’immagine in movimento poteva essere la novità a fronte della pagina scritta, un modo nuovo di creare e diffondere le idee. 

* Orson Welles (USA 1915/1985). “Egli è una specie di gigante dallo sguardo di bambino, un pigro attivo, un folle saggio, una solitudine circondata di gente, uno studente che dorme in classe, uno stratega che finge di essere ubriaco quando vuol essere lasciato in pace. Ha saputo servirsi meglio d’ogni altro di quest’aria di relitto che spesso ostenta, e di orso sonnolento” (Cocteau). Dal teatro d’avanguardia, Welles raggiunse la notorietà con il programma radiofonico ‘Guerra dei mondi’ il cui realismo seminò panico in tutta l’America. Ventiquattrenne, fu chiamato dalla RKO per girare e interpretare in prima persona “Quarto potere”, splendido ritratto di un magnate della stampa, “uno di quei plutocrati che pensavano di poter diventare presidente degli USA quando volevano e che credevano di poter avere tutto” (Welles). “Macbeth” e “Otello” “…basterebbero da soli alla sua gloria; tutto vi è rimesso in questione: il personaggio, il racconto, la regia” (Bazin). Vulcanico ricercatore di mezzi espressivi per dare alle immagini un impatto emotivo, usò le tonalità del b/n, la profondità di campo, i primi piani deformati ed i piani sequenza per dare più drammaticità al soggetto. Disse di se stesso: “Non credo che un giorno ci si ricorderà di me; lavorare per i posteri è altrettanto volgare quanto lavorare per i soldi”.         

* Abel Gance (Parigi 1889) spinse all’estremo le ricerche di Griffith sul montaggio rapido,  narrando soprattutto epopee sulla guerra. ‘In certe inquadrature di Napoleone ho sovrapposto sino a 16 immagini il cui potenziale era paragonabile a quello di 50 strumenti che suonano un concerto. Questo mi ha portato alla polivisione, al triplice schermo che presenta contemporaneamente diverse dozzine di immagini’. Utilizzava la mobilità della cinepresa e fu il primo ad usare la stereofonia nel 1933.  Dopo “Mater Dolorosa”, “La dixième symphonie”, “J’accuse” e “La roue”, realizzò nel 1927 il suo capolavoro “Napoleon”, al quale aveva dedicato cinque anni di preparazione. Quindicimila metri girati, cinquemila dei quali presentati in prima visione, poi ridotti a tremila per il circuito delle sale. Il ritmo era sostenuto da un montaggio incalzante, dall’uso di ottiche grandangolari e da inquadrature suddivise in tre parti. Di questo film (‘una delle imprese più imponenti della storia del cinema’) ne esistono 19 versioni tra cui quella sonorizzata del 1935.    

*  Mack Sennett (USA 1880/1960) – Attore e cantante, iniziò a lavorare nel cinema come comparsa per Griffith per poi scrivere soggetti e dirigere comiche. Il cinema americano dei primi decenni del Novecento deve molto a Sennett soprattutto per la sua capacità di seguire personalmente tutte le fasi della produzione, dal plot al montaggio. Le sue numerose ‘comiche’ firmate con l’emblema della Keystone (casa che produsse film con Buster Keaton, Ben Turpin, Harry Langdon e Charlie Chaplin) si basavano sul ‘nonsense’, su tutto quanto poteva contrastare in modo assurdo la realtà delle cose. Fu anche scopritore di talenti (da Wallace Beery a Gloria Swanson, da Bing Crosby a Fatty Arbuckle) e un autentico inventore di tipi e situazioni (dai poliziotti in nevrotici inseguimenti alle seducenti bellezze al bagno) tanto da essere considerato ‘il maggiore virtuoso di quella scienza senza la quale non c’è film degno di questo nome’.

* Thomas Harper Ince (USA 1882/1924) – Anche Ince recitò per Griffith ma già dal 1910 cominciò a dirigere film specializzandosi nel filone western, attento specialmente a concatenare psicologia e impatto visivo. Nel 1913 affrontò il tema della guerra civile americana con “The Battle of Gettysbourg”. Lavorando anche come supervisore di molte pellicole, applicò il suo metodo che nulla concedeva ai tempi morti narrativi ed a tutto quanto riteneva superfluo all’economia del racconto: ‘Con lui, il cinema non era più un giocattolo meraviglioso ma uno strumento di creazione’.              

* Alice Guy fu la prima regista donna. Delegata dalla fabbrica francese Gaumont, della quale era segretaria, realizzò dal 1898 al 1906 più di 200 brevi pellicole, farse o melodrammi; riuscì a completare anche un film più impegnativo con 300 comparse e 25 scenografie.    

 

Alberto Lattuada decenni fa, scriveva: ‘Il cinema abbandonato a se stesso cade nelle mani della speculazione più volgare, si riduce a servire ogni specie di inganno, diventa schiavo del capitale. Bisogna dare al cinema la sua autonomia economica, il che significa libertà di concezione e di creazione… la speranza più viva è quella del prodigioso mezzo tecnico che avvicini il giorno, non lontanissimo invero, in cui la pellicola costerà come un foglio di carta bianca e la macchina da presa come un rasoio elettrico. Avremo fatto un passo decisivo verso la vera libertà d’espressione dell’arte cinematografica e allora l’autore, uomo tra gli uomini, voce collettiva ma individuo solo, operante di fronte alla creazione dell’opera, comincerà a portare sullo schermo i veri problemi della vita dell’uomo.’ Il cinema è spettacolo e può essere semplice evasione ma deve anche essere motivo di meditazione per le informazioni sociali e culturali che continuamente propone. In un saggio Béla Balàzs rilevava che una maggiore conoscenza del linguaggio dell’immagine non avrebbe tolto il piacere di ridere o piangere ma piuttosto avrebbe consentito un piacere più cosciente. Un mass-media potente come l’immagine necessita da parte del pubblico di una capacità di analisi critica sufficiente per non farsi condizionare dall’enorme capacità imbonitrice delle arti visive. La propaganda diretta o subliminale può influire sul comportamento singolo e collettivo: sarebbe necessario valutare l’influenza dei messaggi, spesso negativi, che vengono propinati in grande quantità dal piccolo e grande schermo perché ‘Chiunque controlli il cinema controlla il mezzo più potente di penetrazione delle masse’ (Edison). Una maggiore partecipazione critica dello spettatore permetterebbe di costruire un rapporto di interdipendenza costruttiva con l’industria. Anziché essere succube della pubblicità insistente o dei giudizi superficiali, il pubblico potrebbe pesare notevolmente sugli indirizzi sempre rinnovati degli apporti tecnici e creativi strettamente legati alla produzione di un film. Il giudizio critico è la derivazione naturale dell’analisi. Scomponendo il mosaico delle immagini è possibile ‘leggere’ con più  consapevolezza la grammatica ed il contenuto. L’educazione al linguaggio è un passaggio indispensabile per meglio fruire del cinema e con tutto quanto è ad esso collegato. Spesso piccoli gioielli ideati con passione da ‘cinematografari’ non ‘coperti’ da una distribuzione efficace, rimangono confinati nell’oblio senza riscatto.

 

‘La pellicola si snoda come una partitura musicale regolata dal montaggio’ (Welles): il film acquista personalità e ritmo con la tecnica sofisticata del montaggio, capace di accrescere la tensione narrativa della recitazione e delle riprese. Sono le ‘forbici poetiche’ di Béla Balàzs che assemblano in sequenze le singole scene e provvedono allo scarto di tutto quanto non si ritiene utile (un record, nel rapporto fra il materiale usato e quello effettivamente utilizzato, riguarda un film degli anni Trenta: 750.000 mt. di pellicola girati, 3.000 mt. per la copia definitiva).

Nessuna arte è di più facile falsificazione come il cinema: il film può essere  manipolato in modo tale da risultare irriconoscibile allo stesso autore: le motivazioni, di carattere economico o politico, prevaricano spesso i valori della sceneggiatura o le intenzioni di un regista creativo; il produttore o le esigenze distributive sono talvolta talmente influenti da rendere un film completamente diverso da quello concepito in fase di lavorazione. L’opera cinematografica è esposta ad ogni genere di ingiuria, dal deterioramento fisico (nel 1982, oltre 6.000 film bruciarono alla Cineteca Naçional di Città del Messico perché molti vecchi rulli, negativi e positivi, avevano ancora il supporto infiammabile al nitrato di cellulosa) alla sua distruzione per gli alti costi di magazzinaggio. Attualmente si tende a ricuperare con le moderne tecnologie di restauro, nel pieno rispetto dell’edizione originale, film che sono considerati capolavori. Sensibili a questa esigenza e nella consapevolezza della carenza promozionale degli Enti o delle stesse Case produttrici, alcuni uomini di cinema (Scorsese, Spielberg e Lucas) all’interno della Film Foundation hanno curato la riedizione di “Lawrence d’Arabia” (David Lean) nello splendore del formato 70 mm, “Otello” (Orson Welles), “Il gattopardo” (Luchino Visconti), “Napoleon” (Abel Gance) del 1927, “Nosferatu” (F.W. Murnau) del 1922.

In Italia enti come l’Istituto LUCE hanno ‘adottato’  film importanti in pericolo ricuperando opere di Visconti e Germi con una attenta opera filologica di ricostruzione; l’Associazione Amici di Vittorio De Sica ha provveduto al restauro di varie opere del maestro. Se lo sforzo di questi ‘pionieri’ si diffonderà, si potrà creare un archivio storico ed artistico duraturo, con il passaggio dal deperibile supporto chimico a quello digitale. Le cineteche ed i musei specializzati, nei limiti delle disponibilità economiche, lavorano per salvaguardare parte del patrimonio di un passato altrimenti destinato a scomparire: l’inglese Nation Film Archive, il Reichsfilmarchiv berlinese, la Cinématèque Francaise parigina, la Film Library al Museum of Modern Art di New York, il Museo del Cinema di Milano (aperto al pubblico dal 1987), la Cineteca Nazionale di Roma, il rinnovato Museo torinese ospitato nella Mole Antonelliana (fondato nel 1958 da Maria Adriana Prolo; 3.200 mq. restaurati e riaperti al pubblico nel 2000). La raccolta di reperti dal 1901 dell’Istituto LUCE. La Cineteca Griffith della Fondazione Mario Novaro di Genova (fondata ufficialmente nel 1975 da Angelo Humouda: circa 6.000 titoli, dai lungometraggi in lingua originale ai film di fantascienza, dai film italiani degli anni 1930/1960 ai documentari, dai cinegiornali ai cartoons). “The International Museum of Cartoon Art” è il primo Museo dedicato allo studio ed alla conservazione di fumetti e cartoni animati, aperto nel 1996 a Boca Raton (Florida).

 

‘Non esiste cinema se non d’autore. Considerando autore colui che si prende la responsabilità di firmare il film. Qualcuno la croce la deve pur portare. E chi se non il regista?’ (Gianni Amelio). Nella lunga storia del cinema coloro che hanno apportato piccole grandi modifiche all’invenzione dei Lumière sono molti. L’industria cinematografica del terzo millennio ha a disposizione tecniche sviluppate da embrioni di idee partorite molti decenni fa: un esempio emblematico è quello di Leni Riefenstahl, danzatrice, attrice e regista (Germania 1902). Questa donna intelligente e caparbia deve essere ricordata soprattutto per gli accorgimenti adottati nelle riprese del documentario girato durante le Olimpiadi di Berlino del 1936, nel contesto del Terzo Reich, con i grandiosi mezzi forniti da Hitler. “Olympia” (b/n in due parti da 125’ e 99’, 400.000 mt. di pellicola usata, 100.000 mt. selezionati, 6.000 mt. montati): cineprese automatiche seguivano gli scattisti sulla pista o, fissate a piccoli palloni aerostatici, provvedevano alle riprese aeree delle gare; un lungo pontile permetteva di riprendere gli arrivi degli armi in acqua; macchine da presa in miniatura furono legate alle selle nelle gare di equitazione e altre in cestini di corda furono agganciate al petto dei maratoneti in allenamento.   

Effetti ottici, sonori, meccanici, chimici ed elettronici, permettono di riprodurre qualcosa di difficilmente realizzabile o eccessivamente costoso con scenografie tradizionali. Antesignano di queste tecniche fu il francese Georges Meliès che produsse e proiettò nel 1902 il cortometraggio “Viaggio nella luna” lasciando attonito il pubblico parigino per gli effetti usati. Con l’avvento di tecniche sempre più sofisticate, ecco i maghi del trucco per “2001: Odissea nello spazio”, “E.T.”, “Superman”, “Batman”, “La Mummia”. Carlo Rambaldi inventa le sue creature ‘impossibili’. John Dystra usa la cinepresa computerizzata con la quale spesso gli attori recitano in spazi vuoti, successivamente riempiti con oggetti virtuali. Alla fine degli anni Venti la novità del sonoro leggibile dalla cellula ottica sulla pellicola creò molti problemi alla distribuzione internazionale. L’interscambio dei film tra nazioni di lingua diversa rischiò di arenarsi di fronte alla difficoltà di comprensione del ‘parlato’ originale (a margine di questo fenomeno ci fu anche il repentino declino di famosi interpreti del ‘muto’ sia per la loro voce sgradevole sia per l’incapacità di esprimere con i dialoghi ciò che erano abituati a fare con la gestualità esagerata e teatrale). Per mantenere il mercato internazionale ci furono due alternative: le didascalie del dialogo intercalate tra le varie scene filmate oppure impresse sul bordo inferiore del fotogramma; malgrado Béla Balàzs in ‘Der Geist des Films’ del 1931 rilevasse che ‘occorreva allora assai meno testo scritto di quanto non ne occorra oggi di parlato, esso serviva soltanto a rendere chiaro l’andamento dell’azione’) l’alta percentuale di analfabeti creò problemi di comprensione per le immagini che intanto continuavano a scorrere. Si ricorse anche alla ricostruzione di altrettanti set quante erano le nazioni di lingua diversa che si voleva raggiungere con il prodotto finito ma pur mantenendo le scenografie ed i tecnici originali perché venivano sostituiti soltanto attori e regista, i costi si rivelarono eccessivamente alti. Nel 1930 fu introdotto il Dubbing o Doppiaggio con il quale al dialogo originale si sovrappone la voce di attori della nazione di destinazione del film, registrando la pista sonora sulla pellicola da esportare. All’inizio questa tecnica fu considerata solamente un fenomeno passeggero come lo fu l’immagine in movimento a fine Ottocento. In Italia invece il regime fascista adottò quasi subito il doppiaggio (non ‘dubbing’ poiché i vocaboli anglosassoni erano banditi) intuendo che l’analfabetismo diffuso nel nostro paese non avrebbe permesso una proficua espansione dei messaggi propagandistici. L’introduzione del sonoro nelle sue componenti (rumori, musica e dialogo) fu dapprima stigmatizzata perché si paventava la riduzione delle possibilità espressive dell’immagine a semplice teatro filmato. Valutare un attore straniero del quale, nella maggior parte dei casi si conosce soltanto l’azione scenica, è come leggere un libro tradotto. Si perde l’approccio diretto alla lingua originale perché ogni paese ha terminologie spesso poco adattabili altrove nel loro sottile significato e finché la lingua inglese non sarà diffusa capillarmente si dovrà necessariamente optare per la traduzione; poiché la realizzazione di un film rimane comunque un lavoro d’équipe, con tutte le incognite che ciò comporta, accettiamolo anche nella copia ibrida che raggiunge le nostre sale sperando nell’attenta calibratura di tutte le componenti (scelta oculata delle ‘voci’ per i ‘caratteri’, appropriata traduzione dei modi di dire dei diversi ceppi linguistici, missaggio perfetto) soprattutto per il rischio del ridicolo.L’uso del dubbing in modo disinvolto fu sottolineato da Luigi Chiarini in ‘Cinque capitoli sul film’ (Roma, Edizioni Italiane 1941): ‘Alcuni critici hanno giustamente insistito sul problema della lingua nel doppiato. Mai fino ad oggi la sonora e chiara favella italiana era stata strapazzata con tanta brutalità e disinvoltura. Nessuna difficoltà tecnica può giustificare le mostruosità che troppo spesso si commettono e che costituiscono veramente un pericolo nazionale, data l’enorme diffusione del cinematografo. Alla lettura dei buoni libri, la nostra epoca, per molti, ha sostituito i dialoghi sciatti e vuoti dei film: inutile recriminare la cosa, meglio provvedere affinché la cinematografia non finisca per imbastardire la nostra lingua riducendola a quel pessimo gergo costituito dal maggiore numero delle traduzioni, di qualsiasi genere esse siano… Soprattutto si sente una inutile abbondanza verbosa che non solo non riesce a dir nulla di più dell’immagine, ma addirittura risulta molesta come il gracidare d’un rana durante una sinfonia di Beethoven’ (il critico e teorico italiano intuiva il pericolo di appiattimento generalizzato di una lingua ricca di sfumature come la nostra, precorrendo le polemiche attuali sul linguaggio televisivo).

Le forbici censorie (presenti in ogni epoca) sono attive in base ai canoni etici e politici delle varie società. Ciò che nell’antica Roma o nella Grecia classica era ritenuto tabù, dai moderni è considerato consuetudine e viceversa. La grande potenzialità comunicativa – nel bene e nel male – del mezzo cinematografico e l’estrema facilità di manipolazione della pellicola hanno fatto passare brutti momenti a molti autori, spesso entrati a pieno diritto nella storia del cinema. Thomas Edison mostrò in pubblico alla fine dell’Ottocento il primo piano di un bacio tra un uomo e una donna: qualche secondo di immagini nel contesto di una commedia suscitò tra i benpensanti reazioni molto negative: ‘Magnificato in proporzioni gigantesche, quel bacio riesce assolutamente disgustoso, cose simili richiedono l’intervento della polizia’. Qualche anno più tardi in Francia i censori si accanirono su pellicole ritenute capaci di istigare disordini pubblici. In Italia agli inizi del secolo una furibonda polemica contrappose due fazioni: ‘per avidità di lucro, il cinematografo è diventato una colossale scuola di immoralità e pervertimento’ a fronte del concetto ‘non può esserci dramma senza passione e fatti violenti, altrove sono le scuole del delitto, nei tuguri della miseria e della mala salute’.

Contenuti ritenuti blasfemi, messaggi non in linea all’ortodossia politica o alla morale comune dell’epoca e sequenze erotiche hanno subito nel tempo sia le attenzioni della censura che obiezioni di parte dell’opinione pubblica (i pionieri della cinepresa ripresero scene osé già dal 1896 sulla falsariga degli spettacoli di spogliarello parigini; nel 1915 la modella americana Audrey Munson si esibì nuda sulla schermo e così fecero Clara Bow nel 1927, Alicia Bertoni e Hedy Lamarr negli anni Trenta).

Il primo regista-autore ad essere bersagliato dalle ‘forbici’  fu Eric von Stroheim (1885/1957), soprattutto la sua trilogia sull’adulterio degli anni Venti. L’antimilitarista “All’ovest niente di nuovo” (1930) di Lewis Milestone riceverà il visto per la proiezione in pubblico soltanto molti anni dopo. “Zero in condotta” del francese Jean Vigo fu massacrato. Le dittature tra le due guerre mondiali operarono pesantemente contro qualunque autore non in sintonia con la linea politica nazista e fascista (il Duce  visionava molti film prima che fossero distribuiti, negando o concedendo l’autorizzazione alla proiezione pubblica); nella Russia staliniana Ejsenstejn ebbe le stesse difficoltà nel diffondere “Aleksandr Nevskij” e “Lampi sul Messico”.

L’Istituto LUCE fu l'Ente incaricato di coordinare il cinema educativo: nel 1925 fu il Ministero della Pubblica Istruzione ad installare cineteche presso numerosi Provveditorati agli Studi per fornire le pellicole alle scuole medie (i maggiori comuni italiani, tra i quali Roma e Milano, fruirono del servizio anche per le scuole elementari). Nel 1926 l’Istituto costituì il primo gruppo di auto-cinema per la propaganda tra le masse popolari. I camion attrezzati con il telone bianco, il proiettore da 35 mm. e gli altoparlanti gracchianti, sono ancora oggi nella memoria di molte persone che hanno assistito a quegli spettacoli itineranti.

Dedicata alla storia del cinematografo la Mole Antonelliana torinese (struttura di Alessandro Antonelli alta 167 mt.) contiene nel suo vasto spazio (mq. 3.200) un ascensore panoramico che raggiunge la cupola ed una passerella elicoidale che permette di salire ai vari piani espositivi. Le collezioni del ‘museo più alto del mondo’ comprendono: 7.000 titoli nella cineteca, 9.000 oggetti ed apparecchiature per la visione e la ripresa, 125.000 documenti fotografici, 200.000 manifesti, 200 lanterne magiche con 4.500 vetri dipinti, 20.000 volumi, 3.000 testate, una fonoteca. La realizzazione del Museo è il risultato del lavoro di una appassionata e puntigliosa raccoglitrice di reperti del settore, Maria Adriana Prolo, che già nel 1941 appuntava ‘Pensato il museo’. Nell’accurata guida dell’itinerario che segue la storia del cinematografo si ricorda che ‘La sala cinematografica non è soltanto il luogo del rito moderno per eccellenza, della celebrazione delle meraviglie del ventesimo secolo. È anche lo spazio di una visione allucinatoria di un’illusione visiva che avvolge lo spettatore con una forza assolutamente particolare. Immerso nel buio, abbandonato nella poltrona, catturato dalle immagini in movimento sullo schermo, lo spettatore vive un’esperienza di fascinazione profonda che ha qualcosa in comune con il sogno e la fantasticheria... Dal cinema ambulante collocato nelle fiere accanto al circo e ai baracconi, alle grandi sale con orchestre che suonano dal vivo nell’epoca d’oro del cinema muto, le sale hanno conosciuto forme, riti e tecnologie diverse... Dopo il drive in e i multiplex la sala è oggi lo spazio di una nuova frontiera tecnologica, segnata dalla visione tridimensionale, dai maxischermi parabolici Imax, dall’atteso avvento dell’immagine digitale’.  

 

 

Giuliano Confalonieri

giuliano.confalonieri@alice.it