Maria Giulia Aurigemma

Un ritratto berniniano

 

 

1. Jakob Ferdinand Voet. Ritratto di Gian lorenzo Bernini, 1670 ca,

su un probabile abbozzo di Bernini medesimo 1650-1655. Collezione privata.


La questione degli autoritratti dichiarati o mascherati attribuiti a Bernini sta vivacizzando gli studi da molti anni, con 'allargamenti' e 'dimagrimenti' spesso contestuali, mostre e monografie annunciate. Il ritratto di medie dimensioni (cm 54 x 42) qui presentato raffigura - come sembra palese dal confronto con esempi noti e accettati correntemente dalla critica - Gian Lorenzo Bernini' in un'età che si può fissare a poco più di cinquant'anni: troviamo il suo profilo con il naso leggermente allungato e proporzionato, lo sguardo 'd'aquila' spesso evocato dai suoi contemporanei, vivace ma non più febbrile come negli autoritratti giovanili, profondo ma non infuocato, la fronte che comincia a stempiarsi, i baffi all'insù e il pizzetto in cui appaiono i primi peli bianchi, mentre i capelli sono ancora corvini, le guance rosate indice di buona salute e di temperamento sanguigno, ma ancora magre come nell'autoritratto giovanile della Galleria Borghese (che peraltro ha pressoché le stesse misure della tela in questione, cm 53 x 43), e anche in quello, sempre da giovane, agli Uffizi (completato più tardi in occasione della vendita da un allievo, quasi certamente Ciro Ferri, sul quale torneremo più avanti) in cui il viso pur essendo glabro è scavato dalla macchia scura della barba.

 

2. Gian Lorenzo Bernini, Autoritratto, 1635-1640.

Roma, Galleria Borghese.

 

Non giovanile né senile come tutti gli altri ritratti noti, è certamente posteriore ai ritratti dissimulati di cui uno per Alessandro Siri, del 1640, l'altro, presunto, come Davide ora alla Galleria Borghese, e altri variamente discussi. Fronte più che stempiata, baffi all'insù, guance rosate e occhi vivaci compaiono ancora nel ritratto di Bernini dipinto dal Borgognone: in età molto più avanzata, con posa diversa, taglio a mezzo busto secondo l'uso del secondo Seicento, ma ancora un guizzo nell'espressione del volto e nella posa, mentre l'ultimo ritratto, di mano del Baciccio, il volto pallido e i baffi rimpiccioliti, è il più solenne e distaccato. Nei ritratti tardi, inoltre, la veste nera è parzialmente illuminata da un colletto allungato e rettangolare: nel quadro di metà Seicento, di cui qui si discute, l'artista indossa una veste o ferraiolo di velluto nero di cui si vedono le pieghe della manica, e un colletto semplice bianco. Dai primi quadri con la sola testa (e di minore formato) si era passati ai ritratti comprendenti le spalle, ma solitamente frontali, mentre in questo caso la posa è più diagonale, e il viso voltato sopra la spalla destra, anche se gli occhi sono sempre il centro ipnotico del dipinto. La particolarità della tela, oltre al momento biografico altrimenti non noto, è data dallo stile estremamente attento e sottile nel viso, più sciolto nello sfondo e nelle vesti, a esempio nel colletto costruito con pennellate veloci, prima con una base beige che si muove verso la punta, un contorno appena definito da una pennellata irregolare, infine dal collo con poche decise pennellate bianche che emergono come il punto più chiaro del quadro: nel viso le pennellate si fanno per così dire miste, a esempio sotto l'occhio dalle sottili palpebre arrossate e con un cenno alla venatura della cornea. Come taglio, posizione, espressione - ma non pennellata - sarebbe il proseguimento ideale dell'autoritratto Borghese ex Messinger (databile 1635-1640), e però con l'occhio sin più visibile, persino il piccolo riflesso nella pupilla, la piega dell'orecchio, ma il naso più affilato, la bocca chiusa e appena visibile sotto i baffi, e soprattutto con la posizione delle spalle invertita; diverso è lo spirito di quello del museo Fabre, mentre l'autoritratto degli Uffizi, che sappiamo fissarne l'immagine attorno ai trentacinque anni, ha il viso rivolto allo spettatore, ed è l'ultimo sinora noto situabile fra il 1630-1640 e il 1660-1670.

 

3. Gian Lorenzo Bernini, Autoritratto, 1640 ca.

Firenze, Galleria degli Uffizi.


Dopo i classici studi di Martinelli e Fagiolo dell'Arco, negli ultimi anni sono stati compiuti numerosi tentativi per allargare il catalogo pittorico di Bernini, in particolare da Francesco Petrucci, e si attendono ulteriori studi complessivi; mentre Tomaso Montanari, pur con maggiore prudenza attributiva, ha affrontato la questione in più momenti, con diversi e stimolanti angoli metodologici, dal teatro al collezionismo - solo per citarne alcuni - e sta preparando una mostra sul tema. La questione per le opere pittoriche di Bernini non riguarda però la quantità - centocinquanta o duecento - ma se questi dipinti abbiano lasciato o no un segno nella pittura contemporanea, o piuttosto se il maestro stesso non abbia riconosciuto in esse la stessa eccezionale caratura da lui raggiunta quale scultore e quale architetto - e questo nonostante il parere del figlio Domenico, che lo vede alla pari dei pittori del suo tempo - e abbia di conseguenza messo volontariamente in ombra la sua produzione - tra l'altro, non firmandola -, stimolando piuttosto suoi allievi, alcuni dei quali certamente innovativi e felici come il Baciccio. Come ben spiegato da Kristina Herrmann Fiore in un saggio davvero equilibrato con una attenta lettura della visione berniniana della pittura e della sua tecnica, Bernini aveva una particolare predilezione per la pittura, e, a detta del Baldinucci, i suoi quadri erano a destinazione privata e presso i Barberini e i Chigi; inoltre la studiosa usa molto opportunamente la definizione di 'autorappresentazionÈ, un atteggiamento su cui torneremo più avanti.
Nel nostro caso l'aspetto più certo è l'individuazione del pittore in una età che mancava nella serie dei ritratti, negli anni in cui, secondo i fondativi studi di Martinelli, l'artista avrebbe smesso di dipingere: per lo studioso, seguito da altri, Gian Lorenzo avrebbe messo mano per l'ultima volta al pennello entro il 1655, ma tutte le opere attribuitegli con maggiore e minore larghezza sono immancabilmente lontane dallo stile del piccolo quadro in questione, non a macchia e non scultoreo; è possibile dunque che il quadro sia stato impostato dal pittore, ma che, secondo l'abitudine invalsa successivamente, e sulla quale concordano quasi tutti gli studiosi, sia stato completato da un pittore più giovane cui è stata lasciata la libertà di non omologarsi allo stile del maestro – quasi mai, nonostante le ultime aggiunte attributive, così accurato nelle rifiniture di pennellate sottili – e quindi di dare un proprio contributo e perfezionare il quadro.
È nota da tempo la corrispondenza del 1674 tra Leopoldo dÈ Medici e Paolo Falconieri circa l'acquisto del ritratto ora agli Uffizi, per il tramite anche di Ciro Ferri, che probabilmente completò la tela, secondo quanto sappiamo da Falconieri che la vede la prima volta solo come testa ma la trova bellissima e non dà importanza all'incompletezza di contorno; cosicché nell'inventario di Leopoldo del 1675 esso è registrato come «dipintovi di sua mano il ritratto del Cav. Bernini scultore, e pittore di mezz'età, con barba e bassette nere, pochi capelli simile, senza nulla in capo con collare piccolo aperti dinanzi, vestito di nero con ferraiolo», una descrizione che tutto sommato sembra più adatta alla tela qui presentata, soprattutto nel dettaglio della mezza età e dei pochi capelli - meglio, della fronte sin troppo alta, con un inizio di calvizie che arriverà a metà del cranio nei ritratti senili -, e che trascura il fatto che il ritratto fiorentino appartiene ancora alla categoria del ritratto parlante, con la bocca socchiusa, nella migliore tradizione berniniana.
Va da sé che se il cardinal Leopoldo, tra i massimi collezionisti italiani della sua epoca, ha accettato e gradito un ritratto di Bernini non nella sua vera età e come principe degli artisti, ma come giovane 'cavallo di razza', ossia un dipinto evidentemente incompiuto e terminato non dal maestro ma dal suo dotato allievo, ciò vuol dire che il valore non era posto né nell'essere autoritratto né autografo, ossia i due termini avevano un senso diverso e molto più ampio rispetto a quello che oggi siamo soliti attribuire loro: lo stesso avviene nel nostro caso.
Se guardiamo alla qualità della pittura e al soggetto, potrebbe esservi un discreto accordo, ma se guardiamo allo stile, si apre una frattura rispetto ai quadri noti, tutti immancabilmente con un colore steso a larghe pennellate, mentre qui la finezza sembra essere la prerogativa ricercata: non può trattarsi del più brioso Baciccio, né di Giovanni Maria Morandi, benché anch'egli amico di Bernini, che nel 1661 lo accompagna da Alessandro VII con cardinali vari onde assistere alla posa per il ritratto eseguito dal fiorentino, nei numerosi ritratti di sua mano mostra maggiore distacco.

 

4. Jakob Ferdinand Voet. Ritratto del Cardinale Benedetto Odescalchi,

1675 ca. Milano, Museo Poldi Pezzoli.

 

La sottigliezza dell'indagine psicologica e la vivacità dell'espressione, sono piuttosto prerogative di Jakob Ferdinand Voet (1639-1700), a Roma tra 1673 e 1678, dove, come Bernini, frequenta il circolo di Cristina di Svezia e ritrae, tra gli altri, il cardinale Benedetto Odescalchi (il futuro Innocenzo XI), in un quadro, ora conservato nel Museo Poldi Pezzoli, che nella resa attentissima del volto, dello sguardo lucente, nella vicinanza al personaggio ritratto, è forse quello più accostabile al nostro, mostrando insieme le caratteristiche del ritratto dell'ultimo trentennio del secolo, a esempio la posa a mezzo busto, mentre il ritratto berniniano si ferma poco sotto la spalla, accentuando la torsione fra il corpo, abbigliato secondo la sobria moda non più in uso negli anni settanta, e la testa.
In effetti, c'è un quantum di distacco che fa pensare a un pittore il quale più che osservare - per dipingere - il maestro, viene da lui osservato con una punta di critica malizia; anzi tanto più è interessante questa introspezione di Bernini che vuole capire come infine lo vede una persona a lui tanto vicina, e come in effetti lui stesso è, soprattutto come un uomo 'in vista', per usare un gioco di parole. L'immagine di sé è davvero definita solo dagli occhi — e quindi dalla mano — degli altri, e il personaggio non è né cavalleresco né paludato ne intellettuale né professionale, ma semplicemente se, 'auto (?) ritratto'; a questo dinamismo si aggiunge la distanza nel tempo dal momento in cui l'effigie è stata fissata a quello in cui viene rivitalizzata con il suo completamento, come nel caso del quadro ora agli Uffizi.
Lo stimolo a una nuova lettura di tutti i ritratti e autoritratti berniniani, espliciti o simulati, può venire da un saggio di Victor Stoichita, Immagini del pittore, immagini del dipingere: si tratta di una autoproiezione contestualizzata mascherata in alcuni casi (né attivo nella storia narrata, ne visitatore in un contesto definito) ma appunto in Bernini come Marte, Davide 24, etc.; e, co-me scrive Stoichita, un autoritratto è per se, poi eventualmente per un destinatario, un pubblico, e «questo pubblico (destinatario e talvolta anche committente dell'autoritratto) è in grado di aprirsi all'io del pittore». Si cita il classico esempio dell'autoritratto di Poussin per Chantelou (1650, Louvre): «[...] il committente voleva che nella propria collezione figurasse un ritratto di Poussin, e non necessariamente un autoritratto», è questo lo stesso meccanismo – fatte le debite differenze rispetto al complesso quadro francese – del ritratto di Bernini per il cardinale Leopoldo, a evidenza terminato dal suo allievo; e a mio parere lo stesso accade per la tela in questione.
Scrive ancora Stoichita a proposito di autoritratto e autobiografia – se i ritratti e autoritratti di Bernini costituiscono, compreso quello in discussione, una autobiografia: «l'autoritratto che nulla racconta, ma che si limita a descrivere lo stato dell'io dell'autore, può, a posteriori, costituirsi come 'storia' della sua personalità»; ed è anche in questo senso che si può assimilare a Rembrandt. Mi sembra però che in questo 'autoritratto' gli attori siano tre, ossia i tradizionali soggetto ritratto e il destinatario, ma in più il vero pittore, allievo o artista di fiducia, ed è questo il carattere del piccolo dipinto, quasi una sfida ulteriore, e in certo modo un arricchimento psicologico, perché viene a crearsi una circolazione di ruoli. Stoichita distingue tra la formazione di sistemi di autoritratto della prima metà del Seicento da quelli della seconda metà, e per l'«immagine che, in un modo o in un altro, svela la propria origine» definisce anche lo scenario di produzione, «uno scenario imperniato sulla realizzazione dell'autoritratto» benché lo consideri raro – ma è proprio il nostro caso – e come «paradosso del procedimento autoriflessivo».
 

 

Maria Giulia Aurigemma

 

 

ARTE Documento N°22  2006 © Edizioni della Laguna

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.